Trilogia della pianura: Canto della pianura, Crepuscolo, Benedizione / Kent Haruf, trad. di Fabio Cremonesi. Milano: Enne Enne Editore, 2015.
In Canto della pianura Kent Haruf racconta la storia di Tom Guthrie, un insegnante con una moglie depressa, Ella, che a un certo punto va a vivere a Denver dalla sorella, e due figli di 9 e 10 anni, Ike e Bobby. A scuola ha un problema con uno studente spaccone, Russel Beckam, ed è amico, e poi amante, di un’altra insegnante, Maggie Jones. Quest’ultima è colei che mette in contatto Victoria Roubideaux, una ragazza diciassettenne che è rimasta incinta, con i fratelli Raymond e Harold McPheron, due allevatori che la accolgono in casa.
In Crepuscolo, il secondo volume della trilogia, Victoria Roubideaux si sta trasferendo con la figlia all’Università, lasciando così la casa dei fratelli McPheron. Dopo la morte di Harold, Raymond resta da solo e finirà per innamorarsi di Rose Tyler, una donna che lavora per i servizi sociali. Questa sta seguendo il caso della famiglia Wallace, genitori e due figli, che vivono in una roulotte e devono fare i conti con il loro violento zio Hoyt Raines. Il piccolo DJ invece si prende cura del nonno, mentre Mary Wells, che è stata lasciata dal marito e si occupa da sola delle due bambine, Dena ed Emma, attraversa una fase di depressione.
Infine, nel terzo libro della Trilogia, Benedizione, il vecchio Dad Lewis sta morendo, accudito amorevolmente dalla moglie Mary e dalla figlia Lorraine, e vive le sue ultime settimane alternando momenti di serenità e momenti di rimorsi e rimpianti, tra cui il rapporto mai sanato con il figlio gay. La loro vicina di casa, Berta May, si prende invece cura della nipote Alice, la cui mamma è morta, mentre le Johnson, madre e figlia, vivono da sole e, dopo aver conosciuto Alice, si affezionano alla bambina e le comprano una bicicletta. Il reverendo Lyle è arrivato a Holt con la moglie e il figlio adolescente, con cui ha dei problemi di comunicazione; presto il suo senso di giustizia lo metterà in conflitto con l’intera comunità.
In Italia la NNE (Enne Enne Editore) ha pubblicato i libri di Haruf in un ordine diverso da quello in cui sono stati scritti. Io li ho letti praticamente alla rovescia, cominciando da Benedizione e finendo con il Canto della pianura. Come Kent Haruf ha detto agli editori italiani, la sua è una loose trilogy, e dunque non c’è un ordine cronologico obbligatorio per la lettura. Personalmente, non so se – dovendo ricominciare – li leggerei nell’ordine in cui sono stati scritti o adotterei nuovamente una sequenza random, che pure ha il suo fascino.
In realtà, il vero collante della trilogia è la cittadina di Holt, piccolo centro delle piane del Colorado, frutto della fantasia dello scrittore, ma descritta con una tale cura dei particolari e seguendo una mappa così precisa che sembra di vederla e appare più vera del vero.
Siamo in quell’America delle grandi pianure sabbiose e aride, dove dominano coltivazioni di cereali e pascoli di mucche e cavalli, punteggiate di tanto in tanto di fattorie in parte abitate in parte disabitate. È un’America senza tempo, al punto che – a parte che per alcuni piccolissimi dettagli di contesto presenti soprattutto in Benedizione – è impossibile per il lettore dire esattamente se le storie raccontate sono contemporanee oppure risalgono a 50-60 anni fa.
Gli stessi protagonisti e le loro vicende sono senza tempo, a marcare l’immutabilità di vita umane che scorrono sempre uguali attraverso gesti, azioni e rituali che si ripetono attraverso le generazioni.
Le vicende umane raccontate da Haruf sono piccole e per certi versi insignificanti, colte nel loro fluire, senza dovere necessariamente seguirne tutti gli sviluppi, senza la necessità di attenderne una conclusione portatrice di senso.
Quella di Haruf è una sorta di “osservazione non intrusiva”, come quella che gli antropologi adottano all’interno delle comunità che studiano, e trasmette lo stesso senso di immersione e di verità, facendoci dimenticare che tutto quello che leggiamo è frutto della fantasia dell’autore.
