mercoledì 31 luglio 2013
La Slovenia in bicicletta - Seconda parte
Il giorno seguente (dopo le prime tappe già raccontate) potremmo rimanere a poltrire, visto che è una delle opzioni possibili... ma decidiamo di fare il tour circolare della zona per tenerci in allenamento. Anche questa tappa ci regala salite e discese, però i paesaggi e le campagne che ci circondano ci ripagano degli sforzi. La sera visita guidata alle cantine di Teran dei proprietari dell'agriturismo e alle stanze usate per la stagionatura dei prosciutti. E qui mi toccherà pure fare da traduttrice dall'italiano del proprietario all'inglese a vantaggio delle due coppie ospiti nell'agriturismo (gli scozzesi soliti e due americani). Ne otterrò in cambio una bottiglia di vino Teran dolce al momento della partenza! ;-)
Dopo aver lasciato a malincuore il nostro bellissimo agriturismo (dove praticamente siamo riuscite a fare solo una merenda all'aperto perché il pomeriggio è quasi sempre arrivata puntuale la pioggia), si pare alla volta di Lipica e Divača. A Lipica non possiamo non visitare le scuderie dei famosi cavalli lipizzani, i bellissimi cavalli bianchi utilizzati in passato per la guerra, oggi soprattutto per spettacoli equestri. Scopro che esiste un ramo dei lipizzani che si chiama Conversano (perché i cavalli furono importati nel mio paese nel tardo Medioevo sotto gli Acquaviva d'Aragona) e che i lipizzani nascono scuri, ma poi il loro pelo diventa bianco. Faccio amicizia con questi cavalli che mi leccano le mani e si vede che hanno un rapporto con l'uomo che dura da secoli.
A Divača facciamo una passeggiata del paese (piccolissimo ma molto carino) e ci prepariamo per la nostra ultima tappa.
Per l'ultimo giorno abbiamo diverse opzioni per arrivare a Capodistria. Possiamo passare per l'interno della Slovenia, oppure passare per l'Italia tagliando verso la costa prima di arrivare a Trieste, oppure visitando la città. Scegliamo la seconda opzione perché siamo curiose di sperimentare il tratto lungo la costa (basta colline!). In realtà il primo tratto si rivela abbastanza impegnativo, anche perché è su strade abbastanza trafficate, poi - dopo aver attraversato un paio di volte il confine italiano e quello sloveno - scendiamo a capofitto verso la costa. Sosta a Muggia (molto carina!) e poi fino a Capodistria dove siamo all'hotel Koper sul lungomare.
Con rammarico lasciamo le biciclette. Per fortuna ci attende un weekend con amici al mare istriano. La sera andiamo a bere un bicchiere di grappa alle prugne in una divertente enoteca nel centro di Capodistria (Koper in sloveno) e poi saremo trascinati ad un concerto di musica jazz al centro di cultura italiano. Il giorno dopo siamo a Strunjan con la sua riserva naturale (dove potremo godere di un bel mare e di una giornata rilassante) e la sera a mangiare alla gostilna Galeb (tutto buonissimo, carne e pesce) a Piran (questi nomi di città slovene non si sa mai se scriverli e pronunciarli alla slovena o all'italiana!). Portorose fa molto anni '80, pieno di palazzoni e di casinò, Koper invece rivela un centro storico molto bello che giriamo in lungo e in largo tanto che saliamo anche sulla torre del duomo per godere del panorama. Non ci faremo neppure mancare un bagno nella spiaggia cittadina, che produce un effetto straniante, visto che sullo sfondo c'è il porto con le grandi navi e le grandi gru per caricare le merci.
