La scelta del regista è originale, come del resto accade spesso per il suo cinema. Si tratta infatti di un romanzo piuttosto datato – risale al 1985 – e racconta del consumismo dilagante, incarnato simbolicamente dai grandi supermercati, e dell’affermarsi del “rumore bianco”, ossia quel sottofondo di suoni e immagini (provenienti primariamente dagli onnipresenti schermi televisivi) che risultano talmente pervasivi da non essere più percepiti come interferenti dalla mente umana.
Nello specifico, al centro del racconto c’è una famiglia allargata formata dal capofamiglia, Jack Gladney, professore universitario esperto di Hitler (Adam Driver), da sua moglie Babette, sempre con permanente perfetta (Greta Gerwig) – entrambi al quarto matrimonio – e quattro figli, tre dei matrimoni precedenti dell’uno o dell’altra e un figlio della coppia.
Il film si apre con una lezione universitaria di Murray (Don Cheadle), un collega di Jack che si occupa di figure mitiche ma apre la sua lezione parlando della componente divertente e di intrattenimento che è racchiusa nelle scene di incidenti automobilistici e disastri vari nel cinema americano. Questa intro ci dà già la cifra di quello che sarà il tono del racconto, in cui la componente grottesca e surreale risulta particolarmente presente.
Del resto l’evento che dà un’accelerazione al plot è proprio un incidente, quello tra un camion e un treno, che a seguito dell'esplosione della cisterna del primo produce una nube tossica pericolosa per gli esseri umani. Per questo la famiglia Gladney è costretta ad evacuare e ad affrontare giorni e notti fuori casa, mentre la paura della morte supera la dimensione individuale per diventare questione collettiva e sociale, fino a tornare prepotentemente a visitare i Gladneys con una serie di conseguenze imprevedibili.
Il film è costruito come un pastiche di generi: dalla commedia al thriller, dal disaster movie al grottesco, dal drammatico al romantico. Al centro di tutto questo c'è - costante - la paura della morte, condizione esistenziale dell'essere umano, che trova nella spinta consumistica una forma di esorcizzazione.
Gli attori sono bravi; si ride a più riprese, anche solo per scacciare un fondo di angoscia costante; a tratti il cervellotico e l'intellettualistico prendono il sopravvento; e la struttura narrativa - forse anche per la giustapposizione e la commistione dei generi - si fa un po' episodica.
Sicuramente non il film migliore di Baumbach, ma sempre apprezzabile.
Ho preso il biglietto di questo spettacolo attirata dalla scelta di affrontare un tema non semplice: gli abusi intrafamiliari. Non conoscevo la drammaturga nonché interprete Giuliana Musso che qui è in scena con Maria Ariis.
La Musso racconta la storia di una madre che scopre gli abusi del marito sulla figlia quando ormai è troppo tardi, parecchio tempo dopo che il marito è andato via di casa. E lo racconta mettendo in scena sé stessa e l’incontro con la donna che le chiede di costruire uno spettacolo a partire da questa storia.
Sulla scena un grande tappeto quadrato rosso - una specie di ring – i cui confini sono segnati da due file di sedie a destra e sinistra, sedie che durante le varie fasi dello spettacolo diventano sedute, intralci, simboli e vengono spostate in varie posizioni.
Insieme dunque alla Musso scopriamo a poco a poco la vicenda di questa famiglia, che ha già avuto un epilogo giudiziario (con l’archiviazione del caso) ma che nella vita di questa madre resta una ferita aperta e forse non rimarginabile. Attraverso i dialoghi tra queste due donne a poco a poco ci facciamo un’idea di quello che è accaduto: a tratti siamo Giuliana che interroga la madre per conoscere questa storia, che non capisce il perché di alcuni suoi comportamenti, che in parte la giudica e la rimprovera, e in parte empatizza e interiorizza il suo dolore; in altri momenti siamo questa madre – forse ingenua, o forse sopraffatta da una verità più grande di lei e che non può accettare – che combatte con sé stessa e con il proprio senso di colpa, che viene respinta con violenza dalla figlia che si è sentita abbandonata, che viene giudicata dagli altri e soprattutto da sé stessa per non essere stata in grado di comprendere, di impedire, di aiutare, di risolvere. È un dramma senza soluzione quello di questa madre e forse di tutte le madri che attraversano esperienze così terribili, qualcosa che forse solo il tempo, tanto tempo, è in grado di ricomporre molto parzialmente, restituendo alle protagoniste – madre e figlia – la possibilità di metabolizzare il dolore e la rabbia e di ricominciare a vivere.
Attraverso il dialogo tra la Musso e la madre emerge però anche tutto il contesto nel quale si muovono le vittime di tali abusi (e considero vittima la figlia, ma anche in qualche modo la madre): psicologi, educatori, avvocati, giudici, e mille altre figure talvolta in malafede, altre volte ciniche, spesso pavide o incapaci, in alcuni casi consapevoli ma impotenti di fronte a una giustizia che in questi casi è ancora più imperfetta del solito e che comunque non solo non attenua il dolore delle persone abusate, ma talvolta lo amplifica perché le costringe a rivivere l’abuso.
Lo spettacolo è tutto fuorché banale e prevedibile: un lavoro di cesello, di pulizia formale e sostanziale, un’operazione di ricerca della verità ma anche ricco di compassione non superficiale.
Dallo spettacolo della Musso si esce scossi, senza una seppur imperfetta via d’uscita o soluzione, ma certamente più consapevoli, meno giudicanti, più capaci di empatia, e quindi forse esseri umani migliori di quando siamo entrati. E se questo è vero non ci può essere risultato più alto a cui il teatro può tendere.
Sulla base di un incidentale commento di Matteo Bordone nel suo podcast (poi in realtà ho sentito anche la puntata in cui ne tesse le lodi) e anche basandomi sull’apprezzamento di precedenti suoi lavori come Il labirinto del fauno e La forma dell’acqua ho deciso di andare a vedere al cinema l’anteprima in lingua originale di Pinocchio, il film di animazione che il regista messicano ha deciso di dedicare all’immortale personaggio del libro di Carlo Collodi.
Si tratta di un film realizzato in stop-motion, con fondali spesso disegnati o digitali. Da un punto di vista della confezione è notevole, e la lettura che Del Toro dà di Pinocchio risulta fedele allo spirito del libro pur essendo una libera interpretazione e una rilettura della storia.
Il Pinocchio di Del Toro è la storia di una perdita e del dolore talmente inconsolabile di un padre da dargli la bizzarra idea di realizzare un surrogato in legno del figlio morto. Con lo zampino di forze magiche e ultraterrene, questo burattino riceve la vita, ma fin da subito e con tutta evidenza Pinocchio non è in nulla simile al figlio perduto: è indisciplinato, dispettoso, disobbediente e bugiardo, cosicché Geppetto rifiuta la sua stessa creatura. Le numerose vicissitudini di Pinocchio e la necessità di ritrovare Geppetto - scomparso misteriosamente - faranno maturare il burattino e faranno anche capire a Geppetto che non esistono copie di chi abbiamo perso, ma solo nuove “persone” da amare e che solo attraverso l’amore si può superare il dolore.
Nella reinterpretazione di Del Toro la storia di Geppetto e Pinocchio – narrata dal grillo parlante, aspirante scrittore - è ambientata in un non meglio identificato paesino durante gli anni dell’ascesa del fascismo, cosicché la loro vicenda diventa anche un monito antifascista e antimilitarista. E persino Lucignolo – nel libro compagno di marachelle di Pinocchio – diventa una debole vittima di un padre gerarca ma infine si riscatta rivendicando la propria autonomia.
Il risultato complessivo è alquanto buffo da molti punti di vista, e in modo particolare dal punto di vista linguistico: i personaggi parlano in inglese nella gran parte dei casi, salvo che qualche comprimario di tanto in tanto usa una frase o una parola in italiano, ovvero parla un inglese con un forte accento italiano. Non mancano – come nella più consolidata tradizione Disney – i pezzi cantati che fanno del film un vero e proprio musical d’animazione, non molto diverso da questo punto di vista da altri prodotti commerciali.