E, come un antropologo dell’animo umano, Haruf guarda con affetto profondo e partecipe le vite di questi uomini e di queste donne, nelle quali i colpi di scena sono l’eccezione e la norma è invece una quotidianità fatta di piccole cose. Una specie di racconto in presa diretta della vita vera, quella che porta con sé le sue piccole felicità nonché le tristezze e qualche volta eventi drammatici e dolorosi. La trilogia della pianura parla delle cose quotidiane senza enfasi, ma queste vicende nella loro ordinarietà rivelano l’aspetto straordinario della vita.
Tutto ciò viene raccontato con una scrittura lieve come una carezza, soprattutto quando Haruf parla delle persone e dei loro sentimenti, mentre la scrittura si fa precisa, a volte aspra e persino violenta, quando descrive la natura, gli eventi atmosferici, la vita degli animali e la fatica del lavoro che si fa a contatto con la terra e le bestie.
Qualunque sia la storia raccontata, Haruf tratta i suoi personaggi con profondo rispetto e attenzione, conferendo alle loro vicende umane una dignità piena anche nelle situazioni più miserevoli e suscitando nel lettore la necessità di una comprensione profonda dei limiti, delle difficoltà e delle miserie di ciascuno. In Haruf non ci sono condanne, ma affetto sincero per questi uomini, donne e bambini, tutti descritti con una vividezza magistrale.
E questa comprensione e affetto non scaturiscono dal fatto di indagare le ragioni o le cause prime dei comportamenti, che invece spesso vengono taciute o restano non conosciute, bensì solo dalla constatazione che essere umani è lo sforzo che tutti i giorni ciascuno di noi fa ed è chiamato a fare, ma nessuno ci ha veramente insegnato a farlo.
Nei singoli volumi di questa trilogia l’accento è posto su momenti diversi della vita, il Canto della pianura più sulla nascita e l’inizio, Crepuscolo più sulla parte centrale – diciamo adulta – dell’esistenza, anche se non necessariamente intesa in esclusivo riferimento all’età, Benedizione sulla fase discendente e sulla morte. Il tono però – pur nelle percettibili differenze di stile – resta lo stesso, lieve, sussurrato, rispettoso di un’umanità di cui Haruf si sente profondamente parte e mai censore.
Tre libri che sono tre piccole gemme preziose da custodire il più a lungo possibile nelle pieghe del cuore e con il sommesso rimpianto di non poter tornare un giorno a respirare le vite degli abitanti di Holt.
Voto: 4,5/5
mercoledì 31 agosto 2016
lunedì 29 agosto 2016
Le correzioni / Jonathan Franzen
Le correzioni / Jonathan Franzen; trad. di Silvia Pareschi. Torino: Einaudi, 2002.
So che pronuncio quasi una bestemmia nel dire che quello che è considerato il capolavoro di Jonathan Franzen non mi ha del tutto convinta.
Innanzitutto sono andata avanti a fatica nelle quasi 600 pagine di questo volume, in cui accanto al racconto - quasi sempre angosciante e senza speranza - delle vite dei componenti della famiglia Lambert - i genitori ormai anziani, Enid e Alfred, e i tre figli, Gary, Chip e Denise - non mancano digressioni, apparenti divagazioni, storie parallele ma non del tutto, sogni e pensieri più o meno allucinati, che contribuiscono a creare e a rafforzare l'atmosfera fosca che caratterizza l'intero romanzo. Un profluvio di parole, di metafore, di rappresentazioni verbali che a tratti ho trovato un po' stucchevole. Nonostante questo, e pur avendolo pensato più volte, non mi sono mai decisa ad abbandonare la lettura, poiché sono rimasta in qualche modo catturata nelle maglie strette di questa realtà familiare che, nella sua dimensione angosciante, è talmente normale da non poter non essere percepita come qualcosa che riguarda tutti noi.
La struttura narrativa de Le correzioni procede da un lato su binari paralleli, raccontando le storie dei singoli personaggi, prima Chip, poi Gary, poi Denise, e - tra l'una e l'altra delle storie dei figli - la vita passata e presente di Enid e Alfred, dall'altro lato in maniera ricorsiva, visto che nell'addentrarsi nelle vicende dei singoli si risale indietro nel tempo e poi si ritorna al presente fino a proiettarsi nel futuro, facendo incontrare queste vicende in maniera quasi imprevista.
