Finalmente quest'anno riesco ad andare a una serata del festival di film francesi organizzato a Villa Medici, una location davvero strepitosa. Il film è quello della serata di chiusura, L'été dernier di Catherine Breillat, che sarà distribuito in Italia da Teodora Film nella prossima primavera.
La regista, nota per i suoi film provocatori in merito alla morale sessuale, è presente in apertura per portare il suo saluto, nonostante le difficoltà di deambulazione dovute all'emorragia cerebrale che l'ha colpita alcuni anni fa.
Questo ultimo film della Breillat ha come protagonista Anne (la bravissima Léa Drucker), avvocato che si occupa di minori abusati, sposata con Pierre (Olivier Rabourdin) e madre di due bambine adottate. Nell'estate in cui è ambientata la storia il figlio di primo letto di Pierre, il diciassettenne Théo (Samuel Kircher), viene a stare dal padre, dopo l'ennesimo guaio nel quale si è cacciato. All'inizio, i rapporti tra Théo e Anne sono piuttosto tesi, ma man mano che le giornate procedono i due si avvicinano e inizia un gioco reciproco di seduzione che li porterà a una relazione clandestina che metterà a rischio molti equilibri.
Il film della Breillat - cosa che pare appartenga alla sua filmografia (che però io non conosco) - non teme di portare sullo schermo un tema estremamente delicato (il rapporto tra una donna adulta e un minorenne) e lo fa senza pudori e reticenze, suscitando inevitabilmente nello spettatore forme di rifiuto o necessità di prendere le distanze dalla protagonista.
Senza dubbio l'approfondimento psicologico dei personaggi e gli elementi conoscitivi che ci vengono forniti non sono tali da consentire una comprensione completa del personaggio di Anne e del suo mondo, cosicché alcune sue reazioni appaiono incoerenti ai limiti della patologia.
Se dunque il film voleva essere una critica al perbenismo e all'ipocrisia della borghesia a mio parere risulta un po' debole e forzato. Nonostante questo, il personaggio di Anne resta per me interessante, con tutte le sue contraddizioni, e - al netto di alcuni comportamenti difficilmente comprensibili - non riesco a prendere pienamente le distanze da lei, perché il suo mix di durezza, fragilità, freddezza e attenzione non lo considero assurdo e impossibile, e soprattutto non riesco a giudicarlo negativamente e basta, come se fosse qualcosa di anormale e non invece comune purtroppo al nostro essere umani fortemente imperfetti.
È per questo che verso Anne - molto più che verso Théo - si prova a seconda dei momenti compassione, rabbia, comprensione, fastidio.
Il difetto principale del film è semmai proprio quello di voler uscire dall'ambiguità con la svolta finale, costringendo a un'accelerazione narrativa e a una inevitabile semplificazione che lascia un bel po' di amaro in bocca. Dopo tutto il percorso di avvicinamento tra Anne e Théo e la loro caduta in un terreno oscuro e difficile, le troppe virate dell'ultima mezz'ora del film lasciano alquanto perplessi.
Voto: 3/5
venerdì 29 settembre 2023
mercoledì 27 settembre 2023
Kafka sulla spiaggia / Murakami Haruki
Kafka sulla spiaggia / Murakami Haruki; trad. di Giorgio Amitrano. Torino: Einaudi, 2013.
Mi accosto alfine anche a uno dei libri più noti di Murakami Haruki che sono forse una delle ultime persone a non aver letto (di lui ho letto soltanto L’incolore Tazaki Tsukuru e i suoi anni di pellegrinaggio). Vari amici nel tempo me ne hanno parlato, anche in termini entusiastici ma con la lettura per me è sempre così. Deve arrivare il momento giusto.
E quel momento è arrivato.
Ho iniziato a leggere Kafka sulla spiaggia un po' in sordina. Poche pagine a sera e all'inizio in alcuni casi ho dovuto anche rileggere.
Poi durante i giorni della presenza di mio padre a Roma, mentre lui guardava la televisione io ho cominciato a leggere più a lungo e più intensamente. E a un certo punto non mi sono più staccata.
Ci sono delle caratteristiche di Murakami - e probabilmente della cultura giapponese in generale - che potrebbero non essermi congeniali, ossia tutta la componente magica, spirituale e soprannaturale. Non a caso uno dei miei problemi con la narrativa sudamericana è proprio questo: non riesco a metabolizzare il loro ricorso all'elemento magico. Però incredibilmente in Murakami questo aspetto non mi dà fastidio. Mi sento molto come Hoshino, il personaggio forse più "normale" del libro, che di fronte alle situazioni sempre più incredibili e assurde che si trova a vivere, dopo un breve stupore iniziale, finisce per rassegnarsi e accettare di non poter capire, comportandosi come se in tutta questa stranezza non ci fosse nulla di strano.
Insomma seguo con passione crescente la vicenda di Tamura Kafka, il ragazzo quindicenne scappato di casa per cercare sua madre o forse per trovare la propria identità, e quelle di Nakata, un signore che ha problemi di ritardo mentale a causa di un incidente misterioso occorsogli da bambino, ma che ha poteri eccezionali come quello di parlare con i gatti e di far piovere delle cose dal cielo.
Le loro storie saranno destinate fatalmente a incontrarsi dopo aver proceduto a lungo in parallelo e lo faranno in un luogo altamente simbolico, la biblioteca Komura dove Kafka troverà ospitalità e la cui direttrice è la signora Saeki.
Intorno ai due personaggi principali una serie di comprimari altrettanto importanti. Oltre al già citato Hoshino che accompagna Nakata, ci sono il bibliotecario Oshima e la giovane Sakura.
La narrazione prosegue in modo via via più appassionante, sebbene Murakami non ci spieghi tutto e semini indizi e ipotesi che non vengono mai confermate né lo saranno fino al termine del romanzo.
Alla conclusione della lettura ognuno potrà dunque darsi le proprie spiegazioni e interpretare la storia secondo la propria sensibilità.
Nel complesso, la lettura di Kafka sulla spiaggia è stata un'esperienza conturbante e che non lascia indifferenti.
Voto: 3,5/5
Mi accosto alfine anche a uno dei libri più noti di Murakami Haruki che sono forse una delle ultime persone a non aver letto (di lui ho letto soltanto L’incolore Tazaki Tsukuru e i suoi anni di pellegrinaggio). Vari amici nel tempo me ne hanno parlato, anche in termini entusiastici ma con la lettura per me è sempre così. Deve arrivare il momento giusto.
E quel momento è arrivato.
Ho iniziato a leggere Kafka sulla spiaggia un po' in sordina. Poche pagine a sera e all'inizio in alcuni casi ho dovuto anche rileggere.
Poi durante i giorni della presenza di mio padre a Roma, mentre lui guardava la televisione io ho cominciato a leggere più a lungo e più intensamente. E a un certo punto non mi sono più staccata.
Ci sono delle caratteristiche di Murakami - e probabilmente della cultura giapponese in generale - che potrebbero non essermi congeniali, ossia tutta la componente magica, spirituale e soprannaturale. Non a caso uno dei miei problemi con la narrativa sudamericana è proprio questo: non riesco a metabolizzare il loro ricorso all'elemento magico. Però incredibilmente in Murakami questo aspetto non mi dà fastidio. Mi sento molto come Hoshino, il personaggio forse più "normale" del libro, che di fronte alle situazioni sempre più incredibili e assurde che si trova a vivere, dopo un breve stupore iniziale, finisce per rassegnarsi e accettare di non poter capire, comportandosi come se in tutta questa stranezza non ci fosse nulla di strano.
Insomma seguo con passione crescente la vicenda di Tamura Kafka, il ragazzo quindicenne scappato di casa per cercare sua madre o forse per trovare la propria identità, e quelle di Nakata, un signore che ha problemi di ritardo mentale a causa di un incidente misterioso occorsogli da bambino, ma che ha poteri eccezionali come quello di parlare con i gatti e di far piovere delle cose dal cielo.
Le loro storie saranno destinate fatalmente a incontrarsi dopo aver proceduto a lungo in parallelo e lo faranno in un luogo altamente simbolico, la biblioteca Komura dove Kafka troverà ospitalità e la cui direttrice è la signora Saeki.
Intorno ai due personaggi principali una serie di comprimari altrettanto importanti. Oltre al già citato Hoshino che accompagna Nakata, ci sono il bibliotecario Oshima e la giovane Sakura.
La narrazione prosegue in modo via via più appassionante, sebbene Murakami non ci spieghi tutto e semini indizi e ipotesi che non vengono mai confermate né lo saranno fino al termine del romanzo.
Alla conclusione della lettura ognuno potrà dunque darsi le proprie spiegazioni e interpretare la storia secondo la propria sensibilità.
Nel complesso, la lettura di Kafka sulla spiaggia è stata un'esperienza conturbante e che non lascia indifferenti.
Voto: 3,5/5
lunedì 25 settembre 2023
Freibad
Dopo essere venuta a conoscenza del Karawan Fest in occasione della proiezione del film Toubab al Goethe Institut mi ero ripromessa quest'anno di andare a vedere almeno un film. E così la penultima sera di programmazione, io e C. andiamo a vedere Freibad, il film della regista tedesca Doris Dörrie, presente per un confronto con il pubblico.
La regista ci dirà che l'ispirazione del film le è venuta dopo aver letto una breve notizia sul fatto che in una piscina all'aperto per sole donne a Friburgo c'erano state delle situazioni di conflitto tra donne di diversa provenienza etnica e religiosa.
E di fatto, di questo parla il film: siamo in una piscina all'aperto in piena estate. La piscina è gestita da una donna che passa tutto il tempo ad allenarsi e a fare pesi, la cui bagnina è una ragazza nera e il cui chiosco è gestito da un uomo in vesti femminili. Tra le frequentatrici abituali della piscina ci sono due amiche tedesche (una ex cantante avanti con gli anni e ormai spiantata, femminista in modo radicale e al contempo razzista di ritorno, e una cattolica ricca e sola, che introduce il suo cane di soppiatto in una carrozzina), una famiglia di donne musulmane di diverse generazioni e con diversi atteggiamenti nei confronti dei dettami della religione e delle scelte sul vestiario, una giovane ragazza in carne che ha un interesse per una delle giovani musulmane. Già la convivenza tra questi diversi soggetti non è pacifica, ma quando in piscina arrivano delle donne arabe, molto ricche e coperte di tuniche nere dalla testa ai piedi, la situazione esplode.
