Conosco il fenomeno Liberato a seguito di alcune puntate del podcast di Matteo Bordone, ma - pur essendomi incuriosita al cantante napoletano incappucciato - non ho mai ascoltato per intero i suoi dischi né mai sono andata a un suo concerto. Nel frattempo i miei amici A. e I. sono andati a sentire il suo concerto a Napoli nel 2023 e me ne hanno parlato bene, per cui proprio a loro ho proposto di andare a vedere insieme il film Il segreto di Liberato uscito al cinema il 9 maggio (che ho scoperto essere una data centrale nella vita del cantante).
Per i pochi che non dovessero saperlo, Liberato è un cantante napoletano di cui non si conosce l'identità, dal momento che ai concerti si presenta sempre incappucciato e mascherato, e il cui stile musicale (banalizzando, una contaminazione tra musica napoletana ed elettronica) ha conquistato nel tempo tutti, dalla critica agli ascoltatori.
Ed eccoci dunque al film documentario su di lui, realizzato da Francesco Lettieri, già autore dei videoclip di sue canzoni, nonché di quelli di molti altri cantanti della scena indie italiana (tra tutti Calcutta). Il film si presenta come un mix - ben riuscito - di approcci e di linguaggi: l'infanzia e la prima giovinezza di Liberato sono raccontati attraverso l'animazione disegnata dal grande Lorenzo Ceccotti, in arte LRNZ, che trasforma questa parte del racconto in qualcosa che potremmo definire Miyazaki-style, il presente e il passato prossimo di Liberato vengono invece raccontati primariamente attraverso le interviste al suo entourage e alle persone che nel tempo hanno collaborato con lui a vario titolo; non mancano poi le immagini dei concerti e il relativo dietro le quinte. In filigrana vediamo poi sempre il rapporto di Liberato con la città di Napoli e il suo amore sconfinato per il Napoli calcio.
Il risultato è un film piuttosto originale che racconta una storia molto interessante e visivamente molto bella, che non è detto che ci riveli niente del "segreto" di Liberato. Sicuramente però getta luce sul modo peculiare con cui il cantante interpreta il suo progetto musicale, circondato da un gruppo di persone che appaiono completamente estranee all'idea che potremmo avere del mondo che ruota intorno a un musicista capace di riempire gli stadi, persone in qualche modo fuori dagli schemi del mainstream e che si sintetizzano nella dichiarazione finale dello stesso Liberato "Io guardo 'o mare, faccio ammore, me piace 'o Napule, sto' ch'e cumpagne mie, faccio 'a musica".
Per il resto, in merito alla storia raccontata e agli indizi che sembra offrirci per svelare il segreto di Liberato (il nonno direttore di una piccola orchestra nella zona di Materdei, il liceo Genovesi, l'amore per i Daft Punk e per Pino Daniele, l'esperienza a Londra, la storia con la mangaka che gli ha spezzato il cuore e a cui sarebbero legati sia la data del 9 maggio che il simbolo della rosa), si potrebbe trattare di indizi reali, ma anche dell'ennesima operazione di costruzione del personaggio di Liberato, aggiungendo elementi alla narrazione e fornendo materia di dibattito ai suoi fan e ai media.
Anche se così fosse, ciò nulla toglie alla qualità e al valore del film, e nemmeno al senso di un fenomeno musicale che merita tutta l'attenzione che ha ricevuto.
Voto: 3,5/5
mercoledì 29 maggio 2024
lunedì 27 maggio 2024
Napoli Ottocento. Scuderie del Quirinale, 5 maggio 2024
Da tempo ormai è finita l'epoca delle mostre-evento, quelle fatte quasi interamente di grandi opere di grandi autori, perché le assicurazioni hanno costi praticamente insostenibili per qualunque istituzione.
In questo contesto, le gallerie e i musei stanno provando a riconfigurarsi rispetto al nuovo scenario, cercando un proprio modo di rimanere nel mercato con un'identità riconoscibile.
Nel contesto romano, uno dei musei che secondo me meglio di tutti sta riuscendo a interpretare questo nuovo contesto è quello delle Scuderie del Quirinale, che infatti negli ultimi anni, anziché puntare sui nomi che attirano il grande pubblico, propone percorsi artistici più originali, con caratteristiche sempre più trasversali e interdisciplinari, e con queste mostre riesce comunque a raggiungere un numero elevato di visitatori.
Ne ho già viste e apprezzate diverse, cosicché quando ho notato in giro i manifesti della mostra Napoli Ottocento, avevo già deciso di organizzarmi per andare a visitarla, ancora prima che alcune amiche me ne parlassero molto bene.
E così, approfittando di una bella domenica di sole, io e S. andiamo all'ora di pranzo a visitare questa mostra il cui filo conduttore è la città di Napoli e l'insieme dei movimenti artistici e culturali che la animarono durante l'Ottocento, facendone un punto di riferimento non solo in Italia ma anche in Europa.
L'Ottocento raccontato dalla mostra inizia in realtà dalle fascinazioni dei Grand Tour settecenteschi e si chiude allo scoppio della prima guerra mondiale.
In questo secolo rigoglioso per la città, a Napoli arrivarono artisti e intellettuali da tutta Italia, Europa e persino dagli Stati Uniti, affascinati dalle mille prospettive di questa città: le bellezze archeologiche, il folklore, il mare, il golfo e le isole, la vegetazione, l'urbanistica. Degli artisti in mostra alcuni sono famosi anche per me - ad esempio De Nittis, Fortuny, Turner, Sargent, Degas - altri invece, per me ignorante, risultano praticamente sconosciuti - vedi Van Pitloo, Giacinto Gigante, i fratelli Filippo e Giuseppe Palizzi, Gemito.
Così, attraverso questo percorso scopro l'esistenza di affascinanti scuole artistiche come quella di Posillipo, e di istituzioni scientifiche di grandissimo rilievo come la stazione zoologica nata dall'iniziativa di Anton Dohrn, nonché alcune forme di artigianato artistico, le origini della fascinazione di Napoli per il mondo orientale, i non scontati collegamenti tra le vicende storico-sociali e quelle artistico-culturali.
La mostra mi consente anche di cogliere l'alternarsi e lo scontrarsi - nel medesimo periodo e nella stessa area geografica - di correnti artistiche differenti, che interpretano il significato dell'arte in maniere diverse e scelgono soggetti artistici differenti, come espressione non solo di preferenze e interessi individuali ma anche in conseguenza di una diversa lettura collettiva della società e del mondo, così come mi porta per mano verso un'arte che dopo aver cercato di riprodurre su tela la luce si fa via via sempre più materica.
Ma, sopra tutto, la mostra ci dà la possibilità di vedere da vicino dipinti e opere bellissime di cui non sospettavamo l'esistenza.
Voto: 4/5
In questo contesto, le gallerie e i musei stanno provando a riconfigurarsi rispetto al nuovo scenario, cercando un proprio modo di rimanere nel mercato con un'identità riconoscibile.
Nel contesto romano, uno dei musei che secondo me meglio di tutti sta riuscendo a interpretare questo nuovo contesto è quello delle Scuderie del Quirinale, che infatti negli ultimi anni, anziché puntare sui nomi che attirano il grande pubblico, propone percorsi artistici più originali, con caratteristiche sempre più trasversali e interdisciplinari, e con queste mostre riesce comunque a raggiungere un numero elevato di visitatori.
Ne ho già viste e apprezzate diverse, cosicché quando ho notato in giro i manifesti della mostra Napoli Ottocento, avevo già deciso di organizzarmi per andare a visitarla, ancora prima che alcune amiche me ne parlassero molto bene.
E così, approfittando di una bella domenica di sole, io e S. andiamo all'ora di pranzo a visitare questa mostra il cui filo conduttore è la città di Napoli e l'insieme dei movimenti artistici e culturali che la animarono durante l'Ottocento, facendone un punto di riferimento non solo in Italia ma anche in Europa.
L'Ottocento raccontato dalla mostra inizia in realtà dalle fascinazioni dei Grand Tour settecenteschi e si chiude allo scoppio della prima guerra mondiale.
In questo secolo rigoglioso per la città, a Napoli arrivarono artisti e intellettuali da tutta Italia, Europa e persino dagli Stati Uniti, affascinati dalle mille prospettive di questa città: le bellezze archeologiche, il folklore, il mare, il golfo e le isole, la vegetazione, l'urbanistica. Degli artisti in mostra alcuni sono famosi anche per me - ad esempio De Nittis, Fortuny, Turner, Sargent, Degas - altri invece, per me ignorante, risultano praticamente sconosciuti - vedi Van Pitloo, Giacinto Gigante, i fratelli Filippo e Giuseppe Palizzi, Gemito.
Così, attraverso questo percorso scopro l'esistenza di affascinanti scuole artistiche come quella di Posillipo, e di istituzioni scientifiche di grandissimo rilievo come la stazione zoologica nata dall'iniziativa di Anton Dohrn, nonché alcune forme di artigianato artistico, le origini della fascinazione di Napoli per il mondo orientale, i non scontati collegamenti tra le vicende storico-sociali e quelle artistico-culturali.
La mostra mi consente anche di cogliere l'alternarsi e lo scontrarsi - nel medesimo periodo e nella stessa area geografica - di correnti artistiche differenti, che interpretano il significato dell'arte in maniere diverse e scelgono soggetti artistici differenti, come espressione non solo di preferenze e interessi individuali ma anche in conseguenza di una diversa lettura collettiva della società e del mondo, così come mi porta per mano verso un'arte che dopo aver cercato di riprodurre su tela la luce si fa via via sempre più materica.
Ma, sopra tutto, la mostra ci dà la possibilità di vedere da vicino dipinti e opere bellissime di cui non sospettavamo l'esistenza.
Voto: 4/5
venerdì 24 maggio 2024
La vita di chi resta / Matteo B. Bianchi
La vita di chi resta / Matteo B. Bianchi. Milano: Mondadori, 2023.