I Lambert sono una famiglia di St Jude, nel Midwest americano: Enid ha il mito della famiglia unita, ma anche di una vita possibilmente agiata e serena, ma è costretta ad accudire un marito progressivamente sempre meno autonomo; Alfred è stato dirigente di una società ferroviaria ed è un uomo abituato a far funzionare le cose, a costruire un mondo senza sbavature grazie al lavoro personale, ora però ha il morbo di Parkinson, nonché una demenza progressiva e dei problemi alle gambe, e alterna momenti di dolorosa lucidità a veri e propri momenti di psicosi. Gary è un uomo di successo, con una moglie e tre figli, apparentemente il più riuscito dei figli Lambert, ma in realtà tende alla depressione ed è dipendente dal'alcol, nonché vittima della cattiveria della moglie e dei figli. Chip è un intellettuale che però si è rovinato la vita facendosi cacciare dal suo posto di lavoro dopo una storia con una studentessa, ha scritto una sceneggiatura che nessuno vuole e – dopo che la sua vita è naufragata – continua a inanellare una serie di tentativi fallimentari di raddrizzarla, dimostrando una reticenza quasi patologica alle responsabilità. Denise è una chef di successo, ma ha un matrimonio fallito alle spalle e una serie di storie sentimentali che non l'hanno portata da nessuna parte, è costantemente in competizione con il mondo per affermare se stessa, ma irrisolta nella propria sfera e identità sentimentale e sessuale.
Enid vorrebbe a casa per Natale tutti e tre i figli, ma - come di solito accade in questo topos della riunione familiare - le apparenze di normalità che Enid vorrebbe preservare a tutti i costi vengono messe in crisi dalle dinamiche individuali e familiari irrisolte.
Il motore immobile di questo “dramma senza tragedie” è Alfred, in particolare la sua malattia che nessuno dei membri della sua famiglia sembra voler accettare né essere in grado di farsene carico. E questo fino al Natale nella casa paterna durante il quale tutti dovranno fare i conti con l'ingestibilità di Alfred e verranno messi di fronte alla necessità di scegliere tra la propria vita e la presenza ingombrante del proprio genitore.
Il risultato non è solo la scontata messa a nudo delle ipocrisie borghesi che – dietro una facciata irrepresenbile – rivelano realtà ben più complesse e sofferenti, bensì anche il coacervo di sensi di colpa, egoismo, cattiveria, obblighi, di cui i legami familiari sono inevitabili conduttori.
Il mondo di Franzen e de Le correzioni è un mondo di sostanziale infelicità e tristezza, che fa ancora più paura perché tale infelicità non è determinata da eventi tragici o sfortunati, da situazioni palesemente dirompenti, bensì dal lavorio quotidiano che l'esistenza stessa di una famiglia e la sua evoluzione portano con sé. E questo non può lasciare indifferente nessun lettore.
Non originalissimo nella sua estrema sintesi narrativa, verboso e virtuosistico nel linguaggio, il libro di Franzen lavora sotto pelle senza conquistare, ma lasciando il segno.
Voto: 3/5
So che pronuncio quasi una bestemmia nel dire che quello che è considerato il capolavoro di Jonathan Franzen non mi ha del tutto convinta.
Innanzitutto sono andata avanti a fatica nelle quasi 600 pagine di questo volume, in cui accanto al racconto - quasi sempre angosciante e senza speranza - delle vite dei componenti della famiglia Lambert - i genitori ormai anziani, Enid e Alfred, e i tre figli, Gary, Chip e Denise - non mancano digressioni, apparenti divagazioni, storie parallele ma non del tutto, sogni e pensieri più o meno allucinati, che contribuiscono a creare e a rafforzare l'atmosfera fosca che caratterizza l'intero romanzo. Un profluvio di parole, di metafore, di rappresentazioni verbali che a tratti ho trovato un po' stucchevole. Nonostante questo, e pur avendolo pensato più volte, non mi sono mai decisa ad abbandonare la lettura, poiché sono rimasta in qualche modo catturata nelle maglie strette di questa realtà familiare che, nella sua dimensione angosciante, è talmente normale da non poter non essere percepita come qualcosa che riguarda tutti noi.
