Ecco chi è quel buffo animaletto che Miyazaki ha scelto come simbolo della sua casa di produzione, lo Studio Ghibli! È Totoro, pronunciato nel film con l'accento sulla prima "o", ma nella canzoncina - che non riesce più ad uscirmi dalla testa - con l'accento sulla seconda "o".
Il mio vicino Totoro è, in realtà, un vecchio film del grande maestro dell'animazione giapponese - risale al 1988 - che non era mai stato portato nelle sale italiane. Visto però il successo delle ultime sue opere, Il castello errante di Howl e Ponyo sulla scogliera (di cui trovate qui la mia breve recensione), finalmente vediamo al cinema anche questo film.
Certo, si vede che si tratta di un film di un Miyazaki più giovane, più fiducioso, meno cinico e conservatore. I temi a lui cari ci sono tutti: il rapporto tra uomo e natura, lo sguardo pulito dei bambini, la saggezza degli anziani, la famiglia, il sogno.
Mentre però in alcuni degli ultimi film, in particolare La città incantata e Il castello errante di Howl, c'è uno sguardo triste sul disastro ecologico che gli umani hanno provocato e uno disincantato sulla miopia dell'età adulta, qui mi pare che prevalga un maggiore ottimismo, in cui anche gli adulti sono - seppur con difficoltà - in sintonia con la purezza del mondo.
Invece, questo film mi è sembrato - sia dal punto di vista dei contenuti che dei disegni - più vicino al suo ultimo, Ponyo sulla scogliera, in cui effettivamente Miyazaki sembra tornare appunto alle sue origini.
Il film è un godimento per gli occhi e per la mente, con le sue belle e fantasiose invenzioni: i buffi animaletti che lo abitano, il gattobus che sfreccia per le colline giapponesi, le sorelline Satsuki e Mei, la casa in legno diroccata, il grande albero di canfora!
In definitiva, non posso fare a meno di adorare questi film e questo sguardo bambino che li caratterizza... I film di Miyazaki mi aprono il cuore e mi ricordano la necessità di apprezzare la bellezza della vita, dei sentimenti, della natura.
Grazie, Miyazaki.
Voto: 4/5
lunedì 21 settembre 2009
domenica 20 settembre 2009
Il ristorante Pasha (Conversano)
Che bello - per una volta - poter parlare bene di qualcosa che ha a che fare con le proprie radici... Eh sì, perché quest'estate ho deciso di approfittare della presenza della mia amica Agnese (appassionata di cucina) per sperimentare quello che è ormai considerato il migliore ristorante non solo di Conversano (il mio paese di origine), ma di tutta la Puglia! E così volentieri ospito la recensione che Agnese ha scritto per il mio blog.
«Al ristorante Pasha, con sottostante bar, si accede salendo alcuni gradini di un palazzo storico della Piazza Castello di Conversano (BA); l’ambiente è elegante senza essere formale, con un’atmosfera molto calda, parquet a terra e note di colore alle pareti, un salottino per i distillati e un tavolino da due su un terrazzino sul quale si sta letteralmente sospesi sulla piazza.
La prenotazione, nella quale avevamo dato preferenza al terrazzino salvo pioggia, è stata “dirottata” sulla salottino, soluzione che poi si è rivelata ottimale: privacy (saletta solo per noi) e vista sul castello garantite!
Due persone al servizio, il professionale e sorridente patron Antonello Magistà e un giovanissimo ma impeccabile cameriere. Abbiamo optato per i due menù presenti in carta ai quali si può affiancare anche i rispettivi percorsi enologici.
Menù Tradizione e semplicità (Terrina calda di melanzana e mozzarella di bufala pugliese con passatina di pomodoro al basilico, Minestra sciuscetta di uovo, piselli e tartufo nero irpino, Tagliolini all’uovo con ragù bianco di capretto, verdurine novelle e caciocavallo podolico, Cartoccio di agnello al forno con patate e lampascioni, Vellutata di mandorle con granita di caffè e crumble alle nocciole) e Menù Mamma Maria (Carpaccio di baccalà, burrata, piselli novelli e pomodoro fresco all'arancia, Fagiolini occhipinti e favette al profumo di mentuccia, Gnocchetti di pane alle olive con scorfano, pomodorini, piselli e peperoncino, Trasparenza di mare servita con cous-cous di verdure, Cialda di pistacchi con ricotta e visciole).