Leggo questo libro su suggerimento della mia libraria di fiducia di Conversano. Il suo consiglio e la lettura della quarta di copertina mi hanno convinto a comprare questo libro di Matteo B. Bianchi, scrittore classe 1966, di cui pensavo di aver letto un libro precedente salvo poi scoprire che non avevo mai letto niente.
E dunque incontro Bianchi nel suo libro forse più personale, e certamente quello più doloroso, un memoir pubblicato a molti anni di distanza dai fatti che qui racconta, ossia il suicidio del suo compagno, avvenuto a tre mesi dalla fine della loro storia e nella casa dove avevano vissuto insieme sette anni e di cui lui aveva ancora le chiavi.
La vicenda di per sé è di quelle terribili, devastanti, e certamente incomprensibili per chi - per sua fortuna - non ci è passato attraverso. Matteo B. Bianchi più volte parla di chi ha vissuto il suicidio di una persona a cui era legato come di "sopravvissuti", tanto quanto potrebbero esserlo le uniche persone salvatesi in un incidente aereo in cui sono morti tutti.
La prosa di Bianchi è scorrevole e procede per immagini, ricordi, riflessioni, dati, citazioni: i capitoli sono brevi e non seguono necessariamente un andamento cronologico, illuminando momenti, incontri, situazioni, fasi della lunghissima elaborazione di questo lutto, non paragonabile a nessun altro lutto.
Le scelte stilistiche dello scrittore, unite alla naturale propensione umana all'empatia, trascinano il lettore nello stato d'animo del protagonista, una vera e propria discesa agli inferi, certamente protetta dalla scrittura e filtrata dalle parole, ma che comunque tocca inevitabilmente corde profonde e delicate.
Nei giorni in cui leggevo questo libro mi sono ritrovata a fare sogni molto vividi, di cui spesso erano protagoniste persone che non ci sono più, a cui ero legata, oppure situazioni emotivamente forti. È un libro che lavora nel subconscio e da cui non si esce indenni. Ci si ritrova anche a riflettere - insieme allo scrittore, che accenna più volte a questo tema - al rapporto tra vita e scrittura e alla necessità - inevitabile per uno scrittore - che questi due mondi si contaminino e si intersechino, ma anche che restino separati e distinti.
In questo libro Matteo B. Bianchi ci racconta pensieri e sentimenti molto intimi e personali, con grandissimo coraggio e altrettanto grande onestà. Ma non possiamo pensare, dopo averlo letto, di conoscere lui al di là di quello che ci ha raccontato, né di poter approfondire i dettagli della vicenda solo perché lo scrittore ci ha aperto una porta da cui vediamo le cose da una specifica prospettiva e entro determinati confini.
Da un punto di vista letterario è un libro che non mi ha conquistata, ma al contempo l'ho trovato un libro necessario per chi l'ha scritto - che con esso ha compiuto l'atto finale (ma forse non del tutto) di un percorso lunghissimo - e per chi lo legge, in quanto ci permette di specchiarci in un punto di vista, vivendo di riflesso una condizione che speriamo la vita non ci riservi, ma comprendendo la quale certamente diventiamo più umani.
Voto: 3/5
Leggo questo libro su suggerimento della mia libraria di fiducia di Conversano. Il suo consiglio e la lettura della quarta di copertina mi hanno convinto a comprare questo libro di Matteo B. Bianchi, scrittore classe 1966, di cui pensavo di aver letto un libro precedente salvo poi scoprire che non avevo mai letto niente.
E dunque incontro Bianchi nel suo libro forse più personale, e certamente quello più doloroso, un memoir pubblicato a molti anni di distanza dai fatti che qui racconta, ossia il suicidio del suo compagno, avvenuto a tre mesi dalla fine della loro storia e nella casa dove avevano vissuto insieme sette anni e di cui lui aveva ancora le chiavi.
La vicenda di per sé è di quelle terribili, devastanti, e certamente incomprensibili per chi - per sua fortuna - non ci è passato attraverso. Matteo B. Bianchi più volte parla di chi ha vissuto il suicidio di una persona a cui era legato come di "sopravvissuti", tanto quanto potrebbero esserlo le uniche persone salvatesi in un incidente aereo in cui sono morti tutti.
La prosa di Bianchi è scorrevole e procede per immagini, ricordi, riflessioni, dati, citazioni: i capitoli sono brevi e non seguono necessariamente un andamento cronologico, illuminando momenti, incontri, situazioni, fasi della lunghissima elaborazione di questo lutto, non paragonabile a nessun altro lutto.
Le scelte stilistiche dello scrittore, unite alla naturale propensione umana all'empatia, trascinano il lettore nello stato d'animo del protagonista, una vera e propria discesa agli inferi, certamente protetta dalla scrittura e filtrata dalle parole, ma che comunque tocca inevitabilmente corde profonde e delicate.
Nei giorni in cui leggevo questo libro mi sono ritrovata a fare sogni molto vividi, di cui spesso erano protagoniste persone che non ci sono più, a cui ero legata, oppure situazioni emotivamente forti. È un libro che lavora nel subconscio e da cui non si esce indenni. Ci si ritrova anche a riflettere - insieme allo scrittore, che accenna più volte a questo tema - al rapporto tra vita e scrittura e alla necessità - inevitabile per uno scrittore - che questi due mondi si contaminino e si intersechino, ma anche che restino separati e distinti.
In questo libro Matteo B. Bianchi ci racconta pensieri e sentimenti molto intimi e personali, con grandissimo coraggio e altrettanto grande onestà. Ma non possiamo pensare, dopo averlo letto, di conoscere lui al di là di quello che ci ha raccontato, né di poter approfondire i dettagli della vicenda solo perché lo scrittore ci ha aperto una porta da cui vediamo le cose da una specifica prospettiva e entro determinati confini.
Da un punto di vista letterario è un libro che non mi ha conquistata, ma al contempo l'ho trovato un libro necessario per chi l'ha scritto - che con esso ha compiuto l'atto finale (ma forse non del tutto) di un percorso lunghissimo - e per chi lo legge, in quanto ci permette di specchiarci in un punto di vista, vivendo di riflesso una condizione che speriamo la vita non ci riservi, ma comprendendo la quale certamente diventiamo più umani.
Voto: 3/5
mercoledì 22 maggio 2024
E la festa continua!
Siamo al momento dei bilanci anche per Robert Guédiguian, regista francese di Marsiglia, di origine armena, che ha ormai compiuto 70 anni e che ha molto coltivato - durante la sua vita - l'impegno politico, anche attraverso la sua attività cinematografica.
E la festa continua! racconta la storia di Rosa (Ariane Ascaride) e della sua famiglia allargata: suo fratello Tonio (Gérard Meylan, un vecchio comunista un po' dongiovanni, che divide la casa con una giovane donna di colore, collega di Rosa in ospedale), i figli Minas (Grégoire Leprince-Ringuet) con la sua famiglia formata da moglie e due figlie, e Sarkis (Robinson Stévenin) e la sua nuova fidanzata Alice (Lola Naymark), infine il padre di quest'ultima, Henri (Jean-Pierre Darroussin), di cui Rosa si innamora ricambiata.
Tutto avviene a Marsiglia, la città di Guédiguian, e la famiglia di Rosa è - come quella del regista - di origine armena, tanto che Sarkis gestisce un bar armeno nella città.
Rosa è una donna che ha superato la mezza età, ma ancora lavora come infermiera nell'ospedale della città; da sempre però è impegnata politicamente, e in vista delle elezioni comunali sta tentando una difficile mediazione tra le varie anime della sinistra locale allo scopo di individuare un capolista che sia gradito a tutti.
Quando arriva l'amore inaspettato per Henri, Rosa inizia a fare una serie di riflessioni sulla propria vita e sulle scelte fatte e da fare, anche in relazione agli eventi che avvengono intorno a lei e che coinvolgono anche i componenti della sua famiglia.
E la festa continua! oscilla dunque continuamente - nel personaggio di Rosa, ma anche in diversi altri personaggi - tra il desiderio e la spinta verso l'impegno sociale e politico e la tentazione di un ripiegamento nel proprio privato e nella dimensione degli affetti individuali, oscillazione che trova le sue radici in una amara riflessione sulla politica oggi e anche nella consapevolezza dei fallimenti individuali e collettivi, oltre che dei cambiamenti in atto che l'età che avanza rende sempre più difficile comprendere.
Di fondo restano però un amore viscerale per Marsiglia, città meticcia dove si incontrano culture e mondi diversi, ma anche piena di mille contraddizioni (il film è dedicato ai morti causati dal crollo di due case fatiscenti nel quartiere storico della città), un forte legame con le proprie origini armene, ma anche con il proprio essere francese, una ricerca mai esaurita sulla nostra umanità in tutte le sue sfaccettature.
La risposta di Guédiguian resta alla fine sempre la stessa: ha ancora senso impegnarsi in prima persona per il bene della collettività. E questo rappresenta oggi probabilmente il grande interrogativo che non sono sicura continui a trovare una risposta affermativa già nella mia generazione, e forse ancor meno nelle generazioni future. Spero di sbagliarmi, o forse - esattamente come Guédiguian - noi stiamo passando la mano e non comprendiamo le forme e i modi dell'impegno futuro.
Il film del regista marsigliese - dal mio punto di vista un po' legnoso nella sceneggiatura e nel montaggio - ha la sua dote migliore in questo mix di malinconia e di speranza che attraversa la storia e tutti i personaggi, in primis quello di Rosa.
Voto: 3/5
E la festa continua! racconta la storia di Rosa (Ariane Ascaride) e della sua famiglia allargata: suo fratello Tonio (Gérard Meylan, un vecchio comunista un po' dongiovanni, che divide la casa con una giovane donna di colore, collega di Rosa in ospedale), i figli Minas (Grégoire Leprince-Ringuet) con la sua famiglia formata da moglie e due figlie, e Sarkis (Robinson Stévenin) e la sua nuova fidanzata Alice (Lola Naymark), infine il padre di quest'ultima, Henri (Jean-Pierre Darroussin), di cui Rosa si innamora ricambiata.
Tutto avviene a Marsiglia, la città di Guédiguian, e la famiglia di Rosa è - come quella del regista - di origine armena, tanto che Sarkis gestisce un bar armeno nella città.
