lunedì 30 settembre 2024

Pietre sante. Le figlie dell'Etna / Marcello Proietto

Pietre sante. Le figlie dell'Etna / Marcello Proietto. Viagrande: Algra, 2023.

Sono sempre inevitabilmente in difficoltà quando mi trovo a scrivere di qualcosa che proviene dall'attività creativa di un amico o di un’amica, perché oscillo tra la preoccupazione di essere troppo condiscendente in virtù appunto dell’amicizia e quella di essere troppo dura, proprio in risposta alla prima preoccupazione.

Marcello Proietto, bibliotecario e archivista, si cimenta per la prima volta con il romanzo e – come ci racconta lui stesso durante la presentazione del libro allo IED di Roma – lo fa rivolgendo lo sguardo alla sua terra d’origine, come risposta alla nostalgia di casa e all'imposizione della distanza durante la pandemia.

Pietre sante è infatti ambientato a Bongiardo, paesino alle pendici dell’Etna di cui era originaria la madre dello scrittore, a cui il libro è dedicato in quanto è venuta a mancare prima della pubblicazione del romanzo.

Come ci dice Proietto, il libro – pur essendo una purissima opera di fantasia – è stato alimentato in maniera significativa dai racconti di sua madre e soprattutto di sua nonna, che finché è stata in vita ha fatto oggetto Marcello delle sue memorie d’infanzia.

Ed effettivamente il merito secondo me più straordinario del romanzo è quello di restituire un ritratto vivido, riconoscibile e credibile di un paesino siciliano all'ombra dell’Etna intorno agli anni Trenta. Lo scrittore, anche in virtù delle sue competenze professionali e dell’approccio storico-archivistico che lo caratterizza, non lascia niente al caso, e – oltre a costruire un’articolata trama intorno ai racconti familiari – inserisce le storie raccontate all'interno di un contesto preciso, in cui ogni dettaglio storico è stato verificato e controllato. E questo è senza dubbio un valore aggiunto da non sottovalutare.

Sul piano strettamente narrativo la storia è quella della famiglia Pietrasanta, formata da don Cirino e donna Tina, che hanno tre figlie femmine, Maritta, Enna e Carmelina, le quali pur avendo superato da tempo l’età di matrimonio vivono ancora con i genitori in quanto il padre – deluso di non aver avuto l’agognato figlio maschio – ha deciso che le figlie non si sposeranno mai e resteranno a servirlo fino a quando vivrà.

Ma le cose – si sa – quasi mai vanno come uno se le immagina. E così dal momento in cui don Alfio Liotta posa i suoi occhi su Maritta, la grande delle figlie di don Cirino, sarà un precipitare di eventi che metterà a subbuglio la piccola comunità di Bongiardo, quel tipo di subbuglio che in una piccola comunità riesce a essere di enormi proporzioni ma anche a essere riassorbito in tempi rapidissimi.

La vividezza del racconto di Marcello Proietto è amplificata dalle scelte linguistiche, grazie a un mix perfettamente equilibrato e leggibile, quello tra una lingua italiana pulita e l’inserimento di espressioni, costruzioni grammaticali, abitudini linguistiche proprie della lingua siciliana.

Come giustamente faceva notare la presentatrice siciliana del libro allo IED, nessun siciliano – almeno nessuno che appartenga alle generazioni vicine allo scrittore, ancora di più se emigrato altrove da tempo – potrà sfuggire alla sensazione di essere catapultato nel suo passato e a vere e proprie forme di agnizione, che ho percepito pure io che, pur non essendo siciliana, vengo comunque da un paesino del sud e riconosco moltissimi dei comportamenti che caratterizzano e ancora di più caratterizzavano in passato questi ambienti.

In conclusione, consiglio caldamente la lettura di questo romanzo, che – pur un po' acerbo sotto alcuni aspetti come è normale che sia a una prima prova letteraria – si può dire una scommessa vinta per il suo autore.

Voto: 3,5/5

venerdì 27 settembre 2024

Vermiglio

In attesa della settimana full immersion della rassegna Da Venezia a Roma, vado a vedere Vermiglio, il film di Maura Delpero (di cui non avevo visto il precedente Maternal) che ha vinto il Leone d’argento a Venezia, ossia il gran premio della giuria.

Siamo appunto a Vermiglio, un paesino della Val di Sole in Trentino, luogo di origine del padre della regista. È il 1944, la guerra è ancora in corso, ma non la si vede con i propri occhi. Il racconto si incentra sulla famiglia Graziadei, il cui capofamiglia è Cesare, un uomo austero, ma non burbero (Tommaso Ragno), che fa il maestro per i bambini e gli adulti del paese (ancora in gran parte analfabeti o che conoscono solo il dialetto), e che nella sua stanza privata coltiva la sua passione per la musica, e non solo. Cesare vive con la moglie e i numerosi figli: dai più grandi Lucia e Dino, ad Ada (adolescente inquieta), a Flavia, fino ad arrivare ai tre bambini maschi e infine al neonato. Com'era tipico di quei tempi, nonostante la povertà, di figli se ne facevano tanti e qualcuno purtroppo non superava malattie anche piuttosto banali, e anche i Graziadei hanno perso così due bambini molto piccoli.

Intorno ai Graziadei una comunità piccola, che come tutte le comunità piccole è caratterizzata da una grande coesione, ma anche da pregiudizi, arretratezze, ipocrisie e maldicenze.

Il “tranquillo” tran tran di questa comunità viene interrotto dall'arrivo di Pietro, un soldato siciliano che ha disertato insieme ad Attilio, uno dei giovani di Vermiglio che era partito per la guerra e che proprio grazie a Pietro è riuscito a tornare a casa illeso, ma certamente trasformato nell'animo.

Perché nel film della Delpero la guerra non si vede, ma si sente negli sguardi di chi torna e non è più lo stesso, di chi ha perso i propri cari sul fronte, di chi non ne riceve notizie da tempo.

