Tutto quello che resta di te è il film scritto, diretto e interpretato da Cherien Dabis, che racconta la storia di tre generazioni all’interno di una famiglia palestinese su un arco temporale che va dal 1948 agli anni recenti. La storia è narrata in prima persona da una Hanan ormai anziana (la stessa Cherien Dabis) a un interlocutore la cui identità verrà rivelata molto più avanti, e parte dalla morte del figlio di lei, Noor, ammazzato durante l’intifada del 1988 da un proiettile israeliano, per ritornare indietro nel tempo al 1948, quando il nonno di Noor, Sharif, viveva a Jaffa in una bella casa circondata da un agrumeto con la moglie e i figli, tra cui Salim, il marito di Hanan.
Con la fine del protettorato britannico e la nascita dello stato di Israele, a fronte di comportamenti sempre più aggressivi e intimidatori da parte dell’esercito israeliano, Sharif fa trasferire la famiglia altrove e, dopo essere finito lui stesso in un campo di prigionia, raggiunge la famiglia in Cisgiordania, dove stanno sorgendo campi profughi e poi nuovi insediamenti palestinesi. È qui che ritroveremo nel 1978 Salim, ormai adulto, sposato con Hanan, che vive insieme al padre Sharif ormai anziano, e ai figli tra cui Noor, che crescerà ribelle e combattivo come suo nonno, in contraddizione con l’animo conciliante di suo padre Salim.
Mi preme innanzitutto sottolineare che i ruoli degli uomini protagonisti di questa storia sono splendidamente interpretati da tre attori che fanno parte di una stessa famiglia palestinese, Mohammad, Saleh, Adam Bakri (il primo padre degli altri due), volti noti anche al pubblico italiano, in particolare Saleh.
La parte però più densa del film non è tanto quella storica – che pure ha un suo valore per aiutare a comprendere il punto di vista dei personaggi – bensì quella che segue la morte di Noor e che prova a riportare il conflitto a una dimensione di umanità che, in una vicenda come quella israelo-palestinese, sembra essere ormai completamente persa.
È proprio in questa dimensione - nella ricerca della comprensione, del dialogo, della compassione reciproca - che si percepisce l’impronta femminile su questo film, ed è probabilmente la cosa più forte che arriva allo spettatore.
Per il resto, il film mi è sembrato didascalico senza esserlo fino in fondo, informativo ma non abbastanza per dare tutti gli strumenti di comprensione allo spettatore, e un po’ troppo a tesi per poter raggiungere pienamente il suo scopo. Inoltre, sul piano più propriamente cinematografico, la ricostruzione mi ha fatto un po’ troppo l’effetto fiction. È un po’ la stessa cosa che mi era successa con il film della Cortellesi, anch’esso animato da buonissime intenzioni, ma secondo me un prodotto cinematografico per spettatori di bocca buona e non troppo sofisticati.
Non voglio fare la snob anche questa volta, ma non posso fare a meno di notare anche in questo film un livello di semplificazione che probabilmente è importante per raggiungere lo scopo e farsi capire dal grande pubblico, ma che io faccio fatica ad apprezzare.
Come ho sentito dire recentemente, è indubbio che i fatti esistono solo attraverso una narrazione, perché da soli sono come un dipinto senza tela. Quindi è giusto che i palestinesi e chi ha a cuore la loro causa costruiscano una propria narrazione, che forse fin qui è in parte mancata, lasciando lo spazio della narrazione dei fatti solo ad altri. È quindi fondamentale riportare i palestinesi al centro della narrazione, per non lasciare che la narrazione diventi monopolio altrui, ma è anche importante far crescere lo storytelling in qualità e complessità, per dargli spessore umano e storico.
Voto: 3/5
mercoledì 15 ottobre 2025
domenica 12 ottobre 2025
Una battaglia dopo l’altra = One battle after another
Con questo ultimo film, Una battaglia dopo l'altra, Paul Thomas Anderson torna ad attingere ai lavori di Thomas Pynchon, dopo averlo già fatto con Vizio di forma (Inherent vice) ispirato all'omonimo romanzo.
In questo caso è il soggetto ad arrivare dal romanzo Vineland di Pynchon, sebbene il regista americano introduca molte varianti e differenze nella storia.
Il richiamo al precedente film e alla matrice letteraria di entrambi è opportuno perché, secondo me c'è qualcosa che accomuna queste due pellicole, non tanto nella storia, quanto invece nel tono e in alcuni elementi stilistici.
Non v’è dubbio comunque che, con Una battaglia dopo l'altra, Anderson ribadisca di essere un regista eclettico, un vero artigiano della pellicola, che non ci sta a farsi ingabbiare in un genere, e che utilizza il suo mestiere per realizzare film anche molto diversi tra di loro. Lo aveva già dimostrato all'inizio della sua carriera quando era passato in sequenza da Boogie nights a Magnolia a Ubriaco d'amore per approdare a Il petroliere.
E proprio quando ci sembrava di poter inquadrare in maniera coerente la sua poetica (attenta alle manipolazioni nelle relazioni) e il suo stile (raffinato ed esteticamente impeccabile), Anderson ci ha sorpreso con un film incasinato e sopra le righe come Vizio di forma, e poi, dopo un nuovo lavoro molto paradigmatico del suo cinema – o di quello che pensavamo fosse il suo cinema - come Il filo nascosto ha virato verso una commedia buffa e un po' retro con Licorice pizza.
Ora, trovarsi di fronte a quello che almeno in apparenza è un vero e proprio action movie, con tanto di sparatorie e di inseguimenti in macchina, appare ancora più spiazzante, sebbene dentro questo action movie trovino posto sprazzi di molti altri generi in un pastiche riuscito e godibile.
Ma per Anderson la forma non è mai disgiunta dalla sostanza, e così, dentro questa confezione, Una battaglia dopo l’altra ci racconta la storia di un gruppo rivoluzionario armato di estrema sinistra, i French 75, e in particolare di Pat Calhoun (Leonardo Di Caprio) e della sua compagna Perfidia (Teyana Taylor). Quando Perfidia dà alla luce una bambina, Charlene, Pat vorrebbe una vita più tranquilla per dedicarsi alla famiglia, ma Perfidia non ci sta e abbandona entrambi per proseguire le sue azioni, fino alla sua cattura a opera dell’avversario di sempre, il colonnello Lockjaw (Sean Penn). Da qui un precipitare di eventi, che solo molti anni più avanti troveranno una spiegazione chiara e completa.
