Quando all'inizio di settembre io e F. abbiamo cominciato a guardare i programmi dei teatri romani per segnarci gli spettacoli di nostro interesse, la mia attenzione è stata immediatamente attirata dai due spettacoli di Milo Rau al teatro Argentina, Orestes in Mosul e La rivolta della dignità.
Non che io sapessi nulla di Milo Rau, il cui nome leggevo per la prima volta in vita mia, ma curiosando qua e là mi ero accorta che valeva la pena approfondire la conoscenza di questo regista svizzero considerato uno dei maggiori del teatro contemporaneo.
Così i primi biglietti che acquistiamo quest'anno sono proprio quelli di Orestes in Mosul, una coproduzione del RomaEuropa Festival che è a Roma in anteprima nazionale. Vi dico subito che, appena usciti dallo spettacolo, abbiamo deciso di comprare anche i biglietti per La rivolta della dignità.
Il tema è piuttosto chiaro fin dal titolo: in pratica Milo Rau decide di spostare la storia raccontata nell'Orestea di Eschilo a Mosul, la città dell'Iraq distrutta prima dalle guerre degli anni Novanta e poi soprattutto dall'occupazione dell'ISIS, trovando nelle due vicende un forte elemento di continuità soprattutto in riferimento al circolo vizioso delle vendette incrociate e senza fine che portano con sé solo morti, distruzione, dolore e odio.
L'idea già di per sé stessa originale è però impreziosita e resa unica dalla realizzazione, di cui provo qui a raccontare le caratteristiche principali.
La compagnia di Orestes in Mosul si è recata nella città irachena per mettere in scena lo spettacolo direttamente nei luoghi della guerra dell'ISIS. Qui la performance si è avvalsa della partecipazione di persone che vivono nella città e che sono state coinvolte nella rappresentazione di alcune scene dell'opera o in attività a essa correlate: l'accompagnamento musicale, la realizzazione delle foto di scena ecc.
Quanto rappresentato a Mosul è stato ripreso in video e parte di questi video sono oggetto dello spettacolo dal vivo. La medesima compagnia, nella quale ci sono persone di provenienza e lingua diversa (belga, arabo, inglese ecc. - lo spettacolo è infatti sottotitolato), è fisicamente presente sul palco dell'Argentina per rappresentare nuovamente la tragedia di Eschilo.
Oggetto della rappresentazione non è però esclusivamente il testo di Eschilo. A questo si intrecciano infatti le storie personali dei protagonisti, sia quelli presenti sul palco, sia quelli incontrati a Mosul. I due piani della narrazione (quella in video e quella dal vivo) non solo a più riprese si sovrappongono, ma - grazie a un sapiente uso della regia - interagiscono in forma di dialogo o interviste, come se tutto avvenisse in diretta. Per aumentare i piani di intersezione, in alcune delle fasi in cui viene riproposta una scena già girata a Mosul, la scenografia sul palco riproduce i luoghi reali dove sono state girate quelle scene, e compare sul palco un cameraman che segue l'azione con una telecamera, rendendo difficile per lo spettatore capire se il video che vede sullo schermo è quello girato in diretta ovvero quello girato a suo tempo.
Scandendo la storia in momenti dedicati ai singoli personaggi, momenti dentro i quali il testo di Eschilo costituisce lo scheletro della narrazione, un'essenza su cui - come si è visto - si innestano altre voci e altri temi e piani temporali, il regista ci conduce fino alla resa dei conti finale, ossia ci/si interroga su come interrompere la catena delle uccisioni. Che fare con coloro che hanno perpetrato orribili assassini, Oreste in Eschilo, i miliziani dell'ISIS a Mosul: decretarne la morte, ovvero perdonarli? O forse niente di tutto ciò, perché non ci può essere perdono per quello che è accaduto? Resta però forte il desiderio di ricostruire, ripartire e tornare a una vita normale, possibile solo interrompendo la catena delle vendette.
Voto: 4/5
martedì 1 ottobre 2019
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