La Slovenia mi lascia un ricordo positivo: un posto molto verde ed accogliente, dove per una volta non siamo noi a doverci preoccupare di parlare l'inglese per farci capire, ma sono gli sloveni a parlare con noi in italiano. Vuoi mettere? ;-)
lunedì 29 luglio 2013
La Slovenia in bicicletta - Prima parte
Dopo anni e anni di vacanze in bicicletta in Francia, quest'anno io e S. ci siamo decise a cambiare destinazione. Così, dopo una trattativa non andata a buon fine per il viaggio di dieci giorni lungo la Ciclovia Alpe-Adria, abbiamo scelto in tutta fretta una destinazione alternativa e siamo rimaste lì in zona.
La scelta è caduta su quello che viene definito il tour dello smeraldo che va da Lubiana a Capodistria, quindi dall'interno della Slovenia fino al piccolo tratto di costa istriana di pertinenza slovena.
Il viaggio è classicamente organizzato su 8 giornate, con 7 pernottamenti. Il primo giorno arriviamo a Lubiana con una combinazione di treni fino a Trieste (con qualche patema d'animo per la coincidenza del treno a Venezia) e autobus da Trieste fino a Lubiana. Il nostro albergo è ubicato nella prima periferia della città e qui incontriamo la referente dell'agenzia Helia, il partner sloveno della nostra agenzia italiana, Verde Natura. Qui ci vengono consegnati come sempre biciclette (quest'anno arancioni con la scritta Helia a pois che sembrava di stare sulle biciclette della Pimpa!) e materiale di viaggio, ossia cartine e descrizione del percorso.
La sera siamo troppo cotte per andare in centro in bicicletta, tanto più che ci hanno tenuto a dirci che in centro a Lubiana è meglio non perdere d'occhio le biciclette perché i furti sono frequenti. Così facciamo una passeggiata a piedi e andiamo a dormire presto.
Il giorno dopo eccoci in sella (dopo la nostra consueta lauta colazione) verso la prima tappa che è appunto il centro storico di Lubiana, davvero bello. Per quanto mi riguarda, una vera sorpresa, città pulita, elegante, invitante, meriterebbe certamente una visita più approfondita e con più calma. Ci attendono però una cinquantina di chilometri e poiché nei giorni prima della partenza tutti ci hanno detto di aspettarci un territorio prevalentemente collinare siamo terrorizzate. In realtà la tappa si rivela abbordabile e quando arriviamo nella zona di Bistra, a pochi km da Vrhnika (la nostra destinazione), abbiamo anche il tempo di fare una lunga visita al Museo della tecnica e della tecnologia che è ospitato nel castello.
Vhrnika è un piccolo paese dove il nostro alloggio ci rimette in contatto con l'Italia, visto che si tratta dell'Hotel Mantova. Questa sera la nostra cena è in una trattoria fuori dell'albergo che raggiungiamo dopo una piccola passeggiata nel centro (e uno spuntino dal panificio con una brioche locale che di fatto è un panino col cioccolato e che mangeremo più e più volte durante la vacanza). La trattoria (Gostilna Simon) lì per lì non fa presagire niente di buono, in realtà oltre ad essere gradevolissimo lo spazio all'aperto dove ceniamo il cibo è tra i più buoni che mangeremo nell'intera vacanza.
Il giorno dopo il cielo minaccia pioggia, così ci attrezziamo ad affrontare il maltempo che effettivamente non si fa attendere. Mentre saliamo su per una brutta strada piuttosto trafficata viene giù il diluvio. La pioggia ci accompagnerà per l'intera tappa, per fortuna alternata a momenti di pace. Per questo non vediamo l'ora di arrivare a destinazione a Postumia. E per fortuna, perché subito dopo l'arrivo, una lunga e fitta pioggia va avanti per qualche ora. Appena spiove, andiamo in visita alle grotte di Postumia, dove percorriamo con il trenino circa 2,5 km e poi 1,5 km a piedi, una piccolissima porzione del tracciato delle grotte che si estende per oltre 20 km. Bella esperienza.
