Il Don Chisciotte interpretato da Alessio Boni è un altro degli spettacoli che erano stati a suo tempo rimandati a causa delle restrizioni dovute alla pandemia e che finalmente torna in scena al Teatro Ambra Jovinelli.
Arrivo al teatro - come ormai ovunque in questo periodo - ancora più trafelata e stanca del solito, ma vengo catturata quasi immediatamente dalla messa in scena. Questo Don Chisciotte è il risultato di un vero e proprio lavoro di squadra, visto che - sulla base dell'adattamento del romanzo fatto da Francesco Niccolini - la regia è di Roberto Aldorasi, Alessio Boni e Marcello Prayer, mentre la drammaturgia è degli stessi tre insieme al succitato Niccolini. Boni e Prayer sono anche interpreti dello spettacolo, insieme a Serra Yilmaz (un buffo ma azzeccato Sancho Panza), Francesco Meoni, Pietro Faiella, Liliana Massari ed Elena Nico.
Quello a cui assistiamo è uno spettacolo che esalta le caratteristiche migliori del teatro, capace - grazie alla costruzione di scene molto ben realizzate da Massimo Troncanetti, ai bellissimi costumi di Francesco Esposito (strepitosa la resa del cavallo Ronzinante), alle sapienti luci di Davide Scognamiglio, e alla discreta ma importante presenza delle musiche realizzate da Francesco Forni - di creare una magia speciale, evocando mondi e trascinando lo spettatore nell'universo fantastico e folle di Don Chisciotte.
La prima parte dello spettacolo - al di là del contenuto narrativo che in buona parte ci è noto, anche se forse alla fin fine non conosciamo poi così bene il romanzo di Cervantes - ci cattura in questo mondo attraverso la meraviglia dei sensi, soprattutto degli occhi, e ci tiene incollati alle avventure di don Chisciotte e di Sancho Panza.
Nella seconda parte, non so se perché la stanchezza prende il sopravvento o perché il ritmo si rallenta, lo spettacolo dal mio punto di vista perde un po' di mordente.
Però è stato comunque bello perdersi e al contempo rifugiarsi nella follia di don Chisciotte per due ore e mezzo, dimenticando per un po' le brutture del mondo reale, forse le stesse che avevano portato Alonso alla follia e a fuggire in un mondo immaginario di cavalieri, amori e avventure, le stesse che hanno spinto l'essere umano a creare quel mondo altro che è il teatro.
Voto: 3,5/5
mercoledì 30 marzo 2022
Don Chisciotte. Teatro Ambra Jovinelli, 22 marzo 2022
lunedì 28 marzo 2022
Licorice Pizza
Paul Thomas Anderson è uno di quei registi di cui tendo a non perdere nemmeno un film, fin dai tempi di Magnolia. Così, anche se non avessi letto la recensione entusiastica di Francesco Boille, sarei andata lo stesso a vederlo (rigorosamente in lingua originale).
Approfitto dunque della presenza a Roma di M. per proporle un'uscita cinematografica per vedere Licorice Pizza. Abituata alla cifra stilistica di Anderson (ma forse mi manca la componente più "goliardica" del suo cinema), resto completamente spiazzata dallo stile e dal tono di questo nuovo film, con cui il regista dimostra - se ne ce fosse stato bisogno - di essere in grado di fare film molto diversi tra loro e di saper padroneggiare linguaggi anche distanti.
Siamo a Los Angeles nel 1973. Protagonisti di Licorice Pizza sono Gary (Cooper Hoffman, figlio del compianto Philip Seymour Hoffman), un sedicenne pieno di voglia di vivere e di sogni, e Alana (la esordiente Alana Haim), una venticinquenne che ha un po' abbandonato i sogni ma vuole finalmente liberarsi dei condizionamenti di una famiglia piuttosto ingombrante. I due si incontrano alla scuola di lui in occasione della realizzazione delle foto scolastiche e Gary è immediatamente attirato da Alana. Inizia così la storia di un'amicizia che attraverserà molte avventure e vicissitudini prima di trasformarsi davvero in amore.
Il rapporto tra Gary e Alana fa da cornice a una serie di vicende che si configurano quasi come episodi autonomi e di cui sono protagonisti adulti ritratti in modi spesso grotteschi e surreali (tra questi i personaggi interpretati da Christine Ebersole, Tom Waits, Sean Penn, Bradley Cooper e Benny Safdie), personaggi in buona parte ispirati a figure note della società e del cinema di quegli anni.
Gary è solare e pieno di energia, corre, si butta in mille avventure e si improvvisa imprenditore, accompagnato dal suo gruppetto di amici bambini o adolescenti come lui. Alana sta in una terra di mezzo e fa fatica ad abbandonarsi alla vitalità di Gary. Intorno a loro un mondo capovolto in cui infantili, meschini, ridicoli e ipocriti sono proprio gli adulti, e ancora di più quegli adulti che sono stati, sono o aspirano a diventare famosi (che provengano dal mondo del cinema o della politica).
Inutile cercare nel film di Paul Thomas Anderson una effettiva verosimiglianza e una narrazione lineare, perché la scelta - probabilmente liberatoria - del regista è quella di procedere per frammenti narrativi, inserti quasi surreali, elementi di più o meno apparente nonsense, creando una giostra di situazioni a cui - come in tutte le giostre - bisogna lasciarsi andare senza cercare di razionalizzare, bensì facendosi cullare dalle immagini e dalla splendida colonna sonora.
Personalmente - si sa - faccio un po' fatica con le narrazioni non lineari come questa e non sono un'appassionata del registro grottesco/goliardico che certamente attraversa questo film, però durante la visione di Licorice Pizza riesco a più riprese a spegnere la mia naturale tendenza al controllo e mi godo la pazzia e la bellezza scombinata che lo caratterizzano.
Un po' penso al Red Rocket di Sean Baker (citato anche da Boille), un po' al Once upon a time... in Hollywood di Quentin Tarantino, perché in entrambi ci leggo - come in Licorice Pizza - una vena goliardica e anche uno sguardo divertito, critico ma anche amorevole verso il cinema e le sue infinite possibilità.
Voto: 3,5/5
Approfitto dunque della presenza a Roma di M. per proporle un'uscita cinematografica per vedere Licorice Pizza. Abituata alla cifra stilistica di Anderson (ma forse mi manca la componente più "goliardica" del suo cinema), resto completamente spiazzata dallo stile e dal tono di questo nuovo film, con cui il regista dimostra - se ne ce fosse stato bisogno - di essere in grado di fare film molto diversi tra loro e di saper padroneggiare linguaggi anche distanti.
Siamo a Los Angeles nel 1973. Protagonisti di Licorice Pizza sono Gary (Cooper Hoffman, figlio del compianto Philip Seymour Hoffman), un sedicenne pieno di voglia di vivere e di sogni, e Alana (la esordiente Alana Haim), una venticinquenne che ha un po' abbandonato i sogni ma vuole finalmente liberarsi dei condizionamenti di una famiglia piuttosto ingombrante. I due si incontrano alla scuola di lui in occasione della realizzazione delle foto scolastiche e Gary è immediatamente attirato da Alana. Inizia così la storia di un'amicizia che attraverserà molte avventure e vicissitudini prima di trasformarsi davvero in amore.
Il rapporto tra Gary e Alana fa da cornice a una serie di vicende che si configurano quasi come episodi autonomi e di cui sono protagonisti adulti ritratti in modi spesso grotteschi e surreali (tra questi i personaggi interpretati da Christine Ebersole, Tom Waits, Sean Penn, Bradley Cooper e Benny Safdie), personaggi in buona parte ispirati a figure note della società e del cinema di quegli anni.