La struttura narrativa de Le correzioni procede da un lato su binari paralleli, raccontando le storie dei singoli personaggi, prima Chip, poi Gary, poi Denise, e - tra l'una e l'altra delle storie dei figli - la vita passata e presente di Enid e Alfred, dall'altro lato in maniera ricorsiva, visto che nell'addentrarsi nelle vicende dei singoli si risale indietro nel tempo e poi si ritorna al presente fino a proiettarsi nel futuro, facendo incontrare queste vicende in maniera quasi imprevista.
I Lambert sono una famiglia di St Jude, nel Midwest americano: Enid ha il mito della famiglia unita, ma anche di una vita possibilmente agiata e serena, ma è costretta ad accudire un marito progressivamente sempre meno autonomo; Alfred è stato dirigente di una società ferroviaria ed è un uomo abituato a far funzionare le cose, a costruire un mondo senza sbavature grazie al lavoro personale, ora però ha il morbo di Parkinson, nonché una demenza progressiva e dei problemi alle gambe, e alterna momenti di dolorosa lucidità a veri e propri momenti di psicosi. Gary è un uomo di successo, con una moglie e tre figli, apparentemente il più riuscito dei figli Lambert, ma in realtà tende alla depressione ed è dipendente dal'alcol, nonché vittima della cattiveria della moglie e dei figli. Chip è un intellettuale che però si è rovinato la vita facendosi cacciare dal suo posto di lavoro dopo una storia con una studentessa, ha scritto una sceneggiatura che nessuno vuole e – dopo che la sua vita è naufragata – continua a inanellare una serie di tentativi fallimentari di raddrizzarla, dimostrando una reticenza quasi patologica alle responsabilità. Denise è una chef di successo, ma ha un matrimonio fallito alle spalle e una serie di storie sentimentali che non l'hanno portata da nessuna parte, è costantemente in competizione con il mondo per affermare se stessa, ma irrisolta nella propria sfera e identità sentimentale e sessuale.
Enid vorrebbe a casa per Natale tutti e tre i figli, ma - come di solito accade in questo topos della riunione familiare - le apparenze di normalità che Enid vorrebbe preservare a tutti i costi vengono messe in crisi dalle dinamiche individuali e familiari irrisolte.
Il motore immobile di questo “dramma senza tragedie” è Alfred, in particolare la sua malattia che nessuno dei membri della sua famiglia sembra voler accettare né essere in grado di farsene carico. E questo fino al Natale nella casa paterna durante il quale tutti dovranno fare i conti con l'ingestibilità di Alfred e verranno messi di fronte alla necessità di scegliere tra la propria vita e la presenza ingombrante del proprio genitore.
Il risultato non è solo la scontata messa a nudo delle ipocrisie borghesi che – dietro una facciata irrepresenbile – rivelano realtà ben più complesse e sofferenti, bensì anche il coacervo di sensi di colpa, egoismo, cattiveria, obblighi, di cui i legami familiari sono inevitabili conduttori.
Il mondo di Franzen e de Le correzioni è un mondo di sostanziale infelicità e tristezza, che fa ancora più paura perché tale infelicità non è determinata da eventi tragici o sfortunati, da situazioni palesemente dirompenti, bensì dal lavorio quotidiano che l'esistenza stessa di una famiglia e la sua evoluzione portano con sé. E questo non può lasciare indifferente nessun lettore.
Non originalissimo nella sua estrema sintesi narrativa, verboso e virtuosistico nel linguaggio, il libro di Franzen lavora sotto pelle senza conquistare, ma lasciando il segno.
Voto: 3/5
sabato 27 agosto 2016
Groenlandia Manhattan / Chloé Cruchaudet
Groenlandia Manhattan / Chloé Cruchaudet. Bologna: Coconino Press, 2010.
Di Chloé Cruchaudet avevo letto e amato tantissimo Poco raccomandabile. Cosicché a seguire ho comprato alcuni suoi lavori: l'unico altro pubblicato in Italia, questo Groenlandia Manhattan, e un altro in lingua originale, Ida.