Intanto, il mondo intorno assomiglia sempre di più a una terrificante e tragica parodia – ma plausibile in un futuro non troppo lontano se le cose continueranno ad andare come stanno andando – della realtà nella quale viviamo, in cui il suprematismo bianco è sempre più estremo, sia nel suo essere violento che nel suo essere ridicolo, e pure i presunti rivoluzionari in fondo non sono da meno.
Il film mi ha completamente trascinata nel suo flusso per la sua intera durata (oltre due ore e quaranta), e, durante la visione, molte emozioni diverse si sono alternate: non sono mancati momenti comici, altri drammatici, altri adrenalinici. A differenza però di chi è uscito dal cinema con un seme di speranza, io ne sono uscita con un senso di disperazione, perché l’umanità che lotta mi è sembrata alla fine ben poca cosa - e spesso con enormi contraddizioni interne - rispetto a un sistema di potere sempre più autoritario, violento ed escludente che si va rafforzando, nonostante tutto.
Mi chiedo come se ne esca. Forse solo aspettando che gli eventi facciano il giro completo, ma non so a quale prezzo.
Voto : 3,5/5
In questo caso è il soggetto ad arrivare dal romanzo Vineland di Pynchon, sebbene il regista americano introduca molte varianti e differenze nella storia.
Il richiamo al precedente film e alla matrice letteraria di entrambi è opportuno perché, secondo me c'è qualcosa che accomuna queste due pellicole, non tanto nella storia, quanto invece nel tono e in alcuni elementi stilistici.
Non v’è dubbio comunque che, con Una battaglia dopo l'altra, Anderson ribadisca di essere un regista eclettico, un vero artigiano della pellicola, che non ci sta a farsi ingabbiare in un genere, e che utilizza il suo mestiere per realizzare film anche molto diversi tra di loro. Lo aveva già dimostrato all'inizio della sua carriera quando era passato in sequenza da Boogie nights a Magnolia a Ubriaco d'amore per approdare a Il petroliere.
E proprio quando ci sembrava di poter inquadrare in maniera coerente la sua poetica (attenta alle manipolazioni nelle relazioni) e il suo stile (raffinato ed esteticamente impeccabile), Anderson ci ha sorpreso con un film incasinato e sopra le righe come Vizio di forma, e poi, dopo un nuovo lavoro molto paradigmatico del suo cinema – o di quello che pensavamo fosse il suo cinema - come Il filo nascosto ha virato verso una commedia buffa e un po' retro con Licorice pizza.
Ora, trovarsi di fronte a quello che almeno in apparenza è un vero e proprio action movie, con tanto di sparatorie e di inseguimenti in macchina, appare ancora più spiazzante, sebbene dentro questo action movie trovino posto sprazzi di molti altri generi in un pastiche riuscito e godibile.
Ma per Anderson la forma non è mai disgiunta dalla sostanza, e così, dentro questa confezione, Una battaglia dopo l’altra ci racconta la storia di un gruppo rivoluzionario armato di estrema sinistra, i French 75, e in particolare di Pat Calhoun (Leonardo Di Caprio) e della sua compagna Perfidia (Teyana Taylor). Quando Perfidia dà alla luce una bambina, Charlene, Pat vorrebbe una vita più tranquilla per dedicarsi alla famiglia, ma Perfidia non ci sta e abbandona entrambi per proseguire le sue azioni, fino alla sua cattura a opera dell’avversario di sempre, il colonnello Lockjaw (Sean Penn). Da qui un precipitare di eventi, che solo molti anni più avanti troveranno una spiegazione chiara e completa.
Intanto, il mondo intorno assomiglia sempre di più a una terrificante e tragica parodia – ma plausibile in un futuro non troppo lontano se le cose continueranno ad andare come stanno andando – della realtà nella quale viviamo, in cui il suprematismo bianco è sempre più estremo, sia nel suo essere violento che nel suo essere ridicolo, e pure i presunti rivoluzionari in fondo non sono da meno.
Il film mi ha completamente trascinata nel suo flusso per la sua intera durata (oltre due ore e quaranta), e, durante la visione, molte emozioni diverse si sono alternate: non sono mancati momenti comici, altri drammatici, altri adrenalinici. A differenza però di chi è uscito dal cinema con un seme di speranza, io ne sono uscita con un senso di disperazione, perché l’umanità che lotta mi è sembrata alla fine ben poca cosa - e spesso con enormi contraddizioni interne - rispetto a un sistema di potere sempre più autoritario, violento ed escludente che si va rafforzando, nonostante tutto.
Mi chiedo come se ne esca. Forse solo aspettando che gli eventi facciano il giro completo, ma non so a quale prezzo.
Voto : 3,5/5
giovedì 9 ottobre 2025
Mia diletta / Marieke Lucas Rijneveld
Mia diletta / Marieke Lucas Rijneveld; trad. di Marco Cavallo. Roma: Nutrimenti, 2022.
Di Marieke Lucas Rikneveld avevo già letto Il disagio della sera e ne ero uscita scombussolata ma anche affascinata dalla capacità dellə scrittorə di raccontare situazioni, sentimenti ed emozioni così forti e talvolta disturbanti in modo poetico e al contempo vero, facendo emergere tutta la violenza dell'infanzia a fronte dello stereotipo buonista e zuccheroso a cui siamo abituati.
Con Mia diletta restiamo nello stesso contesto, quello della campagna olandese, divisa tra la cura degli animali da allevamento e il bigottismo profondo.
Protagonisti sono un uomo di mezza età, veterinario in una di queste comunità, e una ragazzina di 14 anni.
Il primo è sposato e ha dei figli, ma si porta dentro i traumi dell'infanzia vissuta con una madre abusante ed è cresciuto con l'innominabile e inammissibile passione per le bambine.