Di Pietro si innamora Lucia, la figlia grande dei Graziadei, ma tutto intorno a questo evento anche gli altri componenti della famiglia fanno i loro percorsi: Dino che si fa adulto e non riesce a fare pace e a sentirsi accolto dal padre, Ada che deve fare i conti con i turbamenti dell’adolescenza e la loro contraddizione con i dettami religiosi tanto da imporsi penitenze sempre più severe, Flavia che è molto brava a scuola e che per questo – oltre che per la chiara predilezione del padre - è destinata (a differenza delle altre figlie) ad andare a studiare in città, i tre bambini più piccoli che non comprendono tutto quello che accade intorno a loro ma si fanno portavoce – a volte in maniera distorta, ingenua e divertente – di quello che sentono dagli adulti.

La fine della guerra, il matrimonio di Pietro e Lucia, il viaggio di Pietro in Sicilia e la nascita della loro bambina Antonia, avranno una serie di conseguenze destinate a cambiare gli equilibri della piccola comunità, e costringeranno ognuno dei protagonisti di questa storia a guardare al futuro con occhi diversi.

Nel segno del cinema di Ermanno Olmi e Giorgio Diritti, Maura Delpero tratteggia con perizia, attenzione e con una chiara vena incantata e poetica una piccola comunità arcaica, che ci sembra lontanissima nel tempo, ma non è (nel mio caso ci ho riconosciuto alcuni racconti dei miei genitori, nati entrambi nel 1939).

Personalmente, la cosa che mi ha colpita di più – e che probabilmente è in un certo senso un tratto caratteristico di quel mondo e forse anche di quel contesto geografico-culturale – è il volume degli eventi. Tutto nel film della Delpero, anche gli eventi più tragici e le situazioni drammatiche o delicate, risultano attutite, quasi smorzate dalla neve che ricopre le montagne circostanti. Tutto è in sordina, perché quella è una società in cui – anche se tutti sanno tutto – tutto resta sotto traccia: niente è urlato, tutto intuito. Cosicché anche quanto emerge chiaramente in merito alla condizione femminile non viene rappresentato in modo da suscitare una reazione indignata nello spettatore, bensì una riflessione pacata, ma non meno netta. Non ci sono buoni e cattivi nel film della Delpero: il capofamiglia non è senza difetti ed è un chiaro prodotto di una società patriarcale, ma non è detestabile e a tratti dimostra una finezza di pensiero; la moglie e madre, pur inevitabilmente sottomessa, non è una figura scialba e inesistente, ma emerge con tutta la propria forza; e così ciascuno dei figli, soprattutto i più grandi, da Lucia a Flavia, cercano ognuno il proprio posto nel mondo facendo i conti con una società in cui sembra non esserci posto per chi devia dal cammino tracciato e che in quel cammino dovranno trovare il proprio modo – anche anomalo – di vivere la propria vita.

Un film pacato, soffuso, realistico e fiabesco al contempo, che va gustato in questo suo modo di essere, senza aspettarsi altro.

Voto: 3,5/5



mercoledì 25 settembre 2024

Corto Maltese. La regina di Babilonia / disegni di Bastien Vivès; testi di Martin Quenehen

Corto Maltese. La regina di Babilonia / disegni di Bastien Vivès; testi di Martin Quenehen; dall'opera di Hugo Pratt. Grandvraux: Cong Edizioni, 2023.

Dopo il fortunato esordio del nuovo Corto Maltese - ispirato al mitico personaggio di Hugo Pratt - ad opera di Bastien Vivès per quanto riguarda i disegni e di Martin Quenehen in merito a storia e testi, i due ci propongono una nuova storia del marinaio/pirata, La regina di Babilonia, che in parte prosegue la narrazione dell'albo precedente e ne richiama alcuni personaggi.

Anche in questo caso si conferma il tono di avventura pura che attraversa queste pagine: azioni criminali, fughe rocambolesche, storie d'amore, incontri con vecchie conoscenze, e l'onnipresente mare che è l'elemento naturale di Corto, la prospettiva implicita o esplicita di ogni sua avventura.

Devo dire che a questa seconda uscita mi convinco del fatto che, sul piano narrativo, questo Corto Maltese (non sono in grado di esprimermi sul vecchio Corto Maltese perché non ho mai letto nulla) è quanto di più lontano ci possa essere dalle mie corde.

La scelta di perseguire l'avventura per l'avventura nella trama, senza momenti più intimi o emotivamente più profondi o pause "riflessive", risulta per me un po' frustrante, qualcosa forse di gusto - diciamo così - "maschile", che su di me non riesce a fare breccia.

Allora - mi direte - perché continui a comprare e leggere questi albi?

Perché adoro Vivès e sono affascinata dai suoi disegni. Corto Maltese - già fighissimo nella versione di Pratt - è ancora più figo nella versione di Vivès, nella sua modernità che flirta con il retrò.

Diciamo che non so se comprerò il prossimo albo, se non per mero collezionismo, anche se magari a un certo punto la coppia Vivès-Quenehen potrebbe anche stupirci.

Voto: 3/5

lunedì 23 settembre 2024

Real

Dopo il documentario Normal, che partiva da una domanda semplice e impossibile, ossia "Cos'è normale?" in particolare in riferimento all'identità di genere, Adele Tulli torna sul grande schermo con un altro lavoro che, durante la proiezione al Festival di film di Villa Medici (dove ha vinto il Premio della giuria), ci dice essere nato durante il periodo della pandemia.

Con le nostre vite fisiche compresse dentro le quattro mura domestiche e la nostra dimensione affettiva e relazionale completamente spostata sulla rete, è venuto naturale porsi una nuova domanda: "Cosa significa e cos'è reale?". Nel frattempo, come ci dice la regista, la pandemia è finita, ma la dimensione virtuale della nostra vita ha continuato ad espandersi e, più in generale, la tecnologia ha continuato a fare passi in avanti in direzioni sempre più strabilianti, rendendo ancora più complesso e sfaccettato il concetto di "realtà".

