Patria / Fernando Aramburu; trad. di Bruno Arpaia. Milano: Guanda, 2017.
In questo romanzo Fernando Aramburu ci parla di due ferite: quella che divide due famiglie basche e quella che ha diviso per molti decenni un'intera nazione. La causa di queste ferite è una sola: l'azione terroristica dell'ETA e l'ideologia dell'indipendentismo.
In Patria abbiamo da un lato la famiglia composta da Bittori e Txato, madre e padre, con i due figli Javier e Nerea, dall'altro la famiglia di Miren e Joxian, genitori di Jose Mari, Arantxa e Gorka. Il Txato e Joxian vanno tutte le domeniche a pedalare insieme e si incontrano in osteria per giocare a carte. Bittori e Miren sono amiche e confidenti, le vere matriarche delle rispettive famiglie, donne forti che fanno il bello e il cattivo tempo e in qualche modo condizionano i comportamenti di tutti gli altri componenti delle rispettive famiglie. I figli sono amici, in particolare Arantxa e Nerea, che come le mamme si confidano tutto.
Fino a quando Jose Mari sposa la causa di Euskal Herria e inizia il suo percorso nell'organizzazione terroristica, quello che lo porterà a partecipare al commando che ucciderà il Txato in un attentato voluto dall'ETA contro un piccolo imprenditore che non paga il suo contributo all'organizzazione e a cui l'ETA ha già messo contro l'intera comunità cui appartiene.
Miren prende le parti del figlio, facendo proprie le sue idee e quelle dell'indipendentismo basco. Gli altri componenti della sua famiglia reagiscono come possono: Joxian si chiude sempre più nel suo silenzio, Gorka va a vivere lontano alla prima occasione, Arantxa resiste stoicamente anche dopo che un ictus la immobilizza su una sedia a rotella costringendola a comunicare con un IPad.
Dall'altro lato, Bittori non trova pace, mentre Javier si chiude nell'alcol e nella depressione rinunciando a vivere e Nerea sembra non voler né sentire né vedere preferendo rimanere lontano da casa.
La straordinaria bellezza di questo romanzo è in buona parte da attribuire al modo in cui è scritto e orchestrato.
Aramburu non segue un ordine cronologico, bensì va avanti e indietro nel tempo, dedicando alternativamente 2-3 capitoli di seguito (i capitoli sono tutti piuttosto brevi) a uno dei personaggi di questa storia in una determinata fase della sua vita, generalmente momenti cruciali che aiutano il lettore a poco a poco a ricostruire gli eventi, ma soprattutto a dare un senso ai comportamenti dei personaggi e a comprenderne le dinamiche emotive andando al di là delle apparenze. Il romanzo è tutto scritto in terza persona, qualunque sia il personaggio protagonista, ma in mezzo a un racconto apparentemente impersonale si infila di tanto in tanto una prima persona che trasferisce in maniera diretta pensieri e sentimenti del protagonista.
Man mano che le pagine di questo poderoso (in senso fisico e simbolico) romanzo vanno avanti, il lettore non solo a poco a poco comprende l'immane e insensata tragedia che l'azione dell'ETA ha rappresentato per il tessuto sociale basco e in generale per la Spagna tutta, ma contemporaneamente si accorge che in questa storia non ci sono solo le vittime ufficiali del terrore, in questo caso il povero Txato e la sua famiglia, perché tutti - in modi diversi - vedranno la propria vita segnata da questi eventi e ne pagheranno in mille modi le conseguenze.
Sarà solo la testardaggine di Bittori e il disallineamento di Arantxa a produrre un lento ma progressivo riavvicinamento tra queste due famiglie, mentre l'intera nazione pure si accosta - quasi incredula - a un processo di pace interna che nel frattempo ha lasciato sul terreno migliaia di morti e altrettante persone e famiglie distrutte.
Quella di Aramburu è una storia culturalmente e geograficamente ambientata, eppure - come è proprio dei grandi romanzi (e questo secondo me appartiene a buon diritto alla categoria) - è in grado di parlare a chiunque, in qualunque epoca e in qualunque luogo. Perché ci parla della banalità del male, dell'indottrinamento ideologico, del condizionamento sociale, delle aspirazioni e dei desideri mal riposti dei giovani, e al contempo della forza liberatrice della riconciliazione, che certo non restituisce né il tempo né le persone, ma riapre la strada alla speranza.
Riflettere su quanto di orribile si è fatto e si continua a fare nel nome di un concetto di patria semplificato e mal posto (che esclude anziché includere) è l'eredità più forte che questo bellissimo romanzo ci lascia.
Voto: 4/5
mercoledì 7 novembre 2018
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