Il film mi era sfuggito al momento della sua uscita, ma per fortuna l'ho potuto recuperare in quella che resta una straordinaria risorsa per la città di Roma, la sala del cinema Delle Province, dove andare a vedere un film quasi nuovo costa da 3 a 4 euro!
Certo, ha tutto l'aspetto di un cinema parrocchiale e il pubblico è a dir poco eterogeneo, però devo dire che mantiene un suo fascino un po' retro.
Il film gira attorno ai due classici protagonisti dei racconti di Conan Doyle, Sherlock Holmes (Robert Downey Jr.)e il suo fidato dottor Watson (Jude Law), e ci racconta una delle loro avventure, quella contro il cattivo Blackwood (Mark Strong).
Direi, però, che la cosa più importante non è la storia, ma il modo in cui sono rappresentati i personaggi e in cui è resa l'ambientazione londinese. La scenografia è quella di una Londra sporca, tetra, piovosa, animata da un'umanità sordida, in cui però allo stesso tempo si erge in tutta la sua maestosità il Parlamento col suo Big Ben e si sta costruendo quella straordinaria opera di ingegneria che è il Tower Bridge.
Holmes e Watson non sono la solita coppia cui siamo abituati, ossia rispettivamente un inappuntabile gentiluomo inglese dotato di grande acume e un fidato amico, ma non esattamente di intelligenza pronta.
Guy Ritchie trasforma Holmes in un genio mentecatto, come lo chiamerebbe una mia amica, ossia una persona dotata di un'intelligenza e di una capacità di osservazione e previsione fuori dal comune, di un'intuizione senza confronti, di una cultura superiore, ma incapace di fare i conti con la quotidianità, intrappolato in un'impossibile relazione amorosa con una criminale (Rachel McAdams), egoisticamente impegnato a far saltare la relazione di Watson con la dolce Mary (Kelly Reilly), bisognoso di sfogare la sua interiore irrequietezza nello scontro fisico, anche quando non necessario.
Watson, invece, è un medico inappuntabile, legato da un affetto fraterno ad Holmes, dotato di un'intelligenza razionale e sobria e di una eccellente capacità di farsi valere anche nello scontro fisico, con un unico difetto, la passione per le scommesse e il gioco d'azzardo.
La loro interazione è divertente e scoppiettante, la storia è raccontata con un sapiente mix di azione e ragionamento, i flashback si alternano con i flashforward e con le sequenze rallentate.
Le scene di pugilato con Robert Downey Jr. sudato e sporco, ma in ottima forma fisica, mi hanno ricordato alcuni momenti di Fight Club. Downey Jr., ex ragazzo prodigio di Hollywood, poi caduto in parte in disgrazia, è perfetto nel rappresentare questo Holmes, e Jude Law è abbastanza damerino per rappresentare questo Watson che sa anche sporcarsi le mani.
L'amica con cui sono andata al cinema commentava che si tratta di un film troppo intellettuale per le masse di spettatori, ma troppo poco per gli intellettuali snob, e forse per questo non ha avuto il successo che ci si aspettava. Maybe.
Io, comunque, l'ho trovato uno spettacolo godibile, senza essere stupido, un giallo di altri tempi, ma intriso di modernità, con soluzioni grafiche (vedi in particolare i titoli di coda) e cinematografiche di grande qualità, quindi tutto sommato un prodotto riuscito, con l'unica pecca di risultare alla fine forse un po' troppo studiato a tavolino.
E Guy Ritchie dimostra di saper fare il mestiere di regista.
Voto: 3,5-4/5
lunedì 22 febbraio 2010
domenica 21 febbraio 2010
Edward Hopper: mostra a Roma
È in corso dal 16 febbraio al 13 giugno 2010 alla Fondazione Roma Museo di via del Corso la mostra dedicata a Edward Hopper, il grande maestro americano noto per le sue rappresentazioni delle città e di momenti di vita quotidiana della middle class americana e particolarmente apprezzato per il suo uso della luce.