Rosa è una donna che ha superato la mezza età, ma ancora lavora come infermiera nell'ospedale della città; da sempre però è impegnata politicamente, e in vista delle elezioni comunali sta tentando una difficile mediazione tra le varie anime della sinistra locale allo scopo di individuare un capolista che sia gradito a tutti.
Quando arriva l'amore inaspettato per Henri, Rosa inizia a fare una serie di riflessioni sulla propria vita e sulle scelte fatte e da fare, anche in relazione agli eventi che avvengono intorno a lei e che coinvolgono anche i componenti della sua famiglia.
E la festa continua! oscilla dunque continuamente - nel personaggio di Rosa, ma anche in diversi altri personaggi - tra il desiderio e la spinta verso l'impegno sociale e politico e la tentazione di un ripiegamento nel proprio privato e nella dimensione degli affetti individuali, oscillazione che trova le sue radici in una amara riflessione sulla politica oggi e anche nella consapevolezza dei fallimenti individuali e collettivi, oltre che dei cambiamenti in atto che l'età che avanza rende sempre più difficile comprendere.
Di fondo restano però un amore viscerale per Marsiglia, città meticcia dove si incontrano culture e mondi diversi, ma anche piena di mille contraddizioni (il film è dedicato ai morti causati dal crollo di due case fatiscenti nel quartiere storico della città), un forte legame con le proprie origini armene, ma anche con il proprio essere francese, una ricerca mai esaurita sulla nostra umanità in tutte le sue sfaccettature.
La risposta di Guédiguian resta alla fine sempre la stessa: ha ancora senso impegnarsi in prima persona per il bene della collettività. E questo rappresenta oggi probabilmente il grande interrogativo che non sono sicura continui a trovare una risposta affermativa già nella mia generazione, e forse ancor meno nelle generazioni future. Spero di sbagliarmi, o forse - esattamente come Guédiguian - noi stiamo passando la mano e non comprendiamo le forme e i modi dell'impegno futuro.
Il film del regista marsigliese - dal mio punto di vista un po' legnoso nella sceneggiatura e nel montaggio - ha la sua dote migliore in questo mix di malinconia e di speranza che attraversa la storia e tutti i personaggi, in primis quello di Rosa.
Voto: 3/5
lunedì 20 maggio 2024
Conversazioni dopo un funerale / dal testo di Yasmina Reza. Teatro Parioli, 7 maggio 2024
In questo ultimo scorcio della stagione teatrale, sfruttiamo i biglietti residui del carnet ViviCinema&Teatro per andare a vedere questo spettacolo in programmazione al Teatro Parioli. La messa in scena di un testo di Yasmina Reza è sempre un'attrattiva anche lì dove non conosciamo registi e attori.
In questo caso si tratta di Conversazioni dopo un funerale, opera prima della Reza, scritto quando aveva solo 25 anni e che vinse all'epoca numerosi premi. L'opera è ambientata in una casa di campagna dove è stato appena celebrato il funerale di un uomo, e dove convergono i suoi tre figli (due maschi e una femmina), il fratello con la moglie e - in maniera inattesa - la ex-fidanzata dei due figli maschi.
Questa presenza contemporanea sarà l'occasione per far emergere situazioni irrisolte e modi di sentire differenti e contraddittori che sfoceranno talvolta in conflitto, altre volte in risata, fino alla catarsi finale.
Non ho letto il testo originale della Reza, anche se nello scheletro narrativo già si riconoscono alcune tematiche tipiche della sua opera. In questo caso però la verve tipica della Reza ne esce appiattita e monocorde, non so se in parte per limiti propri del testo, oppure per una serie di questioni relative alla messa in scena.
Personalmente, lamento innanzitutto un audio pessimo (e comunque una scelta di amplificazione molto discutibile, oltre che tecnicamente non riuscita), in secondo luogo una recitazione decisamente poco brillante, tra lo stereotipato e l'incolore, in terzo luogo un adattamento in italiano (e al contesto italiano) non del tutto convincente (sebbene io non possa giudicare visto che non ho letto l'originale), infine un allestimento e una regia un po' banali.
Mi spiace sempre uscire da uno spettacolo scontenta e con un giudizio negativo, che in ogni caso resta sempre soggettivo ed espresso da una persona che non è un'addetta ai lavori.
Mi sento di dire però - avendo ormai un certo bagaglio conoscitivo come spettatrice di opere teatrali - che questo spettacolo non sia particolarmente riuscito e non renda merito a un'autrice la cui scrittura di solito risulta affilata quanto i temi che tratta.
Voto: 2/5
In questo caso si tratta di Conversazioni dopo un funerale, opera prima della Reza, scritto quando aveva solo 25 anni e che vinse all'epoca numerosi premi. L'opera è ambientata in una casa di campagna dove è stato appena celebrato il funerale di un uomo, e dove convergono i suoi tre figli (due maschi e una femmina), il fratello con la moglie e - in maniera inattesa - la ex-fidanzata dei due figli maschi.
Questa presenza contemporanea sarà l'occasione per far emergere situazioni irrisolte e modi di sentire differenti e contraddittori che sfoceranno talvolta in conflitto, altre volte in risata, fino alla catarsi finale.
Non ho letto il testo originale della Reza, anche se nello scheletro narrativo già si riconoscono alcune tematiche tipiche della sua opera. In questo caso però la verve tipica della Reza ne esce appiattita e monocorde, non so se in parte per limiti propri del testo, oppure per una serie di questioni relative alla messa in scena.
Personalmente, lamento innanzitutto un audio pessimo (e comunque una scelta di amplificazione molto discutibile, oltre che tecnicamente non riuscita), in secondo luogo una recitazione decisamente poco brillante, tra lo stereotipato e l'incolore, in terzo luogo un adattamento in italiano (e al contesto italiano) non del tutto convincente (sebbene io non possa giudicare visto che non ho letto l'originale), infine un allestimento e una regia un po' banali.
Mi spiace sempre uscire da uno spettacolo scontenta e con un giudizio negativo, che in ogni caso resta sempre soggettivo ed espresso da una persona che non è un'addetta ai lavori.
Mi sento di dire però - avendo ormai un certo bagaglio conoscitivo come spettatrice di opere teatrali - che questo spettacolo non sia particolarmente riuscito e non renda merito a un'autrice la cui scrittura di solito risulta affilata quanto i temi che tratta.
Voto: 2/5
venerdì 17 maggio 2024
Challengers
In un primo maggio romano piovosissimo decido di andare al cinema più vicino a casa dove danno in versione originale l'ultimo film di Luca Guadagnino, che in realtà non ero convinta di voler andare a vedere, ma che sono contenta di aver visto anche solo per continuare a seguire il percorso del regista.
Personalmente - visto che non sono una che guarda granché le serie - ero rimasta a Bones and all, film che avevo apprezzato per l'originalità e anche per la diversità con le altre cose fatte da Guadagnino.
Dopo la visione di Challengers, confermo che forse il tratto più interessante del regista - almeno dal mio punto di vista - sta proprio nel mantenere abbastanza riconoscibile la sua poetica, ma realizzando film molto diversi l'uno dall'altro. Tanta acqua è passata sotto i ponti dai tempi di Io sono l'amore, ma in realtà siamo anche molto lontani sul piano visivo dall'ultimo Bones and all (tanto era "sporco" e "ai margini" quello quanto quest'ultimo è incentrato su bellezza e ricchezza).
Protagonisti di Challengers sono Tisha (Zendaya, che io non riesco a trovare né particolarmente brava né simpatica), Art (Mike Faist) e Patrick (Josh O'Connor), ed è ambientato nel mondo del tennis, anzi a dire la verità si sviluppa nella durata di una partita di tennis, nonostante i numerosi flashback che si aprono nella narrazione e che portano avanti e indietro nel tempo lo spettatore, proprio come una pallina da tennis.
Art e Patrick sono amici da quando avevano 12 anni e frequentavano insieme l'accademia di tennis. A un torneo giovanile conoscono di persona Tisha Duncan, una promessa del tennis femminile, e ne sono ammaliati, innamorandosene entrambi. A distanza di molti anni, quando Tisha e Art sono ormai sposati da tempo, Tisha ha lasciato il tennis giocato a causa di un infortunio, e Art è diventato un professionista ad alti livelli, coccolato dagli sponsor insieme alla moglie allenatrice (il product placement nel film è ovunque), i tre si incontrano nuovamente - forse non per caso - a un torneo minore, un challenger appunto, dove i nodi non sciolti del passato torneranno a galla e si riverseranno sul campo da gioco.
Oltre alle numerose citazioni e ispirazioni al cinema del passato a cui ormai Guadagnino ci ha abituati, in Challengers il regista sceglie una confezione quasi da teen-movie e un girato molto contemporaneo, con le riprese in soggettiva non solo dei giocatori, ma anche della pallina, ovvero quelle dal basso che mostrano il giocatore come lo vedessimo da sotto la lastra di vetro su cui si muove, o ancora le numerosissime immagini sghembe, oltre all'uso esteso (e direi anche abuso) del ralenti.
Il tutto per raccontare, attraverso la tensione competitiva di una partita di tennis e i ribaltamenti di campo che la caratterizzano, la competizione e la tensione erotica e amorosa di un triangolo, i cui rapporti interni funzionano come un elastico che allontana e avvicina i vertici a seconda delle circostanze, rivelando di volta in volta sfaccettature diverse dei personaggi. In realtà, alla fine i tre personaggi restano piuttosto monodimensionali (Tisha manipolatrice e ossessiva, Art un buono ai limiti del debole, Patrick uno sbruffone anche un po' stronzo), e questo fa sì che l'evoluzione narrativa sia piuttosto prevedibile fino al telefonatissimo finale. Pur all'interno di una dimensione molto contemporanea delle relazioni, in cui non si tace l'ambiguità del rapporto di amicizia tra Art e Patrick - nel quale si sprecano i richiami omosessuali, a volte espliciti altre volte impliciti - devo anche lamentare una visione un po' stereotipata dei rapporti sentimentali e del desiderio, che gioca sull'idea che il desiderio si alimenta sempre e solo per il tramite della competizione (e dunque del conflitto e della stronzaggine), mentre è antitetico all'amore e alla devozione. Che forse è pure vero, ma non ci aiuta a comprendere questa contraddizione.