Anche Groenlandia Manhattan è ispirato a una storia vera. Siamo nel 1897. L'esploratore Robert Peary è impegnato nella sua impresa di raggiungere il Polo Nord. Il suo ultimo tentativo è andato a vuoto, nonostante l'aiuto della popolazione locale. Per non tornare a mani vuote, Peary decide di riportare con sé in nave a New York non solo un grosso meteorite ma anche alcuni rappresentanti del popolo eschimese, tra cui il piccolo Minik.
L'impatto degli eschimesi con la cultura occidentale non è facile, e soprattutto il loro fisico - pur abituato a reggere temperature impensabili per i popoli cosiddetti civilizzati - non regge al clima della città, cosicché gli adulti a uno a uno muoiono, e l'unico sopravvissuto resta il piccolo Minik.
Questi viene cresciuto da una famiglia newyorkese e, pur rimanendo un diverso agli occhi degli altri, a poco a poco fa proprio lo stile di vita occidentale.
L'albo di Chloè Chruchaudet racconta innanzitutto l'insensibilità di una cultura fortemente colonialista che considera il mondo intorno a sé un oggetto di curiosità e di studio in una presunzione di superiorità umana e culturale e, in secondo luogo, il dramma di un bambino scisso tra la forza delle sue radici e l'adattamento progressivo al mondo nel quale è cresciuto, al punto tale da sentirsi un estraneo rispetto a entrambi questi mondi, a nessuno dei quali appartiene interamente.
Rispetto a Poco raccomandabile, la storia raccontata in questo albo è meno potente, per quanto non banale e interessante; ma quello che ancora una volta colpisce è la qualità del lavoro dell'Autrice, innanzitutto nella ricerca storica che l'ha portata a questo albo - e che emerge in mille modi - e poi per l'originalità e l'inventività delle soluzioni grafiche che ci propone: dalle tavole con bellissimi colori acquerellati a quelle con i colori piatti che raccontano i sogni e le leggende degli eschimesi, dalle riproduzioni di documenti d'archivio a imitazioni degli stili grafici del tempo.
In conclusione, un graphic novel meno di impatto rispetto a Poco raccomandabile, ma che conferma il talento indiscutibile di Chloé Cruchaudet, una delle rare fumettiste che non realizza lavori di pancia, ma va alla ricerca di storie dimenticate e poi le racconta con uno stile personalissimo e con una grande qualità nella resa estetica, storica ed emotiva.
Voto: 3,5/5
Di Chloé Cruchaudet avevo letto e amato tantissimo Poco raccomandabile. Cosicché a seguire ho comprato alcuni suoi lavori: l'unico altro pubblicato in Italia, questo Groenlandia Manhattan, e un altro in lingua originale, Ida.
Anche Groenlandia Manhattan è ispirato a una storia vera. Siamo nel 1897. L'esploratore Robert Peary è impegnato nella sua impresa di raggiungere il Polo Nord. Il suo ultimo tentativo è andato a vuoto, nonostante l'aiuto della popolazione locale. Per non tornare a mani vuote, Peary decide di riportare con sé in nave a New York non solo un grosso meteorite ma anche alcuni rappresentanti del popolo eschimese, tra cui il piccolo Minik.
L'impatto degli eschimesi con la cultura occidentale non è facile, e soprattutto il loro fisico - pur abituato a reggere temperature impensabili per i popoli cosiddetti civilizzati - non regge al clima della città, cosicché gli adulti a uno a uno muoiono, e l'unico sopravvissuto resta il piccolo Minik.
Questi viene cresciuto da una famiglia newyorkese e, pur rimanendo un diverso agli occhi degli altri, a poco a poco fa proprio lo stile di vita occidentale.
L'albo di Chloè Chruchaudet racconta innanzitutto l'insensibilità di una cultura fortemente colonialista che considera il mondo intorno a sé un oggetto di curiosità e di studio in una presunzione di superiorità umana e culturale e, in secondo luogo, il dramma di un bambino scisso tra la forza delle sue radici e l'adattamento progressivo al mondo nel quale è cresciuto, al punto tale da sentirsi un estraneo rispetto a entrambi questi mondi, a nessuno dei quali appartiene interamente.