Dopo una cena senza infamia e senza lode, siamo già a letto, così la mattina dopo siamo pronte per l'escursione al castello di Predjama non lontano dalle grotte. Capiamo che quella di oggi sarà una tappa impegnativa. Già il percorso fino al castello ci mette alla prova, ma - per nostra consolazione - anche la tonicissima coppia scozzese che sta facendo il nostro stesso viaggio e che incontriamo ogni sera in albergo, sembra accusare il colpo. Il castello però merita, incastonato com'è nelle rocce carsiche, dentro una valle verdissima e quasi nascosta.
Dopo una serie infinita di colline, salite, discese di ogni genere e difficoltà finalmente arriviamo alla nostra meta, Hruševica, un paesino minuscolo vicino Stanjel, che ha come unica attrattiva l'agriturismo dove staremo per un paio di notti, Grča. Il posto è davvero bello; il ristorante ha un pergolato esterno dove - pioggia permettendo - si può cenare. La conduzione è tutta familiare, marito e moglie con figlio, moglie e due nipotine. La cucina è gestita tutta dalla famiglia che mette in tavola principalmente i prodotti che realizza, in particolare l'eccellente prosciutto crudo e il vino Teran. Le stanze sono in un edificio separato, una tipica casa del Carso sloveno con il camino esterno. Niente di sfarzoso, ma camere accoglienti con piccoli balconcini che danno sulla campagna dove crescono le viti. Le cene e le colazioni resteranno certamente le migliori dell'intera vacanza.
Alla prossima puntata!!
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domenica 28 luglio 2013
Bellas Mariposas
Bellas Mariposas ci racconta una giornata (precisamente il 3 agosto) della vita di Caterina, detta Cate (Sara Podda), che inizia in piena notte quando la vicina – come tutti i giorni – sveglia l'intero quartiere con le sue strambe abitudini, e finisce la notte successiva quando con l’arrivo della “coga”, una specie di maga, gli eventi precipitano e nuovi equilibri si instaurano. In realtà è la stessa Caterina a raccontarci la sua vita, rivolgendosi direttamente al pubblico attraverso la telecamera, sicura che da qualche parte al di là di essa qualcuno la stia ascoltando.
Cate ha 11 anni, da grande vorrebbe fare la cantante e sposarsi, forse con Gigi. La sua migliore amica è Luna (Maya Mulas) con cui condivide le giornate e i pensieri in una maniera superficiale e intima al contempo, come solo le ragazzine di quell’età possono fare. Cate e Luna ridono per un nonnulla, si prendono gioco del mondo, cercano di catturare insieme piccoli attimi di felicità, dimenticandosi delle brutture che le circondano.
L’amicizia con Luna è per Cate uno spazio di libertà e di bellezza, un po’ come il mare, dove – quando nuota – Cate si sente un pesce e si dimentica di tutto.
Sì, perché Cate vive in una periferia degradata di Cagliari abitata da gente senza arte né parte che sbarca il lunario come può, una periferia strutturata in corridoi e labirinti di un’architettura disumana in cui i ragazzi “pinnano” col motorino e si drogano. Nella sua casa fatiscente, Cate vive con suo padre che non lavora e si fa i ca**i suoi dalla mattina alla sera (come lei stessa dice), con sua madre che invece si fa il cu*o dalla mattina alla sera, con un numero esorbitante di fratelli e sorelle che escono ed entrano occupando ogni centimetro quadro della stanza da letto con i letti a castello, con i nipotini che strillano e piangono, figli della sorella maggiore che è rimasta incinta a 13 anni e ora fa la prostituta.
Per la prima mezz’ora del film non si può fare a meno di sentire un peso sullo stomaco, un’angoscia strisciante che non ci abbandona neppure quando le situazioni risultano comiche e ci fanno sorridere.
Ma dal momento in cui Cate e Luna prendono l’autobus per andare al mare e poi attraversano il centro di Cagliari lo schermo si riempie di una luce nuova, poetica e commovente, che riscatta tutto e apre il cuore alla speranza. Queste due ragazzine, cresciute troppo in fretta, costrette ad affrontare il brutto della vita molto prima di quanto si dovrebbe, trasmettono però una purezza di sentimenti e di pensieri, una innocenza e una forza che permette loro di librarsi nell’aria come due farfalline o nel mare come due pesciolini.