L'altra vive con il padre e un fratello più grande, dopo che un altro fratello è morto in un incidente stradale, falciato da un pirata della strada che è fuggito senza prestare soccorso, e la madre - vinta dal dolore - è andata via non si sa dove.
L'uomo sviluppa un'insana passione per questa ragazzina che si porta dietro enormi sensi di colpa e un vuoto incolmabile e che, tanto più a causa della sua fragilità e del senso di abbandono affettivo, viene completamente avviluppata in questa dinamica malata.
Forse non ricordavo perfettamente la sensazione provata leggendo il romanzo precedente, ma quando ho iniziato la lettura di Mia diletta sono stata letteralmente fagocitata nel flusso di coscienza del protagonista, una lingua senza quasi punteggiatura in cui si mescolano eventi, sogni, ricordi, allucinazioni, racconti.
La lettura si fa, pagina dopo pagina, sempre più faticosa emotivamente, una specie di discesa agli inferi da cui è impossibile chiamarsi fuori, e di cui non riusciamo a non subire in qualche modo il fascino e di cui sentiamo la poesia mossa dalla pietas.
Per tutto il tempo in cui ho letto Mia diletta ho continuato a fare incubi notturni, non direttamente correlati con la storia, ma certamente suscitati da emozioni rimestate dal romanzo. Devo ammettere che ho tirato un sospiro di sollievo quando sono arrivata all'ultima pagina perché le emozioni si facevano sempre più violente e insostenibili.
Ma non sono mai riuscita a decidere di abbandonare la lettura perché Marieke Rijneveld ha il potere, attraverso la sua scrittura, di attirarti a sé e di non mollare mai la presa.
Un secondo romanzo potentissimo, non adatto a moralisti e deboli di spirito, che ci costringe ancora una volta a fare i conti con le semplificazioni che spesso scegliamo per non affrontare la complessità e tutta la gamma che contiene e che va dell'orrore più indicibile alla poesia più pura.
Voto: 4/5
Di Marieke Lucas Rikneveld avevo già letto Il disagio della sera e ne ero uscita scombussolata ma anche affascinata dalla capacità dellə scrittorə di raccontare situazioni, sentimenti ed emozioni così forti e talvolta disturbanti in modo poetico e al contempo vero, facendo emergere tutta la violenza dell'infanzia a fronte dello stereotipo buonista e zuccheroso a cui siamo abituati.
Con Mia diletta restiamo nello stesso contesto, quello della campagna olandese, divisa tra la cura degli animali da allevamento e il bigottismo profondo.
Protagonisti sono un uomo di mezza età, veterinario in una di queste comunità, e una ragazzina di 14 anni.
Il primo è sposato e ha dei figli, ma si porta dentro i traumi dell'infanzia vissuta con una madre abusante ed è cresciuto con l'innominabile e inammissibile passione per le bambine.
L'altra vive con il padre e un fratello più grande, dopo che un altro fratello è morto in un incidente stradale, falciato da un pirata della strada che è fuggito senza prestare soccorso, e la madre - vinta dal dolore - è andata via non si sa dove.
L'uomo sviluppa un'insana passione per questa ragazzina che si porta dietro enormi sensi di colpa e un vuoto incolmabile e che, tanto più a causa della sua fragilità e del senso di abbandono affettivo, viene completamente avviluppata in questa dinamica malata.
Forse non ricordavo perfettamente la sensazione provata leggendo il romanzo precedente, ma quando ho iniziato la lettura di Mia diletta sono stata letteralmente fagocitata nel flusso di coscienza del protagonista, una lingua senza quasi punteggiatura in cui si mescolano eventi, sogni, ricordi, allucinazioni, racconti.
La lettura si fa, pagina dopo pagina, sempre più faticosa emotivamente, una specie di discesa agli inferi da cui è impossibile chiamarsi fuori, e di cui non riusciamo a non subire in qualche modo il fascino e di cui sentiamo la poesia mossa dalla pietas.
Per tutto il tempo in cui ho letto Mia diletta ho continuato a fare incubi notturni, non direttamente correlati con la storia, ma certamente suscitati da emozioni rimestate dal romanzo. Devo ammettere che ho tirato un sospiro di sollievo quando sono arrivata all'ultima pagina perché le emozioni si facevano sempre più violente e insostenibili.
Ma non sono mai riuscita a decidere di abbandonare la lettura perché Marieke Rijneveld ha il potere, attraverso la sua scrittura, di attirarti a sé e di non mollare mai la presa.
Un secondo romanzo potentissimo, non adatto a moralisti e deboli di spirito, che ci costringe ancora una volta a fare i conti con le semplificazioni che spesso scegliamo per non affrontare la complessità e tutta la gamma che contiene e che va dell'orrore più indicibile alla poesia più pura.
Voto: 4/5
martedì 7 ottobre 2025
Familiar touch
Vincitore del premio per la miglior regia nella sezione Orizzonti della Mostra del cinema di Venezia dello scorso anno, arriva finalmente in sala Familiar touch di Sarah Friedland.
Protagonista di questa storia è Ruth (la bravissima Kathleen Chalfant), una donna avanti con gli anni che – scopriremo presto – comincia a manifestare i primi segnali di una demenza senile. Incontriamo la prima volta Ruth mentre sta preparando la cena nella cucina della sua casa in attesa di Steve, che è suo figlio, anche se Ruth non si ricorda il suo nome e forse non ricorda nemmeno chi è o addirittura pensa che sia un suo spasimante.
Steve è venuto per accompagnare sua madre in una casa di riposo, dove la donna viene affidata alle cure del personale, in particolare l’infermiera Vanessa, e dei medici che operano presso la struttura.
Seguiremo dunque Sarah nelle sue giornate, senza assumerne il punto di vista come nel film The father con Anthony Hopkins, ma osservandola da vicino nelle sue fasi di serenità e in quelli di angoscia, nei brevi momenti di lucidità e in quelli di disconnessione con la realtà, o meglio di realtà alternativa nella quale si muove, come quando pensa di essere in hotel e chiede il menu al cameriere, quando si alza ed entra nella cucina della casa di riposo come se fosse la cucina nella quale lavorava, quando – mentre fa fisioterapia in piscina – rivive un momento dell’infanzia con la madre al mare, quando - assalita da pensieri confusi e paure – scappa dalla casa di riposo per tornare a casa.