Gary è solare e pieno di energia, corre, si butta in mille avventure e si improvvisa imprenditore, accompagnato dal suo gruppetto di amici bambini o adolescenti come lui. Alana sta in una terra di mezzo e fa fatica ad abbandonarsi alla vitalità di Gary. Intorno a loro un mondo capovolto in cui infantili, meschini, ridicoli e ipocriti sono proprio gli adulti, e ancora di più quegli adulti che sono stati, sono o aspirano a diventare famosi (che provengano dal mondo del cinema o della politica).
Inutile cercare nel film di Paul Thomas Anderson una effettiva verosimiglianza e una narrazione lineare, perché la scelta - probabilmente liberatoria - del regista è quella di procedere per frammenti narrativi, inserti quasi surreali, elementi di più o meno apparente nonsense, creando una giostra di situazioni a cui - come in tutte le giostre - bisogna lasciarsi andare senza cercare di razionalizzare, bensì facendosi cullare dalle immagini e dalla splendida colonna sonora.
Personalmente - si sa - faccio un po' fatica con le narrazioni non lineari come questa e non sono un'appassionata del registro grottesco/goliardico che certamente attraversa questo film, però durante la visione di Licorice Pizza riesco a più riprese a spegnere la mia naturale tendenza al controllo e mi godo la pazzia e la bellezza scombinata che lo caratterizzano.
Un po' penso al Red Rocket di Sean Baker (citato anche da Boille), un po' al Once upon a time... in Hollywood di Quentin Tarantino, perché in entrambi ci leggo - come in Licorice Pizza - una vena goliardica e anche uno sguardo divertito, critico ma anche amorevole verso il cinema e le sue infinite possibilità.
Voto: 3,5/5
venerdì 25 marzo 2022
La sostituta / Sophie Adriansen; Mathou
La sostituta / Sophie Adriansen; Mathou; a cura di Chiara Gregori. Padova: BeccoGiallo, 2022.
Vengo a conoscenza di questo graphic novel grazie alla bacheca FB di Caterina Ramonda, una mia collega bibliotecaria che scopro poi essere stata la traduttrice dal francese di questo lavoro di Sophie Adriansen e Mathou.
Il tema è per me di grandissimo interesse. Come per molti altri aspetti della vita umana – tra tutti la narrazione dell’amore romantico che tanti danni ha fatto alle nostre vite sentimentali -, ritengo che un altro tema su cui la retorica ha raggiunto vette inarrivabili è quello della maternità.
Per qualunque mamma è un tabù esprimersi meno che positivamente sulla maternità e non parlare delle gioie connesse.
Non si vuole certamente sostenere che la maternità non sia un momento importante nella vita di una donna e che il rapporto madre/figlio o figlia non abbia qualcosa di potente e che sfugge a qualunque interpretazione razionale. Però da qui a ritenere che una donna non sia pienamente tale se non è madre e che l’istinto e la gioia materni siano qualcosa di automatico e necessario ce ne passa.
Ebbene Sophie Adriansen e Mathou – come giustamente sottolinea nell’introduzione la psicologa e sessuologa Chiara Gregori – hanno il coraggio di dare voce e volto ai sentimenti contraddittori che molte mamme provano alla nascita dei loro figli e alla fatica che imparare ad amarli porta con sé.
La retorica dei piaceri della maternità soffoca la libertà delle madri di esprimere le proprie frustrazioni e difficoltà, e ridimensiona artificialmente il grosso problema della depressione post partum, causata dai cambiamenti ormonali che il parto porta con sé ma anche dallo stigma sociale di fronte a quelle madri che non sono immediatamente comprese nel loro ruolo.
La protagonista di questo graphic novel ci metterà parecchi mesi a entrare in sintonia con la sua piccola Zoe, e dovrà fare i conti con i sensi di colpa del non sentirsi immediatamente a proprio agio nel ruolo di madre, che sembra invece venire molto più naturale al suo compagno.
Saranno il supporto e la comprensione di quest’ultimo, il riconoscimento esterno del suo ruolo e soprattutto il tempo e il progressivo adattamento della protagonista a un nuovo modo di vivere determinato dall’esistenza della piccola Zoe a sciogliere i nodi di un cambiamento di enorme portata e per niente scontato.
Penso che molte più madri di quelle che sarebbero disposte ad ammetterlo pubblicamente, dopo la nascita dei loro figli, abbiano rimpianto la vita senza di loro e abbiano pensato in varie circostanze che vorrebbero una sostituta a occuparsi dei loro figli per poter riavere indietro la propria vita.
Adriansen e Mathou lo raccontano con delicatezza e senza pudori, e soprattutto in un modo che alla fine dei conti dimostra ancora più fortemente quanto la maternità sia un atto continuo e non scontato di amore verso i propri figli.
Voto: 4/5
Vengo a conoscenza di questo graphic novel grazie alla bacheca FB di Caterina Ramonda, una mia collega bibliotecaria che scopro poi essere stata la traduttrice dal francese di questo lavoro di Sophie Adriansen e Mathou.
Il tema è per me di grandissimo interesse. Come per molti altri aspetti della vita umana – tra tutti la narrazione dell’amore romantico che tanti danni ha fatto alle nostre vite sentimentali -, ritengo che un altro tema su cui la retorica ha raggiunto vette inarrivabili è quello della maternità.
Per qualunque mamma è un tabù esprimersi meno che positivamente sulla maternità e non parlare delle gioie connesse.
Non si vuole certamente sostenere che la maternità non sia un momento importante nella vita di una donna e che il rapporto madre/figlio o figlia non abbia qualcosa di potente e che sfugge a qualunque interpretazione razionale. Però da qui a ritenere che una donna non sia pienamente tale se non è madre e che l’istinto e la gioia materni siano qualcosa di automatico e necessario ce ne passa.
Ebbene Sophie Adriansen e Mathou – come giustamente sottolinea nell’introduzione la psicologa e sessuologa Chiara Gregori – hanno il coraggio di dare voce e volto ai sentimenti contraddittori che molte mamme provano alla nascita dei loro figli e alla fatica che imparare ad amarli porta con sé.
La retorica dei piaceri della maternità soffoca la libertà delle madri di esprimere le proprie frustrazioni e difficoltà, e ridimensiona artificialmente il grosso problema della depressione post partum, causata dai cambiamenti ormonali che il parto porta con sé ma anche dallo stigma sociale di fronte a quelle madri che non sono immediatamente comprese nel loro ruolo.
La protagonista di questo graphic novel ci metterà parecchi mesi a entrare in sintonia con la sua piccola Zoe, e dovrà fare i conti con i sensi di colpa del non sentirsi immediatamente a proprio agio nel ruolo di madre, che sembra invece venire molto più naturale al suo compagno.
Saranno il supporto e la comprensione di quest’ultimo, il riconoscimento esterno del suo ruolo e soprattutto il tempo e il progressivo adattamento della protagonista a un nuovo modo di vivere determinato dall’esistenza della piccola Zoe a sciogliere i nodi di un cambiamento di enorme portata e per niente scontato.
Penso che molte più madri di quelle che sarebbero disposte ad ammetterlo pubblicamente, dopo la nascita dei loro figli, abbiano rimpianto la vita senza di loro e abbiano pensato in varie circostanze che vorrebbero una sostituta a occuparsi dei loro figli per poter riavere indietro la propria vita.
Adriansen e Mathou lo raccontano con delicatezza e senza pudori, e soprattutto in un modo che alla fine dei conti dimostra ancora più fortemente quanto la maternità sia un atto continuo e non scontato di amore verso i propri figli.
Voto: 4/5
mercoledì 23 marzo 2022
Addio, sweet mister / Daniel Woodrell
Addio, sweet mister / Daniel Woodrell; trad. di Fabio Cremonesi. Milano: NNEditore, 2021.
