mercoledì 10 dicembre 2025

Put your soul on your hand and walk

Avevo perso questo film all’ultima festa del cinema di Roma (non ero riuscita a incastrarlo in un programma già fittissimo), e dunque non appena è uscito in sala sono andata a vederlo.

Si tratta del documentario realizzato dalla regista iraniana Sepideh Farsi per raccontare Gaza attraverso gli occhi e le parole di Fatma Hassouna. La regista, fuggita da Teheran molti anni fa e con base a Parigi, nella primavera del 2024 vola al Cairo per raggiungere il valico di Rafah ed entrare a Gaza, dove ha numerosi amici.

La striscia di Gaza è però già blindata e per Sepideh è impossibile entrare; grazie ad alcuni amici palestinesi, la regista si mette in contatto con Fatma che vive a Gaza con la sua numerosa famiglia (dieci persone), ha 24 anni, e racconta la città grazie alle sue fotografie. Dopo la prima videochiamata, i contatti diventano periodici e la relazione tra Sepideh e Fatma si approfondisce e si consolida sempre di più, in una condivisione di sentimenti e uno scambio di punti di vista.

Fatma diventa l’occhio di Sepideh, e quello di tutti noi spettatori, su Gaza, grazie a fotografie piene di umanità e bellezza, ma anche di distruzione e di morte, di speranza e sorrisi, ma anche di tristezza e disperazione. Tutti sentimenti che nella loro contraddittorietà vediamo nel volto di questa giovanissima donna, e riconosciamo nelle sue parole, che restano poetiche e alte anche quando il suo inglese non l’aiuta a esprimersi con il massimo della complessità che vorrebbe.

Di Fatma non solo vediamo le foto che scatta, le immagini in diretta della città intorno a lei, delle esplosioni e delle distruzioni, ma ascoltiamo anche le sue poesie e le sue canzoni, guardiamo il suo sorriso instancabile, quello che a volte Sepideh ammette di non capire, di trovare stridente rispetto alla realtà, e che anche noi spettatori quasi non riusciamo ad accogliere.

Eppure Fatma sembra voler trovare la forza di sorridere, anche quando tutto intorno suggerirebbe il contrario: la morte dei parenti e degli amici più cari, la distruzione della città, l’impossibilità di una vita normale, l’assenza di cibo e la fame. Ma Fatma non si vuole far sottrarre anche i sogni e i desideri, pur nelle inevitabili contraddizioni che una situazione come quella che vive porta con sé. Gaza è il posto a cui appartiene, quello che i palestinesi sono intenzionati a ricostruire per quante volte verrà distrutto, quello da difendere e in cui resistere a costo della vita; ma è anche una prigione in cui ci si sente a volte senza scampo e senza speranza.

Mentre tra una videochiamata e l’altra passano spezzoni di telegiornali che raccontano la guerra e le azioni sempre più brutali di Israele nella striscia di Gaza, le conversazioni tra Sepideh e Fatma vanno avanti, nonostante la connessione sempre meno affidabile e più instabile. Sullo schermo a poco a poco compaiono diversi membri della famiglia di Fatma – i fratelli, il padre – e momenti di leggerezza e di quasi normalità si alternano a momenti in cui la paura e la stanchezza sono troppo forti. La cosa più incredibile è che a più riprese è Fatma la persona che dà speranza e che crede nella possibilità di un cambiamento, di fronte a una Sepideh decisamente più pessimista.

E proprio quando il documentario di Sepideh viene selezionato per Cannes e la regista coltiva il sogno di portare Fatma in Francia per la presentazione del film, arriva la bomba che durante la notte uccide la giovane donna e altri sei membri della sua famiglia.

Del resto, la frase che dà il titolo al film Put your soul in your hand and walk è – come dice Fatma – la condizione in cui i palestinesi vivono tutti i giorni, sperando che non sia il loro ultimo.

Un lavoro cinematografico semplice e forse imperfetto, ma di una potenza comunicativa notevole.

Nessuno potrà più dire di non sapere e di non aver visto.

Voto: 3,5/5


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