Come già avevamo avuto modo di apprezzare nel primo lavoro, anche in Real Adele Tulli procede per giustapposizioni e intersecazioni di storie che rappresentano altrettanti punti di vista sul rapporto tra dimensioni fisica e virtuale delle nostre vite. Si parte con due sequenze piuttosto emblematiche: quella del bambino coreano che dialoga con Bixby (una specie di Alexa) e quella della seduta di yoga che si svolge su Zoom. Scopriremo poi che il bambino vive nella Busan Eco Delta Smart City, un piccolo agglomerato urbano nel quale si sta facendo un esperimento di "vita ideale" basata su un uso massivo della tecnologia e della raccolta dei dati degli individui che ci abitano, e nella seduta Zoom di yoga c'è una ragazza che vive con il suo cane e ha aspirazioni da musicista, ma intanto si mantiene (o almeno così lo interpreto io) facendo delle dirette video in canali hot.

Alle loro storie, che continueremo a seguire nel corso del film, se ne aggiungono molte altre: il rider coreano che filma sé stesso durante le sue giornate di lavoro e fa dirette con i suoi follower mentre gira per le strade della città, due persone che vivono in due diversi continenti ma che si incontrano regolarmente tramite i loro avatar in mondi di realtà virtuale, influencer youtube depressi che abbandonano la loro attività, robot che svolgono mansioni che prima erano prerogative umane oppure che sostituiscono o si affiancano al loro corrispettivo fisico (per esempio il robot a quattro zampe), smartphone onnipresenti in qualunque momento dell'esistenza umana, uno strano personaggio vestito da yoda che a Venezia raccoglie soldi facendo foto con i turisti o accompagnando piccoli gruppi in attività di svago, giovani che finiscono in cliniche di disintossicazione per liberarsi dalla dipendenza tecnologica.

Tutto questo e molto altro filmato nei modi più vari: si va dalle sequenze che si svolgono in mondi virtuali, a soggettive di robot, cellulari e altre attrezzature sul mondo circostante (la soggettiva della telecamera del robot che pulisce il pavimento è notevole!), a un uso importante di telecamere fisheye che distorcono l'immagine rendendo anche contesti normali cose irreali e anche un po' surreali, ma anche sequenze su cose molto concrete (la produzione della fibra di rete e la posa dei cavi di rete nella profondità degli abissi) che però divengono esse stesse immagini stranianti e fuori dalla realtà fisica.

Come ci ha detto la regista all'inizio del film, non si tratta di dare delle risposte, né tanto meno di formulare dei giudizi, anche perché siamo immersi in un processo da cui ancora facciamo fatica a prendere la distanza necessaria a comprenderlo e perché molti altri cambiamenti ci aspettano nel prossimo futuro. Però certamente il film - come il precedente - aiuta a porsi delle domande, a riflettere sul mondo, sull'umanità e anche su noi stessi rispetto a quanto sta accadendo intorno a noi e dentro di noi.

L'effetto è affascinante e inquietante al contempo, e si esce dalla sala certamente turbati, quasi come dopo un trip psichedelico, che però è anche molto "reale" perché appartiene all'esperienza di tutti noi. A parte qualche breve momento di stanchezza e di calo di tensione, il film è non solo interessante ma anche ben fatto e merita di essere visto da molte persone.

Voto: 3,5/5

venerdì 20 settembre 2024

Limonov - The ballad

A poche ore di distanza dal termine della lettura dello straordinario libro di Emmanuel Carrère vado a vedere in lingua originale il film da esso tratto e che è da poco uscito in sala.

Il film ha avuto una realizzazione piuttosto travagliata, visto che prima Saverio Costanzo, poi Paweł Pawlikowski hanno fatto un passo indietro dopo aver iniziato a lavorarci, cosicché è stato infine Kirill Serebrennikov (il regista del bel film Summer) a raccogliere il testimone e a portare il progetto a compimento, pur avvalendosi del lavoro di sceneggiatura che già Pawlikowski aveva fatto.

Ho letto recensioni e interviste in cui Serebrennikov spiega meglio le sue intenzioni: il regista chiarisce di non aver voluto fare un vero e proprio biopic su Limonov, ma di aver voluto realizzare una narrazione in linguaggio cinematografico della narrazione letteraria della vita di Limonov che Carrère ha scritto a partire anche e soprattutto dai libri in cui l'autore racconta di sé stesso.

In pratica l'obiettivo non è in alcun modo la ricostruzione storica, né la fedeltà al personaggio, bensì un'operazione di meta-meta-narrazione: racconto per immagini di un racconto letterario tratto da letteratura autobiografica.

Non a caso il sottotitolo del film è The ballad che è un po' la chiave reinterpretativa scelta da Serebrennikov: quella che vediamo sullo schermo è una specie di opera rock tratta dal libro di Carrère, e in questo senso il regista giustifica anche la scelta della lingua inglese, che personalmente mi ha lasciata fortemente perplessa e mi ha creato un senso di straniamento e di distanza da quanto raccontato sullo schermo, che però forse era l'obiettivo perseguito dal regista.

Va riconosciuto a Ben Whishaw, che interpreta questo personaggio inafferrabile e straripante, di aver fatto un ottimo lavoro per calarsi in una parte decisamente difficile e per attraversare le mille trasformazioni fisiche e non solo di Limonov nel corso della sua vita.

Limonov e i personaggi che intersecano e accompagnano la sua esistenza - tra tutte in particolare l'amata Elena (Viktoria Miroshnichenko) - letteralmente "saltano" attraverso gli anni e i luoghi in una ballata rock che trascina gli spettatori nelle pieghe complesse degli individui e della storia, lasciandoli infine confusi e frastornati. Perché alla fine questo è il problema principale del film di Serebrennikov, e che lo distanzia enormemente dal libro di Carrère. Tanto il libro di Carrère è affascinante e trascinante, ma anche esplicativo, ricco di informazioni, appassionante nei contenuti storici e di dettaglio, quanto il film è frettoloso nei numerosi e delicati passaggi della vicenda di Limonov, di fatto non consentendo a chi non abbia già letto il libro di comprendere alcune cose e anche di farsi una idea più personale.