Per chi ha vissuto accanto a una persona malata di Alzheimer e ha condiviso con lei le diverse fasi della malattia, questo film, pur nella delicatezza del racconto, è da un lato un pugno nello stomaco, perché fa rivivere quel senso di angoscia che inevitabilmente si trasmette anche ai caregiver, dall’altro un po’ pacifica e riconcilia con una malattia che in un certo senso va vista come un’altra normalità, una specie di normalità alternativa e parallela. Come dice a Ruth l’infermiera Vanessa, la questione è che la verità di Ruth non coincide con la verità del mondo esterno.
In questo senso, nel film della Friedland c’è moltissima verità nella rappresentazione di questa donna, e vogliamo sperare - da persone che non sanno cosa le aspetta nella vecchiaia ammesso che ci arrivino – che anche l’ambiente e le persone a cui questi anziani fragili e difficili da gestire vengono affidati siano attenti e amorevoli come quelli rappresentati nel film.
Non ne sono del tutto sicura, ma apprezzo in ogni caso moltissimo lo sforzo che il cinema sta facendo in questi ultimi anni nel rivolgere il proprio sguardo alla vecchiaia in una rappresentazione che è sempre più attenta e ampia, tenendo conto che si tratta di un’età della vita che riguarda un numero crescente di persone e che, nel corso del tempo, è cambiata in maniera significativa in termini di qualità e benessere, ma che inevitabilmente non è aliena da fragilità importanti con ricadute sul piano individuale e sociale.
Non un capolavoro, ma decisamente un gran film.
Voto: 3,5/5
Protagonista di questa storia è Ruth (la bravissima Kathleen Chalfant), una donna avanti con gli anni che – scopriremo presto – comincia a manifestare i primi segnali di una demenza senile. Incontriamo la prima volta Ruth mentre sta preparando la cena nella cucina della sua casa in attesa di Steve, che è suo figlio, anche se Ruth non si ricorda il suo nome e forse non ricorda nemmeno chi è o addirittura pensa che sia un suo spasimante.
Steve è venuto per accompagnare sua madre in una casa di riposo, dove la donna viene affidata alle cure del personale, in particolare l’infermiera Vanessa, e dei medici che operano presso la struttura.
Seguiremo dunque Sarah nelle sue giornate, senza assumerne il punto di vista come nel film The father con Anthony Hopkins, ma osservandola da vicino nelle sue fasi di serenità e in quelli di angoscia, nei brevi momenti di lucidità e in quelli di disconnessione con la realtà, o meglio di realtà alternativa nella quale si muove, come quando pensa di essere in hotel e chiede il menu al cameriere, quando si alza ed entra nella cucina della casa di riposo come se fosse la cucina nella quale lavorava, quando – mentre fa fisioterapia in piscina – rivive un momento dell’infanzia con la madre al mare, quando - assalita da pensieri confusi e paure – scappa dalla casa di riposo per tornare a casa.
Per chi ha vissuto accanto a una persona malata di Alzheimer e ha condiviso con lei le diverse fasi della malattia, questo film, pur nella delicatezza del racconto, è da un lato un pugno nello stomaco, perché fa rivivere quel senso di angoscia che inevitabilmente si trasmette anche ai caregiver, dall’altro un po’ pacifica e riconcilia con una malattia che in un certo senso va vista come un’altra normalità, una specie di normalità alternativa e parallela. Come dice a Ruth l’infermiera Vanessa, la questione è che la verità di Ruth non coincide con la verità del mondo esterno.
In questo senso, nel film della Friedland c’è moltissima verità nella rappresentazione di questa donna, e vogliamo sperare - da persone che non sanno cosa le aspetta nella vecchiaia ammesso che ci arrivino – che anche l’ambiente e le persone a cui questi anziani fragili e difficili da gestire vengono affidati siano attenti e amorevoli come quelli rappresentati nel film.
Non ne sono del tutto sicura, ma apprezzo in ogni caso moltissimo lo sforzo che il cinema sta facendo in questi ultimi anni nel rivolgere il proprio sguardo alla vecchiaia in una rappresentazione che è sempre più attenta e ampia, tenendo conto che si tratta di un’età della vita che riguarda un numero crescente di persone e che, nel corso del tempo, è cambiata in maniera significativa in termini di qualità e benessere, ma che inevitabilmente non è aliena da fragilità importanti con ricadute sul piano individuale e sociale.
Non un capolavoro, ma decisamente un gran film.
Voto: 3,5/5
sabato 4 ottobre 2025
The voice of Hind Rajab
Ed eccomi al film che ha suscitato scalpore e polemica al Festival del cinema di Venezia, dove per moltissimi avrebbe dovuto vincere il Leone d’oro al posto di quello di Jim Jarmusch; e qualcuno dice che anche all’interno della giuria ci sia stata molta conflittualità in proposito.
Per come la vedo io, i film si possono analizzare e valutare da due punti di vista: uno è quello più strettamente tecnico e cinematografico, l’altro è quello della forza narrativa e del significato. Secondo me, di solito accade che quando queste due cose sono entrambe riuscite e dialogano armonicamente tra di loro, siamo di fronte a un gran film, e – rare volte – a un capolavoro (parola ormai fortemente abusata).
Ci sono poi dei film che vengono realizzati in momenti storici particolari, nei quali il messaggio e la testimonianza del film assumono un significato prevalente, e in questi casi diventa difficile – soprattutto in questi tempi di polarizzazione spinta – esprimere un punto di vista più complessivo e che in parte prescinda dal significato del film. The voice of Hind Rajab si colloca esattamente in questa categoria.