Rispetto a Poco raccomandabile, la storia raccontata in questo albo è meno potente, per quanto non banale e interessante; ma quello che ancora una volta colpisce è la qualità del lavoro dell'Autrice, innanzitutto nella ricerca storica che l'ha portata a questo albo - e che emerge in mille modi - e poi per l'originalità e l'inventività delle soluzioni grafiche che ci propone: dalle tavole con bellissimi colori acquerellati a quelle con i colori piatti che raccontano i sogni e le leggende degli eschimesi, dalle riproduzioni di documenti d'archivio a imitazioni degli stili grafici del tempo.
In conclusione, un graphic novel meno di impatto rispetto a Poco raccomandabile, ma che conferma il talento indiscutibile di Chloé Cruchaudet, una delle rare fumettiste che non realizza lavori di pancia, ma va alla ricerca di storie dimenticate e poi le racconta con uno stile personalissimo e con una grande qualità nella resa estetica, storica ed emotiva.
Voto: 3,5/5
giovedì 25 agosto 2016
Caffè amaro / Simonetta Agnello Hornby
Caffè amaro / Simonetta Agnello Hornby. Milano: Feltrinelli, 2016.
Maria è la figlia quindicenne dei Marra, Ignazio e Titina, una famiglia piccolo-borghese il cui padre, avvocato socialista, ha fatto scelte di giustizia sociale che non hanno consentito a lui e alla sua famiglia la completa tranquillità economica e la scalata sociale. Quando Pietro Sala, figlio della benestante famiglia dei Sala, già imparentata coi Marra, mette gli occhi su Maria, questa decide di accettare la proposta di matrimonio, pur essendo Pietro molto più grande di lei e circondato da fama di sciupafemmine e giocatore d'azzardo.
Il nuovo libro di ambientazione siciliana di Simonetta Agnello Hornby racconta la storia di Maria, del suo matrimonio con Pietro, della sua educazione sentimentale ed erotica, ma anche culturale ed estetica, dell'amore tormentato per Giosuè, del rapporto con le famiglie di origine e i tre figli, Anna, Vito e Rita.
Ma, soprattutto, Caffè amaro è la storia della Sicilia e dell'Italia nel difficile periodo storico che va dai Fasci siciliani alla fine della Seconda guerra mondiale, con tutti i suoi cambiamenti e anche tutti gli elementi di continuità.
Caffè amaro è esattamente la tipologia di libro che piace a me, di quelli che - attraverso la storia del loro personaggio principale - ci raccontano innanzitutto una saga familiare con il suo alternarsi delle generazioni, in secondo luogo i cambiamenti nel contesto sociale e politico circostante, in un andirivieni continuo tra le piccole storie e la Storia con S maiuscola.
Se poi al centro del racconto c'è una donna forte e indipendente, nonché appassionata come Maria e il mondo intorno viene riportato in vita con il dettaglio storico e la capacità narrativa della Agnello Hornby il risultato diventa più che godibile.
Una lettura estiva perfetta, che per me è stata anche quella inaugurale dell'estate 2016.
Voto: 4/5
Maria è la figlia quindicenne dei Marra, Ignazio e Titina, una famiglia piccolo-borghese il cui padre, avvocato socialista, ha fatto scelte di giustizia sociale che non hanno consentito a lui e alla sua famiglia la completa tranquillità economica e la scalata sociale. Quando Pietro Sala, figlio della benestante famiglia dei Sala, già imparentata coi Marra, mette gli occhi su Maria, questa decide di accettare la proposta di matrimonio, pur essendo Pietro molto più grande di lei e circondato da fama di sciupafemmine e giocatore d'azzardo.
Il nuovo libro di ambientazione siciliana di Simonetta Agnello Hornby racconta la storia di Maria, del suo matrimonio con Pietro, della sua educazione sentimentale ed erotica, ma anche culturale ed estetica, dell'amore tormentato per Giosuè, del rapporto con le famiglie di origine e i tre figli, Anna, Vito e Rita.
Ma, soprattutto, Caffè amaro è la storia della Sicilia e dell'Italia nel difficile periodo storico che va dai Fasci siciliani alla fine della Seconda guerra mondiale, con tutti i suoi cambiamenti e anche tutti gli elementi di continuità.
Caffè amaro è esattamente la tipologia di libro che piace a me, di quelli che - attraverso la storia del loro personaggio principale - ci raccontano innanzitutto una saga familiare con il suo alternarsi delle generazioni, in secondo luogo i cambiamenti nel contesto sociale e politico circostante, in un andirivieni continuo tra le piccole storie e la Storia con S maiuscola.