Il cinema era pieno di ragazzini e persone molto giovani (attirate forse da Zendaya? Anche se c'entra sicuramente il cinema di quartiere in cui ho visto il film), ma la cosa - rispetto all'idea che io, forse ormai erroneamente, ho del cinema di Guadagnino - mi ha fatto specie e mi ha suscitato vari interrogativi.
Vedremo dove andrà a parare Guadagnino nel prossimo futuro.
Voto: 3/5
Personalmente - visto che non sono una che guarda granché le serie - ero rimasta a Bones and all, film che avevo apprezzato per l'originalità e anche per la diversità con le altre cose fatte da Guadagnino.
Dopo la visione di Challengers, confermo che forse il tratto più interessante del regista - almeno dal mio punto di vista - sta proprio nel mantenere abbastanza riconoscibile la sua poetica, ma realizzando film molto diversi l'uno dall'altro. Tanta acqua è passata sotto i ponti dai tempi di Io sono l'amore, ma in realtà siamo anche molto lontani sul piano visivo dall'ultimo Bones and all (tanto era "sporco" e "ai margini" quello quanto quest'ultimo è incentrato su bellezza e ricchezza).
Protagonisti di Challengers sono Tisha (Zendaya, che io non riesco a trovare né particolarmente brava né simpatica), Art (Mike Faist) e Patrick (Josh O'Connor), ed è ambientato nel mondo del tennis, anzi a dire la verità si sviluppa nella durata di una partita di tennis, nonostante i numerosi flashback che si aprono nella narrazione e che portano avanti e indietro nel tempo lo spettatore, proprio come una pallina da tennis.
Art e Patrick sono amici da quando avevano 12 anni e frequentavano insieme l'accademia di tennis. A un torneo giovanile conoscono di persona Tisha Duncan, una promessa del tennis femminile, e ne sono ammaliati, innamorandosene entrambi. A distanza di molti anni, quando Tisha e Art sono ormai sposati da tempo, Tisha ha lasciato il tennis giocato a causa di un infortunio, e Art è diventato un professionista ad alti livelli, coccolato dagli sponsor insieme alla moglie allenatrice (il product placement nel film è ovunque), i tre si incontrano nuovamente - forse non per caso - a un torneo minore, un challenger appunto, dove i nodi non sciolti del passato torneranno a galla e si riverseranno sul campo da gioco.
Oltre alle numerose citazioni e ispirazioni al cinema del passato a cui ormai Guadagnino ci ha abituati, in Challengers il regista sceglie una confezione quasi da teen-movie e un girato molto contemporaneo, con le riprese in soggettiva non solo dei giocatori, ma anche della pallina, ovvero quelle dal basso che mostrano il giocatore come lo vedessimo da sotto la lastra di vetro su cui si muove, o ancora le numerosissime immagini sghembe, oltre all'uso esteso (e direi anche abuso) del ralenti.
Il tutto per raccontare, attraverso la tensione competitiva di una partita di tennis e i ribaltamenti di campo che la caratterizzano, la competizione e la tensione erotica e amorosa di un triangolo, i cui rapporti interni funzionano come un elastico che allontana e avvicina i vertici a seconda delle circostanze, rivelando di volta in volta sfaccettature diverse dei personaggi. In realtà, alla fine i tre personaggi restano piuttosto monodimensionali (Tisha manipolatrice e ossessiva, Art un buono ai limiti del debole, Patrick uno sbruffone anche un po' stronzo), e questo fa sì che l'evoluzione narrativa sia piuttosto prevedibile fino al telefonatissimo finale. Pur all'interno di una dimensione molto contemporanea delle relazioni, in cui non si tace l'ambiguità del rapporto di amicizia tra Art e Patrick - nel quale si sprecano i richiami omosessuali, a volte espliciti altre volte impliciti - devo anche lamentare una visione un po' stereotipata dei rapporti sentimentali e del desiderio, che gioca sull'idea che il desiderio si alimenta sempre e solo per il tramite della competizione (e dunque del conflitto e della stronzaggine), mentre è antitetico all'amore e alla devozione. Che forse è pure vero, ma non ci aiuta a comprendere questa contraddizione.
Il cinema era pieno di ragazzini e persone molto giovani (attirate forse da Zendaya? Anche se c'entra sicuramente il cinema di quartiere in cui ho visto il film), ma la cosa - rispetto all'idea che io, forse ormai erroneamente, ho del cinema di Guadagnino - mi ha fatto specie e mi ha suscitato vari interrogativi.
Vedremo dove andrà a parare Guadagnino nel prossimo futuro.
Voto: 3/5
mercoledì 15 maggio 2024
La bataille de Solférino = La battaglia di Solferino
Ho approfittato della giornata dedicata a Vincent Macaigne, organizzata dall'Institut français Centre Saint-Louis, come coda del Festival Rendez-Vous, per andare a vedere al Cinema Nuovo Sacher La bataille de Solférino, il primo lungometraggio di Justine Triet (anche se pare ce ne sia uno precedente ambientato in Brasile, ma non riesco a trovare riferimenti precisi).
Il film è uscito nel 2013 ed è l'evoluzione di un corto dal titolo Solférino uscito nel 2009 e girato nel 2007 in occasione delle elezioni presidenziali francesi che videro la vittoria di Sarkozy. La bataille de Solférino viaggia su un doppio binario narrativo, uno pubblico e uno privato, che si intrecciano nella giornata del 6 maggio 2012. Da un lato c'è la vicenda di Laetitia (Laetitia Dosch) e Vincent (Vincent Macaigne), divorziati con due figlie piccole, sulla gestione delle quali ci sono delle conflittualità aperte; dall'altro c'è l'attesa dell'annuncio dei risultati del secondo turno delle presidenziali, da cui uscì vincitore François Hollande, che riempie le piazze di Parigi.
Laetitia è una giornalista televisiva che deve andare in mezzo alla folla a raccontare in diretta gli esiti delle presidenziali, dunque lascia le due bambine a un giovane babysitter, mentre Vincent si dirige verso casa di Laetitia perché vuole stare un po' con le sue figlie, sebbene Laetitia disapprovi questa possibilità. In questo ping pong si inseriranno vari altri personaggi: il nuovo compagno di Laetitia, Virgil, l'amico di Virgil, nonché aspirante avvocato Arthur (Arthur Harari, nella vita marito di Justine Triet), il vicino di casa di Laetitia e ovviamente il povero babysitter. La confusione regna sovrana a casa di Laetitia, tra bambine che urlano e giocattoli sparsi ovunque, ma anche nelle piazze e per le strade dove masse di gente si accalcano in attesa dei risultati e si contrappongono agli avversari politici.
Come ci racconterà al termine del film Vincent Macaigne, Justine Triet - con la freschezza e l'energia dei trent'anni - gira un film che, certo, appare imperfetto, ma è pieno di un entusiasmo e di una vitalità tipicamente giovanili, e che riesce anche a sfruttare un'epoca nella quale era stato possibile girare un film "dal vero", con l'attore che si muove in mezzo alla folla reale di Rue Solferino e viene ripreso dall'alto dai balconi, ovvero con i cameramen che filmano i veri partecipanti delle manifestazioni e le loro dichiarazioni. Insomma, un originale mix di fiction e documentario, nel quale il conflitto privato e quello pubblico si scioglieranno entrambi verso la fine del film, con tutti i protagonisti che si ritrovano dove tutto era iniziato, a casa di Laetitia, a condividere un momento di armonia, prima che il conflitto divampi ancora.
Divertente, magnificamente recitato, con un ritmo forsennato, che si guarda oggi - forse perché nel frattempo il tempo è passato e perché possiamo utilizzare il senno di poi - con un po' di nostalgia e al contempo di cinismo in merito alle aspettative politiche e all'evoluzione della situazione non solo francese, bensì anche europea.
Voto: 3,5/5
Il film è uscito nel 2013 ed è l'evoluzione di un corto dal titolo Solférino uscito nel 2009 e girato nel 2007 in occasione delle elezioni presidenziali francesi che videro la vittoria di Sarkozy. La bataille de Solférino viaggia su un doppio binario narrativo, uno pubblico e uno privato, che si intrecciano nella giornata del 6 maggio 2012. Da un lato c'è la vicenda di Laetitia (Laetitia Dosch) e Vincent (Vincent Macaigne), divorziati con due figlie piccole, sulla gestione delle quali ci sono delle conflittualità aperte; dall'altro c'è l'attesa dell'annuncio dei risultati del secondo turno delle presidenziali, da cui uscì vincitore François Hollande, che riempie le piazze di Parigi.
Laetitia è una giornalista televisiva che deve andare in mezzo alla folla a raccontare in diretta gli esiti delle presidenziali, dunque lascia le due bambine a un giovane babysitter, mentre Vincent si dirige verso casa di Laetitia perché vuole stare un po' con le sue figlie, sebbene Laetitia disapprovi questa possibilità. In questo ping pong si inseriranno vari altri personaggi: il nuovo compagno di Laetitia, Virgil, l'amico di Virgil, nonché aspirante avvocato Arthur (Arthur Harari, nella vita marito di Justine Triet), il vicino di casa di Laetitia e ovviamente il povero babysitter. La confusione regna sovrana a casa di Laetitia, tra bambine che urlano e giocattoli sparsi ovunque, ma anche nelle piazze e per le strade dove masse di gente si accalcano in attesa dei risultati e si contrappongono agli avversari politici.