Il film di Kaouther Ben Hania – che ha vinto comunque il Leone d’argento a Venezia – è un prodotto cinematografico che si colloca a metà strada tra un documentario e un film di finzione. Il film ricostruisce quanto avvenuto nella sala di controllo della Mezzaluna rossa (in pratica la Croce rossa palestinese) il 29 gennaio 2024, utilizzando le registrazioni originali degli audio. Prima arriva la telefonata di Liyan Hamada, una quindicenne di Gaza la quale è in macchina con la sua famiglia e la cugina di cinque anni Hind Rajab nel tentativo di spostarsi in un’altra zona della Striscia a seguito dell’ordine israeliano di evacuazione. L’auto subisce l’attacco di un carro armato israeliano che uccide Liyan dopo la prima telefonata; a quel punto è Hind Rajab a rimanere in contatto con gli operatori della Mezzaluna rossa per le successive tre ore, nel difficile tentativo – a causa dei vincoli e delle limitazioni imposti ai movimenti proprio da Israele e dalla conseguente, complessa burocrazia in cui si muovonp soggetti internazionali che operano nella zona - di far arrivare un’ambulanza in prossimità della macchina. Alla fine, sotto il fuoco dell’esercito israeliano non si salveranno né la bambina, né gli operatori dell’ambulanza nel frattempo arrivati sul luogo.
The voice of Hind Rajab, un po’ come il film No other land, è uno straziante documento storico, che rimane a testimonianza imperitura di quello che accade nella Striscia di Gaza, della disumanità e delle atrocità che vi avvengono quotidianamente da tempo, e non solo in questi ultimi mesi. È anche un film a suo modo equilibrato, che non cerca martiri ed eroi a tutti i costi, bensì è attento alla complessità dell’umano.
In questo senso, resta un film importante che tutti dovrebbero vedere, anche se – come già gli eventi hanno dimostrato – in un’epoca come la nostra, chi vuole interpretare questo film in maniera diversa e ricondurlo, in buona o in cattiva fede, alla propria visione del mondo, ci riesce in ogni caso.
Dall’altro punto di vista citato in principio di questa recensione, ossia quello strettamente cinematografico, non posso dire però che il film mi abbia colpito particolarmente. È un ottimo film, ben fatto e ben girato, che fa bene il suo lavoro, e che tiene molto ben in equilibrio documenti e finzione, ma in un modo che per me non è risultato del tutto sorprendente. Da questo punto di vista, avevo trovato No other land molto più dirompente, forse anche e proprio per la sua disomogeneità interna, per la varietà del ritmo e dell’approccio. Si tratta evidentemente di film completamente diversi, tra i quali non ha senso fare confronti. La mia è dunque in questo caso solo una preferenza cinematografica del tutto personale.
Voto: 3,5/5
Per come la vedo io, i film si possono analizzare e valutare da due punti di vista: uno è quello più strettamente tecnico e cinematografico, l’altro è quello della forza narrativa e del significato. Secondo me, di solito accade che quando queste due cose sono entrambe riuscite e dialogano armonicamente tra di loro, siamo di fronte a un gran film, e – rare volte – a un capolavoro (parola ormai fortemente abusata).
Ci sono poi dei film che vengono realizzati in momenti storici particolari, nei quali il messaggio e la testimonianza del film assumono un significato prevalente, e in questi casi diventa difficile – soprattutto in questi tempi di polarizzazione spinta – esprimere un punto di vista più complessivo e che in parte prescinda dal significato del film. The voice of Hind Rajab si colloca esattamente in questa categoria.
Il film di Kaouther Ben Hania – che ha vinto comunque il Leone d’argento a Venezia – è un prodotto cinematografico che si colloca a metà strada tra un documentario e un film di finzione. Il film ricostruisce quanto avvenuto nella sala di controllo della Mezzaluna rossa (in pratica la Croce rossa palestinese) il 29 gennaio 2024, utilizzando le registrazioni originali degli audio. Prima arriva la telefonata di Liyan Hamada, una quindicenne di Gaza la quale è in macchina con la sua famiglia e la cugina di cinque anni Hind Rajab nel tentativo di spostarsi in un’altra zona della Striscia a seguito dell’ordine israeliano di evacuazione. L’auto subisce l’attacco di un carro armato israeliano che uccide Liyan dopo la prima telefonata; a quel punto è Hind Rajab a rimanere in contatto con gli operatori della Mezzaluna rossa per le successive tre ore, nel difficile tentativo – a causa dei vincoli e delle limitazioni imposti ai movimenti proprio da Israele e dalla conseguente, complessa burocrazia in cui si muovonp soggetti internazionali che operano nella zona - di far arrivare un’ambulanza in prossimità della macchina. Alla fine, sotto il fuoco dell’esercito israeliano non si salveranno né la bambina, né gli operatori dell’ambulanza nel frattempo arrivati sul luogo.
The voice of Hind Rajab, un po’ come il film No other land, è uno straziante documento storico, che rimane a testimonianza imperitura di quello che accade nella Striscia di Gaza, della disumanità e delle atrocità che vi avvengono quotidianamente da tempo, e non solo in questi ultimi mesi. È anche un film a suo modo equilibrato, che non cerca martiri ed eroi a tutti i costi, bensì è attento alla complessità dell’umano.
In questo senso, resta un film importante che tutti dovrebbero vedere, anche se – come già gli eventi hanno dimostrato – in un’epoca come la nostra, chi vuole interpretare questo film in maniera diversa e ricondurlo, in buona o in cattiva fede, alla propria visione del mondo, ci riesce in ogni caso.
Dall’altro punto di vista citato in principio di questa recensione, ossia quello strettamente cinematografico, non posso dire però che il film mi abbia colpito particolarmente. È un ottimo film, ben fatto e ben girato, che fa bene il suo lavoro, e che tiene molto ben in equilibrio documenti e finzione, ma in un modo che per me non è risultato del tutto sorprendente. Da questo punto di vista, avevo trovato No other land molto più dirompente, forse anche e proprio per la sua disomogeneità interna, per la varietà del ritmo e dell’approccio. Si tratta evidentemente di film completamente diversi, tra i quali non ha senso fare confronti. La mia è dunque in questo caso solo una preferenza cinematografica del tutto personale.
Voto: 3,5/5
mercoledì 1 ottobre 2025
Da Venezia a Roma. Parte 2: A house of dynamite; Father, mother, sister, brother; A pied d’oeuvre;
Per la prima parte delle recensioni vedi qui.
