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venerdì 27 dicembre 2024

La luce della costiera

Ravello
Con S., A. e I. organizziamo quest’anno un weekend lungo nella penisola sorrentina, in un periodo dell’anno di assoluta bassa stagione (metà novembre), pensando sia anche l’unico possibile per visitare questa zona.

Arriviamo a Salerno in treno da Roma il venerdì all’ora di pranzo, e andiamo a prendere la nostra auto a noleggio alla Salernorental. La città ci accoglie con un vento gelido, che per fortuna si calmerà nei giorni successivi.

Dopo una breve colazione, ci dirigiamo subito verso Vietri sul mare, la città delle ceramiche, dove facciamo una passeggiata nel centro semivuoto, e I. compra un cappellino di lana per contrastare il vento.

Vietri sul mare
Da qui in poi il nostro percorso segue la costiera, toccando Cetara, Minori e Ravello.

A Cetara parcheggiamo sul porto, e mangiamo un’ottima pizza al ristorante-pizzeria Marepizza, dopo una piccola passeggiata e un po’ di foto sulla spiaggia cittadina, su cui svetta la torre di Cetara e un cielo nuvoloso molto scenografico.

A Minori, il paese di Sal De Riso, facciamo una bella passeggiata nelle stradine del centro storico, e poi ci fermiamo un pochino sul molo, il tempo di decidere dove dirigerci per chiudere la nostra giornata.

Ravello
Decidiamo di salire a Ravello, e devo dire che non non avremmo potuto fare una scelta migliore. Ravello è bellissima, e la luce del tramonto la valorizza ancora di più. Saliamo su per le scale e percorriamo le vie del centro storico praticamente deserte, fino ad arrivare – grazie al suggerimento di un’amica di I. – a Villa Cimbrone, dove è possibile entrare per una visita dei giardini pagando il biglietto di ingresso. In realtà il sito chiude dopo un’ora, ma noi decidiamo di entrare lo stesso e dirigerci subito, attraverso il grande giardino, alla Terrazza dell’Infinito, un posto magico, meditativo, dove – insieme ai busti che adornano la terrazza – si può godere di una magnifica vista e perdersi nell’azzurro del mare e nei colori del cielo al tramonto. Ritornando sui nostri passi potremo anche ammirare la luna sorgere dietro le montagne, che ci offre un altro spettacolo meraviglioso.

Terrazza dell'Infinito, Ravello
Da Ravello andiamo verso il nostro alloggio, che si trova non lontano da Furore: si tratta di un complesso turistico realizzato sul costone della montagna e direttamente a picco sul mare. In realtà arriviamo che è già buio e dunque non ci rendiamo perfettamente conto del contesto: lo scopriremo in tutto il suo splendore la mattina successiva al risveglio, quando dalle nostre finestre ci affacceremo direttamente sul mare, e potremo ammirare la bellissima luce invernale del mattino intrufolarsi magicamente negli interni.

Per la cena abbiamo prenotato da Baccofurore, dove prendiamo il menu degustazione con qualche variazione e integrazione, più un’ottima bottiglia di vino locale. Tutto squisito, e al termine del pasto scopriamo che ci spettano quattro piatti del buon ricordo, che alla fine devolveremo a S. a beneficio di una sua amica che li colleziona.

Amalfi
Il giorno seguente facciamo un tratto di strada a ritroso per recuperare Amalfi, che abbiamo saltato il giorno prima. Colazione con graffe, babà e cioccolata calda da Pansa, sulla piazza principale. Nonostante il costo, ci alziamo contenti e soddisfatti.

Poi passeggiata nelle strade del centro e visita alla cattedrale di Amalfi, con il suo bellissimo chiostro.

Riprendendo il giro della costiera, ci fermiamo per vedere il fiordo di Furore che sta oltre il nostro alloggio, e poi ci spostiamo verso Positano. Qui, nonostante qualche tentativo, non riusciamo a parcheggiare in paese e dunque proseguiamo oltre fino a una terrazza panoramica da dove possiamo ammirare la cittadina dall’alto godendo del suo incredibile fascino. Fino a che un grande autobus non scarica un gruppone di turisti cinesi che invadono la terrazza, costringendoci ad abbandonarla 😉.

Nei pressi di Positano
A questo punto è ora di pranzo, e scegliamo di andare a Lo stuzzichino a Sant’Agata sui Due Golfi, ristorante molto rinomato e amato dai locali, che A. e I. già conoscevano e che ci vogliono far provare. Ne usciamo estremamente soddisfatte (tra pesce, zuppe, pasta) e intenzionate a tornarci alla prossima occasione.

Dopo pranzo ci allunghiamo verso San Costanzo: si tratta di una chiesetta che sta in cima a un promontorio, a cui si arriva dopo una mezz’oretta di passeggiata dal punto dove è possibile parcheggiare la macchina. Man mano che si sale verso la chiesetta si capisce di trovarsi davvero tra i due golfi e quando si è alla chiesetta, lo sguardo spazia tutto intorno: davanti a noi uno sperone di roccia che si allunga nel mare, davanti al quale c’è l’isola di Capri, di cui si intravedono a sinistra i faraglioni; a destra il golfo di Napoli e le isole di Ischia e Procida, a sinistra il golfo di Salerno. Uno spettacolo davvero incredibile, tra l’altro in una giornata luminosissima e soleggiata.

San Costanzo
Dopo un breve passaggio a Nerano, praticamente deserta e un po’ spettrale perché il sole è già dietro la montagna e il paese è quasi completamente all’ombra, ci spostiamo verso Sorrento, dove abbiamo un appartamento tutto per noi in una zona periferica della cittadina, andando verso Sant’Agnello. In realtà Sorrento è una cittadina piuttosto piccola e dunque anche non soggiornando in centro con una passeggiatina di una decina di minuti ci arriviamo facilmente.

Decidiamo però di andare prima verso punta Marinella a vedere il panorama sul golfo di Napoli e sulla cittadina che si sviluppa su alte scogliere, ma pur apprezzando il fascino delle luci notturne, non riusciamo a cogliere tutti gli elementi del paesaggio e siamo d’accordo che ci torneremo con la luce del giorno.

Golfo di Napoli visto da Sorrento
Ci spostiamo dunque nel centro dove ci affacciamo al vallone dei mulini, camminiamo per le strade del centro storico, ci affacciamo dal balcone della villa comunale, poi – stanchi – cerchiamo un posto dove andare a mangiare. Tra le varie opzioni considerate scegliamo infine Da Bob Cook & Fish, dove mangiamo bene pur senza vette irraggiungibili.