Ora, il punto forse sta proprio qui: sebbene il lavoro attinga al grande universo immaginifico del regista, da un autore come lui io mi sarei aspettata qualcosa di più, e dunque la sensazione finale è quella di un prodotto realizzato con grandissima maestria ma per quanto mi riguarda senza particolari guizzi. Poi forse - visto le lodi sperticate che ne leggo - mi è sfuggito qualcosa.
Sono andata a vedere questo spettacolo scritto e diretto da Davide Sacco e interpretato da Lino Guanciale e Francesco Montanari con molte speranze e aspettative. La presentazione dello spettacolo è intrigante: siamo nell'ufficio del Paul Veres, il proprietario di una fabbrica di armi, ereditata dal padre, che è noto come "l'uomo più crudele del mondo". Veres ha appuntamento con un giornalista di una piccola testata che ha il compito di intervistarlo e di capire meglio chi è quest'uomo schivo e riservato di cui si sanno pochissime cose.
Lo spettacolo si struttura dunque come un confronto tra due persone, delle quali apparentemente sono perfettamente chiari i ruoli: uno è l'intervistatore e l'altro l'intervistato, uno è l'uomo potente e ricco e l'altro un uomo normale. Man mano che il dialogo procede sembra evidente che tra i due si innesca una dinamica vittima-carnefice in cui il soggetto debole è il malcapitato giornalista.
A poco a poco però i ruoli si fanno molto più sfumati e anche le dinamiche risultano meno chiare di quanto non fossero apparse all'inizio. L'atteggiamento di Veres è sempre più estremo e trascina anche il giornalista su posizioni sempre meno miti, fino al colpo di scena finale.
Peccato che almeno per quanto mi riguarda il colpo di scena finale non sia affatto tale: molti passaggi del testo fanno intuire quello che apparentemente viene svelato solo alla fine. Ma magari questo è un aspetto anche trascurabile, tanto più che molta gente all’uscita dallo spettacolo dice che il colpo di scena è arrivato inaspettato.
Ci sono però numerose altre cose che non mi hanno convinto. Innanzitutto e paradossalmente la recitazione degli attori: Lino Guanciale ha una recitazione troppo impostata e poco naturale, cosicché in diversi momenti risulta poco credibile, e anche Francesco Montanari - che pure inizia con un approccio molto naturalistico - via via risulta sempre più sopra le righe. Vero è che probabilmente non è del tutto responsabilità degli attori ed è forse lo stesso testo a invitare a questo tipo di recitazione. Un testo che vuole essere psicologicamente e filosoficamente complesso, ma che personalmente ho trovato sostanzialmente banale e a tratti pretenzioso nel suo tentativo di dire qualcosa di nuovo sul rapporto tra bene e male e sulle dinamiche tra vittima e carnefice.
In definitiva ne sono rimasta delusa, il che mi dispiace molto soprattutto perché si tratta di una drammaturgia originale di un autore italiano interpretata da due validi attori.
Luca Guadagnino può piacere o non piacere, ma ha un indubitabile merito, quello di essere capace di fare film molto diversi tra di loro attingendo a narrazioni e storie di diversa origine, nonché di osare sempre un po' di più, pur rimanendo fedele a sé stesso.
In entrambi i casi al centro del racconto c'è la giovane Maren Yearly (nel film interpretata da Taylor Russell) e i suoi istinti cannibali incontrollabili. È a causa di episodi di cannibalismo che il padre di Maren deve continuamente spostarsi insieme alla figlia per non essere rintracciabile dalla polizia, fino a quando - all'ennesimo spostamento - il padre decide di abbandonare la figlia al suo destino, lasciandole sul tavolo solo una busta con dei soldi e il suo certificato di nascita.
Da qui inizia quello che è un vero e proprio racconto di formazione, dalla natura un po' horror, un po' splatter, un po' teen e un po' romantica. Maren incontra prima Sully (Mark Rylance), un altro cannibale che la introduce al "mondo dei cannibali", e poi Lee (Timothée Chalamet), anche lui un giovane cannibale che è però più consapevole del suo stato e ci ha fatto i conti, pur portandosi dietro grandi dolori e nodi irrisolti.
Maren e Lee si innamorano e condividono un viaggio on the road che porta entrambi a confrontarsi con il proprio passato e le proprie origini e Maren a intraprendere un percorso di crescita e di consapevolezza, fino alla difficile decisione finale, che sembra quasi segnare più o meno simbolicamente il passaggio all'età adulta. In questo percorso Maren dovrà fare i conti con la propria diversità e in qualche modo accettarla, con i dilemmi etici che si porta dietro, con la linea sottile che divide il bene dal male, con la difficoltà a essere compresi e il rischio di rimanere soli.
Il film di Guadagnino è ben diretto e ben recitato, e nel suo essere in qualche modo estremo e sopra le righe riesce a essere anche profondamente empatico e a suggerire molte riflessioni affatto scontate.
Con il teatro di Filippo Dini non ho un buon rapporto: la prima volta ero andata a vederlo attirata dalla presenza della Scommegna in Misery, poi ero stata incuriosita dalla messa in scena insieme a Valerio Binasco dell'opera The Spank di Hanif Kureishi. La prima volta già avevo avuto la sensazione di qualcosa di stonato ma non ci avevo fatto caso, la seconda volta sono uscita dal teatro decisamente delusa.
Quando dunque ho visto Il crogiuolo in programma al Quirino, avevo deciso di non andare a vederlo; poi il resoconto entusiasta della mia amica C. mi aveva convinto non solo a prendere i biglietti ma anche a trascinarmi dietro diverse amiche.
Ebbene - lo dico subito per evitare qualunque ambiguità - dopo questo spettacolo confermo che ho una specie di idiosincrasia nei confronti del modo di recitare di Filippo Dini, che in realtà si estende poi anche ad alcune scelte registiche. Insomma percepisco la mano di Dini su tutto lo spettacolo, e purtroppo c'è qualcosa in questa mano che non mi convince.
Ciò premesso, Il crogiuolo è uno spettacolo con tutti i crismi: un testo importante (quello di Miller in cui racconta della caccia alle streghe di Salem per denunciare alcuni dei meccanismi che l'America maccartista stava vivendo negli anni in cui scriveva), una scenografia minimale ma molto studiata, costumi molto belli, la musica suonata e cantata dal vivo, un grosso cast di attori, alcuni dei quali recitano due parti, una parziale attualizzazione della narrazione. Insomma non c'è dubbio sul fatto che ci siano tutti gli ingredienti per un grande spettacolo, ed effettivamente quello di Dini è uno spettacolo ambizioso come ormai a teatro se ne vedono pochi, e il pubblico lo premia mostrando un convinto apprezzamento.
Per quanto mi riguarda ho certamente apprezzato la scelta di riportare sul palco l'opera di Miller che personalmente non conoscevo e che - anche grazie alla sostanziale fedeltà al testo - mi è stata restituita nel suo spirito e senso originario (che poi a mio parere mostra qua e là qualche segnale di invecchiamento).
Mi è piaciuta anche molto la messa in scena e anche la capacità di immaginare in grande: penso alla scena del litigio e della "scalata" alla bandiera americana che visivamente ricordata la foto di Rosenthal nella quale i soldati americani issano la bandiera a Iwo Jima; o anche alla scena iniziale della danza tribale, nonché a diversi altri passaggi.
Ho amato molto la recitazione di Manuela Mandracchia, soprattutto nel ruolo di Elizabeth Proctor (interpreta anche il personaggio di Rebecca Nurse), ruolo nel quale riesce ad essere credibile, misurata ed empatica al contempo. Tanto più mi è saltata all'occhio la differenza con la recitazione altrui, che ho trovato molto urlata e sopra le righe: ora, è vero che stiamo parlando di una storia di isteria collettiva e che apprezzabilmente gli attori recitavano senza microfono, ma sinceramente avrei preferito una maggiore varietà di registri e toni. Così come non ho amato tanto la coloritura ironica che a diverse riprese viene introdotta nel dramma da vari personaggi, primo fra tutti lo stesso Proctor interpretato da Dini, ma anche altri personaggi, talvolta trasformati in macchiette. E questa tendenza a una specie di "dramedy" comincio a pensare che sia una caratteristica di Dini e delle sue opere.