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A house of dynamite
Kathryn Bigelow mancava all’appuntamento con il cinema da diversi anni e, almeno per quanto mi riguarda, Detroit mi era passato praticamente inosservato, mentre avevo visto e apprezzato The hurt locker e Zero Dark Thirty.
Con A house of dynamite la regista statunitense torna alle atmosfere proprio di quei film, raccontando con grandissima perizia registica e appoggiandosi a una sceneggiatura di tutto rispetto, un inizio di giornata nel quale gli Stati Uniti si accorgono che un missile – forse nucleare – partito dal Pacifico sta sorvolando il territorio statunitense e la sua traiettoria punta su Chicago.
Il pochissimo tempo che passa tra i minuti prima di questa scoperta e la durata del volo del missile è raccontato più volte, in una struttura narrativa ciclica e ricorsiva, dal punto di vista di diversi protagonisti che ruotano intorno alla Casa Bianca e agli apparati di sicurezza degli Stati Uniti.
Il ritmo è adrenalinico, sia nel tentativo di abbattere il missile mediante altri missili inviati da terra, sia nel processo decisionale che si muove intorno a questo evento e che coinvolge numerose persone, ma che alla fine converge su colui a cui spetta l’ultima parola, il Presidente, investito della scelta di contrattaccare senza avere la certezza che effettivamente l’evento sia un attacco né chi lo stia sferrando, o di attendere esponendosi all’opinione pubblica e alle conseguenze a livello globale dopo il disastro dell’impatto.
Non è la fine della storia che interessa alla Bigelow, ma – come le poche scritte all’inizio del film ci ricordano – la situazione di incertezza mondiale in cui il mondo intero è ricaduto quando la scelta di abbandonare i programmi atomici per un mondo più sicuro è stata messa da parte e il mondo è tornato a essere una “casa piena di dinamite”, pronta a esplodere in qualunque momento e non necessariamente per ragioni sensate.
Si esce col fiato corto dal film della Bigelow, con la testa piena di domande e il cuore pieno di paure, soprattutto perché sappiamo che in questo momento in molte parti del mondo molti dei leader che devono prendere le decisioni di fronte a situazioni di potenziale pericolo sono persone irresponsabili e prive di quella statura umana e morale che, tanto più in un momento delicato come questo, sarebbe necessaria.
Un film intrinsecamente e profondamente americano, che non piacerà a chi non ama questo stile, ma che dal mio punto di vista coglie nel segno, anche nella scelta del linguaggio.
Voto: 3,5/5
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Father, mother, sister, brother
Tre luoghi: il New Jersey, Dublino e Parigi. Tre famiglie: due figli (Adam Driver e Mayim Bialik) che vanno a trovare il padre (Tom Waits) il quale abita in una casa isolata che si affaccia su un laghetto tra i boschi; due figlie (Cate Blanchett e Vicky Krieps) che si ritrovano una volta all’anno per il te pomeridiano alla casa della madre (Charlotte Rampling); una sorella e un fratello gemelli (Indya Moore e Luka Sabbat) che, dopo la morte dei genitori, tornano insieme nella casa che avevano abitato insieme a loro e che nel frattempo è stata svuotata.
L’ultimo film di Jim Jarmusch, che ha vinto il Leone d’oro all’ultimo festival del cinema di Venezia, è strutturato dunque in tre episodi, in cui ci sono alcuni elementi che ricorrono (uno su tutti, la presenza di skaters che a un certo punto attraversano le strade percorse dai protagonisti, ma anche i brindisi con l’acqua, i colori degli abiti e altri dettagli), ma che sono narrativamente indipendenti l’uno dall’altro, sebbene con un tema di fondo comune: la famiglia, o – per essere più precisi – la negazione del luogo comune che i tuoi familiari sono quelli che ti conoscono meglio di tutti.
Perché la verità – sembra dirci Jarmusch, e io sono d’accordo con lui – è che in nessun contesto più che nella famiglia i rapporti tra le persone sono falsati dalle aspettative, dal pregiudizio, dall’immagine che ciascuno si è costruito dell’altro e che è difficile smontare senza mettere in discussione equilibri già fragili.
E tutto questo Jarmusch ce lo racconta con pennellate leggere, com’è nel suo stile, attraverso dialoghi il cui obiettivo non è quello di farci conoscere i dettagli, di spiegare, bensì solo di farci intuire, pensare, sorridere, sviluppare una forma di empatia.
Un film in sordina, dunque, che non so se è all’altezza del Leone d’oro, ma che merita di essere visto.
Voto: 3,5/5
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A pied d’oeuvre
Tratto dall’omonimo romanzo di Franck Courtès, il nuovo film di Valérie Donzelli, regista francese che ha già molti film all’attivo anche se personalmente non ne ho visti tanti, racconta la storia di Paul (il bravissimo Bastien Bouillon), ex fotografo di successo, con ex moglie e due figli, che ha deciso di abbandonare la professione di fotografo per fare lo scrittore e ha già pubblicato alcuni libri.
Pur ben accolti dalla critica, i libri però non gli garantiscono un introito sufficiente per una vita dignitosa; così Paul si iscrive su una piattaforma in cui domanda di lavoro e offerta si incontrano sul principio di chi offre di meno per svolgere il medesimo compito.
Paul si ritrova così a fare tanti lavoretti (smontare un soppalco, fare giardinaggio, svuotare una cantina, accompagnare in macchina qualcuno all’aeroporto), spesso faticosi fisicamente, ma che comunque non gli danno il sostentamento sufficiente e lo conducono sulla china della povertà, circondato da parenti e amici che non capiscono le sue scelte e non le condividono.
Nonostante tutto, e forse dopo aver toccato il fondo, riuscirà a scrivere un nuovo romanzo, A pied d’oeuvre appunto, che lo riporterà alla ribalta, ma nella consapevolezza ormai acquisita che nel mondo odierno non si vive di scrittura e forse non si vive nemmeno dei lavoretti che la società postcapitalista lascia cadere come briciole dalla sua tavola a vantaggio di un branco di cani affamati.
