In quella circostanza non ce l’avevo fatta, e tra l’altra al primo ascolto il disco Selva, l’ultimo della cantante, non mi aveva colpito particolarmente.
A questo giro però – anche approfittando dell’iniziativa dei concerti che si tengono presto (alle 19) – decido di non lasciarmi sfuggire l’occasione di vedere se questa compositrice, musicista e cantante è così brava come dice il mio amico e come leggo dappertutto.
Quando arriviamo al Monk è tutto chiuso, ma il tempo di bere un bicchiere di birra e le porte della sala concerti si aprono. Io mi sistemo, come sempre, in prima fila con la mia macchina fotografica.
Dopo una breve pausa, ecco arrivare sul palco la star della serata, Marta Del Grandi, nata ad Abbiategrasso (in provincia di Milano), vissuta a lungo all’estero e ora tornata a Milano.
Accanto a lei sul palco Vito Gatto (violino, tastiere e synth) e Alessandro Cau (batteria), mentre dietro le quinte opera Matthew Fortunati (il fonico che è anche addetto al basso virtuale).
Appena comincia a cantare la sala del Monk si impregna di musica e si ha nettamente la sensazione di trovarsi di fronte a una musicista che è nata per stare su un palco a cantare e suonare.
E però alla fine la musica di Marta Del Grandi è tutta e solo sua, negli arrangiamenti, nei testi, nelle sonorità, ed è – non c’è dubbio – grande musica, che merita di essere scoperta da un pubblico ben più ampio.
La setlist vede canzoni dell’album Selva mescolate ad altre del primo album Until we fossilize, e si conclude con l’esecuzione di Lullaby Firefly (canzone che come ci dice raramente esegue ai concerti) e poi della cover di Hotel Supramonte di Fabrizio De Andrè.
Dopo il ritorno sul palco e un’ultima canzone, Marta Del Grandi e i suoi musicisti ci salutano ancora e usciamo nella serata invernale romana che è ancora tutta davanti a noi.
Voto: 4/5
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