Ho trovato infine un po' scontati e banali gli inserti musicali, che mi hanno dato l'impressione di essere lì più per ingraziarsi il pubblico che per aggiungere veramente qualcosa.
Tutto ciò detto, lo spettacolo - che dura 3 ore piene - riesce a tenere desti per tutta la sua durata, il che evidentemente vuol dire che - nonostante le mie perplessità - funziona e ottiene il risultato atteso, come dimostrano alla fine gli applausi convinti del pubblico, tra cui molti volti noti (Nanni Moretti, Rocco Papaleo e altri).
Alla fine dunque forse sono io che ormai ho verso Dini un po' lo stesso atteggiamento che ho verso Popolizio, ossia ci vedo l'effetto Jack Nicholson che ha smesso di essere un grande attore quando ha cominciato a gigioneggiare e a fare Jack Nicholson, risultando infine stucchevole ma non per questo meno amato dal pubblico.
Non avrei mai scoperto questo libro se non fosse stato per la brava libraia della libreria Skribi di Conversano, sempre prodiga di suggerimenti non scontati e di spunti interessanti.
La cronologia dell'acqua è il romanzo autobiografico di Lidia Yuknavitch, ma non vi aspettate qualcosa di banale e prevedibile. E non parlo solo della storia raccontata - e la vicenda umana della Yuknavitch è tutt'altro che banale - ma anche del modo in cui viene narrata. Vi dico solo che Lidia - come lei stessa racconta - viene da un corso di scrittura tenuto da un Ken Kesey non più giovanissimo (l'autore di Qualcuno volò sul nido del cuculo e di A volte una bella pensata), e tra i suoi colleghi (e poi anche amici) c'è Chuck Palahniuk. Anche solo con queste premesse è inevitabile aspettarsi che la scrittura di Lidia sia originale e fuori dagli schemi.
Il racconto si articola in brevi capitoli che non seguono necessariamente un ordine cronologico, anzi prende avvio dall'evento probabilmente più traumatico della vita della scrittrice, la morte in pancia di sua figlia, per poi andare alla ricerca delle sofferenze, delle gioie, dei dolori e delle strategie adottate dall'infanzia fino all'età adulta. Lidia ha un padre abusante, una madre alcolista e poco protettiva, una sorella che ama ma che va via di casa alla prima occasione, e soprattutto una grande passione: l'acqua, che attraverso il suo talento come nuotatrice le darà l'occasione di una borsa di studio per uscire dalla casa paterna. In quel momento però Lidia è a pezzi e finisce per sfasciarsi ulteriormente: droghe, alcol, matrimoni falliti, amori e sesso più o meno estremi, eccessi di vario genere, che le sottraggono anche le occasioni che la vita le offre. La scrittura - come l'acqua - attraversa tutti questi momenti, e nel leggere questo romanzo vediamo questa scrittura mimetizzarsi con lo stato d'animo della protagonista sia nel ritmo che nei costrutti, tra l'altro oscillando tra l'essere fortemente esplicita e l'essere profondamente riservata.
Saranno l'incontro con Andy prima e la nascita del figlio Miles dopo ad aiutarla a curare le proprie ferite, ad avere compassione verso sé stessa, a non autoinfliggersi sofferenze e punizioni, e a consentirle di ritrovare una centratura e un equilibrio, a loro volta certamente unici e originali, ma in cui Lidia ritrova sé stessa e riesce persino a dare un senso e a fare pace con il passato.
Quello della Yuknavitch è un libro sicuramente potente, e al di là del fatto che si siano vissute o meno esperienze così forti come le sue non è difficile empatizzare con la protagonista ed entrare in risonanza con i suoi stati d'animo. Per me questo effetto ha funzionato a fasi alterne: a volte mi sono sentita più coinvolta, altre volte più distante, ma non ho mai smesso di apprezzare la brutale sincerità con cui la scrittrice si dà in pasto al lettore.
Alla fine della lettura - come spesso mi accade nel caso dei libri autobiografici - mi chiedo dove attingerà a questo punto la sua scrittura; vero è che ci sono scrittori - vedi la Annie Ernaux - che hanno continuato a scrivere di vicende autobiografiche in tutti i loro libri senza ripetersi mai. Chissà se la Yuknavitch riuscirà a fare altrettanto.
Non conoscevo Roberto Mercadini, cesenate, classe 1978. Me ne hanno parlato la prima volta due amici che avevo incontrato per caso a un altro spettacolo teatrale, tessendomene le lodi e consigliandomi caldamente di andarlo a vedere presto dal vivo.
Me ne ero nel frattempo dimenticata. Poi, a distanza di mesi, la mia amica G. mi segnala tramite Facebook lo spettacolo di Mercadini sull'Orlando Furioso al Monk. Come sanno i lettori di questo blog, il Monk è un posto che mi piace molto e dunque non vedo occasione migliore per fare la conoscenza di Mercadini.
La sala del Monk è colma di gente, tra l'altro soprattutto persone più giovani di me, cosa che per un monologo sull'Orlando Furioso è piuttosto sorprendente e già la dice lunga su quello che mi aspetta.
Ebbene, lo spettacolo non mi delude da nessun punto di vista: Mercadini è simpatico e scoppiettante, oltre che bravissimo affabulatore, capace di rendere divertente - pur rimanendo fedelissimo alle fonti e arricchendo il racconto di moltissime informazioni di carattere storico, geografico, socio-antropologico e altro - la fantasmagorica storia raccontata da Ludovico Ariosto (che - come dice lui - a guardarla da vicino non è soltanto piena di fantasia e immaginazione, ma va oltre qualunque immaginazione, quasi fosse una storia scritta da qualcuno sotto acido).
Durante questa ora e mezza in cui Mercadini ci racconta non solo di Orlando/Rolando, ma anche di Bradamante, Ruggero, Astolfo e molti altri, ci si appassiona, si ride di cuore, ci si entusiasma e si impara, apprezzando persino i versi originali quando vengono recitati.
Di fronte a forme di narrazione come quella di Mercadini penso sempre che persone come lui sono gli epigoni degli aedi greci o dei cantastorie medievali, e che forse oggi come oggi - dopo una lunga fase in cui l'umanità si è affidata maggiormente alla parola scritta e stampata - ce n'è sempre più bisogno, visto che si sta tornando sempre di più alle storie raccontate oralmente, fors'anche a causa di una capacità e di un interesse decrescenti nei confronti della lettura, soprattutto di testi complessi.
Mercadini ci tiene incollati alle sedie, senza un attimo di cedimento, per un'ora e mezza e lo fa in maniera intelligente e non banale: se questo può essere un modo per dare una risposta alla crisi di concentrazione e attenzione che stiamo sperimentando negli ultimi tempi (e che ancora di più sperimentano i giovani) direi che la sua è decisamente un'opera meritoria. Certo, i libri per me alla fine restano imprescindibili e insostituibili, ma del resto non ci sarebbe Mercadini senza i libri che legge per preparare i suoi spettacoli.
Comunque d'ora in poi cercherò di seguire con costanza e attenzione le sue proposte.
L'ultimo film di Roberto Andò si situa al punto di confluenza tra una vicenda reale e un racconto di fantasia, e in questo punto di incontro riesce a dare vivacità ai dati reali e a rendere credibile la finzione.
La stranezza racconta del viaggio di Luigi Pirandello (interpretato da Toni Servillo) a Girgenti in occasione degli ottant'anni di Giovanni Verga, viaggio che avviene mentre lo scrittore attraversa un blocco creativo relativamente alla scrittura di Sei personaggi in cerca d'autore. E fin qui la storia vera.
Nella finzione del film di Andò, quando arriva nel suo paese natale Pirandello scopre che la sua balia è appena morta e dunque decide di occuparsi dei funerali: conosce così Sebastiano Vella (Valentino Picone) e Onofrio Principato (Salvatore Ficarra), titolari dell'agenzia di pompe funebri locale, ma anche appassionati di teatro, in procinto di mettere in scena il loro ultimo lavoro, con la partecipazione di molti abitanti del paese. È proprio osservando il rispecchiamento e gli intrecci multipli che si realizzano tra il microcosmo umano di Girgenti e la rappresentazione teatrale di Vella e Principato che Pirandello troverà una chiave di scrittura dell'opera che sta intessendo e che porterà in scena a Roma al Teatro Valle il 9 maggio del 1921.