C’è una componente parzialmente consolatoria nella parte finale del film, che è quella che mi ha fatto scendere anche una lacrimuccia ma che forse ho anche trovato la parte meno appropriata.
Nondimeno il film di Valérie Donzelli (e il libro da cui è tratto) affronta con precisione e grazia il tema del lavoro nella società contemporanea, le storture di un sistema in cui – come dice il protagonista – il padrone non deve più preoccuparsi degli operai, perché ci sono molti altri meccanismi, ben più anonimi, che tengono questi ultimi in posizione di minorità e inferiorità. E così, il lavoro creativo torna a essere un lusso che, come in altre epoche storiche, solo pochissimi possono permettersi, a meno di non essere disponibili a un calvario come quello del protagonista di questo film.
Bravi i francesi che sanno ancora raccontare la nostra società in questo modo così brillante e chirurgico al contempo.
Voto: 3,5/5
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No other choice
Non sono una cultrice di Park Chan-Wook fin dalle origini, e ho perso alcuni dei suoi capolavori, quelli che hanno segnato un’epoca e l’inizio di un vero e proprio genere.
Da quando, dunque, lo seguo, mi sono trovata di fronte a versioni del suo cinema molto diverse le une dalle altre, da Mademoiselle a Decision to leave (quest’ultimo per me molto bello), e ora a questo No other choice, con cui si torna ai canoni del suo cinema più proprio.
Man-su (Byung-Hun Lee), il protagonista di questo racconto, ha una bella casa (la sua d’infanzia che ha riacquistato e ristrutturato), una moglie bella e fedele, un figliastro adolescente, una figlia più piccola con un talento per il violoncello, due labrador, e soprattutto un lavoro di caporeparto in un’azienda che produce carta, lavoro che ama molto e in cui ha raggiunto livelli di specializzazione elevati.
Tutto questo crolla in un sol colpo quando Man-su viene licenziato e la ricerca di un nuovo lavoro che possa valorizzare la sua specializzazione si rivela ben più difficile di quello che immagina.
Di fronte al rischio di vendere la casa e di perdere i suoi affetti, Man-su decide di giocarsi il tutto per tutto, eliminando a uno a uno i suoi più diretti concorrenti nella competizione per il nuovo lavoro.
No other choice è tratto dal libro The ax di Donald E. Westlake del 1997, quindi un romanzo che – soprattutto in riferimento al mondo del lavoro che è quello su cui si focalizza – si potrebbe considerare ormai datato e che però Park Chan-Wook riesce a mantenere in bilico tra temi universali e senza tempo e affondi nel presente della società sudcoreana e più in generale del mondo occidentale.
Ovviamente lo fa a suo modo, scegliendo il linguaggio del grottesco, del pulp, dell’ironia, del nonsense, dell’accumulazione, il che produce un film a tratti strabordante, che ci rimanda indietro un mondo che in parte ci appare un po’ estraneo, ma che per altri versi ci restituisce – sebbene esasperati – i tratti della nostra realtà e della nostra contemporaneità.
Non esattamente il mio genere di film, ma un film che non passa e non passerà inosservato.
Voto: 3,5/5
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Kathryn Bigelow mancava all’appuntamento con il cinema da diversi anni e, almeno per quanto mi riguarda, Detroit mi era passato praticamente inosservato, mentre avevo visto e apprezzato The hurt locker e Zero Dark Thirty.
Con A house of dynamite la regista statunitense torna alle atmosfere proprio di quei film, raccontando con grandissima perizia registica e appoggiandosi a una sceneggiatura di tutto rispetto, un inizio di giornata nel quale gli Stati Uniti si accorgono che un missile – forse nucleare – partito dal Pacifico sta sorvolando il territorio statunitense e la sua traiettoria punta su Chicago.
Il pochissimo tempo che passa tra i minuti prima di questa scoperta e la durata del volo del missile è raccontato più volte, in una struttura narrativa ciclica e ricorsiva, dal punto di vista di diversi protagonisti che ruotano intorno alla Casa Bianca e agli apparati di sicurezza degli Stati Uniti.
Il ritmo è adrenalinico, sia nel tentativo di abbattere il missile mediante altri missili inviati da terra, sia nel processo decisionale che si muove intorno a questo evento e che coinvolge numerose persone, ma che alla fine converge su colui a cui spetta l’ultima parola, il Presidente, investito della scelta di contrattaccare senza avere la certezza che effettivamente l’evento sia un attacco né chi lo stia sferrando, o di attendere esponendosi all’opinione pubblica e alle conseguenze a livello globale dopo il disastro dell’impatto.
Non è la fine della storia che interessa alla Bigelow, ma – come le poche scritte all’inizio del film ci ricordano – la situazione di incertezza mondiale in cui il mondo intero è ricaduto quando la scelta di abbandonare i programmi atomici per un mondo più sicuro è stata messa da parte e il mondo è tornato a essere una “casa piena di dinamite”, pronta a esplodere in qualunque momento e non necessariamente per ragioni sensate.
Si esce col fiato corto dal film della Bigelow, con la testa piena di domande e il cuore pieno di paure, soprattutto perché sappiamo che in questo momento in molte parti del mondo molti dei leader che devono prendere le decisioni di fronte a situazioni di potenziale pericolo sono persone irresponsabili e prive di quella statura umana e morale che, tanto più in un momento delicato come questo, sarebbe necessaria.
Un film intrinsecamente e profondamente americano, che non piacerà a chi non ama questo stile, ma che dal mio punto di vista coglie nel segno, anche nella scelta del linguaggio.
Voto: 3,5/5
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Tre luoghi: il New Jersey, Dublino e Parigi. Tre famiglie: due figli (Adam Driver e Mayim Bialik) che vanno a trovare il padre (Tom Waits) il quale abita in una casa isolata che si affaccia su un laghetto tra i boschi; due figlie (Cate Blanchett e Vicky Krieps) che si ritrovano una volta all’anno per il te pomeridiano alla casa della madre (Charlotte Rampling); una sorella e un fratello gemelli (Indya Moore e Luka Sabbat) che, dopo la morte dei genitori, tornano insieme nella casa che avevano abitato insieme a loro e che nel frattempo è stata svuotata.