Il realismo di questo film (accentuato dall’uso del cagliaritano stretto utilizzato in molti passaggi) è in qualche modo mitigato in alcuni casi e accentuato in altri dallo sguardo di Cate che attraversa questo mondo e lo interpreta alla luce di quell’età che sta sulla soglia dell’adolescenza, quella in cui tutto ancora è possibile, anche l’intervento del magico e del soprannaturale.
Il film di Salvatore Mereu (tratto dal romanzo di Sergio Atzeni) è un gioiellino italiano che merita di essere visto e apprezzato.
Voto: 3,5/5
lunedì 22 luglio 2013
Le bleu est une couleur chaude / Julie Maroh
Da questo graphic novel è stato liberamente tratto il film di Abdellatif Kechiche che ha vinto il Festival di Cannes 2013, La vie d’Adèle. Il fumetto verrà pubblicato in Italia tradotto in autunno, ma oltre al fatto che ero piuttosto impaziente di leggerlo, trovo più affascinante la lettura in lingua originale, ovviamente se e quando le mie conoscenze linguistiche me lo consentano.
Ebbene, non me ne sono pentita. Le bleu est une couleur chaude è uno di quei graphic novel che non possono lasciare indifferenti. Anzi, devo ammetterlo. Io sulle ultime pagine ho proprio pianto, perché a differenza di altre storie a fumetti che si muovono su piani non necessariamente realistici questo sembra raccontare una storia di vita vissuta e lo fa con una tale veridicità e una tale aderenza alla realtà che è impossibile non farsi travolgere dai sentimenti delle protagoniste, Clémentine e Emma.
Il fumetto racconta una storia d’amore nella quale ci sono tutti gli ingredienti classici: la passione, la paura, la felicità, il tradimento, le separazioni. La novità sta nel fatto che protagoniste sono due adolescenti che – proprio attraverso e a causa del loro amore – sono chiamate a diventare adulte molto in fretta e a fare i conti non solo con le proprie debolezze personali, ma anche con le incomprensioni e i pregiudizi del mondo circostante, dalle famiglie agli amici.
Non posso rivelarvi di più della storia, anche se la costruzione è fatta in modo tale che l’evento che la chiude è anche quello dal quale si comincia e la narrazione si presenta come un lungo racconto visivo in flashback a partire dal diario di Clémentine.
Dal punto di vista grafico il volume è geniale. Tutta la vicenda raccontata in flashback è disegnata sui colori del seppia/grigio (un misto di acquarello e di disegnato, graficamente molto efficace), tranne tutto quello che è blu come i capelli di Adéle, perché il blu è in questa storia il simbolo della vita stessa e della rinascita di Clémentine. Come lei stessa afferma, “il blu è diventato un colore caldo”.
La contemporaneità è invece a colori, fatta tutta di colori pastello in cui però il blu resta una componente predominante non solo come colore primario ma anche come base di colori secondari, in particolare il verde. Il passaggio dal grigio/seppia al colore avviene in una tavola in cui domina al centro la figura nuda e a colori di Clémentine, che è poi anche la tavola in cui si racconta il passaggio dall’adolescenza alla vita adulta e quella nella quale Emma si taglia i capelli e li riporta al loro originario colore biondo. Da lì in poi in qualche modo niente sarà più lo stesso e le due protagoniste da un lato dovranno affrontare la durezza della vita, dall’altro troveranno definitivamente, in particolare Clémentine, le loro identità di persone adulte.
Alcune tavole e alcuni disegni sono di una bellezza commovente. La sceneggiatura è molto efficace, ma anche la capacità di comunicare il non detto attraverso i disegni è all’altezza. Posso capire perché un animo sensibile come quello di Kechiche si sia innamorato di questa storia.