Il tono del film della Dörrie è decisamente da commedia, a tratti addirittura comico, ma questo approccio leggero non nasconde nessuna delle contraddizioni sottostanti e che riguardano tutte le protagoniste della storia.
La domanda di sottofondo è una domanda di grande attualità, ossia "A chi appartiene il corpo delle donne?", solo che in questo caso non ci sono uomini a pretendere di decidere per loro, dal momento che ci troviamo all'interno di una enclave totalmente femminile, cosicché quello che accade è che sono le donne stesse a essere ciascuna convinta di quale sia la cosa giusta e a voler applicare soluzioni univoche a chiunque. La libertà che tutte professano si scontra con il fatto che ognuna ha un atteggiamento giudicante verso l'altra, non riconoscendo di fatto una vera libertà di scelta.
Nel complesso il film non punta a essere un prodotto raffinato, e tra situazioni divertenti e in parte macchiettistiche, canzoni estive spensierate e poetiche e rilassate pause notturne in una piscina vuota nel passaggio da un giorno all'altro, mette sul piatto tanti temi che non hanno risposte semplici né scontate, e ci chiamano tutte in causa, costringendoci a riflettere sulla limitatezza e sui rischi di qualunque posizione univoca che si scontra e sempre si scontrerà con la varietà e la complessità del reale, man mano che le nostre società diventano più composite e articolate.
Voto: 3/5
La regista ci dirà che l'ispirazione del film le è venuta dopo aver letto una breve notizia sul fatto che in una piscina all'aperto per sole donne a Friburgo c'erano state delle situazioni di conflitto tra donne di diversa provenienza etnica e religiosa.
E di fatto, di questo parla il film: siamo in una piscina all'aperto in piena estate. La piscina è gestita da una donna che passa tutto il tempo ad allenarsi e a fare pesi, la cui bagnina è una ragazza nera e il cui chiosco è gestito da un uomo in vesti femminili. Tra le frequentatrici abituali della piscina ci sono due amiche tedesche (una ex cantante avanti con gli anni e ormai spiantata, femminista in modo radicale e al contempo razzista di ritorno, e una cattolica ricca e sola, che introduce il suo cane di soppiatto in una carrozzina), una famiglia di donne musulmane di diverse generazioni e con diversi atteggiamenti nei confronti dei dettami della religione e delle scelte sul vestiario, una giovane ragazza in carne che ha un interesse per una delle giovani musulmane. Già la convivenza tra questi diversi soggetti non è pacifica, ma quando in piscina arrivano delle donne arabe, molto ricche e coperte di tuniche nere dalla testa ai piedi, la situazione esplode.
Il tono del film della Dörrie è decisamente da commedia, a tratti addirittura comico, ma questo approccio leggero non nasconde nessuna delle contraddizioni sottostanti e che riguardano tutte le protagoniste della storia.
La domanda di sottofondo è una domanda di grande attualità, ossia "A chi appartiene il corpo delle donne?", solo che in questo caso non ci sono uomini a pretendere di decidere per loro, dal momento che ci troviamo all'interno di una enclave totalmente femminile, cosicché quello che accade è che sono le donne stesse a essere ciascuna convinta di quale sia la cosa giusta e a voler applicare soluzioni univoche a chiunque. La libertà che tutte professano si scontra con il fatto che ognuna ha un atteggiamento giudicante verso l'altra, non riconoscendo di fatto una vera libertà di scelta.
Nel complesso il film non punta a essere un prodotto raffinato, e tra situazioni divertenti e in parte macchiettistiche, canzoni estive spensierate e poetiche e rilassate pause notturne in una piscina vuota nel passaggio da un giorno all'altro, mette sul piatto tanti temi che non hanno risposte semplici né scontate, e ci chiamano tutte in causa, costringendoci a riflettere sulla limitatezza e sui rischi di qualunque posizione univoca che si scontra e sempre si scontrerà con la varietà e la complessità del reale, man mano che le nostre società diventano più composite e articolate.
Voto: 3/5
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venerdì 22 settembre 2023
James Yorkston e Nina Persson. Unplugged in Monti, Industrie fluviali, 7 settembre 2023
Per attutire il trauma del rientro colgo al volo l'occasione di vedere uno dei concerti dal vivo organizzati da Unplugged in Monti. Siamo alle Industrie fluviali, sulla terrazza dove avevo già visto il concerto di Steve Gunn sempre organizzato da loro.
Si tratta di una location intima e raccolta, una terrazza in mezzo alle case, che ha decisamente un suo fascino.
Stasera a esibirsi sono James Yorkston e Nina Persson, cantante dei The Cardigans, i quali hanno realizzato insieme, col supporto della The Second Hand Orchestra, l'album The great white eagle, che ovviamente avevo comprato appena si era saputo del concerto e avevo ascoltato un paio di volte.
L'album, ascoltato in cuffia, appare a tratti un po' monotono, e dunque sono un po' preoccupata del fatto che il concerto non sia particolarmente entusiasmante. In realtà, fin da subito si capisce che Yorkston, da buon scozzese, è un mattacchione, nonché un personaggio davvero poliedrico.
La serata inizia con la presentazione del suo romanzo Il libro dei Gaeli, pubblicato in Italia dalla Jimenez edizioni. La presentazione consta della lettura alternata di alcuni brani in lingua originale da parte di Yorkston e degli stessi brani nella traduzione italiana. Devo dire che al termine della lettura ne sono rimasta incuriosita e affascinata e non escludo in futuro di comprare e leggere il libro.
Al termine della presentazione Yorkston annuncia che il concerto inizierà dopo venti minuti, e infatti puntualissimi alle 21,15 salgono sul palco lui e Nina Persson. La Persson duetta con Yorkston utilizzando la sua bellissima voce, mentre Yorkston oltre a cantare si divide tra la tastiera e la chitarra.
Il concerto inizia con alcune belle esecuzioni che - per quanto mi riguardano - riscattano anche l'ascolto del disco. Yorkston si prende anche l'onere di intrattenere il pubblico tra un'esecuzione e l'altra, raccontandoci aneddoti o altro sia sulle canzoni da eseguire sia in generale sul suo rapporto con Roma e con l'Italia.
Durante le prime esecuzioni accompagnate dalla chitarra, si capisce che con questo strumento c'è qualcosa che non va. Effettivamente ci dirà dopo lo stesso Yorkston che lui per pigrizia non si porta dietro i suoi strumenti, che dunque gli vengono messi a disposizione dall'organizzazione. Quindi accade che talvolta ha strumenti bellissimi che vorrebbe portarsi a casa e altre volte ha strumenti che lasciano molto a desiderare, e stasera è questo il caso.
Comunque alla fine riesce in qualche modo ad accordare la chitarra e a fare più o meno tutti i pezzi che la prevedono, anche se il suono della stessa non è particolarmente piacevole.
Dopo un'oretta di concerto che alterna momenti molto belli e canzoni molto gradevoli ad altre un pochino meno entusiasmanti, i due ci annunciano che suoneranno altre tre canzoni compreso il bis, e poi ci saluteremo. Per chi vuole ci sarà modo di incontrarsi al banchetto di vendita dei dischi e del libro.
Così prima delle 22,30 io e F. siamo già per strada, il che alla fine, considerando la nostra veneranda età, è ormai un grosso valore aggiunto ;-)
Voto: 3/5
Si tratta di una location intima e raccolta, una terrazza in mezzo alle case, che ha decisamente un suo fascino.
Stasera a esibirsi sono James Yorkston e Nina Persson, cantante dei The Cardigans, i quali hanno realizzato insieme, col supporto della The Second Hand Orchestra, l'album The great white eagle, che ovviamente avevo comprato appena si era saputo del concerto e avevo ascoltato un paio di volte.
L'album, ascoltato in cuffia, appare a tratti un po' monotono, e dunque sono un po' preoccupata del fatto che il concerto non sia particolarmente entusiasmante. In realtà, fin da subito si capisce che Yorkston, da buon scozzese, è un mattacchione, nonché un personaggio davvero poliedrico.
La serata inizia con la presentazione del suo romanzo Il libro dei Gaeli, pubblicato in Italia dalla Jimenez edizioni. La presentazione consta della lettura alternata di alcuni brani in lingua originale da parte di Yorkston e degli stessi brani nella traduzione italiana. Devo dire che al termine della lettura ne sono rimasta incuriosita e affascinata e non escludo in futuro di comprare e leggere il libro.
Al termine della presentazione Yorkston annuncia che il concerto inizierà dopo venti minuti, e infatti puntualissimi alle 21,15 salgono sul palco lui e Nina Persson. La Persson duetta con Yorkston utilizzando la sua bellissima voce, mentre Yorkston oltre a cantare si divide tra la tastiera e la chitarra.
Il concerto inizia con alcune belle esecuzioni che - per quanto mi riguardano - riscattano anche l'ascolto del disco. Yorkston si prende anche l'onere di intrattenere il pubblico tra un'esecuzione e l'altra, raccontandoci aneddoti o altro sia sulle canzoni da eseguire sia in generale sul suo rapporto con Roma e con l'Italia.
Durante le prime esecuzioni accompagnate dalla chitarra, si capisce che con questo strumento c'è qualcosa che non va. Effettivamente ci dirà dopo lo stesso Yorkston che lui per pigrizia non si porta dietro i suoi strumenti, che dunque gli vengono messi a disposizione dall'organizzazione. Quindi accade che talvolta ha strumenti bellissimi che vorrebbe portarsi a casa e altre volte ha strumenti che lasciano molto a desiderare, e stasera è questo il caso.