Oltre al menù Taralli e piccoli panini caldi fatti in casa, appetizer offerto dalla casa (piccola frisella con stracciatella, pomodoro secco e basilico) e predessert (mousse di caffè).
Oltre alle belle e anche divertenti presentazioni dei piatti (la sciuscetta stava in un barattolo di vetro con il tappo a molla che una volta aperto esalava tutto il profumo preservato al suo interno), e alle eccellenti materie prime (tutte del territorio e stagionali), il livello dei piatti era alto con alcuni assolutamente esaltanti e altri meno felici. Tra gli esaltanti da citare nuovamente la sciuscetta con il tartufo buonissimo ed equilibrato che si sovrapponeva senza cancellarli ai sapori delle uova e dei piselli. Ma anche il cartoccio di agnello carne tenerissima e squisita con l’amaro dei lampascioni a smorzare la grassa dolcezza della carne. Da citare anche il carpaccio di baccalà e la terrina di melanzana (una sorta di fagottino ripieno).
Tra i dolci molto buona la semplicissima cialda, merito della squisita ricotta, ma meno convincente la vellutata di mandorle con sapori poco distinti e quindi non ben apprezzabili.
Perdonate la mancanza della lista dei vini degustati (bei bicchieri colmi) ma… non si può avere tutto dalla vita, no?!!
In conclusione: se volete coccolarvi e viziarvi vivendo un’esperienza gastronomica molto interessante e siete in giro tra Bari e Brindisi, prenotate un bel tavolo e salite dal mare verso il castello di Conversano. Il Pasha è sicuramente l’ideale per una cena a due! Un legame, di qualsiasi tipo, si consolida condividendo il cibo.»
«Al ristorante Pasha, con sottostante bar, si accede salendo alcuni gradini di un palazzo storico della Piazza Castello di Conversano (BA); l’ambiente è elegante senza essere formale, con un’atmosfera molto calda, parquet a terra e note di colore alle pareti, un salottino per i distillati e un tavolino da due su un terrazzino sul quale si sta letteralmente sospesi sulla piazza.
La prenotazione, nella quale avevamo dato preferenza al terrazzino salvo pioggia, è stata “dirottata” sulla salottino, soluzione che poi si è rivelata ottimale: privacy (saletta solo per noi) e vista sul castello garantite!
Due persone al servizio, il professionale e sorridente patron Antonello Magistà e un giovanissimo ma impeccabile cameriere. Abbiamo optato per i due menù presenti in carta ai quali si può affiancare anche i rispettivi percorsi enologici.
Menù Tradizione e semplicità (Terrina calda di melanzana e mozzarella di bufala pugliese con passatina di pomodoro al basilico, Minestra sciuscetta di uovo, piselli e tartufo nero irpino, Tagliolini all’uovo con ragù bianco di capretto, verdurine novelle e caciocavallo podolico, Cartoccio di agnello al forno con patate e lampascioni, Vellutata di mandorle con granita di caffè e crumble alle nocciole) e Menù Mamma Maria (Carpaccio di baccalà, burrata, piselli novelli e pomodoro fresco all'arancia, Fagiolini occhipinti e favette al profumo di mentuccia, Gnocchetti di pane alle olive con scorfano, pomodorini, piselli e peperoncino, Trasparenza di mare servita con cous-cous di verdure, Cialda di pistacchi con ricotta e visciole).
Oltre al menù Taralli e piccoli panini caldi fatti in casa, appetizer offerto dalla casa (piccola frisella con stracciatella, pomodoro secco e basilico) e predessert (mousse di caffè).
Oltre alle belle e anche divertenti presentazioni dei piatti (la sciuscetta stava in un barattolo di vetro con il tappo a molla che una volta aperto esalava tutto il profumo preservato al suo interno), e alle eccellenti materie prime (tutte del territorio e stagionali), il livello dei piatti era alto con alcuni assolutamente esaltanti e altri meno felici. Tra gli esaltanti da citare nuovamente la sciuscetta con il tartufo buonissimo ed equilibrato che si sovrapponeva senza cancellarli ai sapori delle uova e dei piselli. Ma anche il cartoccio di agnello carne tenerissima e squisita con l’amaro dei lampascioni a smorzare la grassa dolcezza della carne. Da citare anche il carpaccio di baccalà e la terrina di melanzana (una sorta di fagottino ripieno).