Compro questo libro su suggerimento della libraia di Conversano e perché sono abbastanza convinta del fatto che la casa editrice NN sia abbastanza una garanzia a livello di selezione.
Non avevo mai sentito parlare di Daniel Woodrell e quindi scopro solo dopo aver aperto il romanzo che in realtà questo Addio, sweet mister è il terzo volume di una trilogia che, come in Kent Haruf, ha quale filo conduttore un luogo, ossia West Table, e qualche sporadico personaggio.
Il protagonista di questa storia è in tredicenne in sovrappeso, Shuggie, che vive insieme alla madre Glenda e a Red, il compagno della madre e suo patrigno. La loro casa è all'interno dell'area del cimitero locale di cui si prendono cura.
Glenda è una femme fatale alcolizzata, ma ancora capace di usare le armi della seduzione. Red è un piccolo delinquente e un tossico che insieme al compare Basil compie piccoli furti e azioni criminali, spesso servendosi anche di Shuggie.
Tra Shuggie e Glenda c'è un rapporto molto forte, ai limiti del morboso, e il ragazzino si erge a difensore della madre tutte le volte che quest'ultima è oggetto della bestialità e del cinismo di Red.
Questi equilibri disfunzionali reggono fino a quando Glenda incontra Jimmy Vin Pearce, un cuoco gentile che gira con una bella macchina e che resta affascinato dalla donna. Per Glenda Jimmy rappresenta l'occasione di scappare da West Table e di cambiare vita. Ma quando il rapporto con Jimmy e questo desiderio di cambiamento sembrano portare all'allontanamento da Shuggie, quest'ultimo metterà da parte le ultime briciole della sua innocenza infantile per abbracciare definitivamente l'ambiguità del mondo adulto.
Quella di Woodrell è la classica storia di coming of age ambientata nella degradata e polverosa provincia americana e per due terzi del libro si ha la sensazione di non leggere nulla di nuovo e di sapere già cosa ci attende.
In realtà la svolta narrativa dell'ultima parte del romanzo è potente e in buona parte originale, e racconta di una crescita che per una volta passa non attraverso il cambiamento e l'allontanamento dal nucleo familiare bensì attraverso il tentativo di impedire questo cambiamento e di trascinare il mondo intorno verso una infelicità senza speranza e senza via d'uscita.
Scopro che il libro era già uscito con due diversi titoli, Il bel cavaliere se n'è andato per Bompiani, e Io e Glenda per Fanucci, ma grazie alla traduzione e al bel commento di Fabio Cremonesi, NN lo ripropone a completamento della trilogia di West Table.
Voto: 3/5
Compro questo libro su suggerimento della libraia di Conversano e perché sono abbastanza convinta del fatto che la casa editrice NN sia abbastanza una garanzia a livello di selezione.
Non avevo mai sentito parlare di Daniel Woodrell e quindi scopro solo dopo aver aperto il romanzo che in realtà questo Addio, sweet mister è il terzo volume di una trilogia che, come in Kent Haruf, ha quale filo conduttore un luogo, ossia West Table, e qualche sporadico personaggio.
Il protagonista di questa storia è in tredicenne in sovrappeso, Shuggie, che vive insieme alla madre Glenda e a Red, il compagno della madre e suo patrigno. La loro casa è all'interno dell'area del cimitero locale di cui si prendono cura.
Glenda è una femme fatale alcolizzata, ma ancora capace di usare le armi della seduzione. Red è un piccolo delinquente e un tossico che insieme al compare Basil compie piccoli furti e azioni criminali, spesso servendosi anche di Shuggie.
Tra Shuggie e Glenda c'è un rapporto molto forte, ai limiti del morboso, e il ragazzino si erge a difensore della madre tutte le volte che quest'ultima è oggetto della bestialità e del cinismo di Red.
Questi equilibri disfunzionali reggono fino a quando Glenda incontra Jimmy Vin Pearce, un cuoco gentile che gira con una bella macchina e che resta affascinato dalla donna. Per Glenda Jimmy rappresenta l'occasione di scappare da West Table e di cambiare vita. Ma quando il rapporto con Jimmy e questo desiderio di cambiamento sembrano portare all'allontanamento da Shuggie, quest'ultimo metterà da parte le ultime briciole della sua innocenza infantile per abbracciare definitivamente l'ambiguità del mondo adulto.
Quella di Woodrell è la classica storia di coming of age ambientata nella degradata e polverosa provincia americana e per due terzi del libro si ha la sensazione di non leggere nulla di nuovo e di sapere già cosa ci attende.
In realtà la svolta narrativa dell'ultima parte del romanzo è potente e in buona parte originale, e racconta di una crescita che per una volta passa non attraverso il cambiamento e l'allontanamento dal nucleo familiare bensì attraverso il tentativo di impedire questo cambiamento e di trascinare il mondo intorno verso una infelicità senza speranza e senza via d'uscita.
Scopro che il libro era già uscito con due diversi titoli, Il bel cavaliere se n'è andato per Bompiani, e Io e Glenda per Fanucci, ma grazie alla traduzione e al bel commento di Fabio Cremonesi, NN lo ripropone a completamento della trilogia di West Table.
Voto: 3/5
venerdì 18 marzo 2022
Piovevano uccelli / Jocelyne Saucier
Piovevano uccelli / Jocelyne Saucier; trad. di Luciana Cisbani. Milano: Iperborea, 2021.
Charlie, Tom e Ted sono tre anziani che a un certo punto della loro vita hanno deciso di ritirarsi a vivere nei boschi, lontani dalla civiltà e dalle sue aspettative. Ognuno ha la sua baracca e le sue attività quotidiane; ognuno ha su uno scaffale un barattolo con la stricnina, perché la libertà per loro non è solo quella di vivere come desiderano ma anche quella di morire con dignità.
I tre "vecchietti" sono aiutati e sostenuti esternamente da Steve, che gestisce un albergo al limitare del bosco e che ha il compito di tenere alla larga eventuali curiosi, e Bruno che rappresenta il legame con il mondo reale, e dunque procura alla piccola comunità del lago i beni necessari.
I cinque condividono la gestione e la cura di una coltivazione di marjuana, che costituisce un introito sicuro e una garanzia di tranquillità economica per tutti.
Un giorno - inaspettatamente e un po' fortunosamente - arriva in questa piccola comunità una fotografa che sta portando avanti un progetto fotografico che consiste nell'intervistare e fare delle fotografie a persone che hanno vissuto i grandi incendi verificatisi in Ontario all'inizio del Novecento. Uno di questi testimoni è Ted Boychuck, che altre persone ricordano come il ragazzo che vagava tra le fiamme.
Quando la fotografa arriva scopre però che Ted (di cui tra l'altro non è certo nemmeno il nome) è morto di morte naturale e che gli altri due hanno provveduto a seppellirlo.
Da questo momento una serie di eventi cambiano per sempre la vita di Charlie e Tom e la loro piccola comunità ben presto non solo finisce per tollerare le visite periodiche della fotografa ma accetta anche l'arrivo e la permanenza di una donna anziana, Marie-Desneige, che ha vissuto tutta la vita in un istituto psichiatrico e che Bruno ha deciso di salvare da questo destino.
Jocelyne Saucier scrive un libro delicato, al contempo profondo e divertito, e ci offre l'occasione di riflettere sulla vecchiaia, e su quanto ci sia in essa di fortemente vitale, nonostante e forse anche grazie alla consapevolezza costante della presenza della morte. Ed è incredibile come, proprio attraverso la storia di un gruppo di anziani, si riesca a parlare di amore, di rinascite e di prospettive.
Il tutto inserito all'interno della cornice rappresentata dal racconto dei tremendi incendi che in Ontario nel 1916 fecero molti morti e cambiarono la vita di questi luoghi, lasciando nella memoria dei sopravvissuti immagini molto vivide e forti, come appunto quella della pioggia di uccelli, che cadevano al suolo soffocati.