Voto: 4/5
lunedì 15 luglio 2013
L'isola dei cacciatori di uccelli / Peter May
L'isola dei cacciatori di uccelli / Peter May; trad. di Anna Mioni. Torino: Einaudi, 2012.
Al ritorno dal mio bellissimo viaggio in Scozia (anzi per essere precisi nelle Highlands), S. mi ha consigliato di leggere questo libro per rievocare le atmosfere scozzesi da cui ero rimasta così colpita.
Non conoscevo Peter May, né avevo mai sentito nominare questo libro. Poi scopro che May è di Glasgow e che per scrivere una trilogia ambientata nell'isola di Lewis (nelle Ebridi esterne) ha passato un paio di anni nell'isola a contatto con gli abitanti per coglierne caratteri e sottintesi.
Il risultato è brillante.
L'ambientazione è affascinante e, grazie a May, dopo poche pagine, mi sono ritrovata in un paesaggio in cui il vento, l'oceano, la pioggia, il gelo la fanno da padroni, mentre gli uomini lottano per la sopravvivenza di fronte a una natura inarrestabile, che da un lato mette a repentaglio la vita e dall'altro regala spettacoli irripetibili.
Bellissimo per me che sono tornata da poco ritrovare i grandi cieli scozzesi pieni di arcobaleni che il vento fa cambiare continuamente e rapidissimamente, il mare che infuria sulle scogliere, le spiagge profonde con le lunghissime maree, le brughiere ricoperte di erica e completamente prive di alberi. E poi le pecore che ricoprono le colline, le griglie per gli animali che delimitano le enclosures lì dove non si possono mettere cancelli, l'odore della torba, le blackhouses di pietra, il porridge.
Anche la storia non delude. L'omicidio apparentemente rituale che costringe l'ispettore Finn McLeod a tornare nella sua isola natìa dove non aveva più messo piede dai tempi dell'università è in realtà l'occasione per guardarsi dietro, per ricostruire e fare i conti con il proprio passato.
Il cuore narrativo non è l'indagine in senso stretto, bensì lo scandaglio emotivo e psicologico del cuore umano che in un luogo estremo come questo si fa ancora più difficile.
I cacciatori di uccelli cui si fa riferimento nel titolo richiamano un elemento centrale del racconto, ossia l'annuale spedizione degli uomini di Lewis ad An Sgeir (o Sula Sgeir), una piccolissima isola a nord delle Highlands, con l'obiettivo di cacciare le sule, uccelli marini di cui esiste su questa isola una grossa colonia.
Ad An Sgeir molte verità vengono a galla, ma tradizione vuole che restino sepolte nelle menti degli uomini che le hanno condivise.
Lo scioglimento finale che ricompone i pezzi del puzzle è forse un po' troppo carico, per certi versi eccessivo rispetto a una storia in buona parte equilibrata, ma certamente riesce a creare un climax di tensione e un'aspettativa che non risultano deluse.
Io l'ho letteralmente divorato. E vabbè che i gialli mi piacciono. E le Highlands pure. Ma May in questo romanzo ci ha messo del suo.
Attendo a questo punto il secondo della trilogia.
Voto: 4/5
mercoledì 10 luglio 2013
L'intervista / Manuele Fior
L'intervista / Manuele Fior. Bologna: Coconino Press, 2013.
Più mi addentro nel mondo dei graphis novels e più resto affascinata dall’originalità e dalla ricchezza di questa arte che occupa un posto a parte sia rispetto alla letteratura sia rispetto alle arti visive. Il mix unico che questo tipo di lavori riesce a realizzare tra la parola scritta e l’immagine, tra il detto esplicitamente e il sottinteso è di per se stesso intrigante e richiede al lettore un’attenzione e una predisposizione particolari. Io sto imparando poco a poco e, come nel caso de L’intervista di Manuele Fior, prima di mettere per iscritto le mie riflessioni ho preferito leggere una seconda volta.