La mattina seguente – domenica – scendiamo per colazione ma tutti i bar sono chiusi. Camminando camminando arriviamo fino a Sant’Agnello dove finalmente troviamo un bar/pasticceria aperto (da Pina) e riusciamo a fare la nostra colazione. Quindi torniamo a punta Marinella, come già avevamo deciso. È una giornata limpida e calda, e la passeggiata è molto bella: questa volta riusciamo anche a godere di una vista sul golfo di Napoli e sul Vesuvio davvero mozzafiato.

Porto di Salerno
A questo punto ripartiamo per Salerno, riconsegniamo la macchina, e facciamo un giro nel centro, pieno di gente che fa shopping. Andiamo a pranzo al Vicolo della neve, suggerito da un’amica, ma direi che non ne rimaniamo particolarmente colpite. Tra l’altro volevamo la pizza, ma a pranzo non la fa e non ci sembra che fosse scritto da nessuna parte. Dopo una passeggiata sul lungomare riprendiamo il treno, e le nostre strade si dividono. 

Io e S. facciamo una sosta a Napoli, per andare a trovare delle amiche e per fare un giretto in centro il lunedì mattina: Pio Monte della Misericordia per vedere Caravaggio, Santa Chiara, e due tentativi falliti di andare a vedere la sacrestia del Vasari e la chiesa di San Giovanni a Carbonara, entrambi chiusi.

Napoli
La nostra gita campana si conclude con un carico di mozzarella di bufala (davvero eccezionale) e altri prodotti del caseificio Petrella che ha un punto vendita nel pieno centro storico della città. Bisognerebbe tornare a Napoli anche solo per quello! Ma in realtà dopo questo piccolo assaggio ci è rimasta la voglia di esplorare la città più ampiamente, quindi contiamo di riorganizzare il più presto possibile.

mercoledì 29 maggio 2024

Il segreto di Liberato

Conosco il fenomeno Liberato a seguito di alcune puntate del podcast di Matteo Bordone, ma - pur essendomi incuriosita al cantante napoletano incappucciato - non ho mai ascoltato per intero i suoi dischi né mai sono andata a un suo concerto. Nel frattempo i miei amici A. e I. sono andati a sentire il suo concerto a Napoli nel 2023 e me ne hanno parlato bene, per cui proprio a loro ho proposto di andare a vedere insieme il film Il segreto di Liberato uscito al cinema il 9 maggio (che ho scoperto essere una data centrale nella vita del cantante).

Per i pochi che non dovessero saperlo, Liberato è un cantante napoletano di cui non si conosce l'identità, dal momento che ai concerti si presenta sempre incappucciato e mascherato, e il cui stile musicale (banalizzando, una contaminazione tra musica napoletana ed elettronica) ha conquistato nel tempo tutti, dalla critica agli ascoltatori.

Ed eccoci dunque al film documentario su di lui, realizzato da Francesco Lettieri, già autore dei videoclip di sue canzoni, nonché di quelli di molti altri cantanti della scena indie italiana (tra tutti Calcutta). Il film si presenta come un mix - ben riuscito - di approcci e di linguaggi: l'infanzia e la prima giovinezza di Liberato sono raccontati attraverso l'animazione disegnata dal grande Lorenzo Ceccotti, in arte LRNZ, che trasforma questa parte del racconto in qualcosa che potremmo definire Miyazaki-style, il presente e il passato prossimo di Liberato vengono invece raccontati primariamente attraverso le interviste al suo entourage e alle persone che nel tempo hanno collaborato con lui a vario titolo; non mancano poi le immagini dei concerti e il relativo dietro le quinte. In filigrana vediamo poi sempre il rapporto di Liberato con la città di Napoli e il suo amore sconfinato per il Napoli calcio.

Il risultato è un film piuttosto originale che racconta una storia molto interessante e visivamente molto bella, che non è detto che ci riveli niente del "segreto" di Liberato. Sicuramente però getta luce sul modo peculiare con cui il cantante interpreta il suo progetto musicale, circondato da un gruppo di persone che appaiono completamente estranee all'idea che potremmo avere del mondo che ruota intorno a un musicista capace di riempire gli stadi, persone in qualche modo fuori dagli schemi del mainstream e che si sintetizzano nella dichiarazione finale dello stesso Liberato "Io guardo 'o mare, faccio ammore, me piace 'o Napule, sto' ch'e cumpagne mie, faccio 'a musica".

Per il resto, in merito alla storia raccontata e agli indizi che sembra offrirci per svelare il segreto di Liberato (il nonno direttore di una piccola orchestra nella zona di Materdei, il liceo Genovesi, l'amore per i Daft Punk e per Pino Daniele, l'esperienza a Londra, la storia con la mangaka che gli ha spezzato il cuore e a cui sarebbero legati sia la data del 9 maggio che il simbolo della rosa), si potrebbe trattare di indizi reali, ma anche dell'ennesima operazione di costruzione del personaggio di Liberato, aggiungendo elementi alla narrazione e fornendo materia di dibattito ai suoi fan e ai media.

Anche se così fosse, ciò nulla toglie alla qualità e al valore del film, e nemmeno al senso di un fenomeno musicale che merita tutta l'attenzione che ha ricevuto.

Voto: 3,5/5



lunedì 27 maggio 2024

Napoli Ottocento. Scuderie del Quirinale, 5 maggio 2024

Da tempo ormai è finita l'epoca delle mostre-evento, quelle fatte quasi interamente di grandi opere di grandi autori, perché le assicurazioni hanno costi praticamente insostenibili per qualunque istituzione.

In questo contesto, le gallerie e i musei stanno provando a riconfigurarsi rispetto al nuovo scenario, cercando un proprio modo di rimanere nel mercato con un'identità riconoscibile.

Nel contesto romano, uno dei musei che secondo me meglio di tutti sta riuscendo a interpretare questo nuovo contesto è quello delle Scuderie del Quirinale, che infatti negli ultimi anni, anziché puntare sui nomi che attirano il grande pubblico, propone percorsi artistici più originali, con caratteristiche sempre più trasversali e interdisciplinari, e con queste mostre riesce comunque a raggiungere un numero elevato di visitatori.

Ne ho già viste e apprezzate diverse, cosicché quando ho notato in giro i manifesti della mostra Napoli Ottocento, avevo già deciso di organizzarmi per andare a visitarla, ancora prima che alcune amiche me ne parlassero molto bene.

E così, approfittando di una bella domenica di sole, io e S. andiamo all'ora di pranzo a visitare questa mostra il cui filo conduttore è la città di Napoli e l'insieme dei movimenti artistici e culturali che la animarono durante l'Ottocento, facendone un punto di riferimento non solo in Italia ma anche in Europa.