Il film di Andò è una ricostruzione attenta e raffinata - a tratti persino calligrafica - della Girgenti dell'epoca. Gli attori sono tutti ben diretti, con un Servillo controllatissimo e Ficarra e Picone azzeccatissimi nel ruolo a loro assegnato, che oscilla tra il malinconico e il grottesco (e che a me personalmente ha ricordato alcune interpretazioni di Franco e Ciccio).
Il risultato è un film certamente ben fatto e gradevole alla visione, sebbene a me personalmente non abbia comunicato moltissimo, foss'anche solo a livello emotivo, se non vogliamo scomodare il piano intellettuale.
Alla maggior parte delle persone che conosco è piaciuto, quindi non so se a me è sfuggito qualcosa oppure semplicemente si tratta di un tipo di film che mi lascia tendenzialmente indifferente, perché alla fine dei conti lo percepisco talmente attento al piano formale da risultare artefatto e forse inutilmente concettuale. Voto: 3/5
Negli anni tra il 2014 e il 2016 la casa editrice italiana Bao publishing ha pubblicato una serie di albi contenenti le storie brevi disegnate da Bastien Vivès che erano uscite inizialmente sul suo blog.
Dopo Questioni di cuore (dedicato al tema dell'amore e dei sentimenti) e Family business (sull'inesauribile fonte di storie che è la famiglia), ho letto questo albo che è forse, tra i tre, quello che riguarda più da vicino l'autore, dal momento che ruota intorno al mondo del fumetto e dei fumettisti.
L'importanza di chiamarlo fumetto condivide con gli altri albi due caratteristiche: una formale, ossia la realizzazione di storie molto brevi, spesso basate sulla ripetizione dello stesso disegno mentre cambia la parte testuale, che è quella che determina la vera evoluzione narrativa; una sostanziale, ossia l'utilizzo di un tono ironico che sconfina spesso nel cinico e nel sarcastico.
In questo caso specifico, l'ironia talvolta feroce è rivolta nei confronti non solo dei fumettisti e del loro pubblico, ma anche e soprattutto nei confronti di sé stesso. Bastien Vivès si autorappresenta come un autore egocentrico e dispotico, incline a reazioni un po' sopra le righe di fronte a richieste e osservazioni da lui non condivise. In generale, il fumettista francese si prende molto in giro e forse in questo modo prende in giro indirettamente tutti coloro che nel mondo del fumetto - ma forse il discorso può valere ugualmente per altri contesti - si prendono molto sul serio o credono di essere al centro dell'universo, pur appartenendo a una nicchia tutto sommato piccola e con un impatto limitato.
Si ride molto, come sempre in questi albi, ma io ho anche sofferto molto soprattutto di fronte alla rappresentazione di sé che l'autore ci propone, legata come sono all'immagine di un ragazzone timido, introverso e sensibile, da cui non ti aspetti certe forme di ferocia e di cinismo.
La verità - e forse questo è quanto Vivès vuole comunicarci - è che bisogna smetterla di pretendere di conoscere gli autori delle storie solo perché ne siamo lettori, cosa che nel caso dei fumetti succede in modo particolare per la matrice spesso autobiografica che hanno, e rassegnarsi ad amare il prodotto senza idealizzare il realizzatore.
Nella stessa notte, quella appunto del 12, nel Dipartimento di Polizia giudiziaria di Grenoble si festeggia il pensionamento del capitano e il passaggio di consegne al nuovo e giovane capitano Yohan (Bastien Bouillon), mentre in un paesino della provincia Clara (Lula Cotton-Frapier) esce da casa di amiche per rientrare a casa dei suoi genitori e per strada incontra un uomo che le getta addosso della benzina e le dà fuoco.
Il capitano Yohan e la sua squadra si trovano dunque alle prese con un'indagine che ben presto si rivelerà piuttosto complessa: la giovane donna ha avuto diverse relazioni ed è stata oggetto di desiderio di molti uomini, e questo sembra autorizzare sia coloro che vengono interrogati sia gli stessi componenti della squadra di polizia a esprimere dei giudizi nei suoi confronti, mentre famiglia e amiche mostrano forme di reticenza e vergogna. Man mano che i potenziali sospetti aumentano ma nessuna prova determinante arriva a sciogliere i nodi dell'indagine, il capitano Yohan è sempre più coinvolto psicologicamente, così come il suo collaboratore Marceau (Bouli Lanners), alle prese con la separazione dalla moglie.
Il noir poliziesco di Dominik Moll è in realtà un'indagine sociologica e psicologica alla ricerca dei pregiudizi e del maschilismo che si nascondono e talvolta si palesano nelle pieghe della nostra società e delle insicurezze e fragilità che albergano nelle menti degli esseri umani.
I due personaggi che stanno al cuore di questo racconto sono il capitano Yohan e il poliziotto Marceau: del primo non sappiamo quasi nulla, solo che corre in bicicletta in un velodromo, vive da solo in una casa bella e ordinata, è di pochissime parole ed estremamente controllato; il secondo è sanguigno ed emotivo, sensibile al mondo e alla bellezza, ma anche profondamente fragile. Sono due facce della stessa medaglia, un ritratto bifacciale dell'uomo moderno in bilico tra il passato e il futuro.
Intorno a loro uomini meschini e violenti, manipolatori e superficiali, labili e infantili, e donne talvolta dolenti, altre volte inermi e complici. Sul versante femminile, le due figure alter ego di quelle maschili sono la giovane poliziotta che entra nel comando qualche anno dopo l'omicidio e la giudice che riapre il caso, due donne attente e determinate, la speranza che questo film - per altri versi sconfortante - ci lascia per il futuro.
Keeping two è uno dei graphic novel più acclamati tra quelli pubblicati nell'ultimo anno. Il suo autore Jordan Crane dice di averci lavorato per circa vent'anni.
Con queste premesse affrontare la lettura di Keeping two non può che creare un'inevitabile ansia da prestazione.
In realtà la storia raccontata da Crane è molto semplice e anche la sua sintesi: io scherzosamente la definirei una perfetta rappresentazione in formato fumetto di una condizione di ansia :-D
La storia è quella di una coppia che torna a casa dopo un viaggio in macchina nel traffico culminato in un litigio. Una volta a casa mentre lui lava i piatti lei va a fare la spesa. Il tempo dell'attesa si caratterizzerà per un'ansia crescente fino al ricongiungimento finale. Questa storia, tutto sommato scarna di eventi, si interseca con la storia parallela dei protagonisti del libro che i due stavano leggendo in macchina ad alta voce. A questi due livelli narrativi si sommano diversi altri livelli narrativi - a volte anche solo episodi o singole situazioni - che si riferiscono al passato, oppure sono proiezioni della mente di uno dei protagonisti sul futuro, fino ad arrivare all'ultima parte del fumetto che traduce in immagini i deliri di una mente in stato confusionale. Il tutto realizzato in tavole colorate sostanzialmente in scala di verde acido.
Nelle prime pagine la lettura risulta piuttosto destabilizzante, e più volte ci si trova a chiedersi chi sono i personaggi che vediamo agire e se quello che leggiamo è vero o immaginato. Poi a poco a poco il meccanismo narrativo si scopre e anche gli espedienti grafici adottati da Crane, in particolare la scelta di distinguere quello che avviene sul piano narrativo reale con vignette bordate con linea continua a differenza di tutto il resto (storia narrata nel libro, proiezioni, flashback ecc) che hanno il bordo sfrangiato. Chiaramente poi in che relazione sta ciò che vediamo nelle vignette col bordo sfrangiato con la storia principale sta al lettore comprenderlo, ma superate le prime difficoltà iniziali non dovrebbe essere impossibile riconoscere i bivi della storia e ricostruirne lo svolgimento.
Ciò detto, mi pare che il merito maggiore di questo graphic novel stia proprio nell'ardita costruzione narrativa e grafica, e nella capacità di tradurre in immagini disegnate condizioni mentali e percezioni. Perché poi a livello strettamente narrativo non mi pare - o almeno a me non è sembrato - che sia dirompente o indimenticabile.