Con la traduzione e la pubblicazione di questo libro canadese del 2011, Iperborea allarga lo sguardo a un Nord diverso da quello europeo (su cui fin qui ha concentrato l'attenzione), portandoci a scoprire vicende lontane e per noi poco conosciute, ma nelle quali si muovono sentimenti universali capaci di toccare il cuore dei lettori di tutto il mondo.
Non so se è perché sto diventando io stessa vecchia o perché in questo periodo il mio contatto con la vecchiaia altrui è più profondo, ma adoro i libri (e anche i film) che si incentrano su protagonisti anziani, che sempre sono portatori di saggezze e fragilità straordinarie che non possono lasciare indifferenti.
Voto: 3,5/5
Charlie, Tom e Ted sono tre anziani che a un certo punto della loro vita hanno deciso di ritirarsi a vivere nei boschi, lontani dalla civiltà e dalle sue aspettative. Ognuno ha la sua baracca e le sue attività quotidiane; ognuno ha su uno scaffale un barattolo con la stricnina, perché la libertà per loro non è solo quella di vivere come desiderano ma anche quella di morire con dignità.
I tre "vecchietti" sono aiutati e sostenuti esternamente da Steve, che gestisce un albergo al limitare del bosco e che ha il compito di tenere alla larga eventuali curiosi, e Bruno che rappresenta il legame con il mondo reale, e dunque procura alla piccola comunità del lago i beni necessari.
I cinque condividono la gestione e la cura di una coltivazione di marjuana, che costituisce un introito sicuro e una garanzia di tranquillità economica per tutti.
Un giorno - inaspettatamente e un po' fortunosamente - arriva in questa piccola comunità una fotografa che sta portando avanti un progetto fotografico che consiste nell'intervistare e fare delle fotografie a persone che hanno vissuto i grandi incendi verificatisi in Ontario all'inizio del Novecento. Uno di questi testimoni è Ted Boychuck, che altre persone ricordano come il ragazzo che vagava tra le fiamme.
Quando la fotografa arriva scopre però che Ted (di cui tra l'altro non è certo nemmeno il nome) è morto di morte naturale e che gli altri due hanno provveduto a seppellirlo.
Da questo momento una serie di eventi cambiano per sempre la vita di Charlie e Tom e la loro piccola comunità ben presto non solo finisce per tollerare le visite periodiche della fotografa ma accetta anche l'arrivo e la permanenza di una donna anziana, Marie-Desneige, che ha vissuto tutta la vita in un istituto psichiatrico e che Bruno ha deciso di salvare da questo destino.
Jocelyne Saucier scrive un libro delicato, al contempo profondo e divertito, e ci offre l'occasione di riflettere sulla vecchiaia, e su quanto ci sia in essa di fortemente vitale, nonostante e forse anche grazie alla consapevolezza costante della presenza della morte. Ed è incredibile come, proprio attraverso la storia di un gruppo di anziani, si riesca a parlare di amore, di rinascite e di prospettive.
Il tutto inserito all'interno della cornice rappresentata dal racconto dei tremendi incendi che in Ontario nel 1916 fecero molti morti e cambiarono la vita di questi luoghi, lasciando nella memoria dei sopravvissuti immagini molto vivide e forti, come appunto quella della pioggia di uccelli, che cadevano al suolo soffocati.
Con la traduzione e la pubblicazione di questo libro canadese del 2011, Iperborea allarga lo sguardo a un Nord diverso da quello europeo (su cui fin qui ha concentrato l'attenzione), portandoci a scoprire vicende lontane e per noi poco conosciute, ma nelle quali si muovono sentimenti universali capaci di toccare il cuore dei lettori di tutto il mondo.
Non so se è perché sto diventando io stessa vecchia o perché in questo periodo il mio contatto con la vecchiaia altrui è più profondo, ma adoro i libri (e anche i film) che si incentrano su protagonisti anziani, che sempre sono portatori di saggezze e fragilità straordinarie che non possono lasciare indifferenti.
Voto: 3,5/5
martedì 15 marzo 2022
A white, white day = Segreti nella nebbia
Era un po' che inseguivo questo film del regista islandese Hlynur Palmason - ne avevo sentito parlare e letto molto bene - e finalmente, grazie al mitico Cinema dei piccoli di Villa Borghese, non solo riesco a recuperarlo ma anche a vederlo in lingua originale, che è secondo un me un grande valore aggiunto.
Protagonista del film è Ingimundur (il bravissimo Ingvar Eggert Sigurðsson), un poliziotto in congedo che ha da poco perso la moglie in un incidente stradale. L'uomo affronta il suo lutto dedicandosi alla ristrutturazione di una casa che era in realtà una specie di costruzione agricola abbandonata e svolgendo il suo ruolo di nonno, in particolare prendendosi cura della nipote Salka (Ída Mekkín Hlynsdóttir).
La scoperta di alcuni indizi spinge Ingimundur sulle tracce dell'uomo con cui ritiene che sua moglie lo tradisse. All'interno di un paesaggio dominato dalla nebbia, in cui la terra non si distingue dal cielo (da qui il titolo), il protagonista - incapace di comunicare il proprio dolore e la difficoltà di superare la perdita - scivola in un comportamento paranoico alimentato dalla rabbia e dall'odio, finendo per mettere a rischio l'incolumità della sua amatissima nipotina e per allontanarsi da lei e dalla famiglia.
Solo questa caduta nell'abisso oscuro dei suoi demoni interiori gli permetterà - dopo aver toccato il fondo - di risalire in superficie e ritrovare il senso della propria vita passata e futura.
Quello di Palmason è sostanzialmente un noir costruito su un contenuto narrativo se vogliamo molto semplice e persino esile, ma è chiaro che l'intento vero del regista è quello di raccontare, attraverso questa storia, i sentimenti compressi di un uomo burbero, incapace di verbalizzare rabbia e dolore, pur essendo un nonno tenero e affettuoso.
Molta parte del fascino e del senso di questo racconto sta ovviamente nella sua ambientazione estrema e remota, questa Islanda fatta di una natura grandiosa e ostile e di un clima quasi ai limiti della compatibilità con la vita umana.
Si riconoscono una connessione e un parallelismo molto forti tra i tratti di questa terra e le caratteristiche di quest'uomo, che di essa è un'espressione pura e profonda.
Un film esteticamente molto bello (stupendo il montaggio iniziale con telecamera fissa sulla costruzione agricola che diventerà la casa di Ingimundur con il trascorrere delle stagioni e dei climi), ma anche emotivamente molto intenso.
Voto: 3,5/5
Protagonista del film è Ingimundur (il bravissimo Ingvar Eggert Sigurðsson), un poliziotto in congedo che ha da poco perso la moglie in un incidente stradale. L'uomo affronta il suo lutto dedicandosi alla ristrutturazione di una casa che era in realtà una specie di costruzione agricola abbandonata e svolgendo il suo ruolo di nonno, in particolare prendendosi cura della nipote Salka (Ída Mekkín Hlynsdóttir).
La scoperta di alcuni indizi spinge Ingimundur sulle tracce dell'uomo con cui ritiene che sua moglie lo tradisse. All'interno di un paesaggio dominato dalla nebbia, in cui la terra non si distingue dal cielo (da qui il titolo), il protagonista - incapace di comunicare il proprio dolore e la difficoltà di superare la perdita - scivola in un comportamento paranoico alimentato dalla rabbia e dall'odio, finendo per mettere a rischio l'incolumità della sua amatissima nipotina e per allontanarsi da lei e dalla famiglia.
Solo questa caduta nell'abisso oscuro dei suoi demoni interiori gli permetterà - dopo aver toccato il fondo - di risalire in superficie e ritrovare il senso della propria vita passata e futura.
