domenica 17 aprile 2016

Micah P. Hinson (+ DOLA). Monk, 13 aprile 2016


Quando arrivo al Monk e mi siedo in giardino a sorseggiare la mia birra c'è ancora pochissima gente. Dopo un po', da una porticina della sala concerti, esce Micah P. Hinson con la sua andatura barcollante e il bastone in mano, con cui poi inizia a giocare tenendolo in equilibrio su un dito. Qualcuno gli si avvicina, gli fa i complimenti, poi comincia a chiacchierare con un musicista. Nel frattempo, sempre dalla sala concerti, esce una donna con un passeggino. Sono la moglie e il figlio di Micah; lui dà un bacio ad Ashley, che poi si allontana col bambino.

Dopo un pochino Micah torna dentro e le porte della sala concerti si aprono per il pubblico. Io sono lì subito in prima fila con la mia macchina fotografica.

Il tempo che si riunisca un po' di pubblico e sale sul palco DOLA, un musicista italianissimo, che dice di essere parte dello staff del Monk. DOLA ci suona un po' delle sue canzoni e ci diverte tra una canzone e l'altra parlando al microfono in un modo per cui non si capisce niente, e lui lo sa benissimo e si prende in giro da solo. Le canzoni sono gradevoli e DOLA è bravo, oltre ad avere anche un certo seguito nel pubblico.

Alla fine dell'opening, dopo una breve pausa, sale sul palco Micah insieme a una band formata da un bassista e un batterista, Francesco e Simone, italianissimi, di casa Monk, con cui Micah dirà di aver provato non più di 4 giorni. A un certo punto si inserirà anche un violinista ad aggiungere ulteriori sonorità alle canzoni.

Nel presentare il concerto di oggi (Micah è un gran chiacchierone, ama moltissimo parlare con il pubblico, come avevo già notato nella Church session cui avevo assistito), ci dice che oggi avremo la versione più loud che abbiamo mai sentito delle sue canzoni. Ha infatti con sé solo la chitarra elettrica e la prima canzone è un tripudio di musica che ci dà già la misura di quello che ascolteremo.

Micah sembra in gran forma e anche i nostri musicisti gli stanno dietro con perizia e coraggio. Bellissime le esecuzioni di Beneath the rose, Don't you forget, Patience e nel mezzo c'è anche lo spazio per una canzone suonata full band che ricorda addirittura ai ritmi balcanici.

Nel frattempo Micah parla molto tra una canzone e l'altra: all'inizio chiede silenzio al pubblico (dicendo che comunque il peggior pubblico resta quello americano!), poi il silenzio arriva naturale, ci racconta la storia che sta dietro le sue canzoni, il rapporto con la sua famiglia e quello con il suo amato e odiato Texas, e verso la fine ci spiega come a lui cui tutti i medici hanno detto che un figlio non l'avrebbe potuto avere è nato un figlio che ora sta in albergo con sua moglie e che è un po' un miracolo, e sa con certezza che anche lui diventerà una persona piena e bella.

In questo mix di musica e parole che si fa a tratti magico, Micah fuma un numero imprecisato di sigarette con l'immancabile bocchino nero, e lo fa mentre parla e canta, ma anche questo in fondo ci sta dentro un personaggio sfaccettato e complesso come lui, con una storia personale a tratti devastante, con questo aspetto che è a metà strada tra l'innocenza di un bambino e la follia di un tossico. Sarà anche per questo che quando si va a un suo concerto non si sa mai cosa ci aspetta per davvero, perché Micah è umorale e il suo stato interiore condiziona la sua musica. Ma quando il momento è buono (e forse questo figlio fa sì che lo sia) la sua chitarra e la sua voce roca diventano davvero magiche. E per questo non si vorrebbe mai smettere di ascoltarlo e il pubblico a gran voce lo chiama sul palco per un lungo bis.

Voto: 4/5

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