Come ci racconterà al termine del film Vincent Macaigne, Justine Triet - con la freschezza e l'energia dei trent'anni - gira un film che, certo, appare imperfetto, ma è pieno di un entusiasmo e di una vitalità tipicamente giovanili, e che riesce anche a sfruttare un'epoca nella quale era stato possibile girare un film "dal vero", con l'attore che si muove in mezzo alla folla reale di Rue Solferino e viene ripreso dall'alto dai balconi, ovvero con i cameramen che filmano i veri partecipanti delle manifestazioni e le loro dichiarazioni. Insomma, un originale mix di fiction e documentario, nel quale il conflitto privato e quello pubblico si scioglieranno entrambi verso la fine del film, con tutti i protagonisti che si ritrovano dove tutto era iniziato, a casa di Laetitia, a condividere un momento di armonia, prima che il conflitto divampi ancora.
Divertente, magnificamente recitato, con un ritmo forsennato, che si guarda oggi - forse perché nel frattempo il tempo è passato e perché possiamo utilizzare il senno di poi - con un po' di nostalgia e al contempo di cinismo in merito alle aspettative politiche e all'evoluzione della situazione non solo francese, bensì anche europea.
Voto: 3,5/5
lunedì 13 maggio 2024
Cattiverie a domicilio = Wicked little letters
La regista inglese Thea Sharrock si ispira a una storia incredibilmente vera accaduta a Littlehampton nel 1922 per raccontare la condizione femminile in Inghilterra in quegli anni e parlare di riscatto femminile. E lo fa offrendo allo spettatore un'occasione di divertimento purissimo, oltre che di riflessione.
Già solo questo basterebbe a fare di questo film un must-see. Ma ci sono anche numerosi altri motivi per non perderlo (possibilmente in lingua originale). Il primo è una sceneggiatura scoppiettante che - a partire dal linguaggio divertentemente osceno delle lettere che sono al centro della narrazione - si sostanzia di dialoghi decisamente ben scritti. Non a caso il secondo motivo che rende il film imperdibile è la prova degli attori che fanno a gara di bravura, a partire da Timothy Spall e Olivia Colman, che sono delle certezze, fino ad arrivare a Jessie Buckley (che avevo già apprezzato in Fingernails) e Anjana Vasan.
La storia è presto detta: nel 1922 nel paesino di Littlehampton, nella zona di Portsmouth, Edith Swan (Olivia Colman), la figlia zitella del burbero Edward (Timothy Spall), riceve delle lettere oscene e offensive. All'ennesima lettera il padre denuncia la cosa alla polizia e i sospetti cadono immediatamente su Rose Gooding (Jessie Buckley), una giovane donna irlandese che è arrivata in paese con la figlia dopo la guerra, e che ha un comportamento anticonvenzionale e riprovevole agli occhi della comunità locale. L'accusa nei confronti di Rose viene data per certa senza grande indagini, rafforzata dal pregiudizio collettivo, ma la giovane poliziotta Gladys Moss (Anjana Vasan) ha numerosi dubbi e, non riuscendo a convincere i suoi colleghi maschi a fare indagini serie, decide di fare da sola e, con l'aiuto di alcune donne della comunità e di suo nipote, scopre qual è la vera storia che si nasconde dietro le lettere, che è una storia di oppressione e di rabbia.
Wicked little letters (che in italiano diventa Cattiverie a domicilio) è un film molto fedele alla storia vera a cui è ispirato, ma la regista Thea Sharrock aggiunge allo scheletro narrativo motivazioni e sentimenti che gli atti giudiziari non ci hanno tramandato.
Guardando il film non ho potuto fare a meno di pensare al film di Paola Cortellesi, C'è ancora domani, che da certi punti di vista ha un approccio simile: film ambientato nel passato, ispirato a vicende reali, che tratta il tema della condizione della donna, ma lo fa in maniera ironica. E in un certo senso i due film condividono il limite di una ricostruzione ambientale un po' finta e di alcuni personaggi un po' macchiettistici. La differenza principale tra i due film la fanno la sceneggiatura e gli attori, che nel caso di Cattiverie a domicilio io trovo superiori. Ma so in questo di essere decisamente in minoranza, visto il successo nazionale e internazionale della Cortellesi, di cui comunque sono contenta.
Voto: 3,5/5
Già solo questo basterebbe a fare di questo film un must-see. Ma ci sono anche numerosi altri motivi per non perderlo (possibilmente in lingua originale). Il primo è una sceneggiatura scoppiettante che - a partire dal linguaggio divertentemente osceno delle lettere che sono al centro della narrazione - si sostanzia di dialoghi decisamente ben scritti. Non a caso il secondo motivo che rende il film imperdibile è la prova degli attori che fanno a gara di bravura, a partire da Timothy Spall e Olivia Colman, che sono delle certezze, fino ad arrivare a Jessie Buckley (che avevo già apprezzato in Fingernails) e Anjana Vasan.
La storia è presto detta: nel 1922 nel paesino di Littlehampton, nella zona di Portsmouth, Edith Swan (Olivia Colman), la figlia zitella del burbero Edward (Timothy Spall), riceve delle lettere oscene e offensive. All'ennesima lettera il padre denuncia la cosa alla polizia e i sospetti cadono immediatamente su Rose Gooding (Jessie Buckley), una giovane donna irlandese che è arrivata in paese con la figlia dopo la guerra, e che ha un comportamento anticonvenzionale e riprovevole agli occhi della comunità locale. L'accusa nei confronti di Rose viene data per certa senza grande indagini, rafforzata dal pregiudizio collettivo, ma la giovane poliziotta Gladys Moss (Anjana Vasan) ha numerosi dubbi e, non riuscendo a convincere i suoi colleghi maschi a fare indagini serie, decide di fare da sola e, con l'aiuto di alcune donne della comunità e di suo nipote, scopre qual è la vera storia che si nasconde dietro le lettere, che è una storia di oppressione e di rabbia.
Wicked little letters (che in italiano diventa Cattiverie a domicilio) è un film molto fedele alla storia vera a cui è ispirato, ma la regista Thea Sharrock aggiunge allo scheletro narrativo motivazioni e sentimenti che gli atti giudiziari non ci hanno tramandato.
Guardando il film non ho potuto fare a meno di pensare al film di Paola Cortellesi, C'è ancora domani, che da certi punti di vista ha un approccio simile: film ambientato nel passato, ispirato a vicende reali, che tratta il tema della condizione della donna, ma lo fa in maniera ironica. E in un certo senso i due film condividono il limite di una ricostruzione ambientale un po' finta e di alcuni personaggi un po' macchiettistici. La differenza principale tra i due film la fanno la sceneggiatura e gli attori, che nel caso di Cattiverie a domicilio io trovo superiori. Ma so in questo di essere decisamente in minoranza, visto il successo nazionale e internazionale della Cortellesi, di cui comunque sono contenta.
Voto: 3,5/5
venerdì 10 maggio 2024
Ducks. Due anni nelle sabbie bituminose / Kate Beaton
Ducks. Due anni nelle sabbie bituminose / Kate Beaton. Milano: Bao Publishing, 2023.
Il graphic novel di Kate Beaton è un memoir in forma di fumetto. Siamo in Canada nei primi anni Duemila: Kate vive con la sua famiglia nell'isola del Capo Bretone, alle estreme propaggini orientali del paese. Dopo essersi laureata, la ragazza - come molti studenti nordamericani - si ritrova con un enorme debito studentesco da restituire, e decide - come molte persone delle regioni orientali del Canada - di trasferirsi nello stato dell'Alberta, e precisamente nella zona delle sabbie bituminose, tra Fort McMurray e Fort McKay, dove in quel periodo all'epoca del racconto c'era bisogno di enorme quantità di forza lavoro per l'estrazione del petrolio.
Qui Katie si ritrova a essere una delle pochissime donne in un ambiente di lavoro al 95% maschile, nel quale le donne - indipendentemente dalla loro età, bellezza o comportamento - sono costantemente oggetto di attenzioni più o meno sgradevoli che arrivano fino a frequenti episodi di stupro.
Katie, che nel corso dei due anni lavorerà in diverse sedi tra quelle dove si estrae il petrolio, sperimenta ovunque lo stesso clima "da caserma" e finisce lei stessa vittima di stupro per ben due volte, oltre a raccogliere le confidenze delle altre colleghe che subiscono lo stesso trattamento, senza che sia di fatto possibile denunciare la situazione senza subire conseguenze persino peggiori.
E fin qui sembrerebbe un lavoro di denuncia dalle sfumature drammatiche.
In realtà il graphic novel della Beaton è qualcosa di molto più articolato e complesso, e proprio in questo sta la sua forza.
Se infatti il tema della condizione delle donne in questo contesto lavorativo è centrale, l'autrice non ama le semplificazioni e le risposte ovvie, e dimostra in tutto il racconto una grande empatia per gli esseri umani tutti e una spiccata propensione per l'analisi delle situazioni e la comprensione profonda.
Il suo, dunque, non è semplicisticamente un atto di accusa nei confronti del maschilismo onnipresente e pervasivo di fronte al quale ciò che diventa notizia è solo la punta dell'iceberg e spesso lo è in maniera distorta, bensì è anche una riflessione sulla tossicità di un contesto lavorativo che sembra fatto apposta per tirare fuori il peggio delle persone e che gioca sul fatto che le persone sono disposte a tanto per migliorare la loro condizione economica.
In questi campi dove i lavoratori vivono quasi segregati dal resto del mondo - lontani dalle loro famiglie, dagli affetti e da una vita normale - le condizioni di disagio psicologico sono molto diffuse, ma alle aziende interessa solo poter vantare l'assenza di incidenti sul lavoro. Non importa se il personale fa uso di sostanze stupefacenti per combattere solitudine e depressione, se gli uomini diventano predatori a caccia di donne, se le persone vengono sradicate dalle loro origini con il miraggio del guadagnare più di quello che potrebbero nei paesi da cui provengono, se la flora e la fauna che abitano questi territori vengono distrutte, perché su tutto prevale l'obiettivo delle aziende di sfruttare al massimo il petrolio.