Quello di Palmason è sostanzialmente un noir costruito su un contenuto narrativo se vogliamo molto semplice e persino esile, ma è chiaro che l'intento vero del regista è quello di raccontare, attraverso questa storia, i sentimenti compressi di un uomo burbero, incapace di verbalizzare rabbia e dolore, pur essendo un nonno tenero e affettuoso.
Molta parte del fascino e del senso di questo racconto sta ovviamente nella sua ambientazione estrema e remota, questa Islanda fatta di una natura grandiosa e ostile e di un clima quasi ai limiti della compatibilità con la vita umana.
Si riconoscono una connessione e un parallelismo molto forti tra i tratti di questa terra e le caratteristiche di quest'uomo, che di essa è un'espressione pura e profonda.
Un film esteticamente molto bello (stupendo il montaggio iniziale con telecamera fissa sulla costruzione agricola che diventerà la casa di Ingimundur con il trascorrere delle stagioni e dei climi), ma anche emotivamente molto intenso.
Voto: 3,5/5
sabato 12 marzo 2022
Il nodo / con Ambra Angiolini e Arianna Scommegna. Teatro Ambra Jovinelli, 24 febbraio 2022
Con F. decidiamo di andiamo a vedere questo spettacolo fondamentalmente perché c’è Arianna Scommegna, attrice che abbiamo imparato a conoscere e ad apprezzare nel corso degli anni attraverso spettacoli molto diversi tra loro.
Entrambe arriviamo alla sera della messa in scena senza sapere quasi niente di questo testo dell’americana Johnna Adams, tradotto in italiano da Vincenzo Manna e Edward Fortes.
Il sipario si apre su una scenografia che – su un piano inclinato – rappresenta una classe con i suoi banchi e le sue sedie. Una professoressa, Heather Clark (Arianna Scommegna), se ne sta in questa classe in piedi, con fare inquieto, quando improvvisamente irrompe la madre di uno studente, Corryn Fell (Ambra Angiolini), che ha un colloquio con un’insegnante del figlio, Gidion.
Ben presto si scopre che l’insegnante con cui Corryn ha appuntamento è proprio la signora Clark, e che questo non è un colloquio come tutti gli altri, perché qualcosa di terribile è successo nei giorni precedenti.
Il dialogo tra le due procede tra imbarazzi, accuse reciproche, esplosioni di rabbia, dolore trattenuto e manifestato, senso di impotenza e momenti di tenerezza, in un crescendo emotivo che ha il sapore dell’ineluttabilità. La signora Clark difende il suo ruolo di insegnante e la responsabilità che porta nei confronti dei ragazzi considerati collettivamente, e dunque non è disposta a mettere in discussione il provvedimento di sospensione emanato verso Gidion; la madre Corryn ricerca negli eventi un sottotesto e un’interpretazione diversa da quella della scuola, nel tentativo di comprendere quanto è accaduto e soprattutto perché.
Il quanto lo comprenderemo a poco a poco anche noi, il perché rimarrà ambiguo perché non è facile entrare nella testa di questi ragazzini e perché le tracce che lasciano possono essere fraintese in un senso o nell’altro. E in questa ambiguità le due donne – tra l’altro lasciate sole a confrontarsi su una vicenda che ha il carattere dell’enormità – non possono fare altro che difendere sé stesse e il proprio operato, pur essendo entrambe e a loro volta consapevoli del fatto che in casi come questo scaricare le colpe su qualcun altro è solo una strada obbligata e necessaria per non impazzire di dolore.
Il testo di Johnna Adams è certamente situato culturalmente e geograficamente nel contesto americano, ma è indubbiamente vero che la vicenda che racconta rimane comprensibile e plausibile anche al di fuori di quel contesto.
Le due attrici sono molto brave nel tentativo di mantenere sempre credibile questo dialogo difficile ed estremo, e nel giocare con ambiguità e oscillazioni emotive, anche lì dove queste possano risultare disallineate rispetto a quanto ci si aspetterebbe.
Per quanto mi riguarda lo spettacolo non è riuscito mai davvero a conquistarmi emotivamente, e la mia visione è rimasta sempre piuttosto razionale e distaccata, togliendo forza al pathos che vorrebbe trasmettere. Ne ho comunque apprezzato sia la messa in scena sia la prova attoriale, e credo che non sia poco rispetto a quello che uno spettacolo teatrale può offrire.
Voto: 3,5/5
Entrambe arriviamo alla sera della messa in scena senza sapere quasi niente di questo testo dell’americana Johnna Adams, tradotto in italiano da Vincenzo Manna e Edward Fortes.
Il sipario si apre su una scenografia che – su un piano inclinato – rappresenta una classe con i suoi banchi e le sue sedie. Una professoressa, Heather Clark (Arianna Scommegna), se ne sta in questa classe in piedi, con fare inquieto, quando improvvisamente irrompe la madre di uno studente, Corryn Fell (Ambra Angiolini), che ha un colloquio con un’insegnante del figlio, Gidion.
Ben presto si scopre che l’insegnante con cui Corryn ha appuntamento è proprio la signora Clark, e che questo non è un colloquio come tutti gli altri, perché qualcosa di terribile è successo nei giorni precedenti.
Il dialogo tra le due procede tra imbarazzi, accuse reciproche, esplosioni di rabbia, dolore trattenuto e manifestato, senso di impotenza e momenti di tenerezza, in un crescendo emotivo che ha il sapore dell’ineluttabilità. La signora Clark difende il suo ruolo di insegnante e la responsabilità che porta nei confronti dei ragazzi considerati collettivamente, e dunque non è disposta a mettere in discussione il provvedimento di sospensione emanato verso Gidion; la madre Corryn ricerca negli eventi un sottotesto e un’interpretazione diversa da quella della scuola, nel tentativo di comprendere quanto è accaduto e soprattutto perché.
Il quanto lo comprenderemo a poco a poco anche noi, il perché rimarrà ambiguo perché non è facile entrare nella testa di questi ragazzini e perché le tracce che lasciano possono essere fraintese in un senso o nell’altro. E in questa ambiguità le due donne – tra l’altro lasciate sole a confrontarsi su una vicenda che ha il carattere dell’enormità – non possono fare altro che difendere sé stesse e il proprio operato, pur essendo entrambe e a loro volta consapevoli del fatto che in casi come questo scaricare le colpe su qualcun altro è solo una strada obbligata e necessaria per non impazzire di dolore.
Il testo di Johnna Adams è certamente situato culturalmente e geograficamente nel contesto americano, ma è indubbiamente vero che la vicenda che racconta rimane comprensibile e plausibile anche al di fuori di quel contesto.
Le due attrici sono molto brave nel tentativo di mantenere sempre credibile questo dialogo difficile ed estremo, e nel giocare con ambiguità e oscillazioni emotive, anche lì dove queste possano risultare disallineate rispetto a quanto ci si aspetterebbe.
Per quanto mi riguarda lo spettacolo non è riuscito mai davvero a conquistarmi emotivamente, e la mia visione è rimasta sempre piuttosto razionale e distaccata, togliendo forza al pathos che vorrebbe trasmettere. Ne ho comunque apprezzato sia la messa in scena sia la prova attoriale, e credo che non sia poco rispetto a quello che uno spettacolo teatrale può offrire.
Voto: 3,5/5
mercoledì 9 marzo 2022
Il filo invisibile
Nel 2012 Marco Simon Puccioni aveva iniziato un progetto cinematografico dedicato alle famiglie arcobaleno, e dopo un primo documentario, Prima di tutto, in cui lo sguardo era rivolto non solo alla propria famiglia ma anche alle esperienze di molte altre famiglie formate da coppie dello stesso sesso con figli, nel secondo, Tuttinsieme, aveva scelto una strada molto più personale, raccontando la storia della nascita e dei primi anni di vita dei figli, Denis e David, nati grazie alla gestazione per altri (GPA) di una donna americana.