Ma se volete farvene un'idea personale fate così: prendetelo in biblioteca, che tanto ci vogliono poche ore a leggerlo, e forse avete anche il tempo di rileggerlo nel tempo di un prestito, così se non vi piace non avrete speso soldi di cui pentirvi e se vi piace tantissimo lo potrete comprare.
Mi arriva per email tramite Miocinema un invito della Lucky Red per l'anteprima italiana di Tori e Lokita, l'ultimo film dei fratelli Dardenne. In sala non solo ci sono loro - arzilli e pimpanti nonostante l'età non più giovanissima - che ci raccontano alcuni aneddoti e curiosità relative al film, ma anche Paolo Taviani (di un'altra coppia di registi fratelli famosi), cui i Dardenne vanno subito a rendere omaggio.
Con Tori e Lokita i fratelli continuano ad accendere un faro sulla società belga e più in generale sulle ingiustizie della società contemporanea. Personalmente, sono uscita dalla sala pensando qualcosa del tipo "È tutto sbagliato. È tutto da rifare", ma sentendomi frustrata e impotente per l'inutilità di questo pensiero.
Qualcuno dice che i Dardenne fanno sempre lo stesso film: a me sinceramente non sembra vero. Non ho visto tutta la loro filmografia, ma anche solo pensando agli ultimi lavori mi pare che i temi siano numerosi e vari, e anche declinati in modi diversi, sebbene al centro ci siano sempre dilemmi morali importanti e senza risposte scontate. Di solito i registi lavorano per sottrazione, limitando al minimo le spiegazioni e le concessioni alla retorica, ma in alcune storie l'empatia e l'impatto emotivo sono più significativi, e sono i film che personalmente preferisco di più. Avevo amato a suo tempo Due giorni, una notte(anche grazie alla luminosa bellezza e bravura di Marion Cotillard), e devo dire che anche in questo ultimo film, forse più semplice ed esplicito sul piano narrativo, è riuscito a toccare corde profonde.
Tori (Pablo Schils) e Lokita (Joely Mbundu) sono due ragazzi di colore: il primo ha circa 11-12 anni, l'altra ne ha 18 o giù di lì. I due si presentano come fratelli e hanno certamente un legame molto forte, ma scopriremo solo più avanti la verità sul loro legame. Per entrambi la vita non è facile: Lokita viene ricattata dai neri che l'hanno portata in Europa e non riesce a mandare i soldi alla sua numerosa famiglia rimasta in Africa; entrambi spacciano per conto del cuoco di un ristorante italiano. Tori ha già i documenti, mentre Lokita è ancora impegnata nell'iter burocratico per ottenerli, e quando riceve l'ennesimo rifiuto decide di ottenerli illegalmente chiedendo aiuto al cuoco. Questo la costringerà a una discesa in uno stato di vera e propria schiavitù a servizio di una banda di coltivatori e spacciatori di marjiuana, condizione nella quale la sua unica forza e àncora di salvezza è Tori.
Non vi aspettate il lieto fine da un film dei Dardenne. Il loro sguardo - profondamente affettuoso e caldo nei confronti dei loro protagonisti - diventa invece ancora più disincantato e inflessibile nei confronti del mondo che li circonda, un mondo nel quale non sembra salvarsi nessuno né albergare quel minimo di umanità che ci si aspetterebbe o si auspicherebbe. Con questo racconto in cui la distinzione tra buoni e cattivi sembra quasi manichea e didascalica, i Dardenne - che certo sono ben consapevoli della complessità del mondo - probabilmente perseguono l'obiettivo di chiamare in causa gli spettatori, di non consentirgli di sentirsi a posto con la loro coscienza e di costringerli a mettersi in discussione interrogandosi sul nostro modo di porci rispetto a una società che con le sue stesse regole crea ingiustizie, disuguaglianze e sofferenze come quelle di Tori e Lokita.
Forse l'approccio dei Dardenne si è semplificato nel tempo, ma personalmente ne apprezzo l'impegno civile, ormai sempre più raro anche nel mondo del cinema.
Un'ultima cosa: la locandina italiana è disegnata da Manuele Fior (uno dei più bravi fumettisti italiani in circolazione), ed è molto interessante come operi per contrasto. Ci fa pensare a una fiaba spensierata rendendo l'effetto della visione del film ancora più dirompente.
Qualche tempo fa avevo visto su Internet una vignetta di Maicol e Mirco in cui ci sono due dei loro più tipici personaggi, l’analista e il paziente sul lettino, e quest’ultimo dice: “Vorrei solo essere felice come appaio su Internet, dottore”.
Ebbene, mi pare che questa vignetta di Maicol e Mirco esprime molto sinteticamente il tema centrale del romanzo breve di Vincenzo Latronico, che – come esplicitato fin dalla frase in esergo – è un esercizio narrativo di aggiornamento del romanzo Le cose di Georges Perec (che però io non ho letto).
I protagonisti di questo romanzo sono una giovane coppia, Tom e Anna, ritratti nel periodo della vita che li traghetta dai venti ai trent’anni. Si tratta di due creativi freelance che hanno deciso di vivere a Berlino, la città delle mille opportunità, alla ricerca di una vita perfetta, quella che tutti i giorni vediamo scorrere sui feed dei nostri social, e che è fatta di immagini nitide dai colori perfettamente abbinati secondo un’estetica che ormai accomuna – forse proprio per effetto dei social – tutto il mondo occidentale e anche oltre.
Tom e Anna sono giovani, innamorati, hanno un lavoro molto cool, vanno alle serate giuste, partecipano alle inaugurazioni di mostre ed eventi culturali, sono circondati di amici provenienti da tutto il mondo, sostengono le giuste cause, scelgono i caffè e i ristoranti più trendy, cucinano con ingredienti biologici e locali, fanno vacanze invidiabili mettendo in affitto il loro appartamento reso per l’occasione ancora più essenziale ed attraente.
Questa vita si specchia costantemente nelle immagini, nei video e nelle stories che i due pubblicano sui social e che ricevono centinaia di like dalla loro cerchia di amici e conoscenti.
Man mano che la loro vita perfetta va avanti Tom e Anna si accorgono però progressivamente del fatto che i loro sentimenti e il loro stato d’animo sono molto diversi da quelli che appaiono sui social, mentre a più riprese la noia fa capolino in una vita che invece vorrebbe essere sempre vissuta alla massima intensità, come se si fosse sempre in una pubblicità.
Contemporaneamente anche Berlino cambia, nuove generazioni si fanno spazio, i modelli si aggiornano e anche l’estetica non è più la stessa. Tom e Anna cercano nuovi stimoli altrove, prima a Lisbona – che gli appare la versione mediterranea e un po’ più decadente di Berlino – e poi in una Sicilia ideale e vagheggiata, ma molto diversa nella realtà.
Un’eredità darà nuova linfa alla progettualità dei protagonisti che dovranno necessariamente fare i conti con la differenza tra la vita reale e la sua proiezione su Internet.
Apparentemente, il libro di Vincenzo Latronico è un libro sulla generazione dei millennials (anche se mi pare che l’inizio della storia si collochi in una Berlino più risalente nel tempo) e sulla loro difficoltà a trovare un equilibrio tra vita vissuta e suo rispecchiamento nel panopticon dei social networks.
In realtà, si tratta di un libro che parla a tutti noi, o almeno a quelli che appartengono a un certo ambiente culturale e sociale, e che non potranno fare a meno di riconoscersi – in parte vergognandosi – in alcune delle idiosincrasie di Tom e Anna e in alcune delle forme della loro frustrazione. Dunque più che di una generazione mi sono fatta l’idea che il libro di Latronico parli di un’epoca, e lo fa in un modo per certi versi così puntuale e minuzioso da sembrare un trattato socio-antropologico piuttosto che un vero e proprio romanzo.
Leggo in varie recensioni che sul piano stilistico le scelte di Latronico sono volutamente ispirate al modo in cui Perec si approccia al romanzo Le cose a cui lo scrittore romano si ispira.
Personalmente mi ha colpito la totale assenza di dialoghi, il tono molto neutro e privo di giudizio della narrazione, la quasi inesistente contestualizzazione relazione dei protagonisti.