Se poi al centro del racconto c'è una donna forte e indipendente, nonché appassionata come Maria e il mondo intorno viene riportato in vita con il dettaglio storico e la capacità narrativa della Agnello Hornby il risultato diventa più che godibile.
Una lettura estiva perfetta, che per me è stata anche quella inaugurale dell'estate 2016.
Voto: 4/5
lunedì 8 agosto 2016
Stoner / John Williams
Stoner / John Williams; postfazione all'edizione italiana di Peter Cameron; trad. di Stefano Tummolini. Roma: Fazi Editore, 2013.
Stoner è un romanzo pubblicato per la prima volta nel 1965, sebbene in Italia sia diventato un caso editoriale solo qualche anno fa e probabilmente molti di coloro che l'hanno letto – compresa io stessa - nemmeno sapevano che si trattasse di un testo scritto oltre cinquant'anni fa.
Non che questa informazione sia essenziale, ma in qualche modo colloca la storia del protagonista nella giusta prospettiva.
L'autore di questo romanzo ci racconta la vita di William Stoner, figlio di contadini del Missouri, mandato a studiare all'Università e rimasto poi lì a insegnare per tutta la vita. Sposato con Edith, che presto si rivelerà la donna sbagliata, ha una figlia di nome Grace, silenziosa e infelice. Al clou della sua esistenza e della sua carriera, è protagonista di una battaglia con il futuro direttore del Dipartimento che lo costringerà alla marginalità accademica per tutta la vita; a un certo punto si innamora perdutamente di Katherine Driscoll ma sarà costretto a chiudere la storia. Attraversa le due guerre senza colpo ferire, muore alle soglie della pensione da accademico, presto dimenticato da tutti.
Perché raccontare una storia così, una storia in fondo triste e banale?
Di solito, la letteratura, il cinema, il teatro si soffermano su storie in qualche modo eccezionali ovvero su momenti della vita delle persone che hanno un che di epico e significativo. Ci appassioniamo a queste storie perché ci ricordano che lo straordinario ci appartiene.
Tuttavia, l'effetto di questa scelta è simile a quello che si produce quando un fotografo isola un dettaglio della realtà, depurandolo da tutti gli elementi di disturbo, banali, ordinari, noiosi o fastidiosi. E così le piramidi ci appaiono in tutto il loro maestoso isolamento, perché nelle foto non vediamo l'agglomerato urbano non lontano e lo smog denso che lo copre.
Ebbene, è come se John Williams fotografasse la vita di Stoner senza eliminare nulla e la facesse emergere in tutta la sua verità, ordinaria, epica, noiosa, appassionata, infelice e insensata.
Se si fosse concentrato sull'emergere della passione di Stoner per l'insegnamento e sul suo testa a testa con Lomax per difendere i valori accademici sarebbe apparso un piccolo campione di integrità; se ci avesse parlato dell'innamoramento iniziale per Edith ne avremmo colto principalmente tutta la tenerezza; se avesse incentrato il racconto sulla bellissima storia d'amore con Katherine ne avremmo conosciuto in particolare la vitalità e la capacità di reagire a una vite triste e stanca.
Ma John Williams inserisce tutti questi momenti nel fluire della vita, dentro il quale essi prendono la loro giusta proporzione, si relativizzano e perdono la loro aura di epicità. E così il romanzo non è lo specchio deformante della realtà, bensì ci rimanda indietro il riflesso delle nostre stesse vite e di noi stessi, noi che forse siamo più combattivi, più fortunati, più coraggiosi di Stoner, ma in fine dei conti - guardati da lontano, e non in soggettiva - risultiamo altrettanto ordinari e piccoli e leggeri nel segno che possiamo lasciare su questa terra. Il che non è necessariamente una cosa brutta o deprimente, perché in qualche modo ci aiuta a relativizzare e al contempo a valorizzare tutto, che è poi in fondo la sfida a cui siamo chiamati.
La scrittura di Williams è perfettamente aderente alla sua scelta narrativa; appare a tratti noiosa, cadenzata, ordinaria per poi accendersi di tanto in tanto in corrispondenza dei momenti in cui la vita di Stoner ha un guizzo, assaporando i piccoli e grandi momenti epici che la caratterizzano.