Forse l’intenzione di Manuele Fior in questo suo lavoro era proprio quello di esplorare i confini della nostra capacità di comunicare in modi e con strumenti diversi.
La storia de L’intervista è piuttosto articolata: protagonisti sono principalmente Raniero, uno psicologo in crisi con la moglie, e Dora, una giovane donna che i genitori dicono soffrire di allucinazioni.
Siamo nel 2048 in una cittadina di provincia del nordest italiano. Il mondo così come oggi lo conosciamo è profondamente cambiato: ci sono stati i moti di disunificazione, i centri storici sono stati prima abbandonati e poi recuperati ma completamente blindati, le automobili sono teleguidate, il mondo circostante è altamente tecnologico, un gruppo di giovani ha istituito la nuova convenzione inaugurando una modalità non esclusiva di vivere i rapporti affettivi. Il fatto è che in questo mondo, dove apparentemente niente è più come prima, in realtà l’umanità è sempre la stessa, alle prese con i propri sentimenti e la difficoltà di gestire le relazioni con il mondo circostante, nel costante tentativo di entrare in comunicazione con esso.
In questo mondo, ad un certo momento, alcune persone, tra cui in primis Raniero e Dora, cominciano a vedere dei triangoli luminosi nel cielo, che preannunciano il possibile arrivo di civiltà extraterrestri a sconvolgere gli equilibri che nel frattempo si sono costituiti.
Da qui una serie di eventi che porteranno Raniero e Dora ad avvicinarsi nella ricerca di quell’affetto che in fondo manca a entrambi. Ma questo contatto, fatto di inevitabili incomprensioni, ma al contempo di grande affinità, come spesso accade produrrà esiti imprevisti o imprevedibili, o forse esiti fin troppo prevedibili.
II contatto degli extraterresti in forma di triangoli luminosi lasceranno in eredità ad alcuni, in particolare a Dora, il dono della telepatia. La ritroviamo a 130 anni che tiene una specie di seminario telepatico a degli studenti in cui racconterà cosa è accaduto nel 2048. La telepatia non risolve però il mistero dei sentimenti e della complessità umana. I pensieri coscienti non esauriscono il groviglio di emozioni di cui siamo fatti. E in fondo va bene così.
Manuele Fior ci propone un’opera ambiziosa e per certi versi molto diversa dal suo lavoro precedente, Cinquemila chilometri al secondo. Narrativamente coraggiosa, graficamente molto suggestiva ed evocativa, nel tentativo di tradurre in immagine il flusso di coscienza e i percorsi emotivi dell’animo umano. Il disegno è al contempo realistico e in parte surreale, nel momento in cui si muove al confine tra il conscio e l’inconscio, tra la realtà vera e quella interiore.
Affascinante. Gli inglesi direbbero challenging.
Voto: 3,5/5
lunedì 8 luglio 2013
La versione di Barney / Mordecai Richler
La versione di Barney / Mordecai Richler; trad. di Anna Mioni. Torino: Einaudi, 2012.
Tempo fa avevo visto il film tratto da questo libro, quello con protagonista Paul Giamatti, e mi era piaciuto molto. Chi aveva letto il libro mi diceva che il film era riuscito a portare sullo schermo solo una piccola parte della ricchezza e della complessità del volume. Cosicché mi ero ripromessa di leggerlo ed ecco arrivato il momento.
In realtà avevo cominciato la lettura più di un mese fa e dopo aver macinato un centinaio di pagine in occasione di una piccola vacanza, con il rientro al lavoro andavo avanti a spizzichi e bocconi, dimenticando dettagli e perdendo il filo del discorso, al punto da convincermi che non mi piacesse abbastanza.
Poi finalmente un'intera settimana di vacanze mi ha consentito di divorare i restanti 2/3 del libro.