Comunque alla fine riesce in qualche modo ad accordare la chitarra e a fare più o meno tutti i pezzi che la prevedono, anche se il suono della stessa non è particolarmente piacevole.
Dopo un'oretta di concerto che alterna momenti molto belli e canzoni molto gradevoli ad altre un pochino meno entusiasmanti, i due ci annunciano che suoneranno altre tre canzoni compreso il bis, e poi ci saluteremo. Per chi vuole ci sarà modo di incontrarsi al banchetto di vendita dei dischi e del libro.
Così prima delle 22,30 io e F. siamo già per strada, il che alla fine, considerando la nostra veneranda età, è ormai un grosso valore aggiunto ;-)
Voto: 3/5
mercoledì 20 settembre 2023
A caro prezzo (Bella ciao) / Baru
A caro prezzo (Bella ciao) / Baru. 3 voll. Quartu Sant'Elena: Oblomov, 2021-2023.
Conoscevo già il fumettista francese Baru e avevo già letto alcune sue cose, con interesse alterno. Non sapevo però che Hervé Barulea (il vero nome di Baru) fosse di origine italiana.
Lo scopro attraverso questi tre volumi pubblicati da Oblomov, A caro prezzo (Bella ciao).
I tre volumi prendono spunto da storie familiari - parenti vicini e meno vicini, ma in alcuni casi anche persone al di fuori della cerchia familiare - per raccontare la presenza degli italiani nella storia francese nel corso del Novecento, presenza importante per l'economia del paese, talvolta eroica (per la partecipazione degli Italiani alla guerra accanto ai francesi), ma non sempre ben accetta e tollerata, come accade purtroppo in ogni fase della storia e in ogni luogo quando arrivano persone di diversa provenienza.
Le storie raccontate da Baru scaturiscono in un contesto conviviale di famiglia, nel quale i giovani presenti ascoltano i racconti dei più anziani, racconti che li riguardano direttamente o indirettamente. Di tanto in tanto la narrazione viene interrotta da intermezzi in cui compare lo stesso Baru a raccontare retroscena e modalità di acquisizione di quelle informazioni ed è in questo contesto che talvolta vengono anche riportate e illustrate ricette familiari.
Il volume fa un uso raffinato del colore, dando allo stesso un ruolo preciso nella narrazione, e non a caso gli intermezzi in cui compare l'autore sono in bianco e nero a segnare lo stacco.
Nonostante questo, devo ammettere che ho fatto un po' fatica a seguire tutti i vari elementi narrativi, e talvolta mi trovavo a chiedermi chi fosse il personaggio e se si trattasse di qualcuno già incontrato o di qualcuno di nuovo. Quando al termine del terzo volume compare una specie di albero genealogico illustrato della famiglia di origine di Baru, con molti dei personaggi raccontati nei tre volumi, devo ammettere che ho pensato che avrei preferito avere questo aiuto fin dal principio per non perdermi nella narrazione.
Va detto però che questa è una caratteristica tipica di Baru che normalmente nei suoi fumetti sceglie una strada narrativamente non del tutto lineare e soprattutto poco didascalica, lasciando quasi sempre un ruolo anche al lettore nel riempire i vuoti e nel dare un senso alla narrazione. Ed è, tra l'altro, uno dei motivi per cui la lettura dei suoi fumetti mi risulta in parte faticosa, costringendomi in alcuni casi a effettuare una rilettura.
Sul piano dei contenuti la storia dei rapporti tra francesi e italiani in terra di Francia è di grandissimo interesse e ripropone all'attenzione collettiva temi di stringente attualità, come le migrazioni e il razzismo, che nel tempo cambiano solo protagonisti e destinatari, ma sono sempre presenti. È solo quando una popolazione arrivata dall'esterno diventa "trasparente" (ossia si confonde con quella locale e non viene più notata) che l'integrazione si può dire conclusa, ma di solito questo avviene appunto "a caro prezzo", e tra l'altro per popolazioni che hanno caratteristiche fisiche nettamente differenti spesso non avviene mai.
Sul medesimo tema è uscito un film di animazione, realizzato in stop-motion, dal titolo Manodopera, sul quale a questo punto mi è venuta una certa curiosità.
Voto: 3/5
Conoscevo già il fumettista francese Baru e avevo già letto alcune sue cose, con interesse alterno. Non sapevo però che Hervé Barulea (il vero nome di Baru) fosse di origine italiana.
Lo scopro attraverso questi tre volumi pubblicati da Oblomov, A caro prezzo (Bella ciao).
I tre volumi prendono spunto da storie familiari - parenti vicini e meno vicini, ma in alcuni casi anche persone al di fuori della cerchia familiare - per raccontare la presenza degli italiani nella storia francese nel corso del Novecento, presenza importante per l'economia del paese, talvolta eroica (per la partecipazione degli Italiani alla guerra accanto ai francesi), ma non sempre ben accetta e tollerata, come accade purtroppo in ogni fase della storia e in ogni luogo quando arrivano persone di diversa provenienza.
Le storie raccontate da Baru scaturiscono in un contesto conviviale di famiglia, nel quale i giovani presenti ascoltano i racconti dei più anziani, racconti che li riguardano direttamente o indirettamente. Di tanto in tanto la narrazione viene interrotta da intermezzi in cui compare lo stesso Baru a raccontare retroscena e modalità di acquisizione di quelle informazioni ed è in questo contesto che talvolta vengono anche riportate e illustrate ricette familiari.
Il volume fa un uso raffinato del colore, dando allo stesso un ruolo preciso nella narrazione, e non a caso gli intermezzi in cui compare l'autore sono in bianco e nero a segnare lo stacco.
Nonostante questo, devo ammettere che ho fatto un po' fatica a seguire tutti i vari elementi narrativi, e talvolta mi trovavo a chiedermi chi fosse il personaggio e se si trattasse di qualcuno già incontrato o di qualcuno di nuovo. Quando al termine del terzo volume compare una specie di albero genealogico illustrato della famiglia di origine di Baru, con molti dei personaggi raccontati nei tre volumi, devo ammettere che ho pensato che avrei preferito avere questo aiuto fin dal principio per non perdermi nella narrazione.
Va detto però che questa è una caratteristica tipica di Baru che normalmente nei suoi fumetti sceglie una strada narrativamente non del tutto lineare e soprattutto poco didascalica, lasciando quasi sempre un ruolo anche al lettore nel riempire i vuoti e nel dare un senso alla narrazione. Ed è, tra l'altro, uno dei motivi per cui la lettura dei suoi fumetti mi risulta in parte faticosa, costringendomi in alcuni casi a effettuare una rilettura.
Sul piano dei contenuti la storia dei rapporti tra francesi e italiani in terra di Francia è di grandissimo interesse e ripropone all'attenzione collettiva temi di stringente attualità, come le migrazioni e il razzismo, che nel tempo cambiano solo protagonisti e destinatari, ma sono sempre presenti. È solo quando una popolazione arrivata dall'esterno diventa "trasparente" (ossia si confonde con quella locale e non viene più notata) che l'integrazione si può dire conclusa, ma di solito questo avviene appunto "a caro prezzo", e tra l'altro per popolazioni che hanno caratteristiche fisiche nettamente differenti spesso non avviene mai.
Sul medesimo tema è uscito un film di animazione, realizzato in stop-motion, dal titolo Manodopera, sul quale a questo punto mi è venuta una certa curiosità.
Voto: 3/5
lunedì 18 settembre 2023
Io capitano
Matteo Garrone ha la capacità di fare film tutti molto diversi l'uno dall'altro, mantenendo però una poetica coerente e riconoscibile. Basta guardare la sua filmografia, anche solo quella più recente (Reality, Il racconto dei racconti, Dogman, Pinocchio), per rendersene conto.
Con Io capitano Garrone si misura con qualcosa di più grande di lui e forse di tutti noi: il viaggio di due ragazzi senegalesi da Dakar all'Europa dei loro sogni. Si tratta di Seydou (il bravissimo Seydou Sarr) e Moussa (Moustapha Farr), cugini sedicenni che da mesi lavorano di nascosto dalle rispettive madri per mettere da parte i soldi per partire verso l'Europa, con l'idea di realizzare il sogno di diventare cantanti e firmare gli autografi ai bianchi (della bellissima e non scontata colonna sonora diverse canzoni sono cantate proprio dai protagonisti). E così i due escono dal Senegal e attraverso il Mali e il Niger arrivano in Libia, vivendo situazioni terribili che li separeranno per poi farli ricontrare a Tripoli prima di imbarcarsi per l'Italia.
Garrone sa di avere a che fare con una materia incandescente e difficilissima, che facilmente gli può esplodere tra le mani, così sceglie la strada del romanzo di formazione e di avventura (Seydou è inizialmente un ragazzo timido e insicuro, e non è del tutto convinto di partire, ma alla fine saprà farsi carico dell'amico ferito e della responsabilità di guidare il barchino carico di migranti verso l'Italia). Quello di Garrone è un romanzo di formazione che affonda le sue radici nella letteratura epica e popolare - dall'Odissea allo stesso Pinocchio oggetto del suo precedente film - e in quanto viaggio letterario può concedersi scelte visive e narrative che guardano appunto alla letteratura oltre - e prima ancora - che alla realtà.
Quello che voglio dire è che Io capitano non è un documentario e non vuole essere guardato come tale, pur essendo basato sui racconti di chi quel viaggio l'ha fatto veramente (Kouassi Pli Adama Mamadou, Arnaud Zohin, Amara Fofana, Brhane Tareke e Siaka Doumbia) e pur proponendo alcuni passaggi particolarmente realistici e crudi (penso all'incontro con i predoni nel deserto del Niger, o alle sequenze nelle carceri libiche).