In conclusione, pur avendo apprezzato alcune scelte registiche e alcune trovate di montaggio, il risultato per me è stato fortemente deludente, perché il film non è riuscito a trasmettermi granché delle mille e complesse stratificazioni narrative che sono invece la forza del libro, insieme a una scrittura mirabile.

E comunque personaggi russi che parlano in inglese anche in Russia fanno un effetto quanto meno strano, e per me poco digeribile.

Voto: 2,5/5



mercoledì 18 settembre 2024

Limonov / Emmanuel Carrère

Limonov / Emmanuel Carrère; trad. di Francesco Bergamasco. Milano: Adelphi, 2012.

E niente. Sono finita nelle maglie di Carrère e non so quando e se riuscirò a uscirne! ;-)

Dopo aver letto con grande soddisfazione V13, gironzolavo attorno a Limonov da un po' e non mi decidevo a iniziarlo, preoccupata di rimanerne delusa. E invece quando poi ho iniziato l'ho praticamente divorato, entusiasmandomi come ormai mi capita davvero molto raramente.

Il merito è sicuramente della figura incredibile del protagonista, Eduard Savenko, che a un certo punto cambia il suo cognome in Limonov, originario di un paesino russo, cresciuto a Kharkiv, un paese della provincia ucraina facente parte dell'allora URSS, e determinato fin dall'adolescenza a sfuggire alla mediocrità e alla noia del luogo dal quale proviene e al destino da operaio in fabbrica.

Eduard vuole lasciare il segno: vuole essere riconosciuto per la sua arte (prima scrive poesie, poi quando si trasferisce in America comincia a scrivere romanzi autobiografici), ma soprattutto vuole che la sua arte vada di pari passo con una vita vissuta sempre affrontando il rischio e il nuovo.

Limonov, dopo la giovinezza negli ambienti artistici underground russi e la storia con Anna, viene esiliato in America dove si innamora di Elena e vive in povertà senza riuscire a farsi pubblicare e infine abbandonato anche dalla donna amata. Dopo una discesa negli abissi, Eduard riparte dalla casa del ricco Stephen dove si ritrova, per una serie di circostanze, a fare il maggiordomo. Finalmente i suoi libri incontrano l'interesse di un editore francese e vengono pubblicati in Francia riscuotendo un grande successo. Inizia così la vita parigina che terminerà quando, con il crollo dell'URSS, Limonov decide di tornare in Russia. Il suo attivismo politico si fa sempre più intenso e difficile da catalogare: non manca il fiancheggiamento dei serbi nella guerra civile yugoslava, l'esperienza in Uzbekistan, la fondazione del partito nazionalbolscevico, la prigionia, e gli ultimi - ancora più confusi - anni dell'ascesa putiniana rispetto a cui Limonov ha una posizione che rispecchia alcune sue ambigue linee ideologiche già sostenute in passato.

Un personaggio come Limonov è praticamente impossibile da classificare e anche da giudicare: un artista, un pazzo, un eroe, un invasato, un genio. O forse tutto questo insieme e mescolato.

Certo è che, grazie alla sua storia personale, si attraversa un pezzo importante della storia e della letteratura (ma anche l'arte) novecentesca e soprattutto, più o meno direttamente, delle vicende che la parte orientale del territorio europeo.

La complessità del pensiero di Limonov e il suo non essere mai allineato e sempre controcorrente, ma in fondo coerente con un pensiero di fondo, per quanto a volte ottuso, ci aiuta a vedere - da un punto di vista diverso e certamente meno scontato - parti di storia che conosciamo solo attraverso la narrazione occidentale. E a mettere in dubbio alcune convinzioni ideologiche a volte acritiche o a senso unico, cosa che lo stesso Carrère fa a più riprese.

E fin qui il personaggio, di cui ovviamente si potrebbe dire molto altro, perché è stato incredibilmente al centro di una rete di relazioni e di una serie di vicende che rendono la sua vita una vera e propria lente attraverso cui guardare non solo a lui ma a un mondo e a una realtà ben più ampie.

Poi c'è Carrère. E chi non vorrebbe un biografo come lui? Perché sì, la vita di Limonov è eccezionale di per sé, ma la narrazione di Carrère la rende straordinaria, utilizzando non solo interviste e fatti storici, ma anche le opere dello stesso Limonov. È vero che Carrère non perde occasione per aprire digressioni personali e di fatto parlare di sé attraverso il suo protagonista (ricordiamo che la madre di Carrère è di origine russa e lo stesso scrittore francese ha spesso frequentato l'ambiente russo), ma - a parte quando si lascia andare alle proprie memorie - l'autore consente a Limonov di occupare tutta la scena, tra l'altro sfuggendo al rischio - inevitabile con un tale personaggio - di farne un eroe ovvero un pazzo, bensì restituendone la complessità e stratificazione, nonché l'ambiguità, che però in molti casi è riflesso dell'ambiguità di una storia molto meno lineare di quello che vogliamo e ci vogliono far credere.

Si arriva all'ultima pagina quasi sfiniti ma anche gioiosi per aver partecipato a un racconto così incredibile che davvero ci mette sotto gli occhi il potere sovrumano della letteratura.

Quasi stento a credere che Limonov sia morto a 77 anni, di malattia, dopo cotanta vita, e forse lui stesso non sarà stato contento di aver avuto una morte così banale a dispetto di una vita così poco regolare.

Non posso esimermi a questo punto dal leggere L'avversario, il libro che ha reso famoso Carrère.