L'Ottocento raccontato dalla mostra inizia in realtà dalle fascinazioni dei Grand Tour settecenteschi e si chiude allo scoppio della prima guerra mondiale.

In questo secolo rigoglioso per la città, a Napoli arrivarono artisti e intellettuali da tutta Italia, Europa e persino dagli Stati Uniti, affascinati dalle mille prospettive di questa città: le bellezze archeologiche, il folklore, il mare, il golfo e le isole, la vegetazione, l'urbanistica. Degli artisti in mostra alcuni sono famosi anche per me - ad esempio De Nittis, Fortuny, Turner, Sargent, Degas - altri invece, per me ignorante, risultano praticamente sconosciuti - vedi Van Pitloo, Giacinto Gigante, i fratelli Filippo e Giuseppe Palizzi, Gemito.

Così, attraverso questo percorso scopro l'esistenza di affascinanti scuole artistiche come quella di Posillipo, e di istituzioni scientifiche di grandissimo rilievo come la stazione zoologica nata dall'iniziativa di Anton Dohrn, nonché alcune forme di artigianato artistico, le origini della fascinazione di Napoli per il mondo orientale, i non scontati collegamenti tra le vicende storico-sociali e quelle artistico-culturali.

La mostra mi consente anche di cogliere l'alternarsi e lo scontrarsi - nel medesimo periodo e nella stessa area geografica - di correnti artistiche differenti, che interpretano il significato dell'arte in maniere diverse e scelgono soggetti artistici differenti, come espressione non solo di preferenze e interessi individuali ma anche in conseguenza di una diversa lettura collettiva della società e del mondo, così come mi porta per mano verso un'arte che dopo aver cercato di riprodurre su tela la luce si fa via via sempre più materica.

Ma, sopra tutto, la mostra ci dà la possibilità di vedere da vicino dipinti e opere bellissime di cui non sospettavamo l'esistenza.

Voto: 4/5

giovedì 12 ottobre 2017

A settembre tra Ischia e Procida

Quest'anno mi regalo una settimana di ferie a settembre e insieme alla mia amica G. partiamo alla scoperta di Ischia, dove lei è già stata ma che non ha girato molto. E così i nostri programmi sono battaglieri :-)

Si parte la domenica in cui a Roma e a sud si attende la burrasca, e infatti il tempo è brutto e, quando arriviamo a Pozzuoli per l'imbarco, il mare è scuro e a noi sembra parecchio agitato, ma il nostro tassista ci dice che ha visto di molto peggio e con questo mare il traghetto non ha nessun problema. Infatti balliamo un pochettino, ma in maniera accettabile e in un'oretta siamo al porto di Ischia. Da qui col minibus al nostro albergo che sta sulla collina sopra Sant'Angelo, dove si arriva o a piedi oppure con il carrellino elettrico (che prenderemo solo la prima volta per portare su le valigie).

La nostra settimana sarà dettata sostanzialmente dalla variabilità del tempo atmosferico e dunque sceglieremo di volta in volta le attività che meglio si adattano ad esso.

Il lunedì il tempo è orrendo: cielo grigissimi e piogge forti e intermittenti per tutta la giornata. Non c'è molto da scegliere, così andiamo alle terme convenzionate con il nostro albergo e che sono relativamente vicine. Si tratta del Tropical, un parco termale che ha uno stile un po' anni Settanta e mostra qualche segnale di decadenza, come del resto molte altre cose nell'isola: qui passiamo la giornata per brevissimo tempo nelle vasche all'aperto e per il resto dentro o intorno alla vasca termale coperta. Non ci facciamo mancare un massaggio, anche perché la giornata altrimenti è davvero lunga.

Il giorno dopo la situazione è decisamente migliorata, così - noleggiato un motorino che ci farà compagnia per l'intera settimana - decidiamo di andare a Ischia a visitare il borgo e il castello Aragonese, che meritano entrambi e ci regalano bellissimi scorci sull'isola.

A pranzo facciamo una breve passeggiata e una sosta a Lacco Ameno, con il suo caratteristico fungo di lava davanti alla spiaggia.

A seguire andiamo a visitare i giardini La Mortella, creati da Susana, moglie del compositore inglese William Walton, quando i due si trasferirono a vivere a Ischia. I giardini sono un posto veramente magico, dove è possibile vedere fiori e piante rare e soprattutto camminare in una natura al contempo familiare e originale che si integra perfettamente con l'ambiente circostante, ma nello stesso tempo lo valorizza in modo inusuale. Belli anche i panorami sul golfo di Forio che si godono camminando per i vialetti dei giardini.

Tornando andiamo a vedere l'immancabile tramonto a Forio dalla chiesa di Santa Maria del Soccorso. Qui prima possiamo ammirare le prodezze di un giovane che fa acrobazie in bicicletta, poi ci godiamo ogni istante di un tramonto bellissimo che proietta le sue ombre sui muri bianchi della chiesa.

La giornata si conclude con la cena a Forio da La Tinaia, posto suggerito dai miei amici A. e P., dove mangiamo una pizza e un calzone napoletano davvero eccellenti (e io ci tornerei anche il giorno dopo visti i magnifici piatti di pesce che passano davanti ai nostri occhi).

Il terzo giorno ci dirigiamo verso le spiagge che stanno al di là di Sant'Angelo, le Fumarole e i Maronti. Qui ci colpiscono i pezzi di ceramica consunti dalle onde che sono frammisti alla sabbia della spiaggia (e che in parte portiamo a casa: io ne farò dei magneti da frigorifero!) e ci infiliamo nel canyon naturale che ci porta alle antiche terme romane di Cavascura, tutte interamente scavate nella pietra. Alla fine passeremo buona parte della nostra giornata tra bagno turco, aerosol naturale, docce termali e bagni termali nelle vasche naturali, nonché bagni di sole al solarium.

Verso il tardo pomeriggio andiamo invece alla scoperta della Baia di Sorgeto. Arriviamo in motorino fino all'inizio della lunga scalinata che scende a picco sul mare, dove tanta gente è già a mollo nelle vasche naturali dove le acque termali si mescolano con le acque del mare. Qualcuno è completamente ricoperto di argilla verdastra, e produce sul contesto un effetto decisamente bizzarro. Qualcun altro azzarda addirittura l'aperitivo in mare, con spritz e patatine poggiate su un salvagente con il fondo.

La sera ci spingiamo un po' verso la montagna per assaggiare il famoso coniglio all'ischitana alla Taverna Verde, che non ci delude.