Alla fine non ci si chiede se la vita di Stoner abbia avuto un senso, sia stata ben vissuta o altro del genere, ma si guarda con umana compassione e partecipazione a una vita come tante, a un uomo che ha cercato di viverla al suo meglio e a cui non possiamo non voler bene.
Voto: 3/5
Stoner è un romanzo pubblicato per la prima volta nel 1965, sebbene in Italia sia diventato un caso editoriale solo qualche anno fa e probabilmente molti di coloro che l'hanno letto – compresa io stessa - nemmeno sapevano che si trattasse di un testo scritto oltre cinquant'anni fa.
Non che questa informazione sia essenziale, ma in qualche modo colloca la storia del protagonista nella giusta prospettiva.
L'autore di questo romanzo ci racconta la vita di William Stoner, figlio di contadini del Missouri, mandato a studiare all'Università e rimasto poi lì a insegnare per tutta la vita. Sposato con Edith, che presto si rivelerà la donna sbagliata, ha una figlia di nome Grace, silenziosa e infelice. Al clou della sua esistenza e della sua carriera, è protagonista di una battaglia con il futuro direttore del Dipartimento che lo costringerà alla marginalità accademica per tutta la vita; a un certo punto si innamora perdutamente di Katherine Driscoll ma sarà costretto a chiudere la storia. Attraversa le due guerre senza colpo ferire, muore alle soglie della pensione da accademico, presto dimenticato da tutti.
Perché raccontare una storia così, una storia in fondo triste e banale?
Di solito, la letteratura, il cinema, il teatro si soffermano su storie in qualche modo eccezionali ovvero su momenti della vita delle persone che hanno un che di epico e significativo. Ci appassioniamo a queste storie perché ci ricordano che lo straordinario ci appartiene.
Tuttavia, l'effetto di questa scelta è simile a quello che si produce quando un fotografo isola un dettaglio della realtà, depurandolo da tutti gli elementi di disturbo, banali, ordinari, noiosi o fastidiosi. E così le piramidi ci appaiono in tutto il loro maestoso isolamento, perché nelle foto non vediamo l'agglomerato urbano non lontano e lo smog denso che lo copre.
Ebbene, è come se John Williams fotografasse la vita di Stoner senza eliminare nulla e la facesse emergere in tutta la sua verità, ordinaria, epica, noiosa, appassionata, infelice e insensata.
Se si fosse concentrato sull'emergere della passione di Stoner per l'insegnamento e sul suo testa a testa con Lomax per difendere i valori accademici sarebbe apparso un piccolo campione di integrità; se ci avesse parlato dell'innamoramento iniziale per Edith ne avremmo colto principalmente tutta la tenerezza; se avesse incentrato il racconto sulla bellissima storia d'amore con Katherine ne avremmo conosciuto in particolare la vitalità e la capacità di reagire a una vite triste e stanca.
Ma John Williams inserisce tutti questi momenti nel fluire della vita, dentro il quale essi prendono la loro giusta proporzione, si relativizzano e perdono la loro aura di epicità. E così il romanzo non è lo specchio deformante della realtà, bensì ci rimanda indietro il riflesso delle nostre stesse vite e di noi stessi, noi che forse siamo più combattivi, più fortunati, più coraggiosi di Stoner, ma in fine dei conti - guardati da lontano, e non in soggettiva - risultiamo altrettanto ordinari e piccoli e leggeri nel segno che possiamo lasciare su questa terra. Il che non è necessariamente una cosa brutta o deprimente, perché in qualche modo ci aiuta a relativizzare e al contempo a valorizzare tutto, che è poi in fondo la sfida a cui siamo chiamati.
La scrittura di Williams è perfettamente aderente alla sua scelta narrativa; appare a tratti noiosa, cadenzata, ordinaria per poi accendersi di tanto in tanto in corrispondenza dei momenti in cui la vita di Stoner ha un guizzo, assaporando i piccoli e grandi momenti epici che la caratterizzano.
Alla fine non ci si chiede se la vita di Stoner abbia avuto un senso, sia stata ben vissuta o altro del genere, ma si guarda con umana compassione e partecipazione a una vita come tante, a un uomo che ha cercato di viverla al suo meglio e a cui non possiamo non voler bene.
Voto: 3/5
Iscriviti a:
Post (Atom)