Voto: 4,5/5

lunedì 16 settembre 2024

Transformer / Nicoz Balboa

Transformer. Manuale sperimentale sentimentale sessuale per passare dalla disforia all'euforia di genere / Nicoz Balboa. Bologna: Oblomov, 2023.

Seguo Nicoz Balboa dal primo graphic novel che ha scritto, Born to lose, e mi sono fin da subito innamorata del suo stile davvero originale sia a livello di disegno (incasinato, pasticciato, disordinato, ma al contempo estremamente raffinato) sia a livello narrativo (ho sempre definito i suoi lavori dei diari in forma grafica, ma lui chiarisce in questo suo ultimo lavoro che non si tratta strettamente di autobiografia, bensì di autofiction, che è cosa ben diversa).

Negli ultimi due lavori, Play with fire e quest'ultimo Transformer, Nicoz si è addentrato sempre di più - anche in virtù della scelta di intraprendere un percorso di transizione - in temi delicati e complessi che lo riguardano da vicino, ma che riguardano anche molte altre persone, ossia l'appartenenza di genere e l'orientamento sessuale.

In un certo senso Transformer è la messa a fuoco di quanto era presente già - seppure in maniera ancora confusa e incerta - in Play with fire, ossia la presa di coscienza della propria disforia di genere e la decisione di intraprendere la strada della transizione, e nel frattempo di comprendere anche il proprio prevalente orientamento sessuale.

Ne viene fuori il racconto di un percorso in cui le paure, le insicurezze, le problematicità sono tante, ma anche i momenti di euforia che coincidono con quelli in cui il protagonista si sente a suo agio e riconciliato con sé stesso. Questa alternanza di stati d'animo e di condizioni va di pari passo con la consapevolezza che la scelta della transizione richiede pazienza e accettazione dell'incertezza, perché non c'è un pulsante ON/OFF che consenta di switchare facilmente e totalmente da uno all'altro.

Io personalmente sono piuttosto convinta che il genere - e in una certa misura anche l'orientamento sessuale - non siano un dato immobile nel tempo e che è inscritto in maniera immutabile in ciascuno di noi, bensì siano il frutto di una rinegoziazione che va avanti tutta la vita. E ho scoperto che questa è anche la posizione della psicologa Carol Gilligan, sebbene io l'abbia letta indirettamente perché citata nel libro di Pablo Sendra e Richard Sennett, Progettare il disordine (Roma, Treccani, 2020).

È anche per questo - oltre che probabilmente per il fatto che appartengo a una generazione sempre meno al passo con i tempi - che faccio fatica a prendere una posizione netta in merito a temi così complessi.

Però per fortuna mantengo la capacità di comprendere, di empatizzare, e soprattutto di rispettare le scelte altrui, quando sono fatte nella piena libertà e ci si assume la responsabilità delle stesse. In questo senso la storia di Nicoz aiuta certamente a capire la sofferenza di chi ha vissuti diversi dal nostro, a non costruire steccati, bensì ad accogliere le scelte degli altri. Chiaramente le questioni sono complesse né Nicoz ha alcuna pretesa di dare risposte valide per tutti e soprattutto non necessariamente per tutte le situazioni, però racconta con sincerità la propria personale battaglia per diventare sé stesso e soprattutto per provare a essere felice.

Voto: 3,5/5

mercoledì 11 settembre 2024

Sotto gli alberi di Udala / Chinelo Okparanta

Sotto gli alberi di Udala / Chinelo Okparanta; trad. dall'inglese di Tiziana Lo Porto. Roma: Edizioni e/o, 2023.

Subito dopo aver finito di leggere Metà di un sole giallo di Chimamanda Ngozi Adichie, continuando a seguire la mia attuale passione per gli scrittori e soprattutto le scrittrici provenienti dall'Africa, mi sono buttata a capofitto nella lettura di Sotto gli alberi di Udala.

Rimaniamo in Nigeria e in qualche modo possiamo dire che il libro di Chinelo Okparanta inizia più o meno dove finisce quello della Adichie. Siamo alla fine degli anni Sessanta e la Nigeria è devastata dalla guerra civile che metterà in ginocchio la popolazione del Biafra. È in questa situazione che il padre della giovane Ijeoma decide di lasciarsi morire sotto un bombardamento, rifiutandosi di seguire la moglie e la figlia nel bunker che hanno costruito. Da qui inizia il tormentato rapporto di Ijeoma con sua madre, segnato innanzitutto dalla scelta di quest'ultima di mandare Ijeoma a vivere da una coppia che provvederà alla sua istruzione e che Ijeoma ricambierà facendogli da donna di servizio.

È durante la permanenza nella casa del professore e della moglie che Ijeoma conoscerà Amina, una ragazza musulmana hausa che durante la guerra ha perso i contatti con la famiglia. In maniera naturale le due ragazze si innamorano, ma dopo essere state casualmente scoperte vengono separate. Da quel momento la madre di Ijeoma inizierà un'azione di "educazione religiosa e sentimentale" per ricondurre Ijeoma su quella che ritiene essere la retta via. Sulla strada di Ijeoma ci sarà però ancora una donna, Ndidi: ma la società nigeriana con la sua profonda omofobia, che in buona parte discende dalla pervasiva educazione cattolica, rende la scelta di Ijeoma difficile se non impossibile e la spinge verso la normalizzazione, un marito e poi un'amatissima figlia, fino al momento della consapevolezza definitiva, di non poter vivere per sempre nella menzogna e di avere diritto a un po' di felicità.

Il libro di Chinelo Okparanta getta luce su un altro aspetto della società nigeriana e introduce un tema che - se già nel mondo occidentale non è ancora del tutto scontato e pacifico - in un paese africano in cui la religione ha un ruolo importante è dirompente e rivoluzionario.

E di questo le va dato certamente merito. La storia è appassionante e con trasporto si seguono le vicende e i sentimenti di Ijeoma nell'arco di diversi decenni, e attraverso le sue numerose vicissitudini.