Il giovedì è la giornata dedicata a Procida. Aliscafo da Casamicciola, noleggio motorino sull'isola e giro per l'isola in lungo e in largo.

Visitiamo il borgo antico vicino al carcere borbonico e al Palazzo d'Avalos, vediamo una bellissima mostra fotografica, guardiamo incantate dall'alto il quartiere dei pescatori, la Corricella (forse il panorama più fotografato di Procida), poi scendiamo alla Corricella dove - nonostante i numerosi ristoranti e bar - si respira ancora un'aria particolare; quindi andiamo verso l'altro lato dell'isola, dove c'è il ponte che la collega a Vivara (la riserva natura che però è chiusa), c'è il porto turistico e un altro bel quartiere di colori e di stradine.

Godiamo di altri meravigliosi panorami, vediamo la cosiddetta "spiaggia del postino", perché a Procida hanno girato il celebre film con Troisi, poi torniamo al porto dove facciamo un altro giro tra i vicoletti e infine rieccoci sull'aliscafo per tornare a Ischia.

L'ultimo giorno sull'isola lo dedichiamo al Negombo, uno dei due giardini termali più grandi e più famosi dell'isola (l'altro è il Poseidon).

Il Negombo occupa l'intera baia di San Montano, una baia verdissima che digrada verso il mare, dove sono state realizzate piscine, spazi termali, bagni turchi, percorsi termali di ogni genere, con acque termali alle più diverse temperature e nelle più diverse fogge. Ci si trascorre tranquillamente una giornata uscendo rigenerati. Tra l'altro la giornata - bellissima - aiuta a godere pienamente di tutti i servizi del parco. Quando torniamo facciamo anche la gita al faro di Punta Imperatore, da dove si gode una vista impagabile sul golfo di Cetara.

La sera chiudiamo in bellezza con una cena di pesce a casa Celestino, uno dei ristoranti di Sant'Angelo che si affacciano sul mare.

Sabato e domenica ci fermiamo a Napoli per un breve assaggio della città, che meriterebbe una visita certamente più approfondita. Siamo da due amiche in pieno centro storico, e tra una pioggerella e l'altra riusciamo a visitare il chiostro del monastero di Santa Chiara, la chiesa di San Domenico Maggiore, la chiesa del Pio Monte della Misericordia (dove c'è uno splendido dipinto di Caravaggio, Le sette opere di misericordia) e la relativa pinacoteca, visitiamo due delle nuove fermate della metropolitana, Università e Toledo, facciamo una lunghissima passeggiata sul lungomare. E poi purtroppo è già ora di tornare...

Che dire di questa vacanzina? Ischia è un'isola tutta da scoprire e anche se - forse soprattutto a settembre - è piena soprattutto di tedeschi e pensionati e quindi a tratti fa un po' effetto "villa arzilla", la si può vivere in tanti modi diversi e scoprirla nelle sue più diverse anime e sfaccettature, un'isola che ha moltissimo da offrire in termini di arte, cultura, gastronomia, divertimento, natura. Procida poi è un piccolo gioiellino. Un'isola alla mia misura con un'atmosfera struggente che non può lasciare indifferenti.

Qui un mio piccolo progetto fotografico su questi luoghi.

martedì 13 ottobre 2015

Per amor vostro

Il film di Giuseppe M. Gaudino è un'esperienza cinematografica decisamente originale.

Se infatti sul piano narrativo apparentemente non ci sono elementi di particolare dirompenza, sul piano della confezione cinematografica l'effetto sorpresa è assicurato.

Anna (una splendida Valeria Golino) è sposata con Gigi (Massimiliano Gallo), un uomo violento e insensibile, coinvolto in affari loschi, e ha tre figli, di cui uno sordomuto. Anna è la responsabile del gobbo per una produzione televisiva, dove è molto apprezzata per la qualità del suo lavoro. Qui subisce il fascino dell'attore Michele Migliaccio (Adriano Giannini) che le fa intravedere la possibilità di una vita diversa e di una felicità che le sfugge ormai da tempo.

Ma Anna è anche una "capasciacqua", una specie di Alice nel paese delle meraviglie, che guarda al mondo con curiosità e terrore, con altruismo e scarso senso della realtà, al punto da perdere la cognizione della verità e lasciarsi vivere, accettando le regole di una vita che non è stata certamente generosa nei suoi confronti.

La musica - onnipresente - ci introduce la storia di questa donna attraverso un canto popolare che ricorda gli antichi cantastorie, e poi ne accompagna ogni emozione passando dal Quartetto Cetra a Handel e soprattutto alla musica napoletana tradizionale rivisitata in chiave moderna.

Il regista ci conduce negli occhi e nella mente di questa donna, facendoci vivere i suoi ricordi di un'infanzia infelice e spavalda, nonché i suoi incubi, quelli ad occhi aperti e quelli notturni. Così, a fronte di un film tutto in bianco e nero come ormai è la vita di Anna, divisa tra momenti di felicità quasi ingenua e momenti drammatici, si aprono squarci di colore quando la protagonista si confronta con i propri incubi, il mare di Napoli coperto da nuvoloni neri, mostri e strani personaggi che le si affollano nella mente, frammenti di ricordi e situazioni fantastiche che le tormentano i sogni. E così d'improvviso Anna si trasforma in un santino, una madonna napoletana dai colori sgargianti.

Il risultato è un film che trasuda napoletanità da tutti i pori: nelle sonorità, nella drammatizzazione, nelle contraddizioni, in quel mix unico di leggerezza e di pesantezza che è proprio della cultura napoletana, nell'immaginario "barocco" che la caratterizza. Come ha detto qualcuno, forse la stessa Anna incarna questa città generosa, cui tutti si aggrappano, tutti chiedono, senza mai dare nulla in cambio, questa città che è allegra con poco, ma è percorsa da incubi orribili, questa città che minimizza i propri problemi ma in questo modo svende la propria anima.

Voto: 3/5

giovedì 11 dicembre 2014

Storia della bambina perduta / Elena Ferrante

Storia della bambina perduta / Elena Ferrante. Roma: Edizioni e/o, 2014.

Ed eccoci qua, al momento tanto atteso e tanto temuto.

La fine della saga di Lena e Lila. Il quarto e ultimo capitolo della storia della loro vita e della loro amicizia, il periodo che va dai quarant'anni fino alla vecchiaia.

Non so dire che sentimenti provo. Direi di svuotamento, come se improvvisamente tutto il sangue fosse fluito via dalle vene producendo una forma di atarassia, di assenza di emozioni.