Il regista però non vuole capitalizzare solo sulla sofferenza e sulle emozioni forti, e per questo utilizza il filtro letterario per permetterci di osservare e partecipare in modo non scontato e forse anche più razionale. Quelli che sono dunque citati da alcuni come difetti del film, in particolare la rappresentazione un po' stereotipata del Senegal e della vita da cui i due ragazzi provengono, l'ingenuità che caratterizza loro e molti di quelli che fanno il viaggio con loro, l'estetizzazione delle immagini (la fotografia di Paolo Carnera è davvero strepitosa), la semplificazione di alcuni passaggi, le sequenze oniriche, sono secondo me scelte deliberate e perfettamente coerenti con lo stile letterario e non propriamente documentaristico di questo film. E - sempre a mio avviso - funzionano benissimo e raggiungono perfettamente il loro scopo, cioè quello di farci empatizzare con il giovane Seydou e di farci comprendere i suoi stati d'animo, trasformando il protagonista in un vero e proprio "eroe letterario", ma anche aiutandoci a visualizzare ciò che accade prima di quella barca alla deriva nel Mediterraneo. Certo, se Garrone avesse scelto la via del documentario probabilmente avremmo assistito a una vicenda molto più traumatizzante e tragica, ma il regista decide di coltivare la speranza e inseguire il sogno di Seydou; a conferma di questo e a merito ulteriore del film, il protagonista non parte perché costretto a scappare da casa sua, non è poverissimo, non deve fare i conti con la guerra, però nondimeno ha diritto come tutti a inseguire altrove un miglioramento delle sue condizioni e una vita diversa da quella che lo attende.
Il lieto fine è come quello delle fiabe, in cui la storia finisce quando il protagonista ha superato lo scoglio narrativo che il suo creatore ha scelto, ma della vita che lo aspetta e delle ulteriori e inevitabili sofferenze future non sappiamo nulla. Solo che in questo caso quello che attende Seydou e Moussa, una volta arrivati vivi in Italia dopo mille sofferenze e peripezie, è sotto i nostri occhi e nelle nostre orecchie praticamente tutti i giorni, e non è certo una strada in discesa.
Voto: 3,5/5
Con Io capitano Garrone si misura con qualcosa di più grande di lui e forse di tutti noi: il viaggio di due ragazzi senegalesi da Dakar all'Europa dei loro sogni. Si tratta di Seydou (il bravissimo Seydou Sarr) e Moussa (Moustapha Farr), cugini sedicenni che da mesi lavorano di nascosto dalle rispettive madri per mettere da parte i soldi per partire verso l'Europa, con l'idea di realizzare il sogno di diventare cantanti e firmare gli autografi ai bianchi (della bellissima e non scontata colonna sonora diverse canzoni sono cantate proprio dai protagonisti). E così i due escono dal Senegal e attraverso il Mali e il Niger arrivano in Libia, vivendo situazioni terribili che li separeranno per poi farli ricontrare a Tripoli prima di imbarcarsi per l'Italia.
Garrone sa di avere a che fare con una materia incandescente e difficilissima, che facilmente gli può esplodere tra le mani, così sceglie la strada del romanzo di formazione e di avventura (Seydou è inizialmente un ragazzo timido e insicuro, e non è del tutto convinto di partire, ma alla fine saprà farsi carico dell'amico ferito e della responsabilità di guidare il barchino carico di migranti verso l'Italia). Quello di Garrone è un romanzo di formazione che affonda le sue radici nella letteratura epica e popolare - dall'Odissea allo stesso Pinocchio oggetto del suo precedente film - e in quanto viaggio letterario può concedersi scelte visive e narrative che guardano appunto alla letteratura oltre - e prima ancora - che alla realtà.
Quello che voglio dire è che Io capitano non è un documentario e non vuole essere guardato come tale, pur essendo basato sui racconti di chi quel viaggio l'ha fatto veramente (Kouassi Pli Adama Mamadou, Arnaud Zohin, Amara Fofana, Brhane Tareke e Siaka Doumbia) e pur proponendo alcuni passaggi particolarmente realistici e crudi (penso all'incontro con i predoni nel deserto del Niger, o alle sequenze nelle carceri libiche).
Il regista però non vuole capitalizzare solo sulla sofferenza e sulle emozioni forti, e per questo utilizza il filtro letterario per permetterci di osservare e partecipare in modo non scontato e forse anche più razionale. Quelli che sono dunque citati da alcuni come difetti del film, in particolare la rappresentazione un po' stereotipata del Senegal e della vita da cui i due ragazzi provengono, l'ingenuità che caratterizza loro e molti di quelli che fanno il viaggio con loro, l'estetizzazione delle immagini (la fotografia di Paolo Carnera è davvero strepitosa), la semplificazione di alcuni passaggi, le sequenze oniriche, sono secondo me scelte deliberate e perfettamente coerenti con lo stile letterario e non propriamente documentaristico di questo film. E - sempre a mio avviso - funzionano benissimo e raggiungono perfettamente il loro scopo, cioè quello di farci empatizzare con il giovane Seydou e di farci comprendere i suoi stati d'animo, trasformando il protagonista in un vero e proprio "eroe letterario", ma anche aiutandoci a visualizzare ciò che accade prima di quella barca alla deriva nel Mediterraneo. Certo, se Garrone avesse scelto la via del documentario probabilmente avremmo assistito a una vicenda molto più traumatizzante e tragica, ma il regista decide di coltivare la speranza e inseguire il sogno di Seydou; a conferma di questo e a merito ulteriore del film, il protagonista non parte perché costretto a scappare da casa sua, non è poverissimo, non deve fare i conti con la guerra, però nondimeno ha diritto come tutti a inseguire altrove un miglioramento delle sue condizioni e una vita diversa da quella che lo attende.
Il lieto fine è come quello delle fiabe, in cui la storia finisce quando il protagonista ha superato lo scoglio narrativo che il suo creatore ha scelto, ma della vita che lo aspetta e delle ulteriori e inevitabili sofferenze future non sappiamo nulla. Solo che in questo caso quello che attende Seydou e Moussa, una volta arrivati vivi in Italia dopo mille sofferenze e peripezie, è sotto i nostri occhi e nelle nostre orecchie praticamente tutti i giorni, e non è certo una strada in discesa.
Voto: 3,5/5
venerdì 15 settembre 2023
Oppenheimer
Meno male che arrivo praticamente per ultima a vedere e a parlare del film di Christopher Nolan, perché dopo che è stato già detto tutto e il contrario di tutto su Oppenheimer io tutto sommato mi sento libera di non prendere posizione.
Eh sì perché ormai su Internet e sui social funziona così: prima arrivano quelli per cui il film è un capolavoro assoluto e non potete perderlo perché è un film strepitoso, poi - dopo che sono passati tutti questi - arrivano i detrattori che lo smontano fino alle fondamenta. E così non resta sostanzialmente più nulla.
Per quanto mi riguarda posso dire che Oppenheimer con le sue tre ore di proiezione non mi ha praticamente mai annoiata e questo è già un grande risultato.
È forse il film migliore di Nolan? Secondo me no. Ma non è nemmeno inutile e inguardabile.
È un film fatto con la maestria che non si può fare a meno di riconoscere al regista britannico, ed è un film che, pur essendo coerente con la sua filmografia, è in fondo il suo più lineare e classico. Non so se dipenda dal libro da cui è tratto (e che io non conosco), ma nonostante i flashback e le linee narrative parallele è uno dei film meno cervellotici di Nolan. Tra l'altro ha un impianto classicissimo da legal movie, in quanto al centro ci sono due dibattimenti, quello di cui fu oggetto Oppenheimer e che portò a negargli il nulla osta per la sicurezza nazionale a causa dei suoi legami con il comunismo, e quello di cui fu oggetto Lewis Strauss, ex presidente della Commissione per l'energia atomica degli Stati Uniti e candidato a un posto di ministro nel gabinetto del governo americano.
Su queste due linee temporali si innestano i flashback che raccontano da un lato la storia di Oppenheimer e del progetto Manhattan, dall'altro il legame tra Oppenheimer e Lewis Strauss.
Cillian Murphy è un perfetto interprete del protagonista grazie al fatto che il suo sguardo e il suo atteggiamento contengono quella giusta dose di ambiguità capace di rendere il protagonista trasparente e sfuggente al contempo.
La vicenda umana e professionale di Oppenheimer è certamente affascinante e chi ha elementi conoscitivi maggiori potrà cogliere spunti ulteriori all'interno del film. Intorno alla figura dello scienziato Nolan addensa il complesso tema del rapporto tra teoria e pratica, nonché tra studi accademici, ambizioni individuali e interessi della politica. A me è piaciuto molto l'accenno iniziale al fatto che in uno scienziato come Oppenheimer non meno importante della scienza sono gli interessi per settori come la letteratura, la musica, l'arte, questione che viene però poi abbandonata nel prosieguo del racconto.
In generale resta, al termine della visione del film, la sensazione che molte cose Nolan faccia appena in tempo ad accennarle senza poi veramente approfondirle, tanto da risultare semplificate se non addirittura poco credibili.
Ci sono invece aspetti su cui si concentra totalmente la sua attenzione e la scrupolosità diventa massima, ad esempio la scena del test Trinity, che è sicuramente il punto più alto del climax ascendente della narrazione, lunghissimo momento di silenzio e di respiro trattenuto dopo due ore di film bombardato di una musica presente in maniera fin troppo significativa. Ed è una scena davvero strepitosa e destinata a rimanere nella memoria del cinema.
Per il resto si tratta di cinema di alto livello che però secondo me non introduce nessun elemento interpretativo davvero nuovo.
Merita, ma senza risultare indimenticabile.
Voto: 3,5/5
Eh sì perché ormai su Internet e sui social funziona così: prima arrivano quelli per cui il film è un capolavoro assoluto e non potete perderlo perché è un film strepitoso, poi - dopo che sono passati tutti questi - arrivano i detrattori che lo smontano fino alle fondamenta. E così non resta sostanzialmente più nulla.
Per quanto mi riguarda posso dire che Oppenheimer con le sue tre ore di proiezione non mi ha praticamente mai annoiata e questo è già un grande risultato.
È forse il film migliore di Nolan? Secondo me no. Ma non è nemmeno inutile e inguardabile.