Non so se questo nuovo film, Il filo invisibile, si possa considerare il terzo capitolo di questo progetto. Certo è che il tema resta lo stesso, solo che il regista sceglie di spostarsi dal piano del documentario a quello della fiction, e per l’esattezza sceglie il linguaggio della commedia.
Simone (Francesco Scianna) e Paolo (Filippo Timi) sono sposati ormai da parecchi anni, e hanno un figlio di 16 anni, Leone (Francesco Gheghi), nato da una donna americana con una GPA. Leone sta realizzando un documentario sulla propria famiglia e su tutte le battaglie che ha dovuto combattere nel corso del tempo.
Mentre Leone si innamora di Giulia e vive i primi turbamenti dell’amore e le difficoltà dell’adolescenza, la sua famiglia subisce un vero e proprio terremoto nel momento in cui Paolo scopre che Simone lo tradisce da due anni con un altro uomo.
Tra gag tipiche di questo meccanismo narrativo, ma virate in chiave “famiglia arcobaleno”, il film scivola via divertente e intelligente, mentre fa emergere e rovescia i classici stereotipi sull’omosessualità e le coppie omosessuali, oltre a dimostrare con i fatti che questa famiglia, da molti considerata diversa, è in realtà una famiglia con le stesse dinamiche e problematiche di tutte le altre, e a cui in qualche modo si applicano le stesse regole e gli stessi parametri.
La sceneggiatura è brillante, gli attori particolarmente credibili nei loro ruoli e capaci di mantenersi mirabilmente in bilico tra il registro comico e quello drammatico, perché in un rapporto di coppia che finisce e in un ragazzo che diventa adulto c’è sempre qualcosa di doloroso e di drammatico che, attraverso una transizione, porta alfine a un nuovo equilibrio.
Nel film sono molti i temi spinosi che vengono affrontati con naturalezza ed equilibrio, e Marco Simon Puccioni dimostra da questo punto di vista una grande sensibilità e misura. Forse non sarà il film migliore della sua vita, ma a me pare che raggiunga il suo obiettivo con efficacia e maestria.
Il valore aggiunto è la possibilità per me di vedere il film al cinema Troisi alla presenza del regista, degli attori e della produttrice Valeria Golino, e di partecipare al dibattito che ne segue.
Voto: 3,5/5
Non so se questo nuovo film, Il filo invisibile, si possa considerare il terzo capitolo di questo progetto. Certo è che il tema resta lo stesso, solo che il regista sceglie di spostarsi dal piano del documentario a quello della fiction, e per l’esattezza sceglie il linguaggio della commedia.
Simone (Francesco Scianna) e Paolo (Filippo Timi) sono sposati ormai da parecchi anni, e hanno un figlio di 16 anni, Leone (Francesco Gheghi), nato da una donna americana con una GPA. Leone sta realizzando un documentario sulla propria famiglia e su tutte le battaglie che ha dovuto combattere nel corso del tempo.
Mentre Leone si innamora di Giulia e vive i primi turbamenti dell’amore e le difficoltà dell’adolescenza, la sua famiglia subisce un vero e proprio terremoto nel momento in cui Paolo scopre che Simone lo tradisce da due anni con un altro uomo.
Tra gag tipiche di questo meccanismo narrativo, ma virate in chiave “famiglia arcobaleno”, il film scivola via divertente e intelligente, mentre fa emergere e rovescia i classici stereotipi sull’omosessualità e le coppie omosessuali, oltre a dimostrare con i fatti che questa famiglia, da molti considerata diversa, è in realtà una famiglia con le stesse dinamiche e problematiche di tutte le altre, e a cui in qualche modo si applicano le stesse regole e gli stessi parametri.
La sceneggiatura è brillante, gli attori particolarmente credibili nei loro ruoli e capaci di mantenersi mirabilmente in bilico tra il registro comico e quello drammatico, perché in un rapporto di coppia che finisce e in un ragazzo che diventa adulto c’è sempre qualcosa di doloroso e di drammatico che, attraverso una transizione, porta alfine a un nuovo equilibrio.
Nel film sono molti i temi spinosi che vengono affrontati con naturalezza ed equilibrio, e Marco Simon Puccioni dimostra da questo punto di vista una grande sensibilità e misura. Forse non sarà il film migliore della sua vita, ma a me pare che raggiunga il suo obiettivo con efficacia e maestria.
Il valore aggiunto è la possibilità per me di vedere il film al cinema Troisi alla presenza del regista, degli attori e della produttrice Valeria Golino, e di partecipare al dibattito che ne segue.
Voto: 3,5/5
lunedì 7 marzo 2022
Ogni bellissima cosa. Palazzo Merulana, 20 febbraio 2022
Ogni bellissima cosa è uno spettacolo che io e F. abbiamo inseguito e mancato nei lunghi mesi della pandemia e che finalmente siamo riuscite a vedere grazie alla rassegna Prossime visioni. Cinema-teatro a Palazzo organizzata appunto da Palazzo Merulana.
Lo spettacolo è tratto dal libro omonimo di Duncan McMillan, poi adattato per il teatro da lui stesso insieme a Jonny Donahoe. In Italia ce lo porta la bravissima Monica Nappo, qui in veste di regista e traduttrice anziché di attrice; sul palco Carlo De Ruggieri, certamente noto a tutti i fan di Boris e a tutti i nostalgici di Mattia Torre che lo ha spesso voluto a recitare i suoi testi.
Palazzo Merulana non è un teatro e non ha un auditorium in senso stresso. Lo spettacolo si svolge nella sala dell’ultimo piano, dove di solito ci sono le esposizioni temporanee e si tengono gli eventi. Lo spettacolo si presta certamente a un ambiente più informale e meno caratterizzato dalla divisione tra attori e spettatori.
Le sedie sono tutte disposte in cerchio, in varie file, intorno a Carlo De Ruggieri, che prima che lo spettacolo inizi ci fa pescare da un contenitore trasparente un bigliettino in cui c’è scritto un numero e una frase. Ci dice che possiamo vederla e che dovremo leggerla ad alta voce a un certo punto dello spettacolo.
Ogni bellissima cosa racconta la storia di un uomo che da bambino ha dovuto fare troppo presto i conti con la morte di fronte al primo tentativo di suicidio della madre depressa. Questo bambino, che all’inizio è troppo piccolo per comprendere e non riesce nemmeno a fare delle domande al padre, che a sua volta non sembra animato da un grande desiderio di spiegare, diventa ben presto adolescente, mentre sua madre continua a combattere con questo male oscuro che fa seguire a momenti di euforia cadute rovinose nel baratro del nonsenso. È in questa fase che il protagonista comincia a stilare la lista di “ogni bellissima cosa” per cui vale la pena vivere, con l’intento di invadere di questi pensieri “positivi” la vita della madre e con la speranza di salvarla. La depressione però non ha molto a che fare con la volontà e il nostro protagonista dovrà dolorosamente prenderne coscienza, al punto da abbandonare la lista. Questa lista però ritornerà a essere protagonista in molti momenti importanti della sua vita e si allungherà fino a raggiungere numeri parecchio elevati.
In questa rievocazione della memoria il pubblico è parte integrante dello spettacolo e protagonista: non solo è chiamato a recitare alcune delle bellissime cose della lista, ma ad alcune persone del pubblico viene chiesto di interpretare alcuni personaggi di questa storia. Carlo De Ruggieri è bravissimo nell’esprimere le tante sfumature di questa storia e del suo protagonista: non mancano i momenti divertenti, quasi comici, ma dietro questa apparente leggerezza scorre una storia molto forte, che fa riflettere ed emozionare profondamente.