Forse è la sensazione che si prova quando persone che hanno avuto una parte importante nella nostra vita vanno via. Segue un senso di impotenza, di vuoto, che sarà successivamente riempito da una valanga di ricordi.

Questo quarto capitolo del lungo racconto di Elena Greco è denso di avvenimenti e in qualche modo più compresso degli altri, foss'anche soltanto perché ci sono voluti tre volumi per raccontare i primi 40 anni della vita di Elena e Lila mentre in quest'unico libro si racconta della loro vita tra gli anni Ottanta e gli anni Duemila.

Molte cose accadono in questi anni e riassumerle non solo sarebbe difficile ma toglierebbe parte del piacere alla lettura.

Su due cose mi preme soffermarmi alla fine di questa lettura così coinvolgente: innanzitutto il rapporto tra la storia personale delle due donne e dell'universo umano che le circonda e la storia più ampia della loro città e soprattutto dell'Italia; in secondo luogo, la sensazione di familiarità e quasi di ripetitività che nel prosieguo della saga sembra caratterizzare l'andamento della storia.

Sul primo aspetto, mi pare estremamente interessante osservare che - rispetto ai decenni precedenti in cui la storia del contesto aveva un peso significativo e si incrociava fortemente con le vite individuali, coinvolgendo più o meno diffusamente tutti i protagonisti del mondo di Lila ed Elena - in quest'ultimo capitolo (a parte alcuni avvenimenti particolarmente significativi, come ad esempio il terremoto in Irpinia del 1980 e le conseguenze politiche e sociali determinate da Tangentopoli) la storia politica, economica e sociale scorre sullo sfondo.

Questa diversa proporzione tra il peso della vita privata e quello del contesto sociale credo rifletta perfettamente un cambiamento effettivo intervenuto nella società e nella vita delle persone nel passaggio dagli anni Settanta agli anni Ottanta. E io che sono sostanzialmente figlia degli anni Ottanta l'ho vissuto sulla mia pelle. È anche vero, d’altronde, come dice V., che il fallimento di quell’ideale rivoluzionario, il minor impegno politico si salda al passaggio verso la maturità, che fa scivolare i protagonisti verso una sorta di ripiegamento interiore.

Riguardo al secondo aspetto, arrivati a questo quarto capitolo, riconosciamo tutte le dinamiche del rapporto tra Elena e Lila, nonché i meccanismi psicologici con cui Elena gestisce le sue insicurezze, in un andamento ciclico che può apparire a tratti scontato. In realtà, ciò che apparentemente è una inutile ripetizione ci racconta le nostre stesse debolezze e il percorso che ciascuno di noi compie nel tentativo di affermare la propria identità tra qualche passo avanti e numerosi passi indietro.

La vita è così, ciclica, ricorsiva, e proprio quando pensiamo di aver superato il nostro vecchio io eccoci lì che siamo di nuovo al punto di partenza.

E perciò, ancora di più di quanto non fosse già avvenuto per i volumi precedenti, la mia sensazione di comprendere perfettamente gli stati d'animo di Elena e la mia identificazione con il suo personaggio sono forti. Comprendo perfettamente il rapporto ambivalente con le sue origini, il desiderio di scappare e poi quello di tornare, comprendo la sua dipendenza (in positivo e in negativo) da Lila, suo termine di rispecchiamento e di paragone ideale, e anche in quali casi l'elastico emotivo a volte l'avvicina fortemente all'amica e altre volte gliela fa rifiutare; comprendo il senso di precarietà degli affetti a cui né gli uomini che ha amato, né le figlie che ha cresciuto, né l'amica di una vita possono completamente rimediare; comprendo la sensazione di pienezza e di forza che a volta la vita ti dà e che altre volte e altrettanto imprevedibilmente ti toglie, rendendoti insicuro e in balia degli eventi; comprendo anche la percezione di inevitabilità che il passare della vita porta con sé, mentre il mondo intorno a te - così come ti si era andato configurando fin dall'infanzia - si va sfaldando man mano che il tempo passa, perdendo sempre più i contorni netti che in tutti i modi abbiamo cercato di conferirgli. Quello "smarginarsi" che nella vita di Lila è stata invece caratteristica intrinseca fin dall'infanzia.

Di Lila (e di Napoli) meglio di me parla V. quando dice che la deuteragonista di questo straordinario romanzo corale resta per tutta la quadrilogia un fortissimo alter ego, l’altra voce, l’altra possibilità, l’intelligenza mai messa a frutto e anzi "sperperata come una gran signora, per la quale tutte le ricchezze del mondo sono solo un segno di volgarità" e perché in fondo "al mondo non c'era alcunché da vincere, che la sua vita era piena di avventure diverse e scriteriate proprio quanto la mia, e che il tempo semplicemente scivolava via senza alcun senso, ed era bello solo vedersi ogni tanto per sentire il suono folle del cervello dell'una echeggiare dentro il suono folle del cervello dell'altra". Lila che mostra il percorso e vede le cose prima che accadano. E non è casuale il legame, fortissimo, di Lila con la sua città, città dove "tutto si costruisce tutto si scassa", città dove le cose che accadono e le contraddizioni si vedono prima che altrove, città che, come Lila, "con naturalezza non si piega a nessun addestramento, a nessun uso e a nessun fine".

Elena e Lila mi mancheranno, ma ricorderò che mi hanno mostrato che la vita è un'esperienza incredibile, e non per l'eccezionalità delle cose che facciamo, ma per la complessità intrinseca che il flusso degli eventi porta con sé e a cui è umano talvolta abbandonarsi e altre volte opporsi.

Quella di Elena Ferrante (chiunque sia) non sarà alta letteratura, quella che piace ai grandi intellettuali; certamente però è letteratura capace di toccare con semplicità la verità dei sentimenti e delle cose con tale forza da spalancare spazi di emotività e di comprensione al contempo familiari e inediti.

Voto: 3,5/5

sabato 24 maggio 2014

Song 'e Napule

Il film dei Manetti Bros. è volutamente una favola un po' buonista, che trasuda un amore viscerale per Napoli e la napoletanità.

Per questo motivo può apparire eccessivamente assolutorio nei confronti non solo della città, ma anche del modo di essere di un popolo che in qualche modo è la causa principale dei suoi problemi, ma anche una straordinaria risorsa per affrontarli.

I Manetti Bros. non ambiscono a un'analisi antropologica e sociologica approfondita, né si propongono di rappresentare nella sua piena drammaticità le problematiche complesse di una realtà estremamente difficile e articolata come è quella napoletana.