Io personalmente continuo a imparare delle cose della Nigeria, dei popoli che la abitano, delle sue tradizioni, del suo cibo e tanto altro, e questo non può che farmi piacere, e - anche grazie alla storia raccontata - ancora una volta, nonostante la distanza culturale non faccio fatica a empatizzare con la protagonista e a percepire pienamente i suoi sentimenti, che evidentemente sono dell'essere umano in quanto tale.

Devo però ammettere che siamo lontani anni luce dalla scrittura di Chimamanda Adichie. La Okparanta scrive bene e si legge gradevolmente, ma i romanzi della Adichie sono secondo me di un altro livello di raffinatezza e di complessità, linguistica e concettuale. Ciò detto, ben vengano le scrittrici e gli scrittori africani tradotti e distribuiti in Italia, perché abbiamo bisogno di conoscere altri punti di vista e altri mondi, e in questo la letteratura è forse uno dei pochi strumenti che davvero sono alla portata di tutti.

Voto: 3/5

lunedì 9 settembre 2024

Fink (+ Setak). Monk, 29 agosto 2024

Non è passato tantissimo tempo da quando Fink ci aveva deliziato con un suo concerto al Monk, sulla scia della pubblicazione del suo album IIUII (It Isn’t Until It Is), contenente la riproposizione di una selezione dei suoi successi degli anni tra il 2006 e il 2016. Non mi aspettavo dunque di ritrovarlo in programmazione, sempre al Monk, a fine agosto.

Inizialmente avevo rimosso l’informazione, perché a quella data sarei dovuta essere fuori Roma, ma l'estate piena di imprevisti che ho avuto ha fatto sì che quando mi è arrivata una nuova mail che mi ricordava il concerto ho pensato che la mia inaspettata presenza a Roma poteva quanto meno acquistare un senso nell'andare ad ascoltare di nuovo Fink dal vivo.

Dopo aver fatto il biglietto, ho scoperto che Fink ha pubblicato a luglio un nuovo album, Beauty in your wake, e ho capito dunque il perché di questo nuovo tour, non mancando di acquistare e ascoltare un po’ di volte questo nuovo lavoro per arrivare al concerto preparata.

Dopo un hamburger e una birra al volo con F. nel giardino del Monk, entriamo all'apertura delle porte e riusciamo ad accaparrarci due ottimi posti in seconda fila (il concerto prevederà un po’ di posti seduti e metà sala per gli spettatori in piedi, e alla fine la sala sarà completamente piena!).

L'opening del concerto è affidato a Setak, nome d’arte di Nicola Pomponi, un cantautore che canta in dialetto. Io e F. pensiamo sia una qualche forma di dialetto campano e invece scopro a posteriori che lui è abruzzese trapiantato a Roma e l’ultimo suo lavoro Assamanù ha ricevuto la Targa Tenco per il miglior album in dialetto. Sul palco è accompagnato da un chitarrista bravissimo, Alessandro Chimenti, che alterna vari strumenti a corde negli arrangiamenti delle canzoni di Setak, le cui sonorità attingono sicuramente alla tradizione musicale popolare dell’Abruzzo ma che contengono molti riferimenti anche a tanta altra musica dal sapore internazionale. Devo dire che sono affascinata da queste canzoni, che mi conquistano sia grazie alla voce graffiata di Setak sia grazie all'accompagnamento di Chimenti, tanto che il giorno dopo mi affretterò a comprare il suo disco.

Dopo i circa 45 minuti dell'opening e il necessario cambio di palco, arriva Fink accompagnato da un musicista di cui non ho colto il nome e che – come sempre nei concerti di Fink – ha un ruolo multiforme: in questo caso suona primariamente la chitarra elettrica e la batteria, mentre Fink alternerà due delle sue chitarre, una delle quali è quella con i colori che compaiono sulla copertina dell’album Hard believer.

I concerti di Fink sono sempre un’esperienza molto bella, perché ogni volta il cantante britannico sceglie un mood diverso (testimoniato dal tipo di formazione con cui sceglie di esibirsi). Al precedente giro la scelta di escludere la batteria aveva voluto valorizzare soprattutto la voce attraverso arrangiamenti sofisticati ma minimali, strutturati in un flusso musicale quasi senza soluzione di continuità.

In questo caso, la scelta della batteria dà al concerto un tono piuttosto diverso; non a caso mentre nel concerto precedente Fink ha cantato tutto il tempo seduto, qui per più di metà del concerto sta in piedi davanti al microfono e soltanto verso la fine sceglie quella che probabilmente è la sua posizione preferita per suonare, ossia da seduto.

Per quanto annunciato come unplugged, questo concerto risulta molto più potente dal punto di vista sonoro e per certi versi più tradizionale, anche se Fink è sempre in grado di ricavare da ogni sua canzone l’essenza e di ripartire da quella per costruire un ordito sonoro nuovo ad ogni ascolto.

Il pubblico – per quanto un po’ meno silenzioso dell’ultima volta – dimostra di essere certamente appassionato e, quando Fink dopo quella che ha annunciato come l’ultima canzone lascia il palco, ne richiede a gran voce il rientro, esprimendo anche dei desiderata per il bis (che ovviamente non possono tutti essere soddisfatti).

Dopo una scaletta (per la quale ringrazio Daniele Bianchini su RockNation) che ha visto eseguire le seguenti canzoni: We Watch the Stars, Pilgrim, What Would You Call Yourself, The Only Thing That Matters, Yesterday Was Hard On All Of Us, Berlin Sunrise, So We Find Ourselves, Follow You Down, One Last Gift, Sort of Revolution, Looking Too Closely, in cui si alternano brani del nuovo album, alcuni suoi classici e altre cose meno conosciute, nel bis Fink ci regala Warm shadow perché dice che sta partendo per la Sardegna e vuole lasciarci con una nota positiva. 