Devo dire che all'inizio ero quasi frastornata dalla lettura. Non mi ci raccapezzavo in questo flusso di pensieri, flashback, memorie, riflessioni, omissioni, dimenticanze che, nella mia testa, producevano un groviglio quasi inestricabile. E dirò di più, il protagonista Barney Panofsky mi risultava piuttosto antipatico per il suo essere tutto fuorché politicamente corretto, per i suoi eccessi e le assurde scelte di vita, per il suo cinismo senza freni, ai limiti della cattiveria gratuita.
Poi man mano che leggevo - come accade a volte man mano che si frequenta qualcuno - ho cominciato a comprendere la sensibilità di Barney celata sotto la sua natura eccentrica e la sua scorza cinica. E inevitabilmente mi ci sono affezionata, ho iniziato a fare il tifo per lui, e questo pur conoscendo le sue bassezze e piccolezze. Proprio come accade con le persone cui si vuole bene.
La storia di Barney tocca vette di divertimento intellettuale che difficilmente altri romanzi possono eguagliare, così come la sua parabola umana è oltremodo commovente.
Alla fine, gli crediamo davvero quando dice che non ha ucciso l'amico Boogie (prima ancora di conoscere la verità) e vorremmo che il nastro si riavvolgesse quando capiamo che i suoi vuoti di memoria sono dovuti all'Alzheimer. Così come vorremmo andare da Miriam, il suo unico grande amore (pur essendo la terza di tre mogli), e supplicarla di tornare con lui.
E però alle ultime pagine dobbiamo ammettere che la vita è un po' così. Dolce e crudele. Divertente e drammatica. E che Barney l'ha vissuta appieno, sebbene la vita non si faccia mai afferrare del tutto.
Voto: 4/5
mercoledì 3 luglio 2013
Questa è la stanza / Gipi
Questa è la stanza / Gipi. Bologna: Coconino Press, 2005.
Gipi - di cui ho amato molti lavori, in particolare S. - ha una straordinaria capacità di raccontare un'età della vita, quella nella quale si è immaturi e incoscienti, ma anche puri e teneri. In pratica la giovinezza, quell'età subito prima di sentire la fatica della vita e il peso delle responsabilità e di mettere da parte i propri sogni.
I giovani disegnati da Gipi sono ruvidi e spigolosi. Sono ragazzi di provincia, senza arte né parte, spesso con storie difficili alle spalle, con famiglie problematiche o disgregate. Sono ragazzi che però non vogliono rinunciare ai propri sogni e li cercano in quel legame speciale che illumina la giovinezza e che è l'amicizia, quel legame che in qualche modo viene prima ancora dell'amore.
In Questa è la stanza si racconta la storia di quattro di questi giovani che hanno una passione in comune, la musica. La stanza è una specie di capannone che il padre di uno di loro ha messo a disposizione e dove finalmente la loro voglia di trasmettere attraverso gli strumenti musicali e la voce tutto quello che hanno dentro può trovare espressione.
I protagonisti di Questa è la stanza non sono molto diversi da quelli di Appunti per una storia di guerra, e come quelli sono alla ricerca della propria identità, spesso confusi, talora inutilmente aggressivi, talaltra ingenui.
Le pareti della stanza sono la loro difesa da un mondo esterno che sentono faticoso e ostile, la stanza è una specie di spazio magico nel quale tutto è possibile e niente può spezzare la speranza di felicità. Il mondo degli adulti non è ostile, è semplicemente "altro", incapace di comprendere bisogni e segreti di queste anime ancora acerbe.
Gli acquerelli di Gipi fanno il resto, quando mettono a confronto il piccolo ma complesso mondo della stanza con l'enormità degli spazi aperti, che sono bellissimi e spaventosi al contempo. I quattro ragazzi hanno tratti al contempo realistici e simbolici, perché dai loro volti e dai gesti dei loro corpi si intravede l'essenza in fieri di ciascuno di loro, senza poter veramente scommettere su quello che diventeranno.
Intanto però - a loro modo - si fanno artefici del proprio destino.
Voto: 4/5
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