Le sabbie bituminose dell'Alberta sono dunque un microcosmo che - pur nelle sue specificità e nella sua irripetibilità - permette di riflettere su molti/tanti dei temi che caratterizzano le nostre società capitalistiche. Con alcuni abbiamo familiarità (penso alle migrazioni con finalità lavorative, alla cultura maschilista e alla tossicità degli ambienti a prevalenza maschile, alle ricadute ambientali del nostro benessere), con altri meno (i debiti studenteschi sono qualcosa di più estraneo al contesto europeo, ma sappiamo di cosa si tratta). In generale però questa esperienza, in fondo lontana geograficamente e anche temporalmente da noi, si rivela ben più ricca di stimoli e di riflessioni di quanto non si possa immaginare al principio.
Tra l'altro la Beacon ha disegni molto gradevoli, espressivi sia nella componente ironica che drammatica (tavole con i dialoghi e le situazioni tra i vari protagonisti si alternano ad altre con vedute di insieme) e un modo di impostare il racconto lineare senza essere banale. E questo è certamente un valore aggiunto.
Insomma, una lettura consigliatissima per affrontare temi importanti con un approccio complesso, ma non noioso.
Voto: 4/5
Il graphic novel di Kate Beaton è un memoir in forma di fumetto. Siamo in Canada nei primi anni Duemila: Kate vive con la sua famiglia nell'isola del Capo Bretone, alle estreme propaggini orientali del paese. Dopo essersi laureata, la ragazza - come molti studenti nordamericani - si ritrova con un enorme debito studentesco da restituire, e decide - come molte persone delle regioni orientali del Canada - di trasferirsi nello stato dell'Alberta, e precisamente nella zona delle sabbie bituminose, tra Fort McMurray e Fort McKay, dove in quel periodo all'epoca del racconto c'era bisogno di enorme quantità di forza lavoro per l'estrazione del petrolio.
Qui Katie si ritrova a essere una delle pochissime donne in un ambiente di lavoro al 95% maschile, nel quale le donne - indipendentemente dalla loro età, bellezza o comportamento - sono costantemente oggetto di attenzioni più o meno sgradevoli che arrivano fino a frequenti episodi di stupro.
Katie, che nel corso dei due anni lavorerà in diverse sedi tra quelle dove si estrae il petrolio, sperimenta ovunque lo stesso clima "da caserma" e finisce lei stessa vittima di stupro per ben due volte, oltre a raccogliere le confidenze delle altre colleghe che subiscono lo stesso trattamento, senza che sia di fatto possibile denunciare la situazione senza subire conseguenze persino peggiori.
E fin qui sembrerebbe un lavoro di denuncia dalle sfumature drammatiche.
In realtà il graphic novel della Beaton è qualcosa di molto più articolato e complesso, e proprio in questo sta la sua forza.
Se infatti il tema della condizione delle donne in questo contesto lavorativo è centrale, l'autrice non ama le semplificazioni e le risposte ovvie, e dimostra in tutto il racconto una grande empatia per gli esseri umani tutti e una spiccata propensione per l'analisi delle situazioni e la comprensione profonda.
Il suo, dunque, non è semplicisticamente un atto di accusa nei confronti del maschilismo onnipresente e pervasivo di fronte al quale ciò che diventa notizia è solo la punta dell'iceberg e spesso lo è in maniera distorta, bensì è anche una riflessione sulla tossicità di un contesto lavorativo che sembra fatto apposta per tirare fuori il peggio delle persone e che gioca sul fatto che le persone sono disposte a tanto per migliorare la loro condizione economica.
In questi campi dove i lavoratori vivono quasi segregati dal resto del mondo - lontani dalle loro famiglie, dagli affetti e da una vita normale - le condizioni di disagio psicologico sono molto diffuse, ma alle aziende interessa solo poter vantare l'assenza di incidenti sul lavoro. Non importa se il personale fa uso di sostanze stupefacenti per combattere solitudine e depressione, se gli uomini diventano predatori a caccia di donne, se le persone vengono sradicate dalle loro origini con il miraggio del guadagnare più di quello che potrebbero nei paesi da cui provengono, se la flora e la fauna che abitano questi territori vengono distrutte, perché su tutto prevale l'obiettivo delle aziende di sfruttare al massimo il petrolio.
Le sabbie bituminose dell'Alberta sono dunque un microcosmo che - pur nelle sue specificità e nella sua irripetibilità - permette di riflettere su molti/tanti dei temi che caratterizzano le nostre società capitalistiche. Con alcuni abbiamo familiarità (penso alle migrazioni con finalità lavorative, alla cultura maschilista e alla tossicità degli ambienti a prevalenza maschile, alle ricadute ambientali del nostro benessere), con altri meno (i debiti studenteschi sono qualcosa di più estraneo al contesto europeo, ma sappiamo di cosa si tratta). In generale però questa esperienza, in fondo lontana geograficamente e anche temporalmente da noi, si rivela ben più ricca di stimoli e di riflessioni di quanto non si possa immaginare al principio.
Tra l'altro la Beacon ha disegni molto gradevoli, espressivi sia nella componente ironica che drammatica (tavole con i dialoghi e le situazioni tra i vari protagonisti si alternano ad altre con vedute di insieme) e un modo di impostare il racconto lineare senza essere banale. E questo è certamente un valore aggiunto.
Insomma, una lettura consigliatissima per affrontare temi importanti con un approccio complesso, ma non noioso.
Voto: 4/5
mercoledì 8 maggio 2024
Civil war
Vado a vedere questo film di Alex Garland con grandi aspettative, solo in parte attenuate dalla recensione decisamente non entusiastica di Matteo Bordone nel suo podcast (ma io e lui non sempre siamo allineati rispetto ai gusti cinematografici).
Mi attira e mi incuriosisce molto l'idea di vedere raccontata sul grande schermo una guerra civile negli Stati Uniti, vista attraverso gli occhi di una fotoreporter di guerra, Lee Smith (che ha il volto di Kirsten Dunst, e il cui nome sembra essere il risultato di una doppia citazione, quella di Lee Miller e di Eugene Smith, due iconici e straordinari fotoreporter di guerra).
La storia non è molto di più di questo. Lee svolge il suo lavoro da moltissimi anni e ha documentato guerre in tutto il mondo; ora, insieme al collega Joel (Wagner Moura) intende andare da New York a Washington D.C. per raccontare una nazione in guerra e intervistare il presidente, asserragliato a Capitol Hill, mentre le forze secessioniste di California, Texas e Florida si avvicinano. In questo viaggio on the road attraverso un paese in cui dilagano violenza e distruzione, Lee e Joel saranno affiancati da Sammy (Stephen McKinley Henderson), un vecchio giornalista del New York Times, e da Jessie (Cailee Spaeny), una aspirante fotoreporter che ha una vera e propria ammirazione per Lee. Molte cose accadranno durante questo viaggio, e le relazioni tra questi personaggi cambieranno anche in conseguenza delle numerose difficoltà e pericoli che dovranno affrontare insieme.
La distopia di una nazione come gli Stati Uniti travolta da una guerra civile è ovviamente suggestiva e anche preoccupante, soprattutto se guardata con gli occhi di un presente in cui questa prospettiva appare molto meno assurda di quanto potrebbe o dovrebbe. Va detto però che il film non mi pare voglia approfondire particolarmente questo aspetto. Cosicché - per come l'ho letto io - il focus è piuttosto sul ruolo dei media nella documentazione dei conflitti e in particolare sulla professione del fotoreporter, con tutte le implicazioni di carattere etico che la caratterizzano (e che sono concentrate in particolare nel rapporto tra Lee e Jessie).
D'altra parte, nemmeno su questo tema, pur centrale - com'è confermato anche dal fatto che durante l'azione ogni tanto vediamo dei fermi immagine a colori o in bianco e nero che sono le fotografie rispettivamente di Lee e di Jessie - posso dire che sia stato fatto un particolare lavoro di approfondimento, che renda il film speciale. Il che insieme ad altri aspetti che mi hanno lasciato un po' perplessa - il commento musicale di alcune sequenze narrative, gli inserti presuntamente poetici in momenti drammatici, la violenza in qualche caso un po' gratuita, il girato che a volte fa pensare a un videogioco sparatutto - ha fatto sì che arrivassi alla fine del film sostanzialmente delusa. Con chi mi ha chiesto un giudizio sintetico non ho potuto fare a meno di usare il termine "giocattolone" (ovviamente una semplificazione e una esagerazione) per connotare un film che certamente è nato con grandi ambizioni, ma che alla fine a me personalmente non ha raccontato nulla di particolarmente nuovo né di significativo. Senza dubbio le immagini di città occidentali trasformate in uno scenario di guerra sono piuttosto potenti e ben fatte, ma anche quelle non sono particolarmente nuove, e a mio avviso non bastano a salvare il film dal rischio della superficialità.
Voto: 3/5
Mi attira e mi incuriosisce molto l'idea di vedere raccontata sul grande schermo una guerra civile negli Stati Uniti, vista attraverso gli occhi di una fotoreporter di guerra, Lee Smith (che ha il volto di Kirsten Dunst, e il cui nome sembra essere il risultato di una doppia citazione, quella di Lee Miller e di Eugene Smith, due iconici e straordinari fotoreporter di guerra).
La storia non è molto di più di questo. Lee svolge il suo lavoro da moltissimi anni e ha documentato guerre in tutto il mondo; ora, insieme al collega Joel (Wagner Moura) intende andare da New York a Washington D.C. per raccontare una nazione in guerra e intervistare il presidente, asserragliato a Capitol Hill, mentre le forze secessioniste di California, Texas e Florida si avvicinano. In questo viaggio on the road attraverso un paese in cui dilagano violenza e distruzione, Lee e Joel saranno affiancati da Sammy (Stephen McKinley Henderson), un vecchio giornalista del New York Times, e da Jessie (Cailee Spaeny), una aspirante fotoreporter che ha una vera e propria ammirazione per Lee. Molte cose accadranno durante questo viaggio, e le relazioni tra questi personaggi cambieranno anche in conseguenza delle numerose difficoltà e pericoli che dovranno affrontare insieme.