La mostra, però, più che la produzione più conosciuta ci rivela un Hopper in qualche modo inedito, illustrandoci sia il suo percorso artistico, sia alcune sfaccettature meno note della sua personalità artistica.
Riguardo a questo secondo aspetto, conosciamo così la vena autoritrattistica di Hopper che lo ha accompagnato per tutta la vita, le sue doti di illustratore e grafico, le sue qualità di incisore di acqueforti, il suo rapporto con l'erotismo nella rappresentazione dei nudi femminili, tra i quali spicca un eccezionale acquerello dal titolo Reclining nude.
Parallelamente, veniamo a conoscenza della varietà delle tecniche usate (olio su tela, acquerello, incisioni, disegni, etc.) e del suo metodo di lavoro fatto di schizzi e appunti su un taccuino, di numerosi studi a matita e a penna con appunti su luce e colori.
Infine, la mostra ci consente di capire che Hopper non è sempre stato il pittore della luce e degli interni borghesi. Impressiona constatare che la prima fase della sua opera fosse scura e senza colori (tutta in scala di grigi).
È interessante verificare che la scoperta della luce risale sostanzialmente al periodo parigino. Così come è affascinante scoprire che la vera passione di Hopper non sono poi così tanto le persone in sé, ma il loro rapporto con l'architettura, con i paesaggi, con le città.
Personalmente, mi ha colpito l'occhio fotografico e cinematografico che i lavori di Hopper mettono in evidenza e la capacità del pittore di combinare felicemente una vena antica e quasi nostalgica con una sorprendente modernità.
Una nota di merito per l'allestimento che, oltre ad alcune soluzioni più convenzionali (video di presentazione all'ingresso e supporto di audioguide), fa un piccolo sforzo di interattività, offrendo ai visitatori la possibilità di farsi fotografare in un quadro (tridimensionale) di Hopper a dimensione naturale o di disegnare alla maniera di Hopper su fogli di carta su cui vengono proiettati alcuni suoi famosi dipinti, o ancora di sfogliare le pagine del suo taccuino digitalizzato.
Insomma, proprio una bella mostra che non mi ha fatto rimpiangere di averla preferita, in questo sabato di febbraio, alla più gettonata mostra su Caravaggio alle Scuderie del Quirinale, presa ovviamente d'assalto.
Voto: 4,5/5
La mostra, però, più che la produzione più conosciuta ci rivela un Hopper in qualche modo inedito, illustrandoci sia il suo percorso artistico, sia alcune sfaccettature meno note della sua personalità artistica.
Riguardo a questo secondo aspetto, conosciamo così la vena autoritrattistica di Hopper che lo ha accompagnato per tutta la vita, le sue doti di illustratore e grafico, le sue qualità di incisore di acqueforti, il suo rapporto con l'erotismo nella rappresentazione dei nudi femminili, tra i quali spicca un eccezionale acquerello dal titolo Reclining nude.
Parallelamente, veniamo a conoscenza della varietà delle tecniche usate (olio su tela, acquerello, incisioni, disegni, etc.) e del suo metodo di lavoro fatto di schizzi e appunti su un taccuino, di numerosi studi a matita e a penna con appunti su luce e colori.
Infine, la mostra ci consente di capire che Hopper non è sempre stato il pittore della luce e degli interni borghesi. Impressiona constatare che la prima fase della sua opera fosse scura e senza colori (tutta in scala di grigi).
È interessante verificare che la scoperta della luce risale sostanzialmente al periodo parigino. Così come è affascinante scoprire che la vera passione di Hopper non sono poi così tanto le persone in sé, ma il loro rapporto con l'architettura, con i paesaggi, con le città.
Personalmente, mi ha colpito l'occhio fotografico e cinematografico che i lavori di Hopper mettono in evidenza e la capacità del pittore di combinare felicemente una vena antica e quasi nostalgica con una sorprendente modernità.