È un film fatto con la maestria che non si può fare a meno di riconoscere al regista britannico, ed è un film che, pur essendo coerente con la sua filmografia, è in fondo il suo più lineare e classico. Non so se dipenda dal libro da cui è tratto (e che io non conosco), ma nonostante i flashback e le linee narrative parallele è uno dei film meno cervellotici di Nolan. Tra l'altro ha un impianto classicissimo da legal movie, in quanto al centro ci sono due dibattimenti, quello di cui fu oggetto Oppenheimer e che portò a negargli il nulla osta per la sicurezza nazionale a causa dei suoi legami con il comunismo, e quello di cui fu oggetto Lewis Strauss, ex presidente della Commissione per l'energia atomica degli Stati Uniti e candidato a un posto di ministro nel gabinetto del governo americano.
Su queste due linee temporali si innestano i flashback che raccontano da un lato la storia di Oppenheimer e del progetto Manhattan, dall'altro il legame tra Oppenheimer e Lewis Strauss.
Cillian Murphy è un perfetto interprete del protagonista grazie al fatto che il suo sguardo e il suo atteggiamento contengono quella giusta dose di ambiguità capace di rendere il protagonista trasparente e sfuggente al contempo.
La vicenda umana e professionale di Oppenheimer è certamente affascinante e chi ha elementi conoscitivi maggiori potrà cogliere spunti ulteriori all'interno del film. Intorno alla figura dello scienziato Nolan addensa il complesso tema del rapporto tra teoria e pratica, nonché tra studi accademici, ambizioni individuali e interessi della politica. A me è piaciuto molto l'accenno iniziale al fatto che in uno scienziato come Oppenheimer non meno importante della scienza sono gli interessi per settori come la letteratura, la musica, l'arte, questione che viene però poi abbandonata nel prosieguo del racconto.
In generale resta, al termine della visione del film, la sensazione che molte cose Nolan faccia appena in tempo ad accennarle senza poi veramente approfondirle, tanto da risultare semplificate se non addirittura poco credibili.
Ci sono invece aspetti su cui si concentra totalmente la sua attenzione e la scrupolosità diventa massima, ad esempio la scena del test Trinity, che è sicuramente il punto più alto del climax ascendente della narrazione, lunghissimo momento di silenzio e di respiro trattenuto dopo due ore di film bombardato di una musica presente in maniera fin troppo significativa. Ed è una scena davvero strepitosa e destinata a rimanere nella memoria del cinema.
Per il resto si tratta di cinema di alto livello che però secondo me non introduce nessun elemento interpretativo davvero nuovo.
Merita, ma senza risultare indimenticabile.
Voto: 3,5/5
mercoledì 13 settembre 2023
Estate / Ali Smith
Estate / Ali Smith; trad. di Federica Aceto. Roma: Edizioni SUR, 2021.
Ed eccomi di nuovo alla tetralogia dedicata da Ali Smith alle stagioni. Dopo aver letto Autunno e Primavera affronto - nella mia estate 2023 - appunto Estate. Non ho ben capito se sto leggendo i libri nell'ordine giusto, o in ordine sparso, ma poco male visto che ciascun romanzo è autoconcluso e si può certamente leggere indipendentemente dagli altri, anche se ci sono degli elementi che li attraversano trasversalmente.
Come per altri volumi della serie, anche in questo caso la narrazione è articolata in tre parti: la prima parte è fondamentalmente dedicata alla famiglia Greenlaw, in particolare alla madre Grace, separata dal marito il quale vive nella casa a fianco con la nuova compagna Ashley, la figlia sedicenne Sacha, ambientalista convinta e sensibile ai temi sociali, e il figlio tredicenne Robert, un piccolo genio che non si sa se convintamente o provocatoriamente si fa portavoce della retorica nazionalista e razzista propria del governo nazionale.
I Greenlaw incontreranno poi la coppia formata da Charlotte e Art, creatori di contenuti per il web, e per loro tramite entreranno in contatto con l'ultracentenario Daniel e la sua assistente Elizabeth, personaggi già presenti nel romanzo Autunno.
Nel procedere della narrazione, com'è tipico della Smith, si parla del presente - la pandemia, la Brexit, le uscite di Boris Johnson, le derive contemporanee in tema di migranti e non solo, l'assurdità dei meccanismi dei social - ma anche del passato, nello specifico di vicende (l'internamento degli stranieri in Gran Bretagna allo scoppio della seconda guerra mondiale), di personaggi (l'artista e regista Lorenza Mazzetti), di opere (il Racconto d'inverno di Shakespeare), di storie personali (in particolare quella di Einstein).
Ne viene fuori un racconto affascinante che - nonostante confermi quello stile narrativo della Smith che non sempre apprezzo per il suo essere in parte involuto - risulta molto più disteso e coinvolgente per il lettore, o almeno questo è quanto ho percepito io.
Leggere i romanzi di Ali Smith - che piacciano molto, come è stato per me in questo caso, o meno, come è stato per me con altri suoi lavori - è sempre un'esperienza interessante, perché da un lato ci fa riflettere mettendoci sotto gli occhi alcuni orrori e insensatezze della contemporaneità, dall'altro ci fa conoscere vicende e personaggi poco noti, capaci di suscitare la nostra curiosità.
Lo stile - come sempre - alterna prosaicità ed elegia, e tra questi due poli oscillano anche i personaggi, che in questo caso, forse ancor più che in altri, sono sfaccettati, complessi e multidimensionali.
Non posso che concludere questa recensione con una citazione relativa all'estate che mi è piaciuta molto e che vale la pena di condividere:
Ed eccomi di nuovo alla tetralogia dedicata da Ali Smith alle stagioni. Dopo aver letto Autunno e Primavera affronto - nella mia estate 2023 - appunto Estate. Non ho ben capito se sto leggendo i libri nell'ordine giusto, o in ordine sparso, ma poco male visto che ciascun romanzo è autoconcluso e si può certamente leggere indipendentemente dagli altri, anche se ci sono degli elementi che li attraversano trasversalmente.
Come per altri volumi della serie, anche in questo caso la narrazione è articolata in tre parti: la prima parte è fondamentalmente dedicata alla famiglia Greenlaw, in particolare alla madre Grace, separata dal marito il quale vive nella casa a fianco con la nuova compagna Ashley, la figlia sedicenne Sacha, ambientalista convinta e sensibile ai temi sociali, e il figlio tredicenne Robert, un piccolo genio che non si sa se convintamente o provocatoriamente si fa portavoce della retorica nazionalista e razzista propria del governo nazionale.
I Greenlaw incontreranno poi la coppia formata da Charlotte e Art, creatori di contenuti per il web, e per loro tramite entreranno in contatto con l'ultracentenario Daniel e la sua assistente Elizabeth, personaggi già presenti nel romanzo Autunno.
Nel procedere della narrazione, com'è tipico della Smith, si parla del presente - la pandemia, la Brexit, le uscite di Boris Johnson, le derive contemporanee in tema di migranti e non solo, l'assurdità dei meccanismi dei social - ma anche del passato, nello specifico di vicende (l'internamento degli stranieri in Gran Bretagna allo scoppio della seconda guerra mondiale), di personaggi (l'artista e regista Lorenza Mazzetti), di opere (il Racconto d'inverno di Shakespeare), di storie personali (in particolare quella di Einstein).
Ne viene fuori un racconto affascinante che - nonostante confermi quello stile narrativo della Smith che non sempre apprezzo per il suo essere in parte involuto - risulta molto più disteso e coinvolgente per il lettore, o almeno questo è quanto ho percepito io.
Leggere i romanzi di Ali Smith - che piacciano molto, come è stato per me in questo caso, o meno, come è stato per me con altri suoi lavori - è sempre un'esperienza interessante, perché da un lato ci fa riflettere mettendoci sotto gli occhi alcuni orrori e insensatezze della contemporaneità, dall'altro ci fa conoscere vicende e personaggi poco noti, capaci di suscitare la nostra curiosità.
Lo stile - come sempre - alterna prosaicità ed elegia, e tra questi due poli oscillano anche i personaggi, che in questo caso, forse ancor più che in altri, sono sfaccettati, complessi e multidimensionali.
Non posso che concludere questa recensione con una citazione relativa all'estate che mi è piaciuta molto e che vale la pena di condividere:
"Ma è l'estate che è così. L'estate è camminare lungo una strada proprio come questa, verso il buio e verso la luce allo stesso tempo. Perché l'estate non è soltanto un racconto allegro. Perché non può esistere nessun racconto allegro senza l'oscurità.
E in effetti, a dirla tutta, l'estate non è altro che un finale immaginato. Ci dirigiamo istintivamente verso questo finale come se ci fosse un senso. Per tutto l'anno la cerchiamo, la aspettiamo, ci muoviamo verso di lei come fosse un orizzonte che contiene la promessa di un tramonto. Siamo costantemente alla ricerca della foglia che si apre, del calore che si apre, della promessa che presto, un giorno, potremo distenderci e lasciare che l'estate faccia di noi quel che vuole; un giorno non lontano il mondo ci tratterà bene. Come se davvero fosse possibile un finale più benevolo, anzi, non solo come se fosse possibile, ma come se fosse addirittura assicurato, come se esistesse un'armonia naturale che prima o poi si spanderà ai tuoi piedi, che si srotolerà come un paesaggio baciato dal sole che è lì solo per te. Come se il senso del tempo che ti è dato di trascorrere sulla terra stesse tutto nello stiracchiare felicemente ogni muscolo del tuo corpo sull'erba calda, con un lungo stelo di quell'erba in bocca.
Senza pensieri.
Che pensieri che le vengono.
L'estate.
Il Racconto d'estate.
Non esiste un'opera con questo titolo, Grace.
Non ci cascare.
La più breve ed elusiva di tutte le stagioni, quella che rifugge da ogni responsabilità - perché l'estate fugge e non ce ne sta in mano nulla, se non pezzetti, frammenti, momenti, lampi di memoria delle cosiddette, o immaginarie, estati perfette, quelle estati che non sono mai esistite. [...]