Tra i dolci molto buona la semplicissima cialda, merito della squisita ricotta, ma meno convincente la vellutata di mandorle con sapori poco distinti e quindi non ben apprezzabili.
Perdonate la mancanza della lista dei vini degustati (bei bicchieri colmi) ma… non si può avere tutto dalla vita, no?!!
In conclusione: se volete coccolarvi e viziarvi vivendo un’esperienza gastronomica molto interessante e siete in giro tra Bari e Brindisi, prenotate un bel tavolo e salite dal mare verso il castello di Conversano. Il Pasha è sicuramente l’ideale per una cena a due! Un legame, di qualsiasi tipo, si consolida condividendo il cibo.»
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venerdì 11 settembre 2009
L'amore e basta
L'amore e basta è un piccolo film documentario di Stefano Consiglio che racconta, attraverso nove interviste, le storie di altrettante coppie omosessuali, donne e uomini, di diversa provenienza (Italia, Francia, Spagna, Germania).
Il film è impreziosito da una piccola intro recitata da Luca Zingaretti e dai disegni "animati" di Ursula Ferrara, oltre che da una bella colonna sonora originale.
Certamente, è un film pulito, ben fatto e godibile, che punta evidentemente a sottolineare l'universalità del sentimento di amore e la ricerca di normalità della vita di queste coppie, che fanno i conti semmai con maggiori ostacoli e difficoltà per difendere il loro amore e consentirgli di svilupparsi nel tempo.
Mi ha colpito però l'insistenza sul concetto di famiglia che sembra fare da filo conduttore a tutte queste interviste, che personalmente non riesce a togliermi l'impressione di un'idea di fondo che fa passare l'accettazione e il riconoscimento dei gay attraverso un loro pieno inserimento nel modello di famiglia borghese.
Probabilmente non è questo l'intento del regista, che invece vuole dar voce a tutti coloro che - di fronte ad anni ed anni di battaglia politica improntata sul principio della specificità - rivendicano la propria normalità. E non v'è dubbio che si tratta di una rivendicazione assolutamente condivisibile, purché il concetto di normalità non faccia a tutti i costi rima con famiglia.
La democrazia per me è l'accettazione delle scelte altrui, anche quando non le si capiscono e anche quando sono lontane dai modelli a noi più familiari. La democrazia in tutti i campi dovrebbe passare non per l'omologazione e la ripetizione di modelli (a volte già in crisi), ma per la libera ricerca di una propria strada di benessere e di felicità, nel rispetto della libertà degli altri.
Comunque, ben vengano i film come quello di Consiglio, ma credo che siamo ancora molto lontani (e forse ce ne allontaniamo ogni giorno di più) da un processo di rinnovamento sociale e culturale che è l'unica strada per ritrovare un reale senso di civiltà e di umanità.
Voto: 3/5
Il film è impreziosito da una piccola intro recitata da Luca Zingaretti e dai disegni "animati" di Ursula Ferrara, oltre che da una bella colonna sonora originale.
Certamente, è un film pulito, ben fatto e godibile, che punta evidentemente a sottolineare l'universalità del sentimento di amore e la ricerca di normalità della vita di queste coppie, che fanno i conti semmai con maggiori ostacoli e difficoltà per difendere il loro amore e consentirgli di svilupparsi nel tempo.
Mi ha colpito però l'insistenza sul concetto di famiglia che sembra fare da filo conduttore a tutte queste interviste, che personalmente non riesce a togliermi l'impressione di un'idea di fondo che fa passare l'accettazione e il riconoscimento dei gay attraverso un loro pieno inserimento nel modello di famiglia borghese.
Probabilmente non è questo l'intento del regista, che invece vuole dar voce a tutti coloro che - di fronte ad anni ed anni di battaglia politica improntata sul principio della specificità - rivendicano la propria normalità. E non v'è dubbio che si tratta di una rivendicazione assolutamente condivisibile, purché il concetto di normalità non faccia a tutti i costi rima con famiglia.