L’ultimo film di Jim Jarmusch, che ha vinto il Leone d’oro all’ultimo festival del cinema di Venezia, è strutturato dunque in tre episodi, in cui ci sono alcuni elementi che ricorrono (uno su tutti, la presenza di skaters che a un certo punto attraversano le strade percorse dai protagonisti, ma anche i brindisi con l’acqua, i colori degli abiti e altri dettagli), ma che sono narrativamente indipendenti l’uno dall’altro, sebbene con un tema di fondo comune: la famiglia, o – per essere più precisi – la negazione del luogo comune che i tuoi familiari sono quelli che ti conoscono meglio di tutti.
Perché la verità – sembra dirci Jarmusch, e io sono d’accordo con lui – è che in nessun contesto più che nella famiglia i rapporti tra le persone sono falsati dalle aspettative, dal pregiudizio, dall’immagine che ciascuno si è costruito dell’altro e che è difficile smontare senza mettere in discussione equilibri già fragili.
E tutto questo Jarmusch ce lo racconta con pennellate leggere, com’è nel suo stile, attraverso dialoghi il cui obiettivo non è quello di farci conoscere i dettagli, di spiegare, bensì solo di farci intuire, pensare, sorridere, sviluppare una forma di empatia.
Un film in sordina, dunque, che non so se è all’altezza del Leone d’oro, ma che merita di essere visto.
Voto: 3,5/5
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Tratto dall’omonimo romanzo di Franck Courtès, il nuovo film di Valérie Donzelli, regista francese che ha già molti film all’attivo anche se personalmente non ne ho visti tanti, racconta la storia di Paul (il bravissimo Bastien Bouillon), ex fotografo di successo, con ex moglie e due figli, che ha deciso di abbandonare la professione di fotografo per fare lo scrittore e ha già pubblicato alcuni libri.
Pur ben accolti dalla critica, i libri però non gli garantiscono un introito sufficiente per una vita dignitosa; così Paul si iscrive su una piattaforma in cui domanda di lavoro e offerta si incontrano sul principio di chi offre di meno per svolgere il medesimo compito.
Paul si ritrova così a fare tanti lavoretti (smontare un soppalco, fare giardinaggio, svuotare una cantina, accompagnare in macchina qualcuno all’aeroporto), spesso faticosi fisicamente, ma che comunque non gli danno il sostentamento sufficiente e lo conducono sulla china della povertà, circondato da parenti e amici che non capiscono le sue scelte e non le condividono.
Nonostante tutto, e forse dopo aver toccato il fondo, riuscirà a scrivere un nuovo romanzo, A pied d’oeuvre appunto, che lo riporterà alla ribalta, ma nella consapevolezza ormai acquisita che nel mondo odierno non si vive di scrittura e forse non si vive nemmeno dei lavoretti che la società postcapitalista lascia cadere come briciole dalla sua tavola a vantaggio di un branco di cani affamati.
C’è una componente parzialmente consolatoria nella parte finale del film, che è quella che mi ha fatto scendere anche una lacrimuccia ma che forse ho anche trovato la parte meno appropriata.
Nondimeno il film di Valérie Donzelli (e il libro da cui è tratto) affronta con precisione e grazia il tema del lavoro nella società contemporanea, le storture di un sistema in cui – come dice il protagonista – il padrone non deve più preoccuparsi degli operai, perché ci sono molti altri meccanismi, ben più anonimi, che tengono questi ultimi in posizione di minorità e inferiorità. E così, il lavoro creativo torna a essere un lusso che, come in altre epoche storiche, solo pochissimi possono permettersi, a meno di non essere disponibili a un calvario come quello del protagonista di questo film.
Bravi i francesi che sanno ancora raccontare la nostra società in questo modo così brillante e chirurgico al contempo.
Voto: 3,5/5
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Non sono una cultrice di Park Chan-Wook fin dalle origini, e ho perso alcuni dei suoi capolavori, quelli che hanno segnato un’epoca e l’inizio di un vero e proprio genere.
Da quando, dunque, lo seguo, mi sono trovata di fronte a versioni del suo cinema molto diverse le une dalle altre, da Mademoiselle a Decision to leave (quest’ultimo per me molto bello), e ora a questo No other choice, con cui si torna ai canoni del suo cinema più proprio.
Man-su (Byung-Hun Lee), il protagonista di questo racconto, ha una bella casa (la sua d’infanzia che ha riacquistato e ristrutturato), una moglie bella e fedele, un figliastro adolescente, una figlia più piccola con un talento per il violoncello, due labrador, e soprattutto un lavoro di caporeparto in un’azienda che produce carta, lavoro che ama molto e in cui ha raggiunto livelli di specializzazione elevati.
Tutto questo crolla in un sol colpo quando Man-su viene licenziato e la ricerca di un nuovo lavoro che possa valorizzare la sua specializzazione si rivela ben più difficile di quello che immagina.
Di fronte al rischio di vendere la casa e di perdere i suoi affetti, Man-su decide di giocarsi il tutto per tutto, eliminando a uno a uno i suoi più diretti concorrenti nella competizione per il nuovo lavoro.
No other choice è tratto dal libro The ax di Donald E. Westlake del 1997, quindi un romanzo che – soprattutto in riferimento al mondo del lavoro che è quello su cui si focalizza – si potrebbe considerare ormai datato e che però Park Chan-Wook riesce a mantenere in bilico tra temi universali e senza tempo e affondi nel presente della società sudcoreana e più in generale del mondo occidentale.
Ovviamente lo fa a suo modo, scegliendo il linguaggio del grottesco, del pulp, dell’ironia, del nonsense, dell’accumulazione, il che produce un film a tratti strabordante, che ci rimanda indietro un mondo che in parte ci appare un po’ estraneo, ma che per altri versi ci restituisce – sebbene esasperati – i tratti della nostra realtà e della nostra contemporaneità.
Non esattamente il mio genere di film, ma un film che non passa e non passerà inosservato.
Voto: 3,5/5
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