E così ne piangiamo la morte mentre la stiamo ancora vivendo. [...]
Sono nel cuore dell'estate eppure non riesco a toccarne il cuore."
Voto: 4/5
E in effetti, a dirla tutta, l'estate non è altro che un finale immaginato. Ci dirigiamo istintivamente verso questo finale come se ci fosse un senso. Per tutto l'anno la cerchiamo, la aspettiamo, ci muoviamo verso di lei come fosse un orizzonte che contiene la promessa di un tramonto. Siamo costantemente alla ricerca della foglia che si apre, del calore che si apre, della promessa che presto, un giorno, potremo distenderci e lasciare che l'estate faccia di noi quel che vuole; un giorno non lontano il mondo ci tratterà bene. Come se davvero fosse possibile un finale più benevolo, anzi, non solo come se fosse possibile, ma come se fosse addirittura assicurato, come se esistesse un'armonia naturale che prima o poi si spanderà ai tuoi piedi, che si srotolerà come un paesaggio baciato dal sole che è lì solo per te. Come se il senso del tempo che ti è dato di trascorrere sulla terra stesse tutto nello stiracchiare felicemente ogni muscolo del tuo corpo sull'erba calda, con un lungo stelo di quell'erba in bocca.
Senza pensieri.
Che pensieri che le vengono.
L'estate.
Il Racconto d'estate.
Non esiste un'opera con questo titolo, Grace.
Non ci cascare.
La più breve ed elusiva di tutte le stagioni, quella che rifugge da ogni responsabilità - perché l'estate fugge e non ce ne sta in mano nulla, se non pezzetti, frammenti, momenti, lampi di memoria delle cosiddette, o immaginarie, estati perfette, quelle estati che non sono mai esistite. [...]
E così ne piangiamo la morte mentre la stiamo ancora vivendo. [...]
Sono nel cuore dell'estate eppure non riesco a toccarne il cuore."
Voto: 4/5
lunedì 11 settembre 2023
La bella estate
Mi dispiace sempre tanto non poter parlare bene di un film, perché – come sanno quei pochi che leggono questo mio blog – andare al cinema è una delle cose che mi piacciono di più al mondo. In questo caso, poi, non solo ho usufruito di un’anteprima gratuita durante l’estate romana, ma avevo anche letto recensioni piuttosto positive.
Il film – come esplicitamente indicato nei titoli di testa - è liberamente ispirato all’omonimo romanzo di Cesare Pavese. Siamo negli anni Trenta, a Torino, dove comincia a essere sempre più evidente la presenza del regime fascista, che però rimane sullo sfondo del racconto. Ginia (Yile Yara Vianello, che secondo me assomiglia un sacco a Steffi Graf da giovane :-D ) si è trasferita dalla campagna a Torino per lavorare in un atelier di moda e vive insieme al fratello. Durante una gita con altri amici, Ginia conosce Amelia (Deva Cassel), una ragazza più grande e molto più disinibita, che si guadagna da vivere facendo la modella per i pittori di Torino. Insieme ad Amelia, Ginia si affaccia a un mondo per lei sconosciuto e a parti di sé fino a quel momento silenziose, conoscerà il sesso e forse anche l’amore.
Che dire? Non mi va di sparare a zero, ma il film ha decisamente troppi difetti per i miei gusti, a partire dalle attrici e dagli attori. La Vianello la salvo, ma la Cassel non l'ho proprio apprezzata: gioca tutto sulla sua bellezza – che certo è parte importante del suo personaggio – però decisamente non è sufficiente. Appena apre bocca la già limitata credibilità del film si va a far benedire. In generale, forse anche a causa di una sceneggiatura che lascia un po’ a desiderare e di una narrazione un po’ meccanica, la chimica tra gli attori a mio modesto parere è praticamente zero, oltre al fatto che la maggior parte di loro risultano troppo puliti, moderni, leccati per essere credibili come giovani degli anni Trenta. Si fa dunque fatica a immedesimarsi in Ginia, sebbene la sua formazione sentimentale abbia tratti di universalità.
Non ho visto Fiore gemello, il precedente film della regista Laura Luchetti, ma ne leggo positivamente. Quindi a questo punto non so se La bella estate sia semplicemente un passo falso (almeno dal mio punto di vista), ovvero si tratti di un modo di narrare con cui non mi trovo in sintonia.
Peccato!
Voto: 1,5/5
Il film – come esplicitamente indicato nei titoli di testa - è liberamente ispirato all’omonimo romanzo di Cesare Pavese. Siamo negli anni Trenta, a Torino, dove comincia a essere sempre più evidente la presenza del regime fascista, che però rimane sullo sfondo del racconto. Ginia (Yile Yara Vianello, che secondo me assomiglia un sacco a Steffi Graf da giovane :-D ) si è trasferita dalla campagna a Torino per lavorare in un atelier di moda e vive insieme al fratello. Durante una gita con altri amici, Ginia conosce Amelia (Deva Cassel), una ragazza più grande e molto più disinibita, che si guadagna da vivere facendo la modella per i pittori di Torino. Insieme ad Amelia, Ginia si affaccia a un mondo per lei sconosciuto e a parti di sé fino a quel momento silenziose, conoscerà il sesso e forse anche l’amore.
Che dire? Non mi va di sparare a zero, ma il film ha decisamente troppi difetti per i miei gusti, a partire dalle attrici e dagli attori. La Vianello la salvo, ma la Cassel non l'ho proprio apprezzata: gioca tutto sulla sua bellezza – che certo è parte importante del suo personaggio – però decisamente non è sufficiente. Appena apre bocca la già limitata credibilità del film si va a far benedire. In generale, forse anche a causa di una sceneggiatura che lascia un po’ a desiderare e di una narrazione un po’ meccanica, la chimica tra gli attori a mio modesto parere è praticamente zero, oltre al fatto che la maggior parte di loro risultano troppo puliti, moderni, leccati per essere credibili come giovani degli anni Trenta. Si fa dunque fatica a immedesimarsi in Ginia, sebbene la sua formazione sentimentale abbia tratti di universalità.
Non ho visto Fiore gemello, il precedente film della regista Laura Luchetti, ma ne leggo positivamente. Quindi a questo punto non so se La bella estate sia semplicemente un passo falso (almeno dal mio punto di vista), ovvero si tratti di un modo di narrare con cui non mi trovo in sintonia.
Peccato!
Voto: 1,5/5
venerdì 8 settembre 2023
Mostre di fotografia: L’Italia è un desiderio, Mario Cresci, Philippe Halsman e Peggy Kleiber
Nel primo weekend di agosto, in una città che nelle periferie è già parecchio svuotata, ma che vede un centro ancora insolitamente affollato di turisti, io e S. decidiamo di approfittare di quello che la città offre in tema di mostre, scegliendo in particolare le esposizioni di carattere fotografico.
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L’Italia è un desiderio. Fotografie, paesaggi e visioni 1842-2022. Le collezioni Alinari e Mufoco. Scuderie del Quirinale
La prima mostra che andiamo a visitare è quella alle Scuderie del Quirinale, che - per quanto mi riguarda - è sempre garanzia di qualità di scelta e di allestimento. In questo caso la mostra indaga sull’evoluzione dello sguardo sul paesaggio italiano e del concetto stesso di paesaggio, dalle origini della fotografia ai giorni nostri. Il primo piano dello spazio espositivo è dedicato alle foto provenienti dalle collezioni Alinari e coprono il periodo che va dalla metà dell’Ottocento alla prima metà del Novecento, mentre il secondo piano, che attinge maggiormente alle collezioni Mufoco (Museo di Fotografia Contemporanea), si concentra sul Novecento fino ad arrivare ai giorni nostri.
La mostra segue un percorso cronologico, ma in ogni sala viene proposta almeno una fotografia “dissonante cronologicamente” rispetto alle altre lì presenti (ed evidenziata da una differente colorazione sulla parete), ma che – in virtù del soggetto, della composizione, del punto di vista, dei colori o della tecnica – si pone in dialogo con le altre fotografie, suggerendo letture visive originali e nuove.
La visita della mostra è non solo una bella occasione per scoprire i molteplici modi in cui l’Italia e il suo paesaggio sono stati guardati e rappresentati nel corso del tempo da fotografi italiani e stranieri, ma offre anche la possibilità di fare la conoscenza con fotografi meno conosciuti, suscitando curiosità e desiderio di approfondimento, oltre a offrire una interessante esemplificazione di come la fotografia di paesaggio si sia trasformata nel tempo in una fotografia sempre meno descrittiva e sempre più concettuale, una fotografia che racconta il paesaggio come riflesso dell’anima del fotografo. La sala finale, con la proiezione dei progetti vincitori di una call finalizzata a raccontare l’Italia in lockdown, chiude adeguatamente questa bella carrellata.
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Mario Cresci. Un esorcismo del tempo. MAXXI
Proprio durante la visita alla mostra alle scuderie del Quirinale l’incontro con alcune fotografie di Mario Cresci – che aveva partecipato a suo tempo al progetto Viaggio in Italia di Luigi Ghirri – mi fa tornare in mente che il mio amico E. mi aveva suggerito caldamente di andare a vedere la sua mostra al MAXXI. E così faccio.
Conosco poco il fotografo, ma proprio per questo la visita alla mostra mi risulta ancora più interessante. In particolare, la mostra si concentra sull’attività svolta dal fotografo in Basilicata tra gli anni Sessanta e Ottanta del Novecento, attraverso l’esposizione di oltre 350 fotografie, nonché di un certo numero di oggetti materiali. L’approccio di Cresci oscilla tra l’indagine urbanistica e quella sociologica, manifestando l’interesse antropologico del fotografo, che utilizza la sua macchina come strumento conoscitivo, prima ancora che estetico. C’è dunque sia una parte di fotografia documentaria, sia una parte di racconto di persone, ma soprattutto c’è molta sperimentazione che trasforma più volte la sua in una fotografia concettuale.