La distopia di una nazione come gli Stati Uniti travolta da una guerra civile è ovviamente suggestiva e anche preoccupante, soprattutto se guardata con gli occhi di un presente in cui questa prospettiva appare molto meno assurda di quanto potrebbe o dovrebbe. Va detto però che il film non mi pare voglia approfondire particolarmente questo aspetto. Cosicché - per come l'ho letto io - il focus è piuttosto sul ruolo dei media nella documentazione dei conflitti e in particolare sulla professione del fotoreporter, con tutte le implicazioni di carattere etico che la caratterizzano (e che sono concentrate in particolare nel rapporto tra Lee e Jessie).
D'altra parte, nemmeno su questo tema, pur centrale - com'è confermato anche dal fatto che durante l'azione ogni tanto vediamo dei fermi immagine a colori o in bianco e nero che sono le fotografie rispettivamente di Lee e di Jessie - posso dire che sia stato fatto un particolare lavoro di approfondimento, che renda il film speciale. Il che insieme ad altri aspetti che mi hanno lasciato un po' perplessa - il commento musicale di alcune sequenze narrative, gli inserti presuntamente poetici in momenti drammatici, la violenza in qualche caso un po' gratuita, il girato che a volte fa pensare a un videogioco sparatutto - ha fatto sì che arrivassi alla fine del film sostanzialmente delusa. Con chi mi ha chiesto un giudizio sintetico non ho potuto fare a meno di usare il termine "giocattolone" (ovviamente una semplificazione e una esagerazione) per connotare un film che certamente è nato con grandi ambizioni, ma che alla fine a me personalmente non ha raccontato nulla di particolarmente nuovo né di significativo. Senza dubbio le immagini di città occidentali trasformate in uno scenario di guerra sono piuttosto potenti e ben fatte, ma anche quelle non sono particolarmente nuove, e a mio avviso non bastano a salvare il film dal rischio della superficialità.
Voto: 3/5
lunedì 6 maggio 2024
Cyrano de Bergerac / adattamento e regia di Arturo Cirillo. Teatro Ambra Jovinelli, 21 aprile 2024
La stagione teatrale volge ormai al termine ma ci regala ancora qualche sprazzo di entusiasmo. E del resto sapevo già che con Arturo Cirillo è difficile restare delusi e ci si può fidare quasi a occhi chiusi.
Da un paio d'anni Cirillo porta in giro per i teatri italiani la sua personale versione del Cyrano di Bergerac di Edmond Rostand, la storia del celebre spadaccino guascone innamorato di Rossana che, a causa del suo enorme naso, non solo rinuncia a dichiararsi alla sua bella ma aiuta il giovane cadetto Cristiano a conquistarne definitivamente l'amore, prestandogli i suoi versi e le sue parole.
La storia di Cyrano è ampiamente nota ed è stata adattata variamente per il teatro e il cinema, in modi più o meno fedeli al testo originale. Anche Cirillo sceglie una lettura personale e molto originale.
Innanzitutto il Cyrano diventa un musical, quindi il recitato (quasi sempre in versi) si alterna al cantato, e questo racconto in musica si inserisce in una confezione da teatro di rivista, con tanto di paillettes e lustrini sia negli abiti che nella scenografia. Lo stesso Cyrano porta il frac, il cappello a cilindro e il bastone, come nella migliore tradizione degli spettacoli di varietà, configurandosi dunque più come un intrattenitore che come uno spadaccino.
In secondo luogo, sul piano narrativo, la storia di Cyrano è interpolata con quella di Pinocchio, essendo i due personaggi principali delle due storie accomunati da questo naso ingombrante e dalle bugie che costellano le loro esistenze, cosicché nel mondo che circonda Cyrano Rossana diventa a tratti la fata turchina, il pasticciere amico Ragueneau si fa un po' grillo parlante, e qua e là si intravedono altre assonanze.
Ma, soprattutto, quello di Cirillo è un omaggio al teatro, un vero e proprio atto d'amore, come si capisce fin dal prologo che svela agli spettatori la finzione letteraria di Cyrano e il rapporto dell'attore con il personaggio letterario, ed è reso ancora più chiaro ed evidente dall'allestimento scenico che consiste in un palco (rotante) su cui in alcuni momenti cala un sipario di seta luccicante e gli oggetti di scena vengono messi e tolti.
Cirillo sembra volerci dire che su quel palco tutto può accadere e chi frequenta le storie e le porta a teatro ha la possibilità di mostrare che i fili di queste storie si intrecciano in modi a volte imprevedibili, e letterati e drammaturghi anche distanti nel tempo e nello spazio contribuiscono tutti - con la loro creatività - al grande racconto della nostra umanità, rendendo il teatro un luogo di riconoscimento collettivo e di costruzione di identità per chi lo fa e per chi lo guarda.
E tutto questo lo si può fare anche attraverso un divertissement, com'è questa messa in scena di Cyrano, che non a caso si conclude con un giro saltellante di Cirillo e di tutti gli attori per l'intera platea.
Voto: 3,5/5
Da un paio d'anni Cirillo porta in giro per i teatri italiani la sua personale versione del Cyrano di Bergerac di Edmond Rostand, la storia del celebre spadaccino guascone innamorato di Rossana che, a causa del suo enorme naso, non solo rinuncia a dichiararsi alla sua bella ma aiuta il giovane cadetto Cristiano a conquistarne definitivamente l'amore, prestandogli i suoi versi e le sue parole.
La storia di Cyrano è ampiamente nota ed è stata adattata variamente per il teatro e il cinema, in modi più o meno fedeli al testo originale. Anche Cirillo sceglie una lettura personale e molto originale.
Innanzitutto il Cyrano diventa un musical, quindi il recitato (quasi sempre in versi) si alterna al cantato, e questo racconto in musica si inserisce in una confezione da teatro di rivista, con tanto di paillettes e lustrini sia negli abiti che nella scenografia. Lo stesso Cyrano porta il frac, il cappello a cilindro e il bastone, come nella migliore tradizione degli spettacoli di varietà, configurandosi dunque più come un intrattenitore che come uno spadaccino.
In secondo luogo, sul piano narrativo, la storia di Cyrano è interpolata con quella di Pinocchio, essendo i due personaggi principali delle due storie accomunati da questo naso ingombrante e dalle bugie che costellano le loro esistenze, cosicché nel mondo che circonda Cyrano Rossana diventa a tratti la fata turchina, il pasticciere amico Ragueneau si fa un po' grillo parlante, e qua e là si intravedono altre assonanze.
Ma, soprattutto, quello di Cirillo è un omaggio al teatro, un vero e proprio atto d'amore, come si capisce fin dal prologo che svela agli spettatori la finzione letteraria di Cyrano e il rapporto dell'attore con il personaggio letterario, ed è reso ancora più chiaro ed evidente dall'allestimento scenico che consiste in un palco (rotante) su cui in alcuni momenti cala un sipario di seta luccicante e gli oggetti di scena vengono messi e tolti.
Cirillo sembra volerci dire che su quel palco tutto può accadere e chi frequenta le storie e le porta a teatro ha la possibilità di mostrare che i fili di queste storie si intrecciano in modi a volte imprevedibili, e letterati e drammaturghi anche distanti nel tempo e nello spazio contribuiscono tutti - con la loro creatività - al grande racconto della nostra umanità, rendendo il teatro un luogo di riconoscimento collettivo e di costruzione di identità per chi lo fa e per chi lo guarda.
E tutto questo lo si può fare anche attraverso un divertissement, com'è questa messa in scena di Cyrano, che non a caso si conclude con un giro saltellante di Cirillo e di tutti gli attori per l'intera platea.
Voto: 3,5/5
venerdì 3 maggio 2024
Tatami = Una donna in lotta per la libertà
Quando improvvisamente ho realizzato che la regista (insieme a Guy Nattiv) nonché co-protagonista (insieme ad Arienne Mandi) di Tatami è Zahra Amir Ebrahimi (detta Zar Amir) che avevo molto amato in Holy spider, la mia intenzione di andare a vedere il film è diventata certezza. E ovviamente ho scelto la lingua originale che, soprattutto in film come questi, rappresenta per me ormai un valore aggiunto insostituibile.
Tatami è ispirato a una storia vera e racconta di una judoka iraniana, Leila (Arienne Mandi), che - insieme alle sue compagne di squadra e guidata dalla sua allenatrice Maryam (Zar Amir) - partecipa al campionato del mondo in Georgia. Al medesimo campionato partecipa anche un'atleta israeliana, che Leila conosce da tempo e con cui c'è cordialità e rispetto. Quando però sia quest'ultima che Leila cominciano a superare le loro avversarie e a scalare il cartellone, cosicché la probabilità di un incontro tra le due atlete diventa sempre più probabile, prima la Federazione di judo iraniana, poi figure sempre più vicine al governo iraniano fanno pressioni su Maryam perché convinca Leila a ritirarsi dalla competizione fingendo un infortunio. Di fronte alle resistenze prima di Maryam, poi della sola Leila, le pressioni diventano minacce e poi azioni concrete nei confronti delle famiglie delle due donne, in una spirale di tensione in cui procedono parallelamente gli incontri di Leila e la sua condizione di isolamento e terrore.
Il film di Amir e Nattiv è girato in uno splendido bianco e nero che richiama i colori primari della tenuta judoka e che in qualche modo uniforma visivamente le differenze tra le atlete, all'interno di un formato 4:3 che contribuisce a creare quel senso di costrizione e di soffocamento crescente che caratterizzerà sempre di più sia gli incontri sul tatami sia la vicenda narrativa che si svolge al di fuori di esso. Le due attrici principali sono entrambe molto brave e credibili nei loro ruoli, nonché capaci di attivare un forte senso di empatia in chi guarda.
La conclusione della vicenda e il racconto di quello che accade dopo l'ultimo incontro di Leila rendono forse fin troppo palese l'intento del film, che è quello di mostrare al mondo la totale assenza di libertà dei cittadini e soprattutto delle cittadine iraniane e la condizione di sudditanza e di violenza psicologica e materiale a cui sono sottoposti in ogni aspetto della loro vita. Forse non ce ne sarebbe stato bisogno, ma comprendo perfettamente l'urgenza di una persona che ha vissuto in prima persona la persecuzione ed è dovuta scappare via dall'Iran come Zar Amir di non lasciare zone d'ombra nel "messaggio" di questo film e utilizzare il cinema per non far mai spegnere i riflettori sull'insostenibilità della situazione iraniana.