Al termine della lettura, che pure ho trovato molto interessante per le riflessioni che mi ha suscitato, mi è rimasta una sensazione di perplessità: non ero in grado di dire se il libro mi fosse effettivamente piaciuto oppure lo considerassi una mezza fregatura. Non avendo sciolto questo dubbio, mi mantengo su un giudizio intermedio, pur contenta tutto sommato di averlo letto.
Il nuovo film di Ruben Östlund sembra riprendere le fila dei suoi ultimi due lavori, Forza maggiore e The square, proseguendo nella sua personale indagine sulle contraddizioni dell'essere umano contemporaneo sia come individuo (tema primario di Forza maggiore) sia come parte della società (oggetto di The square). Ovviamente questa indagine non è condotta con lo sguardo oggettivo e asettico dello studioso, bensì con l'approccio irriverente e feroce di un cineasta che film dopo film sembra aver trovato nel linguaggio sarcastico e grottesco la sua cifra dominante.
Alle giurie di Cannes tutto questo sembra piacere molto, tanto che con Triangle of sadness Östlund ha fatto il bis della Palma d'Oro già ottenuta con The square.
Il film si articola in tre parti, che potrebbero anche essere considerati ciascuno un mediometraggio ma che sono collegati da una continuità narrativa. Nella prima è protagonista una coppia di modelli, Yaya (Charlbi Dean Kriek) e Carl (Harris Dickinson), che finiranno la serata con una discussione su chi debba pagare il conto del ristorante e in generale sui rapporti di forza tra di loro basati sul denaro. Nel secondo "episodio" i due sono su uno yacht per una crociera extralusso, circondati da ricconi di varia provenienza, con giornate che trascorrono tra richieste assurde al personale di bordo e sollazzi di vario genere, fino alla tempesta che ribalterà tutti gli equilibri e finirà tra il vomito e la merda, e gli annunci "socialisti" del capitano alcolizzato (Woody Harrelson). Nella terza parte i sopravvissuti al naufragio, tra cui la coppia protagonista, si ritrovano su un'isola apparentemente deserta, dove l'unica persona capace di procacciarsi e procacciare del cibo, ossia la responsabile delle pulizie dello yacht, finisce per dare ordini a tutti e diventare la leader della situazione.
Come già avevo osservato per The square, Ruben Östlund tende a essere un po' bulimico, e dunque anche se ritengo che qui il tema principale sia quello del potere (legato ovviamente ai soldi, ma non solo e non necessariamente), in realtà sul piatto c'è molto altro, una critica a tutto tondo alla decadenza della civiltà occidentale, che però a tratti sembra strabordare come la merda che esce dai water durante la tempesta.
Mi pare che Östlund cerchi in maniera sempre più marcata l'eccesso e punti a trascinare lo spettatore in una risata che è al contempo sfacciata e amara, non solo e non tanto perché i temi trattati, pur essendo trasformati in farsa sono drammatici e talvolta inquietanti, ma anche perché la catarsi dello spettatore è solo apparente, dal momento che il ribaltamento della realtà messo in scena dal regista funziona solo sullo schermo, ma non intacca minimamente la realtà.
In conclusione, non sono tanto alcune incongruenze narrative a lasciarmi perplessa (credo che possano essere accettabili in un film che non punta davvero a essere realistico), quanto la tendenza sempre più evidente di Östlund a calcare la mano, a pigiare il piede sull'acceleratore e a travolgere lo spettatore con un profluvio di input in cui ognuno evidentemente trova qualcosa di interessante, ma che forse manca di un vero centro.
Comunque un film che certamente non va persa l'occasione di vedere.
Negli ultimi anni ho un atteggiamento ambivalente verso Emma Dante: tanto mi risultano deludenti i suoi film quanto invece apprezzo le sue opere teatrali. Cosicché Pupo di zucchero, già rappresentato in diversi teatri italiani lo scorso anno (ma non a Roma), è stato fin subito sulla mia lista degli spettacoli da vedere a teatro quest'anno.
Come già con La scortecata, la regista siciliana attinge a un libro che è una vera e propria miniera di storie, e che ha ispirato moltissimi adattamenti in tanti linguaggi diversi, ossia Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile.
In questo caso la storia è perfetta per i giorni a ridosso del 2 novembre, perché è proprio dedicata al tema della memoria dei propri cari. Il protagonista (interpretato da Carmine Maringola) è un anziano che vive da solo e sta facendo lievitare l'impasto con cui preparerà come ogni anno il "pupo di zucchero", un dolce che nella tradizione palermitana viene realizzato appunto per i defunti e che qui si fonde con la tradizione napoletana del culto delle anime del purgatorio.
Durante questa preparazione il protagonista - che non nasconde il suo senso di solitudine - richiama alla memoria e "riporta in vita" frammenti di storie riguardanti i familiari che non ci sono più e che invece un tempo animavano la sua casa ormai vuota.
Vediamo così rivivere sul palco le tre sorelle con i loro canti e balli, il padre marinaio che a Marsiglia conosce e sposa la madre e la porta poi a Napoli, Pasqualino, un ragazzo di colore cresciuto come un figlio dai suoi genitori, la zia Rita ammazzata di botte dal suo compagno, il torero Pedro.
Tutti questi personaggi accendono il palcoscenico di suoni, colori, immagini e storie che riempiono di vita la notte dei morti e accompagnano il protagonista verso la giornata successiva, quella in cui andrà a rendere omaggio ai suoi cari al cimitero.
Lo spettacolo di Emma Dante racconta una storia che contiene tante storie, e lo fa nel suo modo speciale, che io apprezzo particolarmente: una scenografia minimale, in cui con pochissimi oggetti si stimola l'immaginazione dello spettatore e si creano mondi, un uso straordinario delle luci, fatte interagire con elementi della scena, dai vestiti di strass alla farina in aria, per creare effetti visivi molto affascinanti e di grande impatto emotivo, l'uso di canzoni tradizionali cantate dal vivo senza alcun accompagnamento che si mescolano e si sovrappongono alle parole, i cambi di ritmo con accelerazioni improvvise e frastornanti e rallentamenti che aiutano a sedimentare i contenuti.
Certo, il rischio è che la Dante - una volta trovata una formula di successo - la ripeta all'infinito o addirittura la carichi ulteriormente fino a renderla nel tempo stucchevole. Personalmente mi auguro che non accada e che lei sia capace di continuare a sorprenderci con nuove invenzioni e soluzioni sceniche. Voto: 4/5
Morbide guance / Natsuo Kirino; trad. di Antonietta Pastore. Vicenza: Neri Pozza, 2004.La scorsa estate, dopo l'ondata emotiva dovuta alla lettura di Americanah, ho deciso di spostarmi su un terreno di minore impatto emotivo e più adatto alla leggerezza (o presunta tale) della stagione, ossia il giallo.
Natsuo Kirino è diventata un nome noto ai lettori italiani dopo la pubblicazione del libro Le quattro casalinghe di Tokyo (che io però non ho letto), il cui successo ha convinto l'editore Neri Pozza a tradurre e dare alle stampe altri suoi lavori tra cui Morbide guance.
Il romanzo racconta la storia di Kasumi, una donna che a 18 anni è fuggita dalla sua casa di origine in un piccolo paese dell'Hokkaido per trasferirsi a Tokyo e cercare una nuova vita, lasciandosi alle spalle i propri genitori ignari di tutto. A Tokyo Kasumi a poco a poco si costruisce una vita, sposandosi infine con un tipografo, Michihiro, da cui ha due figlie. Morbide guance inizia però molto più avanti, nel bel mezzo della storia di passione travolgente che Kasumi sta vivendo con Ishiyama, un imprenditore con cui suo marito ha dei contatti di lavoro. Kasumi e Ishiyama progettano di abbandonare le loro famiglie per stare insieme, ma durante una breve vacanza in una casa che Ishiyama ha comprato proprio in Hokkaido e dove le loro due famiglie si trovano insieme, la figlia maggiore di Kasumi, Yuka, sparisce senza lasciare tracce.
Questo evento cambia completamente il corso degli eventi, e tutti coloro che in qualche modo ne sono stati investiti ne pagano più o meno dolorosamente le conseguenze. Kasumi in particolare non si dà pace e dopo quattro anni di ricerche vane continua a sperare di ritrovare sua figlia, a dispetto di tutte le apparenze, fondamentalmente perché non è venuta a patti con il suo senso di colpa. Nelle sue ultime ricerche sarà l'ex poliziotto Utsumi, che sa distare per morire a causa di un cancro allo stadio terminale, ad aiutarla nelle indagini e a provare con lei a comprendere la verità.