Si tratta di un tipo di fotografia non necessariamente potabile o facile per tutti, ma che sicuramente stimola pensieri, interpretazioni, letture, rivelando la complessità del rapporto di Cresci con il mezzo da lui scelto per raccontare la realtà.
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Philippe Halsman. Lampo di genio; Peggy Kleiber. Tutti i giorni della vita (fotografie 1959-1992). Museo di Roma in Trastevere
Per completare il weekend di mostre fotografiche, approfittando della domenica con accesso gratuito ai musei civici, andiamo al Museo di Roma in Trastevere dove sono in corso due mostre fotografiche. Al piano terra c’è la mostra dedicata a Philippe Halsman, un fotografo ritrattista di origine ebrea, nato in Lettonia, e traferitosi prima a Parigi (negli anni Trenta) e poi negli Stati Uniti. Halsman ha lavorato molto per la pubblicità e, una volta consolidatasi la sua fama, è diventato il ritrattista di moltissime celebrità, ritratti spesso utilizzati per le copertine della famosa rivista Life. La mostra occupa l’intero piano terra del museo e offre una carrellata significativa dello stile di Halsman, spesso enigmatico e originale, e soprattutto attento a tradurre le caratteristiche più proprie dei personaggi ritratti in specifiche scelte ritrattistiche. Molto divertente la serie Jumpology, in cui moltissime celebrità hanno posato per lui in ritratti a figura intera in cui la caratteristica comune è che tutti sono immortalati mentre saltano, in maniere buffe o artistiche a seconda dei casi.
Al secondo piano del museo c’è invece un’ampia selezione delle fotografie di Peggy Kleiber, fotografa non professionista svizzera, che durante la sua vita ha documentato momenti piccoli e grandi della sua famiglia, nonché i luoghi in cui ha viaggiato. Uno dei corridoi è dunque dedicato alle sue fotografie di paesaggio urbano e di persone, in particolare quelle realizzate a Roma, città da lei molto amata e di cui documenta le trasformazioni negli anni Sessanta, e in altre realtà italiane, in particolare la Sicilia, da lei visitata più volte. L’altro corridoio è invece dedicato alle foto di famiglia, che oltre a documentare in maniera più tradizionale alcuni momenti tipici delle vicende famigliari riescono a cogliere espressioni, situazioni, circostanze particolari, facendo emergere l’anima nascosta della sua dimensione familiare.
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L’Italia è un desiderio. Fotografie, paesaggi e visioni 1842-2022. Le collezioni Alinari e Mufoco. Scuderie del Quirinale
La prima mostra che andiamo a visitare è quella alle Scuderie del Quirinale, che - per quanto mi riguarda - è sempre garanzia di qualità di scelta e di allestimento. In questo caso la mostra indaga sull’evoluzione dello sguardo sul paesaggio italiano e del concetto stesso di paesaggio, dalle origini della fotografia ai giorni nostri. Il primo piano dello spazio espositivo è dedicato alle foto provenienti dalle collezioni Alinari e coprono il periodo che va dalla metà dell’Ottocento alla prima metà del Novecento, mentre il secondo piano, che attinge maggiormente alle collezioni Mufoco (Museo di Fotografia Contemporanea), si concentra sul Novecento fino ad arrivare ai giorni nostri.
La mostra segue un percorso cronologico, ma in ogni sala viene proposta almeno una fotografia “dissonante cronologicamente” rispetto alle altre lì presenti (ed evidenziata da una differente colorazione sulla parete), ma che – in virtù del soggetto, della composizione, del punto di vista, dei colori o della tecnica – si pone in dialogo con le altre fotografie, suggerendo letture visive originali e nuove.
La visita della mostra è non solo una bella occasione per scoprire i molteplici modi in cui l’Italia e il suo paesaggio sono stati guardati e rappresentati nel corso del tempo da fotografi italiani e stranieri, ma offre anche la possibilità di fare la conoscenza con fotografi meno conosciuti, suscitando curiosità e desiderio di approfondimento, oltre a offrire una interessante esemplificazione di come la fotografia di paesaggio si sia trasformata nel tempo in una fotografia sempre meno descrittiva e sempre più concettuale, una fotografia che racconta il paesaggio come riflesso dell’anima del fotografo. La sala finale, con la proiezione dei progetti vincitori di una call finalizzata a raccontare l’Italia in lockdown, chiude adeguatamente questa bella carrellata.
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Mario Cresci. Un esorcismo del tempo. MAXXI
Proprio durante la visita alla mostra alle scuderie del Quirinale l’incontro con alcune fotografie di Mario Cresci – che aveva partecipato a suo tempo al progetto Viaggio in Italia di Luigi Ghirri – mi fa tornare in mente che il mio amico E. mi aveva suggerito caldamente di andare a vedere la sua mostra al MAXXI. E così faccio.
Conosco poco il fotografo, ma proprio per questo la visita alla mostra mi risulta ancora più interessante. In particolare, la mostra si concentra sull’attività svolta dal fotografo in Basilicata tra gli anni Sessanta e Ottanta del Novecento, attraverso l’esposizione di oltre 350 fotografie, nonché di un certo numero di oggetti materiali. L’approccio di Cresci oscilla tra l’indagine urbanistica e quella sociologica, manifestando l’interesse antropologico del fotografo, che utilizza la sua macchina come strumento conoscitivo, prima ancora che estetico. C’è dunque sia una parte di fotografia documentaria, sia una parte di racconto di persone, ma soprattutto c’è molta sperimentazione che trasforma più volte la sua in una fotografia concettuale.
Si tratta di un tipo di fotografia non necessariamente potabile o facile per tutti, ma che sicuramente stimola pensieri, interpretazioni, letture, rivelando la complessità del rapporto di Cresci con il mezzo da lui scelto per raccontare la realtà.
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Philippe Halsman. Lampo di genio; Peggy Kleiber. Tutti i giorni della vita (fotografie 1959-1992). Museo di Roma in Trastevere
Per completare il weekend di mostre fotografiche, approfittando della domenica con accesso gratuito ai musei civici, andiamo al Museo di Roma in Trastevere dove sono in corso due mostre fotografiche. Al piano terra c’è la mostra dedicata a Philippe Halsman, un fotografo ritrattista di origine ebrea, nato in Lettonia, e traferitosi prima a Parigi (negli anni Trenta) e poi negli Stati Uniti. Halsman ha lavorato molto per la pubblicità e, una volta consolidatasi la sua fama, è diventato il ritrattista di moltissime celebrità, ritratti spesso utilizzati per le copertine della famosa rivista Life. La mostra occupa l’intero piano terra del museo e offre una carrellata significativa dello stile di Halsman, spesso enigmatico e originale, e soprattutto attento a tradurre le caratteristiche più proprie dei personaggi ritratti in specifiche scelte ritrattistiche. Molto divertente la serie Jumpology, in cui moltissime celebrità hanno posato per lui in ritratti a figura intera in cui la caratteristica comune è che tutti sono immortalati mentre saltano, in maniere buffe o artistiche a seconda dei casi.
Al secondo piano del museo c’è invece un’ampia selezione delle fotografie di Peggy Kleiber, fotografa non professionista svizzera, che durante la sua vita ha documentato momenti piccoli e grandi della sua famiglia, nonché i luoghi in cui ha viaggiato. Uno dei corridoi è dunque dedicato alle sue fotografie di paesaggio urbano e di persone, in particolare quelle realizzate a Roma, città da lei molto amata e di cui documenta le trasformazioni negli anni Sessanta, e in altre realtà italiane, in particolare la Sicilia, da lei visitata più volte. L’altro corridoio è invece dedicato alle foto di famiglia, che oltre a documentare in maniera più tradizionale alcuni momenti tipici delle vicende famigliari riescono a cogliere espressioni, situazioni, circostanze particolari, facendo emergere l’anima nascosta della sua dimensione familiare.
mercoledì 6 settembre 2023
Fratello e sorella
E due! Ci sono ricascata con i film di Arnaud Desplechin, e sempre per lo stesso motivo, ossia per la presenza nel cast (come ne Les fantômes d'Ismaël) di Marion Cotillard (che io letteralmente adoro, sebbene a questo secondo giro devo osservare che il regista le faccia fare dei ruoli sempre piuttosto insopportabili).
Qui Marion è Alice Vuillard, un’attrice di teatro di successo che ha un rapporto a dir poco problematico con suo fratello Louis (Melvil Poupaud), mentre Fidele (Benjamin Siksou), il fratello più piccolo mantiene una posizione più neutrale. Alice e Louis non si parlano e si evitano da moltissimi anni, in particolare da quando è morto il figlio di Louis e lui ha cacciato di casa il cognato e la sorella urlandogli contro. Un brutto incidente accaduto ai loro genitori a seguito del quale la madre finisce in coma e il padre in condizioni comunque serie, Alice e Louis sono entrambi richiamati al loro capezzale. Nonostante i tentativi di tutti di non farli incontrare ed evitare lo scontro, i due finiranno per ritrovarsi l’uno in prossimità dell’altro, facendo emergere – in maniera più o meno violenta e scomposta – tutti i nodi irrisolti e l’odio viscerale che li attraversa.
Detta così, sembrerebbe una trama interessante ed un tema con cui molti, seppure in modi diversi, hanno purtroppo familiarità. Ed è anche per questo che ho scelto di andare a vedere il film.