Io non riesco a trattenere una lacrimuccia al termine dello spettacolo, e devo dire che è qualcosa per me di molto raro a teatro. Sarà che questo modo di fare teatro, il clima informale, l’assenza di distanza tra attore e spettatori, il coinvolgimento del pubblico sono per me un modo davvero bello di assistere a uno spettacolo, e trasformano il semplice ascolto in partecipazione attiva e stratificata. Se a questo si aggiunge un testo così diretto, delicato e potente la magia è compiuta.
Voto: 4,5/5
Lo spettacolo è tratto dal libro omonimo di Duncan McMillan, poi adattato per il teatro da lui stesso insieme a Jonny Donahoe. In Italia ce lo porta la bravissima Monica Nappo, qui in veste di regista e traduttrice anziché di attrice; sul palco Carlo De Ruggieri, certamente noto a tutti i fan di Boris e a tutti i nostalgici di Mattia Torre che lo ha spesso voluto a recitare i suoi testi.
Palazzo Merulana non è un teatro e non ha un auditorium in senso stresso. Lo spettacolo si svolge nella sala dell’ultimo piano, dove di solito ci sono le esposizioni temporanee e si tengono gli eventi. Lo spettacolo si presta certamente a un ambiente più informale e meno caratterizzato dalla divisione tra attori e spettatori.
Le sedie sono tutte disposte in cerchio, in varie file, intorno a Carlo De Ruggieri, che prima che lo spettacolo inizi ci fa pescare da un contenitore trasparente un bigliettino in cui c’è scritto un numero e una frase. Ci dice che possiamo vederla e che dovremo leggerla ad alta voce a un certo punto dello spettacolo.
Ogni bellissima cosa racconta la storia di un uomo che da bambino ha dovuto fare troppo presto i conti con la morte di fronte al primo tentativo di suicidio della madre depressa. Questo bambino, che all’inizio è troppo piccolo per comprendere e non riesce nemmeno a fare delle domande al padre, che a sua volta non sembra animato da un grande desiderio di spiegare, diventa ben presto adolescente, mentre sua madre continua a combattere con questo male oscuro che fa seguire a momenti di euforia cadute rovinose nel baratro del nonsenso. È in questa fase che il protagonista comincia a stilare la lista di “ogni bellissima cosa” per cui vale la pena vivere, con l’intento di invadere di questi pensieri “positivi” la vita della madre e con la speranza di salvarla. La depressione però non ha molto a che fare con la volontà e il nostro protagonista dovrà dolorosamente prenderne coscienza, al punto da abbandonare la lista. Questa lista però ritornerà a essere protagonista in molti momenti importanti della sua vita e si allungherà fino a raggiungere numeri parecchio elevati.
In questa rievocazione della memoria il pubblico è parte integrante dello spettacolo e protagonista: non solo è chiamato a recitare alcune delle bellissime cose della lista, ma ad alcune persone del pubblico viene chiesto di interpretare alcuni personaggi di questa storia. Carlo De Ruggieri è bravissimo nell’esprimere le tante sfumature di questa storia e del suo protagonista: non mancano i momenti divertenti, quasi comici, ma dietro questa apparente leggerezza scorre una storia molto forte, che fa riflettere ed emozionare profondamente.
Io non riesco a trattenere una lacrimuccia al termine dello spettacolo, e devo dire che è qualcosa per me di molto raro a teatro. Sarà che questo modo di fare teatro, il clima informale, l’assenza di distanza tra attore e spettatori, il coinvolgimento del pubblico sono per me un modo davvero bello di assistere a uno spettacolo, e trasformano il semplice ascolto in partecipazione attiva e stratificata. Se a questo si aggiunge un testo così diretto, delicato e potente la magia è compiuta.
Voto: 4,5/5
venerdì 4 marzo 2022
Art / Yasmina Reza. Teatro Vascello, 19 febbraio 2022
Ero andata a vedere questo spettacolo piuttosto prevenuta, perché l’ultima volta che ero stata a uno spettacolo tratto da un testo di Yasmina Reza (Bella figura) ero rimasta parecchio delusa. Tra l’altro arrivo al Teatro Vascello molto stanca perché sono le ultime settimane prima del trasloco in un nuovo appartamento e le giornate sono lunghe e piene di cose da fare.
Considerata la trama dello spettacolo (tre amici discutono del fatto che uno di loro ha comprato, per una cifra parecchio importante, un quadro interamente bianco in cui a malapena si intravedono delle striature diagonali sempre bianche), ho paura che il fuoco della narrazione sarà sull’arte contemporanea e le sue “follie”.
E invece lo spettacolo portato in scena da Generazione Disagio, il collettivo artistico creato nel 2013 da Enrico Pittaluga, mi sorprende molto piacevolmente. Innanzitutto, è chiaro fin da subito che il tema di Art è l’amicizia, in particolare quella maschile, ma con tratti e riflessioni che in buona parte riescono a prescindere dal genere.
I protagonisti sono Serge (Graziano Sirressi), Marc (Luca Mammoli) e Yvan (Enrico Pittaluga): il primo è l’appassionato di arte contemporanea che ha acquistato il famigerato quadro; Marc è invece un ingegnere dall’approccio molto razionale che vede questa scelta di Serge come folle e/o snobistica; infine Yvan è un po’ il buono e anche lo sfigato del gruppo, che cerca sempre la terza via nel conflitto anche in virtù della sua insicurezza.
E infatti, a fronte del conflitto che quasi subito divampa tra Serge e Marc, Yvan viene chiamato in causa quasi come un ago della bilancia; peccato che la sua linea morbida finisca per scontentare entrambi gli amici e determinare un’alleanza tra i due contro lo stesso Yvan.
La drammaturgia della Reza prevede momenti di dialogo a due, e altri in cui tutti e tre i protagonisti interagiscono. Tutto questo in un palco vuoto, in cui le diverse situazioni sono gestite attraverso le luci e dove campeggia esclusivamente un grande telo bianco, su cui gli stessi protagonisti proietteranno a un certo punto le loro ombre sia in silhouette nera sia in versione colorata 3D.
Ne viene fuori sia il ritratto individuale di questi tre personaggi, ma soprattutto le dinamiche dell’amicizia declinate nelle diverse specificità prodotte dal rapporto a due o a tre, che inevitabilmente innesca più evidenti giochi di ruolo.
L’effetto è molto divertente, ma anche piuttosto crudele (come del resto la Reza ci ha già fatto assaporare con Carnage), dal momento che in queste dinamiche ciascuna tira fuori il peggio di sé, portando alla luce in molti casi le motivazioni spesso egoistiche e meschine che stanno alla base dell’amicizia. Ma, tanto è facile in una relazione (di amicizia e non solo) ritrovarsi ad alimentare un conflitto, così è altrettanto facile buttarsi tutto alle spalle e ricominciare da dove si era interrotto.
Considerata la trama dello spettacolo (tre amici discutono del fatto che uno di loro ha comprato, per una cifra parecchio importante, un quadro interamente bianco in cui a malapena si intravedono delle striature diagonali sempre bianche), ho paura che il fuoco della narrazione sarà sull’arte contemporanea e le sue “follie”.
E invece lo spettacolo portato in scena da Generazione Disagio, il collettivo artistico creato nel 2013 da Enrico Pittaluga, mi sorprende molto piacevolmente. Innanzitutto, è chiaro fin da subito che il tema di Art è l’amicizia, in particolare quella maschile, ma con tratti e riflessioni che in buona parte riescono a prescindere dal genere.
