mercoledì 19 febbraio 2025

The brutalist

Tenevo talmente tanto a vedere questo film di cui avevo cominciato a sentir parlare fin dalla sua presentazione a Venezia che mi sono presa mezza giornata di ferie per poter andare a godermelo allo spettacolo del pomeriggio, in versione originale sottotitolata, e anche in pellicola 70 mm (su cui è stato riversato il formato VistaVision con cui il regista ha voluto girare il film per coerenza con il periodo storico di ambientazione e per il tipo di riprese). Il film dura circa tre ore e mezzo e si articola in due parti (più un prologo e un epilogo) che prevedono un intervallo di circa 15 minuti voluto dallo stesso regista.

Come già si capisce da questa breve introduzione, il film di Brady Corbet non è un film qualunque, e certamente è molto diverso da quelli a cui siamo ormai abituati.

La storia è quella di László Tóth (Adrien Brody), un architetto ungherese formatosi alla scuola del Bauhaus, che, perseguitato in patria in quanto ebreo, nel 1947 arriva America su una nave piena di migranti. La prima cosa che vedrà sarà la statua della libertà, ma dalla sua prospettiva la vedremo anche noi rovesciata, introiettando dunque quel senso di angoscia e in fondo anche di mistero che attraversa tutto il film.

Seguiremo poi László in tutte le sue peripezie: l’arrivo a Philadelphia dal cugino Attila che ha un negozio di mobili, la progettazione di uno studio/biblioteca per il magnate Harrison Van Buren (Guy Pearce), la caduta in disgrazia e il lavoro da operaio, poi l’insperato riconoscimento proprio dello stesso Van Buren che diventa il suo mecenate e che gli commissiona la realizzazione di un grande edificio pubblico con palestra, biblioteca e una cappella cristiana al centro. Proprio grazie all’avvocato ebreo di Van Buren, László riesce a ricongiungersi in America con la moglie Erzsébet (Felicity Jones) e la nipote Zsófia (Raffey Cassidy). Lo seguiremo poi ancora nell’evolversi del rapporto con Van Buren e la sua famiglia, nelle difficoltà della realizzazione dell’edificio che gli è stato commissionato e su cui mette anche parte dei propri soldi, nella lotta contro le conseguenze dei traumi del passato e di quelli recenti, nella solitudine umana e artistica, nel senso di estraneità al contesto, fino all’epilogo – ambientato durante una biennale di architettura a Venezia negli anni Ottanta, quando la nipote Zsófia rivelerà infine alcune verità che consentiranno di comprendere meglio il percorso di László e quello che abbiamo visto fin qui.

È evidente che Brady Corbet punta al film monumentale, all’epopea di un uomo, che viene presentata allo spettatore come fosse una vicenda reale - una specie di ricostruzione documentaria – e invece, pur con qualche ispirazione nella realtà, è una storia di finzione.

La cosa più sorprendente è che il regista costruisce questo sofisticato oggetto cinematografico con un budget ridicolo rispetto a quello di altri film molto meno ambiziosi, e ci riesce mettendo pienamente a frutto la straordinaria potenza del cinema, ossia quella che stimola l’immaginazione e alimenta la fame che l’essere umano ha di storie. Cosicché in The brutalist tutto si gioca su quello che viene suggerito sullo schermo, e non tanto su quello che viene mostrato, nonché ovviamente sulla capacità degli attori di instillare pensieri e sensazioni. In questo senso, anche la colonna sonora conferma lo stesso approccio: Brady Corbet sceglie Daniel Blumberg, che – come so avendolo visto dal vivo – è un maestro nel creare suggestioni e mondi attraverso sonorizzazioni inattese, spesso a partire da oggetti semplici e di uso quotidiano, cosa che fa anche nel film.

E forse questo suo punto di forza è anche la sua debolezza, perché mette in parte nelle mani dello spettatore la riuscita della narrazione. Non a caso quello che vediamo accadere mantiene un’aura di ambiguità e di mistero che ognuno è chiamato a sciogliere con la propria sensibilità. Ebbene, è proprio da questo punto di vista che il film non mi ha convinta: i numerosi spunti e temi suggeriti dal film per me sono rimasti tutti in superficie, talvolta impliciti o addirittura arcani, e complessivamente ho trovato sia la storia che i personaggi emotivamente poco risuonanti con me, cosicché la rivelazione finale che doveva gettare luce su tutto il film mi è risultata tutto sommato fiacca e poco originale. Anche l’eco di tematiche dell’attualità se anche c’è non mi è parsa particolarmente incisiva.

Insomma, per me questo film rimarrà certamente memorabile a livello di qualità registica, ma non sul piano della raffinatezza narrativa e dell’intensità emotiva (che è poi la stessa sensazione con cui talvolta esco dalla visione dei film di Paul Thomas Anderson).

Voto: 3/5


3 commenti:

  1. Film che non mi attira, pur avendo la possibilità di vederlo, ho declinato. A volte un certo pregiudizio viene anche da lodi sperticate poco significative, spesso spinte a sostenere registi, autori, che altrimenti farebbero sentire fuori dal cerchio degli 'intellettuali '. Ho iniziato a prendere le distanze da queste esaltazioni, mi spiace dirlo, a volte lo sono. Ascolto la mia pancia. In qualche modo la tua e altre recensioni mi danno ragione, ma soprattutto sono io poco interessata.

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    1. Capisco benissimo. E comunque andare al cinema non può diventare un lavoro. Deve essere un piacere e dunque se non ne hai voglia e non ti interessa fai bene a non andare!

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  2. Assolutamente! Ciao e buona serata 👋

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