Il libro di Natsuo Kirino utilizza - come spesso accade nel genere giallo - l'espediente del caso di cronaca e delle indagini finalizzate a risolverlo come uno strumento per approfondire la psicologia dei protagonisti e le caratteristiche della società giapponese. Diversi flashback nella narrazione permettono di comprendere meglio le storie individuali e i punti di vista dei singoli personaggi, nonché di ricostruire i passaggi e le vicende che hanno portato ciascuno di loro al punto in cui lo incontriamo. Nonostante alcuni aspetti della narrazione risultino un pochino forzati (per esempio la comparsa in campo - quasi dal nulla - di Utsumi) e un'abitudine tutta giapponese a fornire solo delle parziali spiegazioni al mistero senza sciogliere completamente l'incertezza e il bisogno di sapere del lettore, il giallo appare ben scritto e appassionante, e riesce a gettare luce su molti aspetti della società giapponese, che in parte riconosciamo come vicini al nostro modo di sentire e al mondo che noi conosciamo, mentre in parte ci risultano estranei o comunque distanti dalla nostra esperienza. Dentro Morbide guance è sicuramente centrale il senso di colpa e la necessità di riscattarlo (vale per Kasumi, ma anche per Utsumi), ma si riconoscono molti altri spunti di riflessione: la spinta della società giapponese a preservare le apparenze, l'ipocrisia di un mondo che sa tutto ma fa finta di non sapere, l'ambizione professionale senza freni, la superficialità dei sentimenti, la contrapposizione tra uno strenuo moralismo e lo sdoganamento di ogni forma di perversione individuale, la distanza tra centro e periferia, così come tra città e piccoli paesi, il peso dei soldi, le piaghe sociali e molto altro.
Ne viene fuori un quadro fosco e pochissimo conciliante, a tratti quasi angosciante, in cui però si partecipa dei sentimenti potenti e contraddittori che animano protagonisti e comprimari, i quali - tutti - risultano vividi e interessanti agli occhi del lettore.
Sono andata a vedere questo spettacolo all’India perché la mia amica V. mi aveva parlato molto bene di RYF, la musicista Francesca Morello, che è una delle protagoniste di Tutto brucia, in quanto compositrice delle musiche ed esecutrice delle stesse dal vivo sul palco.
Lo spettacolo è liberamente ispirato alla tragedia greca di Euripide, le Troiane, che non molto tempo fa avevo visto in un allestimento abbastanza classico con l’interpretazione di Elisabetta Pozzi. Avevo dunque abbastanza presente la storia narrata da Euripide, ossia la caduta di Troia dopo una lunga guerra e la disperazione delle donne della città che sono circondate da distruzione e morte e saranno date come schiave ai vincitori.
In questo caso, la scelta della compagnia Motus (di cui non sapevo la lunga e affascinante storia, che vi invito a recuperare) è quella di affidare la narrazione a musica, scenografia e coreografie, riducendo al minimo le parole pronunciate dalle interpreti Silvia Calderoni e Stefania Tansini.
L’intento è quello di rappresentare una situazione quasi post apocalittica (una delle prime scene fa pensare alla sequenza delle scimmie in 2001 Odissea nello spazio). In questo palco buio, disseminato di carcasse e macerie, si aggirano come spettri due personaggi abbrutiti, impegnati in una specie di lotta per la sopravvivenza, attraversati da ondate di dolore incontenibile che si esprime primariamente in suoni e movimenti del corpo e che sono sottolineate e rafforzate dalle musiche e dalle parole quasi ipnotiche delle canzoni di RYF.
Ne viene fuori uno spettacolo che gioca soprattutto sull’impatto emotivo, facendo appello non tanto alla comprensione razionale, bensì alla visceralità delle sensazioni.
Il fatto è che io – pur apprezzando moltissimo le invenzioni scenografiche e coreografiche dello spettacolo e le musiche di RYF – sono un po’ resistente al lasciarmi andare senza razionalizzare, e dunque paradossalmente questo tipo di spettacolo mi suscita in parte l’effetto opposto a quello che vorrebbe, ossia mi crea una distanza e un senso di straniamento che accentuano la sensazione della finzione scenica.
Ma questo è un problema certamente mio, che nulla toglie alle scelte della compagnia e all’originalità dello spettacolo.
Varie persone mi avevano consigliato a più riprese di leggere questo libro. Come spesso mi accade, era rimasto sullo scaffale a lungo finché non è arrivato il momento giusto.
L'arte della gioia mi ha accompagnata in tutta l'ultima parte dell'estate fino alla ripresa della routine post-vacanziera.
La storia di questo libro, raccontata nella prefazione di Angelo Pellegrino e approfondita nella postfazione di Domenico Scarpa, è stata fortemente travagliata: il manoscritto è stato rifiutato nel tempo da numerosi editori italiani, e solo dopo essere stato pubblicato e aver avuto successo all'estero ha finalmente trovato anche in Italia uno spazio editoriale degno (dopo una prima edizione realizzata a sue spese dallo stesso Angelo Pellegrino). Sicuramente non è un libro facile: è corposo e ha un andamento classico, pur raccontando una storia che per molti versi ha dei fortissimi tratti di modernità. La sua autrice, Goliarda Sapienza, è stata a sua volta una figura controversa e discussa per le sue scelte di vita eccentriche e anticonformiste.
Insomma, l'Italia dell'epoca probabilmente non era pronta per un libro come questo, che invece si sta rivelando oggi un longseller apprezzato non solo dalle persone della mia età, ma anche da quelle delle generazioni successive alla mia.
La protagonista de L'arte della gioia è Modesta, una ragazzina siciliana di umile provenienza che dopo la morte della madre e della sorella cresce in un convento di suore, da dove - entrata nelle grazie di suor Leonora - alla morte di quest'ultima sarà trasferita nella villa dei Brandiforti. Qui non solo Modesta potrà proseguire nella sua formazione da autodidatta ma potrà avviare la sua scalata sociale che - grazie alla sua intelligenza e alla sua astuzia - la porterà a ereditare il ruolo di principessa. Seguiremo la vita di Modesta in tutte le sue fasi, scandite sul piano personale da amori per donne e uomini, figli ufficiali e non, sodalizi a vario titolo, e sul piano sociale da una partecipazione attiva o dietro le quinte alle principali vicende che scandiscono la storia dell'Italia nel Novecento e alla vita politica del paese, fino al carcere patito per il sospetto del suo sostegno a rivoluzionari e anarchici.
Modesta è un personaggio dissacrante, capace di mettere in discussione tutte le convenzioni sociali e i punti di vista tradizionali, per affermare delle verità basate sulla sua esperienza di donna veramente libera dai lacci della religione e della moralità. Una donna innamorata e affamata della vita, capace di trasfondere questo amore nelle persone che la circondano, ma anche di fare propri tutti gli insegnamenti utili che le arrivano dalle persone che incontra.
Quella di Modesta è una vera e propria epopea, in cui gli eventi e i personaggi sono talmente tanti e si snodano su un periodo talmente lungo, creando intrecci a volte imprevedibili, che il lettore (o almeno a me è successo) si perde talvolta in alcuni di questi meandri. Non è dunque una lettura sempre facile quella de L'arte della gioia: a volte trascina, altre volte respinge, altre ancora confonde.
Non v'è dubbio però che in questo libro alberghino pagine memorabili, così come sono sicura che il personaggio di Modesta è di quelli che rimangono scolpiti nella mente del lettore e destinati a diventare dei capisaldi della letteratura italiana. A sfregio perenne per gli editori e i critici letterari che non ne riconobbero l'eccezionalità, troppo bigotti e troppo chiusi nei loro piccoli mondi per capire qualcosa di così antico e moderno allo stesso tempo. Voto: 3,5/5
Rodrigo Sorogoyen è uno dei registi spagnoli più interessanti della sua generazione, uno capace di raccontare storie molto diverse tra loro (vicende individuali, drammi sociali ecc.) e di farlo con il medesimo livello di tensione emotiva, come si trattasse di veri e propri thriller. Dopo Il regno e Madre (entrambi visti a precedenti edizioni del Festival del cinema spagnolo e latinoamericano), quest'anno è la festa del cinema a darmi l'opportunità di vedere il suo ultimo film, As bestas (Le bestie).