P.S. A questo giro, causa rottura dell'obiettivo della macchina fotografica, non ho potuto fare le foto che avrei voluto e, dunque, tocca accontentarsi di queste foto non proprio fantastiche!

Voto: 3,5/5

venerdì 6 settembre 2024

Touch

Si ricomincia la stagione cinematografica quando il cinema in Italia è ancora avaro di nuove uscite. In attesa che settembre porti con sé nuovi film interessanti, io e F. decidiamo di andare a vedere questo film del regista islandese Baltasar Kormákur, che si svolge a cavallo tra due paesi e due culture che apprezzo particolarmente, ossia l'Islanda e il Giappone.

Siamo nella primavera del 2022 quando tutto il mondo sta chiudendo i battenti di fronte all'avanzare della pandemia da Sars-Cov-2. Il protagonista Kristofer (Egill Ólafsson) è un uomo piuttosto avanti con gli anni che sa di andare incontro a una malattia neurologica degenerativa e a cui il medico consiglia di approfittare fino a quando è ancora lucido per sciogliere i nodi irrisolti della vita. È così che Kristofer decide di chiudere il suo ristorante e di partire alla ricerca di Miko, la ragazza giapponese che aveva conosciuto e di cui si era innamorato ai tempi in cui viveva a Londra e aveva deciso di abbandonare gli studi per lavorare in un ristorante giapponese.

Il presente in cui Kristofer lascia l'Islanda e va prima a Londra a cercare le tracce della donna amata e poi in Giappone a incontrarla si alterna alle immagini degli anni Settanta e alla storia di come l'allora giovane Kristofer (Palmi Kormákur, figlio del regista) conobbe la figlia del suo datore di lavoro (la modella e cantautrice Kôki) e se ne innamorò, ricambiato. Poi le cose non andarono come previsto, anche in seguito all'intervento del padre di Miko (genitore single dopo la morte della moglie nella tragedia del lancio della bomba atomica su Hiroshima), e Kristofer fece ritorno in Islanda, dove mise su famiglia, pur senza avere figli propri.

A poco a poco le fila del racconto vanno dipanandosi, aiutandoci a comprendere come la vita e il futuro di questi due giovani siano stati condizionati dal peso della storia, dall'ignoranza e dalla pressione sociale.

Il film di Kormákur è, in estrema sintesi, una storia d'amore che attraversa il tempo e lo spazio, e non posso negare che la delicatezza di fondo di questo racconto e dei suoi personaggi, sostenuta da scelte estetiche e di sceneggiatura coerenti, sia riuscita a toccare i miei sentimenti e mi abbia anche in parte commosso.

Touch non è un capolavoro, e soffre della semplificazione che il romanticismo inevitabilmente porta con sé nonché del tentativo - forse un tantino pretenzioso - di mettere insieme una storia d'amore con eventi ben più grandi della vita delle singole persone, ossia la bomba atomica e la pandemia. Anche la Londra degli anni Settanta e il ristorante giapponese in cui Kristofer lavorava mi hanno dato eccessivamente l'impressione di una ricostruzione da studio cinematografico con apposito color grading, una specie di sogno (che poi è forse una scelta voluta del regista che trasforma la realtà del passato filtrandola attraverso i ricordi del protagonista), ma tutto ciò toglie secondo me un po' di mordente alla forza dei sentimenti e alla verità della storia.

Però gli attori trasmettono empatia, la vicenda è delicata e trattata con amore da parte del regista, e dà allo spettatore la possibilità di rituffarsi nell'esperienza recente dello scoppio della pandemia che appare lontanissima nella nostra percezione ma in realtà risale a soli due anni e mezzo fa.

In conclusione, in assenza di capolavori in sala, mi sento di consigliare questo film, ché di sentimenti delicati ne abbiamo bisogno sempre.

Voto: 3/5


mercoledì 4 settembre 2024

Hypericon / Manuele Fior

Hypericon
/ Manuele Fior. Roma: Coconino Press, 2022.

Siamo negli anni Novanta. Teresa ha studiato archeologia ed è stata selezionata per un’importante posizione a Berlino, dove dovrà occuparsi dell’allestimento di una mostra sulla tomba di Tutankhamon. Per questo sta leggendo il libro nel quale l’archeologo Howard Carter racconta modi e tempi della emozionante scoperta della tomba, avvenuta nei primi anni Venti, dopo essere rimasta inviolata per millenni, e che nascondeva un tesoro straordinario.

Teresa è una ragazza che sa quello che vuole, è molto organizzata e nella vita procede come un treno verso i suoi obiettivi. L’arrivo a Berlino e l’incontro casuale con Ruben, un giovane che vive in una casa occupata e va in giro con un cappotto dell’armata russa, mentre il padre lo controlla da lontano e lo mantiene, saranno per Teresa l’occasione per ripensare al proprio percorso e fare i conti con una parte di sé.

Teresa e Ruben non potrebbero essere più diversi: tanto lei è responsabile, lineare, razionale e orientata al risultato, quanto lui è leggero, infantile, non focalizzato, istintivo. Il loro incontro è un colpo di fulmine, da cui inizia una storia d’amore non certo facile, minata dalle profonde differenze tra i due, e anche dall'insonnia cronica di Teresa che la rende spesso intrattabile.

Parallelamente alla storia tra Teresa e Ruben si sviluppa anche quella del ritrovamento della tomba, e le due storie confluiranno nell'allestimento della mostra e nel suo successo.

Manuele Fior, con la sua ormai quasi scontata ma non per questo meno ammirevole perizia, rievoca – quasi fosse un sogno - una stagione della vita, che è quella dei sogni e delle opportunità ma anche quella della definitiva perdita dell’innocenza e del passaggio all'età adulta, e che proprio per questo si tinge di una inevitabile malinconia. Un’età della vita che si rispecchia anche nella Berlino dell’epoca, città in pieno fermento e aperta a mille possibilità.