La democrazia per me è l'accettazione delle scelte altrui, anche quando non le si capiscono e anche quando sono lontane dai modelli a noi più familiari. La democrazia in tutti i campi dovrebbe passare non per l'omologazione e la ripetizione di modelli (a volte già in crisi), ma per la libera ricerca di una propria strada di benessere e di felicità, nel rispetto della libertà degli altri.
Comunque, ben vengano i film come quello di Consiglio, ma credo che siamo ancora molto lontani (e forse ce ne allontaniamo ogni giorno di più) da un processo di rinnovamento sociale e culturale che è l'unica strada per ritrovare un reale senso di civiltà e di umanità.
Voto: 3/5
giovedì 10 settembre 2009
Videocracy
Questo è il film-documentario dell'italo-svedese Erik Gandini di cui non vedremo il trailer sulle televisioni nazionali di Rai e Mediaset e, d'altra parte, non poteva essere diversamente per un film che parla proprio di come la televisione sia stata in grado - negli ultimi trent'anni - di modificare il tessuto sociale e i valori culturali del nostro paese.
A noi italiani il film non dice niente di veramente nuovo e, da certi punti di vista, appare anche un po' disequilibrato (ad esempio per lo spazio un po' eccessivo che dedica a Fabrizio Corona, comunque superba esemplificazione del processo di sgretolamente umano in corso). Certo, in altri paesi - che pure in parte condividono con noi alcuni di questi temi - il film potrà aiutare a chiarire la specificità italiana e la proporzione che da noi hanno assunto certi fenomeni.
A me è piaciuto in particolare il taglio che Erik Gandini ha dato al film. Avevo letto in una sua intervista che il regista si proponeva di far capire - soprattutto ai non italiani - che su questo fenomeno non c'è niente da ridere e che piuttosto stiamo assistendo a un film dell'orrore. Ed effettivamente il film - musiche, montaggio, immagini - è costruito quasi come un horror movie, sebbene tocchi paure e corde ben diverse.
Ho trovato inoltre commovente, e al contempo disturbante, la scelta di seguire il "sogno televisivo" di Ricky, che da 12 anni studia karate e impara a ballare per smettere di fare l'operaio e sfondare sul piccolo schermo, allo scopo di avere finalmente soldi, macchina e donne. E, per quanto più di una volta ci si chieda - e in fondo si speri - che Ricky sia un'invenzione del regista, è triste dover ripetersi e constatare che non è così.
Insomma, non c'è dubbio che non è un film da cui si esce di buonumore, ma val la pena di vederlo!
Voto: 3,5/5
A noi italiani il film non dice niente di veramente nuovo e, da certi punti di vista, appare anche un po' disequilibrato (ad esempio per lo spazio un po' eccessivo che dedica a Fabrizio Corona, comunque superba esemplificazione del processo di sgretolamente umano in corso). Certo, in altri paesi - che pure in parte condividono con noi alcuni di questi temi - il film potrà aiutare a chiarire la specificità italiana e la proporzione che da noi hanno assunto certi fenomeni.
A me è piaciuto in particolare il taglio che Erik Gandini ha dato al film. Avevo letto in una sua intervista che il regista si proponeva di far capire - soprattutto ai non italiani - che su questo fenomeno non c'è niente da ridere e che piuttosto stiamo assistendo a un film dell'orrore. Ed effettivamente il film - musiche, montaggio, immagini - è costruito quasi come un horror movie, sebbene tocchi paure e corde ben diverse.
Ho trovato inoltre commovente, e al contempo disturbante, la scelta di seguire il "sogno televisivo" di Ricky, che da 12 anni studia karate e impara a ballare per smettere di fare l'operaio e sfondare sul piccolo schermo, allo scopo di avere finalmente soldi, macchina e donne. E, per quanto più di una volta ci si chieda - e in fondo si speri - che Ricky sia un'invenzione del regista, è triste dover ripetersi e constatare che non è così.
Insomma, non c'è dubbio che non è un film da cui si esce di buonumore, ma val la pena di vederlo!
Voto: 3,5/5
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