Dopo poche settimane dalla messa in scena dello spettacolo Orestes in Mosul, Milo Rau torna al Teatro Argentina per la penultima tappa del suo progetto Il nuovo Vangelo, quella dedicata alla Resurrezione.
Come avevo già avuto modo di toccare con mano durante la visione del precedente spettacolo, Milo Rau è un autore e un regista teatrale del tutto originale e imprevedibile, che mescola linguaggi differenti e punta in generale all'abbattimento di tutti i confini, quello linguistico e geografico, nonché quello tra attori e spettatori, fino a quello tra rappresentazione e azione.
Scopro oggi, grazie a F. e a un articolo di Christian Raimo sull'Internazionale, che Milo Rau è l'autore e il propugnatore del cosiddetto Manifesto di Ghent, nel quale in 9 punti vengono definite le caratteristiche del suo teatro. Tra i punti di questo decalogo si legge tra le altre cose: "Non si tratta più soltanto di rappresentare il mondo. Si tratta di cambiarlo" e anche "Almeno due lingue diverse devono essere parlate sul palco in ogni produzione", e ancora "Almeno una produzione per stagione deve essere provata o replicata in una zona di crisi o di guerra, senza infrastrutture culturali".
Già da questi pochi spunti e avendo assistito anche a un solo spettacolo di Rau, si capisce che il suo teatro è qualcosa che non ha eguali nel panorama attuale e rappresenta per lo spettatore un'esperienza inedita e decisamente meno rassicurante di quella che normalmente si vive in quel mondo ovattato e separato dal mondo reale che è il teatro.
Nel caso degli spettacoli di Rau, il mondo esterno irrompe prepotente sul palcoscenico attraverso le storie raccontate dai protagonisti nonché attraverso le immagini provenienti dai luoghi dove Rau allestisce e riprende parti dello spettacolo, che sono spesso - come dichiarato nel suo manifesto - luoghi di crisi o di guerra.
Nel caso de Il nuovo Vangelo il progetto di Rau è particolarmente ambizioso. Le prime tre parti del progetto si sono svolte a Matera, Capitale europea della cultura, luogo dove sono stati ambientati molti film su Gesù. Quello di Rau non è infatti solo un progetto teatrale ma performativo a 360° il cui esito finale sarà la realizzazione di un film.
La caratteristica centrale del progetto è quella di rileggere il Vangelo alla luce della contemporaneità facendo interpretare Gesù a Yvan Sagnet, il sindacalista dei migranti che lavorano come braccianti nei campi della Puglia e della Basilicata, e gli altri personaggi da profughi e piccoli contadini.
Nella tappa romana vengono portati in scena tre momenti del Vangelo: la deposizione dalla croce, la resurrezione e il battesimo di un giovane, che a sua volta interpreterà Gesù nel progetto cinematografico di una piccola compagnia congolese, perché - come dice Rau dal palco - un solo Gesù non basta, abbiamo bisogno di tanti Gesù.
Questi tre momenti costituiscono però solo un piccolo frammento dell'intera performance, che inizia già fuori dal teatro, dove ci sono i cameramen che riprendono quello che avviene e fanno interviste, e continua al termine dello "spettacolo" anche fuori dalle porte del teatro, sempre grazie a questa presenza pervasiva di microfoni e telecamere.
Quello che poi avviene dentro il teatro Argentina è difficile da definire in maniera univoca; l'etichetta "assemblea politica" che viene attribuita allo spettacolo è quella che forse meglio di tutte esprime il contenuto e l'atmosfera che si respira in questo paio d'ore. La resurrezione di Gesù si intreccia infatti con la battaglia politica condotta da braccianti e migranti per rivendicare i propri diritti, che sono poi i diritti di tutti, e che è sintetizzata in un manifesto significativamente intitolato La rivolta della dignità.
Il teatro è dunque tappezzato di cartelloni che richiamano alcuni dei contenuti del manifesto, e - a parte le poche scene in cui viene rappresentato il Vangelo - per il resto il tempo è occupato dai discorsi tenuti dai partecipanti, persone a vario titolo coinvolte in questa lotta per i diritti. A tenere le fila - si fa per dire - della serata è Marcello Fonte, vestito in abiti storici che nel suo modo un po' sconclusionato dà la parola, incita all'applauso e commenta.
Alla fine il pubblico è chiamato a votare per alzata di mano il manifesto, non senza qualche imbarazzo, perché non esiste la possibilità di posizioni intermedie o sfumate (solo il vicesindaco Luca Bergamo interviene per spiegare la posizione dell'Amministrazione) e dunque la votazione si trasforma in un plebiscito, che difficilmente si potrebbe riprodurre altrove (basti pensare a una qualunque assemblea di condominio).
Non so se l'effetto e la situazione siano in parte previsti e voluti da Rau per creare nello spettatore una condizione di parziale disagio, che è poi quella nella quale è più facile che nascano delle riflessioni e la necessità di approfondimento e analisi critica. Il dramma dei migranti è certamente reale e incontestabile, le soluzioni sono ovviamente complesse. Mi colpisce che uno dei primi punti del Manifesto auspichi la totale libertà di circolazione delle persone e dunque l'abolizione dei confini, una cosa che io talvolta suggerisco, forse un po' alla leggera perché non vedo altre soluzioni alle dinamiche in corso, e che invece evidentemente qualche fondamento parrebbe averlo.
Si esce dal teatro un po' destabilizzati e un po' confusi, non avendo chiaro cos'è avvenuto in quelle quattro mura, ma consapevoli di aver partecipato a qualcosa che nelle mani di Rau probabilmente acquisirà mille altre forme e vite.
Voto: 3/5
giovedì 17 ottobre 2019
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