In un attimo siamo poi all'11 settembre 2001, a quel momento che con l’attentato alle torri gemelle segna la fine di un’epoca e un passaggio decisivo nei destini collettivi, nonché in quelli individuali di Teresa e Ruben.

Il titolo Hypericon fa riferimento ai fiori gialli che accomunano la storia di Teresa e Ruben e quella della tomba di Tutankhamon. È l’iperico che Ruben consiglia a Teresa per combattere la sua insonnia, nonostante quest’ultima non creda nei rimedi omeopatici, e sono i fiori di iperico quelli scolpiti sul sarcofago del re egizio, in quanto capaci di scacciare i demoni e condurre il defunto nell'aldilà senza ostacoli.

I graphic novel di Manuele Fior si leggono sempre con grande interesse e inevitabilmente si viene catturati dai suoi meravigliosi disegni e dalla sua perizia narrativa. Resta che – rispetto ad altre opere dell’autore – qui siamo dalle parti di quelle che, nella sua produzione, sono le piccole storie, vicende in parte autobiografiche, spesso piuttosto minimali, da cui Fior non vuole tirar fuori grandi universi concettuali ed epopee. E però, nel loro essere piccole, queste storie catturano, e in modi più o meno silenziosi toccano il cuore, riuscendo comunque a sollevarsi parecchio al di sopra rispetto a tutte quelle narrazioni a fumetti di tipo autobiografico-ombelicale di cui è piena la produzione italiana e non solo.

Voto: 3,5/5

lunedì 2 settembre 2024

V13. Cronaca giudiziaria / Emmanuel Carrère

V13. Cronaca giudiziaria / Emmanuel Carrère; postfazione di Grégoire Leménager; trad. di Francesco Bergamasco. Milano: Adelphi, 2023.

V13 è il primo libro di Emmanuel Carrère che leggo. Ne ho alcuni altri, ma non mi ero mai decisa, anche perché ne ho sempre sentito parlare in maniera ambivalente. Molti mi dicevano delle sue grandi qualità sul piano della scrittura, ma qualcuno lamentava il suo narcisismo, molto evidente quando parla di storie che lo riguardano in prima persona. Ebbene, penso che cominciare con V13 sia stata una scelta azzeccata, sebbene sostanzialmente fortuita.

Come dice il sottotitolo, V13 è una cronaca giudiziaria, quella del processo per gli attentati terroristici compiuti a Parigi venerdì 13 novembre 2015, per l'esattezza quello in parte fallito allo Stade de France, le uccisioni ai tavolini dei due ristoranti Le Carillon, in Rue Alibert, e Le Petit Cambodge, in Rue Bichat, e la strage al Bataclan dove era in corso il concerto degli Eagles of Death Metal. Per quasi un anno Emmanuel Carrère ha seguito il processo per conto del giornale L’Obs insieme ad altri giornalisti della stessa testata. I resoconti sono stati pubblicati settimanalmente sul giornale, poi Carrère li ha riordinati, parzialmente risistemati e organizzati nelle tre parti, Le vittime, Gli imputati, La corte, che compongono questo libro, pubblicato in Italia da Adelphi.

Quello di Carrère è al contempo un racconto fedele e attento delle fasi del processo, con un'attenzione non solo e non tanto ai fatti che emergono, ma anche alla ratio delle procedure, nonché un'occasione di conoscenza dei suoi protagonisti, vittime, familiari delle vittime, imputati, avvocati, giudici.

Se l'ondata emotiva è attesa e inevitabile quando si parla delle vittime e dei familiari delle vittime, e l'empatia per il loro dolore e l'orrore per quanto subito sono massime e immediate, colpisce ancora di più la capacità di Carrère di raccontare gli imputati, tra l'altro tutti pesci piccoli, a parte Salah Abdeslam che faceva parte del commando suicida e che non è chiaro perché non sia morto insieme agli altri. È evidente che in questo caso i sentimenti suscitati sono molto più ambivalenti, e l'empatia non solo non è scontata ma può risultare persino inopportuna; Carrère però non si sottrae al tentativo di comprendere, e anche in questo caso - sebbene sia necessario un salto razionale, nonché culturale - riusciamo se non a entrare nella testa di alcuni degli imputati, almeno a cogliere alcune storture e anomalie del procedimento, nonché a evitare l'approccio "noi/loro" che non è certamente la strada giusta da percorrere.

Nella terza parte, quella dedicata alle varie figure del processo, giudici, avvocati, pubblici ministeri ecc., Carrère fa un'operazione se vogliamo persino più ardita. Oltre a mostrarci le capacità e la bravura di alcuni di loro, ci aiuta a comprendere i meccanismi processuali e dunque il senso del lavoro di tutti coloro che sono coinvolti nel dibattimento, anche di quelli che difendono gli imputati, persino quelli apparentemente più indifendibili, nel presupposto che un processo - soprattutto uno di questa portata - ha anche un valore politico ed esemplare, e dunque la sentenza non è il risultato di un'operazione matematica, perché su di essa agiscono molti fattori sottili e immateriali.

Se dunque - come mi dicono - il difetto principale di Carrère è quello di rubare la scena agli altri personaggi delle sue storie con il suo essere ingombrante, in questo caso non si può dire altrettanto. Carrère quasi scompare a tutto vantaggio dei protagonisti della storia, soprattutto alcuni che nella sua esperienza sono risultati particolarmente determinanti, ad esempio tra i familiari delle vittime Georges Salines e Nadia Mondeguer, tra gli avvocati Negar Haeri e Xavier Nogueras.

V13 è una lettura al contempo devastante ed entusiasmante, per la maniera straordinaria in cui ci accompagna nei meandri della giustizia e delle sue imperfezioni (dovute al fatto che la passione riesce sempre a intrufolarsi nelle maglie del diritto), nonché nei misteri della mente umana, capace di profondissimi abissi e altissime vette, entrambi difficili da comprendere.

Voto: 4/5