La loro è una commedia e come tale non può mancare il lieto fine nel quale le persone brave e oneste non solo vengono premiate dagli eventi, ma si trovano a essere quasi dei buffi eroi dei nostri giorni. D'altro canto, non si tacciono aspetti quali le raccomandazioni, la mancanza di rispetto delle regole, l'ignoranza, la trivialità, l'ignavia che pure sono parte integrante dell'ecosistema napoletano, ma piuttosto che utilizzarle per fare un predicozzo moralistico, la sceneggiatura ne fa oggetto di ironia e benevolmente le ridicolizza.

L'unica realtà napoletana a cui i Manetti Bros. non fanno sconti è la camorra, per la quale non esistono mezzi termini e la cui brutalità viene mostrata in tutta la sua ferocia.

Il film nel suo complesso è altamente godibile, a tratti esilarante. I due personaggi principali, il pianista che diventa poliziotto su raccomandazione Paco Spillo (Francesco Roja) e il cantante neomelodico Lollo Love (Giampaolo Morelli), sono bravissimi e la loro interazione è scoppiettante, soprattutto perché sostenuta da tanti comprimari di eccellenza (da Carlo Buccirosso a Paolo Sassanelli a Peppe Servillo). Il film tradisce qualcosa di televisivo nel suo impianto (forse anche per la scelta del cast), o forse sarebbe meglio dire che omaggia un cinema italiano del passato cui non siamo più abituati.

A livello musicale, il film inizia con un rap napoletano per finire con Lollo Love accompagnato al piano da Paco Spillo che canta Song ' e Napule in perfetto stile neomelodico. Questo genere musicale accompagna l'intero film con le sue riflessioni semplici, a volte semplicistiche, ma in molti casi genuine e vere, sulla vita e il mondo.

La canzone neomelodica in Song ' e Napule è in fondo il simbolo di una città il cui cuore in molti casi compensa le brutture e le difficoltà del quotidiano.

Non sono napoletana e praticamente non conosco Napoli. Però conosco alcuni napoletani e devo dire che, da estranea quale sono, in questo film - che pure non ha pretese - ci ho trovato uno spirito per così dire "verace". Mi piacerebbe sapere cosa ne pensano i miei amici napoletani, a cui vorrei anche chiedere di tradurre alcuni passaggi e di farmi comprendere alcuni elementi di ironia che forse sfuggono almeno in parte a chi napoletano non è.

Voto: 3,5/5

mercoledì 22 gennaio 2014

Le cose belle


Grazie a L., scopro che alla Casa del Cinema di Roma è in corso una rassegna cinematografica dal titolo L’Europa che ride, che si incrocia con un’altra rassegna dedicata ai documentari (Il mese del documentario). Dando un’occhiata al programma sono subito attirata dal film di Agostino Ferrente (l’autore del documentario molto bello sull’Orchestra di piazza Vittorio) e Giovanni Piperno, dal titolo Le cose belle.

Il documentario racconta le vite di quattro ragazzi napoletani: Enzo, Fabio, Adele e Silvana, che i due registi hanno filmato in due fasi della loro vita e della loro città molto diverse: l’età dell’adolescenza alla fine degli anni Novanta, e undici anni dopo quando tutti sono ormai adulti e la città di Napoli ha compiuto la sua parabola.

Innanzitutto devo premettere che mi affascina infinitamente la natura del documentario per la sua impossibilità di comprimere i tempi, di condensare e tagliare la vita come fanno le finzioni cinematografiche. In questo caso gli undici anni sono trascorsi sul serio. E lo vediamo dalla qualità del girato cinematografico che è molto scarsa alla fine degli anni Novanta (forse parliamo ancora di pellicola) ed è invece elevata per gli anni Duemila (sicuramente ormai in digitale). Ma lo vediamo anche dai volti e dai corpi dei protagonisti che hanno subito "solo" le trasformazioni prodotte su di loro dal passare del tempo, senza nessun intervento e nessuna finzione.

In secondo luogo, ho trovato interessantissimo questo racconto moltiplicato, che offre il punto di vista di quattro adolescenti, poi quello di quattro giovani adulti, e contemporaneamente ci mostra quattro diversi spaccati della città di Napoli, che diventano otto in considerazione delle trasformazioni avvenute durante gli undici anni tra un girato e l’altro.

Enzo, Fabio, Adele e Silvana vengono da famiglie diverse, abitano in quartieri diversi della città, hanno storie familiari diverse, ma condividono tutti un’estrazione fortemente popolare che li inquadra in un vissuto tendenzialmente difficile.

La città di Napoli resta sullo sfondo: attraversata, vissuta, guardata dall’occhio dei protagonisti e dello spettatore, muta, di un silenzio assordante, pieno di significati inespressi.

Enzo è un bambino un po’ grassoccio, a cui piace cantare la canzone classica napoletana e va in giro per i ristoranti con il padre che suona la chitarra. Da grande vuole fare il cantante.

Fabio è un vero “scugnizzo” napoletano: senza peli sulla lingua, ha un’opinione su tutto, è allegro e sfrontato. Vuole fare il calciatore, peccato che sa – perché tutti gliel’hanno detto – che non ha la stoffa. Sua madre fa la pescivendola e ogni giorno va al mercato del pesce, unica donna in un universo solo maschile.

Silvana viene da un quartiere popolare (Scampia?), vive con il padre, perché i suoi genitori sono separati. Ha molti fratelli e sorelle da entrambi i genitori. La sua è un’allegria malinconica fin da piccola; si rabbuia quando le chiedono come immagina il suo futuro.

Adele ha un fratello più piccolo e uno più grande (che in realtà arrivato all’adolescenza ha deciso di cambiare sesso e ora è Jessica), una madre presente, ma in qualche modo ostile e anaffettiva nei suoi confronti. Il suo sogno è fare da grande la ballerina.

Ritroveremo Enzo che lavora porta a porta per un’azienda telefonica ed è innamorato di una ragazza nigeriana. Fabio che ha perso il fratello maggiore, vive con la madre ma non ha alcuna voglia di lavorare. Adele che ha una figlia ma non un compagno; fa le pulizie in un hotel e la sera si esibisce in un locale notturno, e continua ad avere un rapporto conflittuale con la madre. Silvana vive con la madre che entra ed esce dalla galera, così come un suo fratello e il suo compagno, e sembra non avere alcuna prospettiva di vita.