Una nota di merito per l'allestimento che, oltre ad alcune soluzioni più convenzionali (video di presentazione all'ingresso e supporto di audioguide), fa un piccolo sforzo di interattività, offrendo ai visitatori la possibilità di farsi fotografare in un quadro (tridimensionale) di Hopper a dimensione naturale o di disegnare alla maniera di Hopper su fogli di carta su cui vengono proiettati alcuni suoi famosi dipinti, o ancora di sfogliare le pagine del suo taccuino digitalizzato.
Insomma, proprio una bella mostra che non mi ha fatto rimpiangere di averla preferita, in questo sabato di febbraio, alla più gettonata mostra su Caravaggio alle Scuderie del Quirinale, presa ovviamente d'assalto.
Voto: 4,5/5
giovedì 18 febbraio 2010
Richard Galliano: The Bach Project
Roma, Auditorium Parco della Musica, 17 febbraio 2010.
Ammetto la mia totale ignoranza nei confronti della musica classica. Non ho alle spalle alcuna abitudine di ascolto e alcuna educazione musicale da questo punto di vista, sebbene il mio orecchio ignorante venga di tanto in tanto catturato da qualche melodia.
Non sono in grado di fare delle valutazioni tecniche sulla qualità di un'esecuzione, né sono capace di giudicare un esperimento musicale come quello di Richard Galliano, che accompagnato da un quintetto d'archi (primo e secondo violino, viola, violoncello e contrabbasso) suona Bach con la sua fisarmonica, o forse è più colto dire accordion.
E nonostante tutto questo ne sono rimasta rapita. Forse una fisarmonica che si sostituisce a un clavicembalo o a un clavicordo potrà sembrare un'eresia ai puristi della musica classica, ma, grazie alla pulizia con cui lo fa Galliano, io l'ho trovata straordinaria, equilibrata, per niente inopportuna e fuori contesto.
Anzi, in un certo senso, uno strumento musicale in qualche modo popolare, come la fisarmonica, messo al servizio di una musica alta e antica come quella di Bach, mi è sembrato un riuscito tentativo per dimostrare che la musica, tutta la musica, ha un'anima unitaria e coerente. Cosicché l'alternarsi delle arie di Bach e delle arie composte da Galliano e tratte da famose colonne sonore non ha costituito motivo di disturbo, bensì occasione di ricchezza.
Avevo già ascoltato un concerto dal vivo di Galliano e l'avevo trovato trascinante nelle esecuzioni delle sue composizioni e di quelle del grande maestro Astor Piazzolla. Però, devo dire che in questo caso - forse dando un po' per scontata la sua esecuzione in questo tipo di brani - mi ha affascinato in particolare proprio il Progetto Bach.
Infine, la discrezione e la gentilezza di Galliano come persona credo debbano essere di esempio per molti, nel mondo della musica e non solo.
Voto: 4/5
Ammetto la mia totale ignoranza nei confronti della musica classica. Non ho alle spalle alcuna abitudine di ascolto e alcuna educazione musicale da questo punto di vista, sebbene il mio orecchio ignorante venga di tanto in tanto catturato da qualche melodia.
Non sono in grado di fare delle valutazioni tecniche sulla qualità di un'esecuzione, né sono capace di giudicare un esperimento musicale come quello di Richard Galliano, che accompagnato da un quintetto d'archi (primo e secondo violino, viola, violoncello e contrabbasso) suona Bach con la sua fisarmonica, o forse è più colto dire accordion.
E nonostante tutto questo ne sono rimasta rapita. Forse una fisarmonica che si sostituisce a un clavicembalo o a un clavicordo potrà sembrare un'eresia ai puristi della musica classica, ma, grazie alla pulizia con cui lo fa Galliano, io l'ho trovata straordinaria, equilibrata, per niente inopportuna e fuori contesto.
Anzi, in un certo senso, uno strumento musicale in qualche modo popolare, come la fisarmonica, messo al servizio di una musica alta e antica come quella di Bach, mi è sembrato un riuscito tentativo per dimostrare che la musica, tutta la musica, ha un'anima unitaria e coerente. Cosicché l'alternarsi delle arie di Bach e delle arie composte da Galliano e tratte da famose colonne sonore non ha costituito motivo di disturbo, bensì occasione di ricchezza.