Quindi, sono ampiamente disposta a scusare qualche difetto cinematografico se ci sono - come in questo caso - coraggio e passione politica. Continuerò senza dubbio a seguire con attenzione Zar Amir nel prosieguo della sua carriera come attrice e regista.
Voto: 3,5/5
Tatami è ispirato a una storia vera e racconta di una judoka iraniana, Leila (Arienne Mandi), che - insieme alle sue compagne di squadra e guidata dalla sua allenatrice Maryam (Zar Amir) - partecipa al campionato del mondo in Georgia. Al medesimo campionato partecipa anche un'atleta israeliana, che Leila conosce da tempo e con cui c'è cordialità e rispetto. Quando però sia quest'ultima che Leila cominciano a superare le loro avversarie e a scalare il cartellone, cosicché la probabilità di un incontro tra le due atlete diventa sempre più probabile, prima la Federazione di judo iraniana, poi figure sempre più vicine al governo iraniano fanno pressioni su Maryam perché convinca Leila a ritirarsi dalla competizione fingendo un infortunio. Di fronte alle resistenze prima di Maryam, poi della sola Leila, le pressioni diventano minacce e poi azioni concrete nei confronti delle famiglie delle due donne, in una spirale di tensione in cui procedono parallelamente gli incontri di Leila e la sua condizione di isolamento e terrore.
Il film di Amir e Nattiv è girato in uno splendido bianco e nero che richiama i colori primari della tenuta judoka e che in qualche modo uniforma visivamente le differenze tra le atlete, all'interno di un formato 4:3 che contribuisce a creare quel senso di costrizione e di soffocamento crescente che caratterizzerà sempre di più sia gli incontri sul tatami sia la vicenda narrativa che si svolge al di fuori di esso. Le due attrici principali sono entrambe molto brave e credibili nei loro ruoli, nonché capaci di attivare un forte senso di empatia in chi guarda.
La conclusione della vicenda e il racconto di quello che accade dopo l'ultimo incontro di Leila rendono forse fin troppo palese l'intento del film, che è quello di mostrare al mondo la totale assenza di libertà dei cittadini e soprattutto delle cittadine iraniane e la condizione di sudditanza e di violenza psicologica e materiale a cui sono sottoposti in ogni aspetto della loro vita. Forse non ce ne sarebbe stato bisogno, ma comprendo perfettamente l'urgenza di una persona che ha vissuto in prima persona la persecuzione ed è dovuta scappare via dall'Iran come Zar Amir di non lasciare zone d'ombra nel "messaggio" di questo film e utilizzare il cinema per non far mai spegnere i riflettori sull'insostenibilità della situazione iraniana.
Quindi, sono ampiamente disposta a scusare qualche difetto cinematografico se ci sono - come in questo caso - coraggio e passione politica. Continuerò senza dubbio a seguire con attenzione Zar Amir nel prosieguo della sua carriera come attrice e regista.
Voto: 3,5/5
mercoledì 1 maggio 2024
Erlend Øye e la Comitiva. Monk, 20 aprile 2024
Come molti già sapranno, Erlend Øye è uno dei due componenti dei Kings of Convenience (l'altro è Eirik Glambæk Bøe). Personalmente, i KoC mi sono sempre piaciuti e li seguo da tempo (anche dal vivo), ma man mano che la loro conoscenza si è approfondita ho cominciato a seguire anche la carriera solista di Erlend Øye, che sia sul piano personale che musicale mi pare un personaggio eclettico ed interessante.
Tra l'altro Erlend Øye è ormai mezzo italiano, visto che oltre dieci anni fa si è trasferito a vivere a Siracusa, nel cui ambiente - musicale e non solo - è perfettamente integrato. Due anni fa, proprio grazie a lui e al concerto che i KoC hanno fatto a Villa Ada ho conosciuto Marco Castello, il polistrumentista e cantautore siciliano che in quella circostanza li accompagnava e che di lì in poi ho cominciato a seguire anch'io.
Nel frattempo Marco Castello ne ha fatta di strada e ha una carriera autonoma importante, tanto che all'ultimo concerto organizzato a Roma, non essendomi mossa abbastanza per tempo, non ho trovato più posto.
Ora, Erlend Øye e Marco Castello hanno finalmente dato alla luce un lavoro che li vede insieme protagonisti, sotto il nome di La Comitiva, nella quale oltre a loro due ci sono anche Stefano Ortisi e Luigi Orofino. A questo quartetto di tanto in tanto nei vari concerti si uniscono altri musicisti, e per esempio a Roma abbiamo avuto il piacere di sentir suonare con la Comitiva anche Romain Bly ai fiati e alle percussioni.
Insomma, la Comitiva è un vero e proprio progetto musicale aperto e multiforme, iniziato ormai diversi anni fa e forse destinato a trasformarsi sull'onda della creatività di Erlend e dei suoi sodali.
Al Monk la Comitiva porta una setlist in cui il gruppo ha scelto di dare visibilità sia alle creazioni collettive, sia alle canzoni invece legate alle storie individuali, sia a cose contenute nell'album sia ad altre che invece lì non ci sono. Si comincia con Fence me in e Peng Pong per poi andare ad Upside down e ad Altiplano.
Già in queste prime canzoni si capisce che il concerto sarà notevole sia sul piano musicale che su quello dell'intrattenimento: so già che Erlend Øye è un mattatore, quindi non solo suona (in questo caso l'ukulele) e canta, ma parla con il pubblico, scherza e balla nel suo modo buffo. Gli altri musicisti che lo circondano gli reggono il gioco e contribuiscono a trasformare l'atmosfera complessiva in una serata tra amici, che poi tanto sera non è visto che il concerto inizia alle 19,30.
Comunque, rotto il ghiaccio iniziale, il concerto fila via spedito, mentre canzoni in inglese si alternano ad altre in italiano, da un lato Price, For the time being, Lockdown blues, You and only you, dall'altro Il matrimonio di Ruggiero, Paradiso, Bologna. Non mancano le esecuzioni di canzoni scritte dai singoli e da loro cantate, come Beddu di Marco Castello, e Amsterdam di Luigi Orofino.
Il concerto si chiude con Spider e, in un progressivo crescendo di partecipazione ed entusiasmo, con La prima estate. Al ritorno sul palco dopo il richiestissimo bis La Comitiva ci propone una canzone più soft e una di maggiore ritmo (Mornings and afternoons e Poor Leno), e il concerto finisce con Erlend che trascina tutti i musicisti al centro della sala per continuare a suonare e cantare senza amplificazione. Un'esperienza musicale e umana di grandissima soddisfazione che ci fa uscire dalla sala del Monk tutti con il sorriso sulle labbra e pienamente soddisfatti.
Voto: 4/5
Tra l'altro Erlend Øye è ormai mezzo italiano, visto che oltre dieci anni fa si è trasferito a vivere a Siracusa, nel cui ambiente - musicale e non solo - è perfettamente integrato. Due anni fa, proprio grazie a lui e al concerto che i KoC hanno fatto a Villa Ada ho conosciuto Marco Castello, il polistrumentista e cantautore siciliano che in quella circostanza li accompagnava e che di lì in poi ho cominciato a seguire anch'io.
Nel frattempo Marco Castello ne ha fatta di strada e ha una carriera autonoma importante, tanto che all'ultimo concerto organizzato a Roma, non essendomi mossa abbastanza per tempo, non ho trovato più posto.
Ora, Erlend Øye e Marco Castello hanno finalmente dato alla luce un lavoro che li vede insieme protagonisti, sotto il nome di La Comitiva, nella quale oltre a loro due ci sono anche Stefano Ortisi e Luigi Orofino. A questo quartetto di tanto in tanto nei vari concerti si uniscono altri musicisti, e per esempio a Roma abbiamo avuto il piacere di sentir suonare con la Comitiva anche Romain Bly ai fiati e alle percussioni.
Insomma, la Comitiva è un vero e proprio progetto musicale aperto e multiforme, iniziato ormai diversi anni fa e forse destinato a trasformarsi sull'onda della creatività di Erlend e dei suoi sodali.
Al Monk la Comitiva porta una setlist in cui il gruppo ha scelto di dare visibilità sia alle creazioni collettive, sia alle canzoni invece legate alle storie individuali, sia a cose contenute nell'album sia ad altre che invece lì non ci sono. Si comincia con Fence me in e Peng Pong per poi andare ad Upside down e ad Altiplano.
Già in queste prime canzoni si capisce che il concerto sarà notevole sia sul piano musicale che su quello dell'intrattenimento: so già che Erlend Øye è un mattatore, quindi non solo suona (in questo caso l'ukulele) e canta, ma parla con il pubblico, scherza e balla nel suo modo buffo. Gli altri musicisti che lo circondano gli reggono il gioco e contribuiscono a trasformare l'atmosfera complessiva in una serata tra amici, che poi tanto sera non è visto che il concerto inizia alle 19,30.
Comunque, rotto il ghiaccio iniziale, il concerto fila via spedito, mentre canzoni in inglese si alternano ad altre in italiano, da un lato Price, For the time being, Lockdown blues, You and only you, dall'altro Il matrimonio di Ruggiero, Paradiso, Bologna. Non mancano le esecuzioni di canzoni scritte dai singoli e da loro cantate, come Beddu di Marco Castello, e Amsterdam di Luigi Orofino.
Il concerto si chiude con Spider e, in un progressivo crescendo di partecipazione ed entusiasmo, con La prima estate. Al ritorno sul palco dopo il richiestissimo bis La Comitiva ci propone una canzone più soft e una di maggiore ritmo (Mornings and afternoons e Poor Leno), e il concerto finisce con Erlend che trascina tutti i musicisti al centro della sala per continuare a suonare e cantare senza amplificazione. Un'esperienza musicale e umana di grandissima soddisfazione che ci fa uscire dalla sala del Monk tutti con il sorriso sulle labbra e pienamente soddisfatti.
Voto: 4/5
Iscriviti a:
Post (Atom)