I protagonisti sono Serge (Graziano Sirressi), Marc (Luca Mammoli) e Yvan (Enrico Pittaluga): il primo è l’appassionato di arte contemporanea che ha acquistato il famigerato quadro; Marc è invece un ingegnere dall’approccio molto razionale che vede questa scelta di Serge come folle e/o snobistica; infine Yvan è un po’ il buono e anche lo sfigato del gruppo, che cerca sempre la terza via nel conflitto anche in virtù della sua insicurezza.
E infatti, a fronte del conflitto che quasi subito divampa tra Serge e Marc, Yvan viene chiamato in causa quasi come un ago della bilancia; peccato che la sua linea morbida finisca per scontentare entrambi gli amici e determinare un’alleanza tra i due contro lo stesso Yvan.
La drammaturgia della Reza prevede momenti di dialogo a due, e altri in cui tutti e tre i protagonisti interagiscono. Tutto questo in un palco vuoto, in cui le diverse situazioni sono gestite attraverso le luci e dove campeggia esclusivamente un grande telo bianco, su cui gli stessi protagonisti proietteranno a un certo punto le loro ombre sia in silhouette nera sia in versione colorata 3D.
Ne viene fuori sia il ritratto individuale di questi tre personaggi, ma soprattutto le dinamiche dell’amicizia declinate nelle diverse specificità prodotte dal rapporto a due o a tre, che inevitabilmente innesca più evidenti giochi di ruolo.
L’effetto è molto divertente, ma anche piuttosto crudele (come del resto la Reza ci ha già fatto assaporare con Carnage), dal momento che in queste dinamiche ciascuna tira fuori il peggio di sé, portando alla luce in molti casi le motivazioni spesso egoistiche e meschine che stanno alla base dell’amicizia. Ma, tanto è facile in una relazione (di amicizia e non solo) ritrovarsi ad alimentare un conflitto, così è altrettanto facile buttarsi tutto alle spalle e ricominciare da dove si era interrotto.
Voto: 4/5
mercoledì 2 marzo 2022
R.OSA - 10 esercizi per nuovi virtuosismi / di Silvia Gribaudi; con Claudia Marsicano. Auditorium Parco della Musica, 17 febbraio 2022
La Sala Petrassi è gremita di gente di tutte le età. Noi (io, F. e C.) siamo in una delle prime file, pronte per uno spettacolo da cui non sappiamo cosa aspettarci, perché pur avendo letto qualcosa online non abbiamo realmente capito se si tratta di teatro, di una performance o di cos'altro.
Sul palco compare una giovane donna in costume da bagno turchese, che mostra con grande naturalezza tutte le sue forme molto abbondanti. Inizia a cantare Jolene, la canzone di Dolly Parton di cui sono state nel tempo realizzate numerosissime cover. Le parole della canzone sono rivolte a Jolene da parte di una donna per chiederle, anzi supplicarla, di non portarle via il suo uomo.
Questo canto, che - com'è giusto che sia - inizia disperato, si trasforma a poco a poco in un primo virtuosismo vocale che vede la giovane donna sul palco cantarla a una velocità via via maggiore. Capiamo che questo è il primo dei 10 esercizi di cui parla il titolo dello spettacolo.
Subito dopo questo inizio di per sé già piuttosto spiazzante, la protagonista si rivolge direttamente al pubblico e lo fa in inglese, anzi direi in americano, traducendo ogni tanto una parola in italiano e pronunciandola con un forte accento americano.
Seguono i successivi nove esercizi di virtuosismo, alcuni dei quali prevendono un coinvolgimento attivo del pubblico, chiamato ad alzarsi in piedi, a ballare e a cantare, altri agìti interamente dalla protagonista: si tratta spesso di coreografie che in alcuni momenti sembrano ispirarsi all'aerobica anni '80 di Jane Fonda (richiamata anche dalla mise dell'attrice), in altri momenti reinterpretano la danza classica, dimostrando in ogni caso che un corpo come quello della protagonista è capace di altrettanta grazia e versatilità di quello di una persona magra. Il tutto si conclude con una esilarante performance facciale realizzata sulle note di Toxic di Britney Spears.
Nel mezzo un dialogo continuo con il pubblico, attentissimo e partecipe anche perché deve interagire con una persona che parla un'altra lingua, fino al punto da suggerirle le parole italiane. L'effetto è energizzante e comico, producendo dunque un'esperienza teatrale fortemente diversa da quelle tradizionali e in cui la stanchezza finisce dietro le spalle, grazie all'alchimia che si crea tra palco e platea.
I 10 esercizi di virtuosismo sono però anche la dimostrazione che ognuno di noi può essere virtuoso, perché ciascuno nella sua unicità e con le sue caratteristiche è dotato di talenti e di qualità che possono diventare forme di virtuosismo.
Nel dialogo con la protagonista, Claudia Marsicano, che segue la fine dello spettacolo, organizzato nell'ambito del Festival Equilibrio dell'Auditorium, scopriremo molto di più della sua genesi, della sua ideatrice, Silvia Gribaudi, e molte altre cose che è bene qui non rivelare per non guastare la sorpresa di chi in futuro andrà a vedere questo spettacolo, ormai in giro da moltissimi anni.
Un'esperienza davvero entusiasmante.
Voto: 4/5
Sul palco compare una giovane donna in costume da bagno turchese, che mostra con grande naturalezza tutte le sue forme molto abbondanti. Inizia a cantare Jolene, la canzone di Dolly Parton di cui sono state nel tempo realizzate numerosissime cover. Le parole della canzone sono rivolte a Jolene da parte di una donna per chiederle, anzi supplicarla, di non portarle via il suo uomo.
Questo canto, che - com'è giusto che sia - inizia disperato, si trasforma a poco a poco in un primo virtuosismo vocale che vede la giovane donna sul palco cantarla a una velocità via via maggiore. Capiamo che questo è il primo dei 10 esercizi di cui parla il titolo dello spettacolo.
Subito dopo questo inizio di per sé già piuttosto spiazzante, la protagonista si rivolge direttamente al pubblico e lo fa in inglese, anzi direi in americano, traducendo ogni tanto una parola in italiano e pronunciandola con un forte accento americano.
Seguono i successivi nove esercizi di virtuosismo, alcuni dei quali prevendono un coinvolgimento attivo del pubblico, chiamato ad alzarsi in piedi, a ballare e a cantare, altri agìti interamente dalla protagonista: si tratta spesso di coreografie che in alcuni momenti sembrano ispirarsi all'aerobica anni '80 di Jane Fonda (richiamata anche dalla mise dell'attrice), in altri momenti reinterpretano la danza classica, dimostrando in ogni caso che un corpo come quello della protagonista è capace di altrettanta grazia e versatilità di quello di una persona magra. Il tutto si conclude con una esilarante performance facciale realizzata sulle note di Toxic di Britney Spears.
Nel mezzo un dialogo continuo con il pubblico, attentissimo e partecipe anche perché deve interagire con una persona che parla un'altra lingua, fino al punto da suggerirle le parole italiane. L'effetto è energizzante e comico, producendo dunque un'esperienza teatrale fortemente diversa da quelle tradizionali e in cui la stanchezza finisce dietro le spalle, grazie all'alchimia che si crea tra palco e platea.
I 10 esercizi di virtuosismo sono però anche la dimostrazione che ognuno di noi può essere virtuoso, perché ciascuno nella sua unicità e con le sue caratteristiche è dotato di talenti e di qualità che possono diventare forme di virtuosismo.
Nel dialogo con la protagonista, Claudia Marsicano, che segue la fine dello spettacolo, organizzato nell'ambito del Festival Equilibrio dell'Auditorium, scopriremo molto di più della sua genesi, della sua ideatrice, Silvia Gribaudi, e molte altre cose che è bene qui non rivelare per non guastare la sorpresa di chi in futuro andrà a vedere questo spettacolo, ormai in giro da moltissimi anni.
Un'esperienza davvero entusiasmante.
Voto: 4/5
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