Durante i due giorni di permesso che gli vengono accordati, gli si presenta un'occasione unica: la donna con cui ha una storia clandestina trova per strada una borsa contenente 17 monete d'oro. Il primo pensiero di Rahim è di vendere le monete e pagare una parte del debito per convincere il creditore a ritirare la denuncia. Successivamente Rahim decide invece di cercare la donna che ha perso la borsa e le restituisce tutto.
Questo gesto innesca una serie di conseguenze a catena in cui Rahim viene prima trasformato in eroe da una società fortemente incentrata su morale e reputazione e poi ricacciato con ignominia nella prigione da cui proviene come esito di sospetti e strumentalizzazioni da cui l'uomo non riesce a sottrarsi e che finisce per alimentare.
Nel nuovo film di Asghar Farhadi non si salva nessuno. Rahim, con la sua aria da cane bastonato e con la sua ingenuità, è l'ideale rappresentante di quella categoria di vinti che per propria incapacità, per la cattiva fede delle persone intorno e per lo sfortunato concatenarsi degli eventi sono destinati a uscire inevitabilmente sconfitti dal tentativo di sfuggire al proprio destino.
Ma quello di Asghar Farhadi è, secondo me, soprattutto un potente atto d'accusa verso una società profondamente egoista e tutta concentrata sui propri interessi e la propria reputazione, oltre che fondata sul sospetto e sulla manipolazione delle verità, tutte caratteristiche alimentate dai social network e da Internet. Nel dramma di Rahim c'è tanto della società iraniana, così come c'è una forte ispirazione al neorealismo italiano (come affermato dallo stesso regista), però c'è anche una riflessione trasversale e globale sulla contemporaneità e i suoi strumenti, che anziché ridurre le disuguaglianze e le ingiustizie sociali sembrano amplificarle.
Si esce un po' malinconici e un po' turbati dalla visione del film di Farhadi, certamente non indifferenti. Da vedere.
Voto: 4/5
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