Siamo in Galizia. Antoine (Dénis Menochet) e Olga (Marina Foïs) sono una coppia francese che da qualche anno ha deciso di trasferirsi in una fattoria nella montagna galiziana con un duplice obiettivo: coltivare la terra e venderne i prodotti, e ristrutturare case abbandonate per favorire un ripopolamento di una zona che gli abitanti storici stanno via via abbandonando. I loro vicini di casa, Xan (Luis Zahera) e Lorenzo (Diego Anido), vivono nella fattoria della madre, e insieme a lei si occupano principalmente dell'allevamento di animali, tra cui cavalli. La sequenza di apertura del film, che vede i due fratelli immobilizzare i cavalli per marchiarli, è potentissima (anche grazie a un sapiente uso dell'effetto slow motion) e lo diventerà ancora di più grazie al richiamo con un'altra scena che arriverà molto più avanti nel corso del film.
Il film di Sorogoyen racconta della difficile integrazione della coppia francese e soprattutto dell'ostilità che i due fratelli non perdono occasione per dimostrargli, in particolare da quando Antoine e Olga hanno votato contro l'installazione di pale eoliche nel territorio, cosa che Xan e Loren considerano la loro unica opportunità di abbandonare questa vita tra le montagne e gli animali.
Possiamo affermare che il film si articola in due parti molto nettamente distinte: della prima è protagonista soprattutto Antoine (e in generale le figure maschili), mentre nella seconda lo spazio è occupato dalle figure femminili, Olga in particolare, ma anche la figlia della coppia, e la madre dei fratelli.
As bestas mette in scena un dramma senza soluzione, nel quale si scontrano visioni del mondo irriducibili, in un'epoca di transizione nella quale la prospettiva verso la quale ci si muove appare ancora confusa, con tutte le conseguenze che questo comporta sulle vite dei singoli.
Ne esce un film di grande caratura, in cui si mescolano e si sovrappongono anche molti altri sottotemi (il rapporto con lo straniero, il confronto generazionale, il rapporto tra classi sociali, i rischi dell'ignoranza e quelli della superiorità intellettuale), tutti valorizzati da dialoghi di alto livello e da immagini all'altezza.
Bravo Sorogoyen. Voto: 4/5
*********************** Rheingold
Fatih Akin è un regista che da tempo tengo d'occhio per l'originalità del suo sguardo che si colloca al confine tra due culture (è turco-tedesco) e che - grazie a questo sguardo - riesce a posizionarsi in modo praticamente meticcio su molti fronti, compreso quello musicale e cinematografico.
In Rheingold quest'approccio che tanto appartiene ad Akin trova il suo soggetto ideale, ossia la figura del rapper Xatar (al secolo Giwar Hajabi), alla cui autobiografia il film è ispirato. Xatar (qui interpretato da Emilio Sakraya), curdo, figlio di un compositore e direttore d'orchestra, nasce nel bel mezzo del conflitto che il popolo curdo deve affrontare per difendere la propria terra e la propria esistenza, poi emigra insieme ai suoi genitori a Bonn, dove crescendo si accorge della sua marginalità e della necessità di imparare a stare sulla strada. Da qui Giwar, pur formato alla musica per volere dei genitori, imbocca la strada della criminalità diventando un vero e proprio gangster, fino al furto di un grosso carico di oro che lo condurrà nelle prigioni siriane, dove il film stesso comincia. Estradato in un carcere tedesco, sarà qui che Giwar coronerà il suo sogno musicale incidendo il suo primo disco per arrivare infine a creare un'etichetta discografica.
Fin qui è una storia che ha decisamente dell'incredibile ma che mantiene una sua compattezza. Fatih Akin ci mette del suo facendola esplodere in un roboante mix di generi che vanno dal film di guerra al dramma geopolitico a quello sociale, alla commedia, al poliziesco fino ad arrivare alla farsa e a tratti al quasi demenziale. Capite bene che non si può restare indifferenti di fronte a questo film, che trascina e sballottola lo spettatore in tutte le direzioni facendone polpette ma tenendolo attaccato alla sedia. A suo modo un divertissement che però si distingue da altri perché parla di una storia vera e perché dentro ci sono tanti temi che più seri non si può.
Faccio fatica a dire se mi sia piaciuto fino in fondo o no. Però non si può non ammirare la voglia e la capacità di Akin di osare oltre il limite del pensabile.
Voto: 3,5/5
*********************** Era ora
Sono andata a vedere questo film (e ci ho portato anche mio padre in visita a Roma per fargli assaporare l'atmosfera della festa del cinema) con grandi aspettative, dal momento che avevo molto amato Orecchie, il precedente lavoro di Aronadio. Sarà che le aspettative erano troppo elevate, ma devo dire che sono uscita abbastanza delusa dalla Sala Sinopoli, pur avendo partecipato con entusiasmo alla festa di presentazione del film al pubblico a cui era presente l'intero cast.
Aronadio si ispira al film Long story short di Josh Lawson, ed è tutto incentrato sulla tematica del tempo (cui normalmente io sono parecchio sensibile). Il protagonista, Dante (Edoardo Leo), arriva a una festa di capodanno in ritardo e bacia quella che crede essere la sua ragazza (in quanto indossa lo stesso vestito) e che è invece Alice (Barbara Ronchi). Con un salto temporale siamo al compleanno di Dante che ormai sta con Alice: i due sono impegnati con il trasloco nella casa dove stanno andando a vivere insieme. È il giorno del compleanno di Dante e, mentre lui è al lavoro, Alice sta organizzando una festa a sorpresa per la serata, festa a cui Dante arriverà in ritardo. Da qui in poi Dante si ritrova a vivere solo il giorno del suo compleanno, saltando da un anno all’altro senza rendersi conto di quello che accade nel frattempo.
Gli nasce una figlia, viene nominato direttore dell’agenzia di assicurazioni in cui lavora, la sua storia con Alice va in crisi, si mette insieme alla sua segretaria Francesca, il suo migliore amico si ammala, le condizioni di salute di suo padre peggiorano fino alla morte. Dante è completamente spaesato: la sua vita prende strade che lui nemmeno vorrebbe e lui è assorbito in un vortice da cui non riesce a uscire, né è in grado di rimettere insieme i pezzi della sua esistenza.
Capirà che l’unico modo per uscire da questo loop è rallentare fino a fermarsi per comprendere quali sono le cose realmente importanti.
La commedia romantica di Aronadio è ben scritta e ben recitata; ha ritmo e riesce a far ridere, sorridere e in parte anche a commuovere. Diciamo però che, a mio modesto avviso, risulta alla fine troppo didascalica nel suo essere a tesi, tra l’altro una tesi che non condivido fino in fondo: quando uno dei personaggi richiama una citazione che dice che non c’è ieri né domani, ma solo oggi, penso che non è affatto vero. E che l’oggi senza l’ieri e il domani è quasi nulla, come sa chi ha conosciuto da vicino qualcuno con l’Alzheimer. Noi siamo la nostra memoria e la nostra progettualità: non possiamo realmente vivere solo nel presente. Certo, quello che possiamo fare è non farci fagocitare dal passato e dal futuro ed essere il più possibile consapevoli di quello che rende davvero la nostra vita degna di essere vissuta, e che non è chissà quale scopo alto, bensì lo stare bene con noi stessi e con gli altri.
Insomma, film gradevole, ma Orecchie era un’altra cosa.
Bibliotecaria di professione, mescolo la passione per le biblioteche con mille altri interessi (cinema, musica, teatro, fotografia, letteratura, viaggi), cui cerco di dare spazio e sfogo in questo blog.
Per il nome di questo blog devo ringraziare le suggestioni del grande maestro Zygmunt Bauman e, in particolare, il suo libro "Homo consumens. Lo sciame inquieto dei consumatori e la miseria degli esclusi", sebbene a me lo sciame inquieto suggerisce anche qualcos'altro di più personale.