Dietro di loro si muove prima la Napoli bassoliniana della fine degli anni Novanta che ha evidentemente suscitato delle speranze il cui riflesso si percepisce perfino nelle parole di questi adolescenti, per quanto il più disinibito di loro ripete una frase forse sentita dagli adulti, ossia che Bassolino ha fatto tante cose ma non ha pensato al futuro di quelli come loro, dei ragazzi. Negli anni Duemila la Napoli di questi giovani è una città invasa dall’immondizia, che sembra ormai rassegnata al proprio destino, all’incapacità di un vero e proprio riscatto, esattamente come Enzo, Fabio, Adele e Silvana.

Come dice la voce narrante, a Napoli è molto diffuso l’augurio “Belle cose”. Anche a Bari, dove diciamo “Tante belle cose”, cioè, pur sapendo che le cose brutte della vita toccano a tutti, l’augurio è che quelle belle le superino nel numero e nell’intensità.

E in fondo nei volti un po’ spenti e rassegnati, malinconici e tristi di questi giovani ormai entrati nella vita adulta (che fanno fortemente contrasto con le risate e l’allegria della loro prima adolescenza) non mancano momenti di distensione, se non proprio di felicità: un caffè con la persona che si ama, una partitella di calcio per strada, un ballo improvvisato in casa insieme alla propria bimba, il racconto di un sogno in abito da sposa che porta numeri da giocare al lotto.

Napoli – si sa – è una città strana, un mondo a parte, che funziona secondo regole in buona parte incomprensibili al resto del mondo. Per questo fa paura a quanti non riescono a coglierne lo spirito, ad entrare nella sua dinamica profonda. La mia amica V. dice che Napoli è una città che si ama e si odia, ma sempre in maniera “feroce”.

E, pur comprendendo che la realtà sociale rappresentata da questo documentario è solo una parte della società napoletana, a me colpisce profondamente lo spirito di un popolo che è in grado di riassorbire, per così dire di “normalizzare”, quasi qualunque cosa, nel bene e nel male. La tranquillità e la comprensione con cui la madre di Silvana parla di sua figlia Jessica che ha deciso di diventare donna, ovvero quelle con cui il padre di Enzo accoglie la notizia che suo figlio è innamorato di una donna di colore sono sorprendenti; dall’altro lato, la stessa serenità, la stessa totale accettazione della realtà e di tutto quello che ne fa parte vede queste famiglie accettare disgregazione familiare, illegalità, parassitismo e ignoranza.

Ci vuole l’occhio dell’antropologo sociale per capire un mondo così complesso senza esserne completamente sopraffatti.

Voto: 4/5


mercoledì 11 settembre 2013

L’amica geniale / Elena Ferrante


L’amica geniale: Infanzia, adolescenza / Elena Ferrante. Roma: Edizioni e/o, 2011.

Avete presente quando vi tuffate dentro un romanzo e non riuscite più a mettere il naso fuori, nemmeno quando lo scintillio circostante avrebbe tutte le carte in regola per catturare la vostra attenzione? Ebbene, questo è quanto accade leggendo il primo romanzo della trilogia (in realtà ho scoperto solo dopo che i libri sono quattro!) che Elena Ferrante (scrittrice misteriosa, la cui vera identità non è ancora dato di conoscere, a parte per pochi fortunati) sta dedicando a due personaggi che resteranno senza ombra di dubbio indimenticabili: Elena Greco, detta Lena o Lenuccia, e Lina Cerullo, chiamata Lila solo dalla sua amica Elena.

Lo scenario di questa amicizia è Napoli, anzi più precisamente un rione povero di Napoli, dove nascono e vivono la loro infanzia e adolescenza sia Lena che Lila.

Tutto comincia dalla fine, ossia dalla telefonata di Rino, il figlio ormai adulto di Lila, ad Elena in cui le annuncia che sua madre è introvabile e le chiede di aiutarlo nella ricerca. Da qui il flusso dei ricordi e il racconto di Elena che inizia dai primissimi anni di vita delle due amiche e dalla costruzione dei loro rapporti con il rione, sia con il mondo dei loro coetanei (i vari Pasquale, Enzo, Alfonso, Michele, Stefano, Marisa, Nino ecc.), sia con quello degli adulti, tra cui spiccano figure memorabili come quella di don Achille.

Lila si delinea fin da subito come il vero deus ex machina della vita del rione, quella che - con la sua genialità e i suoi comportamenti capricciosi e imprevedibili - è capace di innescare processi, di attivare meccanismi, di determinare i comportamenti degli altri, innanzitutto di Elena che a Lila è legata da un rapporto profondo e controverso, una specie di amore-odio, in cui almeno apparentemente Elena è sempre costretta a inseguire e in qualche modo a subire i capricci e a volte i comportamenti scorretti dell’amica.

Man mano però che si procede nella lettura diventa sempre più chiaro che le cose non sono così semplici e che il rapporto tra le due amiche è molto più articolato, una specie di ying e yang nel quale nessuna delle due si può dire veramente compiuta senza l’altra, in quanto ciascuna si rispecchia nell’altra e nell’altra trova il senso di sé.

Il racconto in prima persona di Elena fa sì che non esista uno sguardo esterno a questa amicizia, non si possa far conto su una distanza minima che consenta di guardare agli eventi in maniera oggettiva. Il lettore deve rassegnarsi – e lo fa presto con grande disponibilità – a entrare nel cuore e nella mente di Elena e a seguirne le evoluzioni, i salti mortali, i tuffi e il graduale processo di comprensione di se stessa proprio attraverso la lettura del mondo circostante, in primis di Lila.

Parallelo al rapporto tra Elena e Lila è quello che lega le due amiche alla vita del rione. Anche in questo caso, tale rapporto non è dato una volta per tutte, né collocato in uno spazio facilmente identificabile. Fin da piccole, sia Elena che Lila guardano al mondo fuori dal rione come all’occasione della loro libertà e del loro affrancamento dalla miseria e dalla grettezza. È presto evidente per entrambe però che non basta allontanarsi fisicamente dal quartiere per essere libere, così come non basta allontanarsi dalle persone cui ci unisce un sentimento per dimenticarsene. Il rione con tutte le sue dinamiche è dentro qualunque scelta di vita, perché è parte della sostanza di cui sono fatte le due ragazze.

Questo primo romanzo non ha alcuna vera conclusione; è solo la prima tappa nella vicenda di queste due giovani donne e si conclude con il matrimonio di Lila con Stefano, il figlio di don Achille.

Arrivati all’ultima riga l’unico desiderio è quello di non staccarsi da Elena e Lila, di continuare a stare immersi nella loro storia, nei pensieri di Elena, nei suoi tentativi di comprendere le azioni e i pensieri dell’amica. Si ha netta la percezione che il futuro è destinato ad allontanare le due donne, ma che i loro destini continueranno ad essere profondamente intrecciati.