Il fatto è che continuo a essere perplessa rispetto al modo di raccontare di Desplechin e faccio fatica a entrare in contatto con i personaggi. Pur aprendo infatti degli squarci sul passato, mediante dei flashback che raccontano del rapporto passato tra fratello e sorella, dai momenti di sintonia a quelli di conflitto, nonché del rapporto con i loro genitori, molta parte delle motivazioni per cui Alice e Louis si odiano rimane per noi ignota, o comunque non sufficientemente spiegata. Va detto che c’è un momento nel film in cui persino la stessa Alice dice di non ricordare più i motivi di tanto odio, il che mi fa pensare che è proprio questo odio (indipendentemente dalle sue motivazioni) che il regista vuole raccontarci. In fondo se l’amore può non avere motivazioni specifiche, si potrebbe ipotizzare che lo stesso valga per l’odio. Ma devo dire che in realtà non è davvero così, e noi spettatori cerchiamo continuamente indizi per darci una spiegazione di questo odio senza riuscire veramente a capirlo, tanto che nel momento in cui l'odio sembra sciogliersi e sembra aprirsi una prospettiva di riconciliazione la cosa risulta altrettanto incomprensibile, al punto da fare quasi fatica ad accettarla. Certamente Alice è un’ape regina che vuole tutti adoranti ai suoi piedi, come la sua giovane ammiratrice Lucia, mentre Louis è un uomo che si porta dentro una rabbia e un dolore irrisolti; entrambi hanno un rapporto non pacificato con i loro genitori, sicuramente molto uniti tra loro, ma probabilmente poco equilibrati nei confronti dei figli. I personaggi di contorno, Faunia, la moglie di Louis, l’amico Zwy, la romena Lucia, appaiono interessanti, ma anche loro non sufficientemente approfonditi per gettare luce su sé stessi e sui protagonisti.
In questa vera e propria invettiva verso la famiglia, Desplechin riesce a infilare anche qualche bordata verso il suo paese d’origine Roubaix (già presente nel suo precedente film che avevo visto). Io non so cosa abbia Desplechin rispetto al luogo e alla famiglia dai quali proviene, però oltre che vomitarci addosso un disagio (e in questo è decisamente bravissimo) non mi sembra che riesca, attraverso le sue pellicole, a trovare lui stesso e a far trovare anche a noi spettatori una qualche forma di pace.
A questo punto per fortuna non ero andata a vedere Tromperie – L’inganno (di cui comunque la mia amica F. non mi aveva parlato bene), perché sennò adesso sarei ancora più perplessa e incavolata.
E vabbè, io e Desplechin non ci prendiamo particolarmente.
Voto: 2,5/5
Qui Marion è Alice Vuillard, un’attrice di teatro di successo che ha un rapporto a dir poco problematico con suo fratello Louis (Melvil Poupaud), mentre Fidele (Benjamin Siksou), il fratello più piccolo mantiene una posizione più neutrale. Alice e Louis non si parlano e si evitano da moltissimi anni, in particolare da quando è morto il figlio di Louis e lui ha cacciato di casa il cognato e la sorella urlandogli contro. Un brutto incidente accaduto ai loro genitori a seguito del quale la madre finisce in coma e il padre in condizioni comunque serie, Alice e Louis sono entrambi richiamati al loro capezzale. Nonostante i tentativi di tutti di non farli incontrare ed evitare lo scontro, i due finiranno per ritrovarsi l’uno in prossimità dell’altro, facendo emergere – in maniera più o meno violenta e scomposta – tutti i nodi irrisolti e l’odio viscerale che li attraversa.
Detta così, sembrerebbe una trama interessante ed un tema con cui molti, seppure in modi diversi, hanno purtroppo familiarità. Ed è anche per questo che ho scelto di andare a vedere il film.
Il fatto è che continuo a essere perplessa rispetto al modo di raccontare di Desplechin e faccio fatica a entrare in contatto con i personaggi. Pur aprendo infatti degli squarci sul passato, mediante dei flashback che raccontano del rapporto passato tra fratello e sorella, dai momenti di sintonia a quelli di conflitto, nonché del rapporto con i loro genitori, molta parte delle motivazioni per cui Alice e Louis si odiano rimane per noi ignota, o comunque non sufficientemente spiegata. Va detto che c’è un momento nel film in cui persino la stessa Alice dice di non ricordare più i motivi di tanto odio, il che mi fa pensare che è proprio questo odio (indipendentemente dalle sue motivazioni) che il regista vuole raccontarci. In fondo se l’amore può non avere motivazioni specifiche, si potrebbe ipotizzare che lo stesso valga per l’odio. Ma devo dire che in realtà non è davvero così, e noi spettatori cerchiamo continuamente indizi per darci una spiegazione di questo odio senza riuscire veramente a capirlo, tanto che nel momento in cui l'odio sembra sciogliersi e sembra aprirsi una prospettiva di riconciliazione la cosa risulta altrettanto incomprensibile, al punto da fare quasi fatica ad accettarla. Certamente Alice è un’ape regina che vuole tutti adoranti ai suoi piedi, come la sua giovane ammiratrice Lucia, mentre Louis è un uomo che si porta dentro una rabbia e un dolore irrisolti; entrambi hanno un rapporto non pacificato con i loro genitori, sicuramente molto uniti tra loro, ma probabilmente poco equilibrati nei confronti dei figli. I personaggi di contorno, Faunia, la moglie di Louis, l’amico Zwy, la romena Lucia, appaiono interessanti, ma anche loro non sufficientemente approfonditi per gettare luce su sé stessi e sui protagonisti.
In questa vera e propria invettiva verso la famiglia, Desplechin riesce a infilare anche qualche bordata verso il suo paese d’origine Roubaix (già presente nel suo precedente film che avevo visto). Io non so cosa abbia Desplechin rispetto al luogo e alla famiglia dai quali proviene, però oltre che vomitarci addosso un disagio (e in questo è decisamente bravissimo) non mi sembra che riesca, attraverso le sue pellicole, a trovare lui stesso e a far trovare anche a noi spettatori una qualche forma di pace.
A questo punto per fortuna non ero andata a vedere Tromperie – L’inganno (di cui comunque la mia amica F. non mi aveva parlato bene), perché sennò adesso sarei ancora più perplessa e incavolata.
E vabbè, io e Desplechin non ci prendiamo particolarmente.
Voto: 2,5/5
lunedì 4 settembre 2023
Following
In vista dell'uscita in sala anche in Italia di Oppenheimer è stato portato sul grande schermo per la prima volta il film di esordio di Christopher Nolan, Following. Approfitto dunque di un breve passaggio romano per andare a vederlo, e in questo modo aggiungere l'ultimo tassello alla filmografia di Nolan che a questo punto posso dire di aver visto per intero.
Following è un film del 1998 in bianco e nero, girato nel formato cosiddetto Academy (1,37:1, sostanzialmente un rettangolo che tende al quadrato), e racconta la storia di Bill (Jeremy Theobald), uno scrittore che non se la passa benissimo e che per trovare ispirazione ha iniziato a seguire per strada degli sconosciuti. In questa sua attività di "shadowing" Bill si imbatte a un certo punto in Cobb (Alex Haw), un giovane ladro che si intrufola negli altrui appartamenti non solo per rubare ma anche per appropriarsi di pezzi di vita degli altri (tra l'altro, Cobb è il nome del protagonista di Inception interpretato da Leonardo Di Caprio). Bill ne è affascinato e ben presto si affianca a Cobb nella sua attività, ma non sa che sta infilandosi in un affare più grande di lui.
È evidente che questo primo film di Nolan è stato realizzato con pochissimi mezzi e pochissimi soldi; la sua forza sta tutta nel montaggio e nella trama da neo-noir con colpo di scena finale. In Following ci sono in nuce diversi elementi che saranno meglio sviluppati nel film che ha fatto conoscere al grande pubblico Nolan, ossia Memento, ma anche suggestioni che diventeranno elementi costanti della poetica e della cinematografia del regista britannico. In particolare, il piacere di giocare con il tempo e i salti temporali (in Following è un continuo andare indietro e avanti nella storia, mentre vengono disseminati indizi), il coinvolgimento dello spettatore che nel cinema di Nolan non è mai soltanto passivo, bensì è chiamato a mettere insieme i pezzi del puzzle che il regista gli sparpaglia davanti, e un certo gusto per la psicologia dei personaggi.
Ne viene fuori un film che mostra tecnicamente tutti i suoi limiti e alcune forme di ingenuità, ma che già fa trasparire la grandezza e soprattutto l'ambizione cinematografica di Nolan, un'ambizione che a mio modo di vedere ha sempre però alla base un grande amore per il cinema.
Voto: 3,5/5
Following è un film del 1998 in bianco e nero, girato nel formato cosiddetto Academy (1,37:1, sostanzialmente un rettangolo che tende al quadrato), e racconta la storia di Bill (Jeremy Theobald), uno scrittore che non se la passa benissimo e che per trovare ispirazione ha iniziato a seguire per strada degli sconosciuti. In questa sua attività di "shadowing" Bill si imbatte a un certo punto in Cobb (Alex Haw), un giovane ladro che si intrufola negli altrui appartamenti non solo per rubare ma anche per appropriarsi di pezzi di vita degli altri (tra l'altro, Cobb è il nome del protagonista di Inception interpretato da Leonardo Di Caprio). Bill ne è affascinato e ben presto si affianca a Cobb nella sua attività, ma non sa che sta infilandosi in un affare più grande di lui.
È evidente che questo primo film di Nolan è stato realizzato con pochissimi mezzi e pochissimi soldi; la sua forza sta tutta nel montaggio e nella trama da neo-noir con colpo di scena finale. In Following ci sono in nuce diversi elementi che saranno meglio sviluppati nel film che ha fatto conoscere al grande pubblico Nolan, ossia Memento, ma anche suggestioni che diventeranno elementi costanti della poetica e della cinematografia del regista britannico. In particolare, il piacere di giocare con il tempo e i salti temporali (in Following è un continuo andare indietro e avanti nella storia, mentre vengono disseminati indizi), il coinvolgimento dello spettatore che nel cinema di Nolan non è mai soltanto passivo, bensì è chiamato a mettere insieme i pezzi del puzzle che il regista gli sparpaglia davanti, e un certo gusto per la psicologia dei personaggi.
Ne viene fuori un film che mostra tecnicamente tutti i suoi limiti e alcune forme di ingenuità, ma che già fa trasparire la grandezza e soprattutto l'ambizione cinematografica di Nolan, un'ambizione che a mio modo di vedere ha sempre però alla base un grande amore per il cinema.
Voto: 3,5/5
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