La scrittura di Elena Ferrante è pulita e perfettamente aderente al mondo e al momento storico che racconta (la storia comincia alla fine degli anni Quaranta), ma ha anche qualcosa di profondamente moderno, di intensamente visivo, di genuinamente sentimentale che ci dà mille indizi sugli esiti di questa amicizia, trasmettendoci un'idea di quello che Elena diventerà, quando ancora non lo sappiamo.

Voto: 4/5

domenica 28 ottobre 2012

L'intervallo


È il terzo film di seguito che vado a vedere i cui protagonisti sono un lui e una lei.

Qui si tratta di due giovanissimi.

Veronica (Francesca Riso), 15 anni, è stata rinchiusa in un grande edificio abbandonato (un collegio presumibilmente) in attesa che arrivi il boss locale della camorra, Bernardino, a regolare i conti per uno sgarro che la ragazza ha fatto al clan.

Salvatore (Alessio Gallo), 17 anni, è costretto a farle da guardiano, dopo che gli è stato sequestrato il carretto per la vendita delle granite con cui lui e suo padre lavorano.

Veronica è sprezzante e orgogliosa, si atteggia a donna navigata e capace di fronteggiare qualunque situazione pur di difendere le proprie scelte.

Salvatore è chiuso e un po' imbranato, svolge controvoglia l'incarico che gli è stato assegnato ed è infastidito dall'atteggiamento di sfida della ragazza.

La loro conoscenza forzata, che presto diventa complicità e sostegno reciproco, avviene tutta all'interno del muro di cinta del collegio e nell'arco di una giornata (dalla mattina alla notte), in una perfetta unità di tempo e di luogo, che si traduce però per i due ragazzi in una salvifica sospensione spazio-temporale dal loro quotidiano.

Alla fine di questa giornata il rovesciamento può dirsi compiuto anche agli occhi dello spettatore.

La prigione in cui i due ragazzi sono costretti si è trasformata in uno spazio di libertà, nel quale ognuno ha avuto la possibilità di mostrare appieno se stesso: Veronica fragile, desiderosa di una realizzazione di sé che non riconosce nel mondo che la circonda, bisognosa di qualcuno che si prenda cura di lei; Salvatore che ha un rapporto speciale con la natura, che ama raccontare le storie, che ha un animo buono e generoso.

La vera prigione è il mondo esterno, quel mondo difficile, regolato dalle leggi non scritte della camorra, quel mondo che costringe anche due ragazzini come Veronica e Salvatore a indossare una corazza e a vivere una vita che non è la loro.

Dentro l'edificio abbandonato c'è spazio per la fantasia e l'immaginazione, quella che trasforma i sotterranei allagati in un fiume da attraversare e il giardino incolto in un bosco da scoprire, c'è spazio per i sogni e le passioni, e dove lo squallore della quotidianità si trasforma in poesia.

Dentro l'edificio si sente vicinissimo il rombo degli aerei che decollano e sembra così a portata di mano la possibilità di volare lontano.

Ma al calare della notte e all'arrivo di Bernardino, tutto torna irrimediabilmente al suo posto, il posto che la camorra impone. I due ragazzi tornano alle loro prigioni, quelle da cui nessuno, se non - come loro stessi favoleggiano - un terremoto, potrà liberarli.

Nessun riscatto, nessuna salvezza, nessun eroe per questo bel film di Leonardo Di Costanzo.

Voto: 3,5/5


giovedì 22 ottobre 2009

Lo spazio bianco

Quando ho letto la trama de Lo spazio bianco di Francesca Comencini mi sono detta che era un film che dovevo assolutamente vedere. Io, come la protagonista, Maria, ho un rapporto conflittuale con il tempo e ho passato buona parte della vita a tentare di addomesticarlo ai miei voleri. Sono impaziente, impulsiva, incapace di accettare la sola idea del passare del tempo. Mi sembra che il tempo a nostra disposizione sia così poco che non ci possiamo permettere il lusso di lasciarlo passare nell'attesa.

Anche Maria è un po' così, forse per motivi diversi dai miei, ma anche lei aggredisce la vita e, in questa ansia, ha finito per asservire la vita a sé piuttosto che mettersi a disposizione del suo sorprendente scorrere, con la conseguenza di una sostanziale insoddisfazione, solitudine e infelicità.
Ma, per fortuna, a volte è la vita stessa che ci mette di fronte a quello che siamo. Nel caso di Maria una gravidanza gestita in solitudine e finita troppo presto con la nascita di una bimba prematura, che solo dopo tre mesi di incubatrice forse potrà essere pronta a vivere veramente.

Che fare di fronte a questo evento? Fermare il tempo, interrompere ogni attività vitale, spaccare tutto, o semplicemente accettare un'attesa impotente, ma partecipe? Maria imparerà sulla sua pelle che lo spazio bianco non si può sempre riempire di quello che vogliamo noi, ma di quello che la vita ci impone.
Più volte Maria, riferendosi alla piccola nell'incubatrice, dice: "Non so se sto aspettando che nasca o che muoia". Mi è sembrata una straordinaria metafora degli spazi bianchi della nostra vita, le crisi, i momenti di transizione, quelli da cui possiamo rinascere o uscire sconfitti.

Margherita Buy è straordinaria nel ruolo di Maria, che forse le è particolarmente congeniale.
Bella l'ambientazione napoletana e i personaggi di contorno che fanno fa contrappunto al personaggio centrale con quell'innata propensione a una certa dose di fatalismo attivo.
Bella la fotografia, il montaggio, i flashback che riempiono l'attesa, azzeccata la colonna sonora. Riuscita la sceneggiatura, rispetto alla quale è opportuno ricordare l'ascendenza dall'omonimo libro di Valeria Parrella, che non ho letto ma a cui va certamente ascritta almeno una parte del merito.

Personalmente avrei però chiuso il film cinque minuti prima della sua vera conclusione, alla fine della lunga camminata di Maria verso l'ospedale. La sequenza finale fa virare infatti il film verso un sentimentalismo e una retorica che non gli appartengono e sposta l'attenzione sull'esito dell'attesa, anziché sul valore del tempo, tema dell'intero film.

Sono uscita dal cinema pensando a quanto scriveva Rob Breszny nell'oroscopo dei Gemelli (il mio segno) di qualche settimana fa: "Nel 2012 accadrà un evento straordinario, ma nel frattempo cosa farete, Gemelli? Trovate almeno tre buoni motivi per fare pace col tempo".
Ebbene, li sto cercando...

Voto: 4/5