Avevo già ascoltato un concerto dal vivo di Galliano e l'avevo trovato trascinante nelle esecuzioni delle sue composizioni e di quelle del grande maestro Astor Piazzolla. Però, devo dire che in questo caso - forse dando un po' per scontata la sua esecuzione in questo tipo di brani - mi ha affascinato in particolare proprio il Progetto Bach.
Infine, la discrezione e la gentilezza di Galliano come persona credo debbano essere di esempio per molti, nel mondo della musica e non solo.
Voto: 4/5
lunedì 15 febbraio 2010
Il concerto
Rieccomi, dopo una breve pausa di riflessione, un momento di paralisi e smarrimento inevitabile quando si sta per affrontare un cambiamento.
Ieri, però, in uno slancio di superamento dell'inerzia che mi teneva dentro casa a riflettere sul mio futuro, ho scelto il cinema per ritrovare il senso di una continuità attraverso qualcosa che mi appartiene.
E forse ho anche scelto il film giusto, visto che Il concerto mi assomiglia nell'essere un film decisamente post-moderno, ossia un film che ha molteplici registri e identità, che rappresenta un mondo svuotato di qualunque ideologia e che non riesce più a credere in alcun ideale politico, sociale e religioso.
La decadenza umana e sociale della Russia post-sovietica, ma anche del presunto Occidente civilizzato, è soltanto il punto di partenza di una satira spietata e a 360° su una società contemporanea popolata di una umanità piccola, opportunista, meschina, volgare, traffichina, a volte squallida, e che proprio per questo risulta tragicamente ridicola, ma anche a tratti poetica. Dal mafioso russo all'ebreo mercante, al decaduto funzionario del partito comunista sovietico, allo zingaro con il suo ingombrante seguito familiare, all'intellettuale alcolizzato, tutti appaiono privi di punti di riferimento, impegnati a sopravvivere più che a vivere, eppure ancora dotati di scintille di straordinaria umanità.
Quella di Radu Mihaileanu è una babele di umanità di risulta, da cui si stacca solo la luce e la purezza della bellissima Anne-Marie (Mélanie Laurent), simbolo della suprema armonia della musica. Perché, come dice il protagonista, il decaduto direttore d'orchestra Andreï Filipov (Aleksei Guskov), il vero comunismo sta in quei momenti in cui, come durante un'esecuzione musicale, questa massa informe di umanità si fa miracolosamente armonia, al punto da far credere che esista qualcuno lassù. Ma sono solo momenti di grazia.
Il quarto d'ora finale del film in cui, durante la magistrale esecuzione del Concerto per Violino e Orchestra di Tchaikovsky, si svela il segreto di Anne-Marie e la disarmonia trova composizione, è costruito per strappare lacrime e applauso, ma non è necessariamente la cosa migliore del film. Mi è tornato in mente a questo proposito il film Quattro minuti, che pure si concludeva con una straordinaria interpretazione musicale e, in qualche modo, affrontava temi vicini, seppure in modo diverso.
La storia de Il concerto è in parte prevedibile, il doppiaggio italiano è fastidioso ai limiti della sopportabilità (questo è uno dei film che non andrebbero assolutamente doppiati), i vicini di poltrona con i loro commenti vuoti e idioti ad alta voce non hanno certo contribuito a produrre ottimismo e a mettere in discussione la decadenza della nostra presunta civiltà.
E, però, il film si libra leggero sulle note di Tchaikovsky, trasmettendo la vita e la bellezza che riescono a superare anche il quotidiano, umano, squallore.
Non ho visto Train de vie, il precedente film di Mihaileanu; mi dicono che fosse superiore. Certo è che il regista romeno è dotato di uno sguardo corrosivamente ironico, capace di smontare dall'interno la nostra idea di civiltà per suggerirci una strada nuova, più individuale, alla ricerca di un alternativo tessuto di socialità che rimpiazzi quello del passato.
Non credete a chi vi dice che Il concerto è un film sugli ebrei e sulle persecuzioni di cui furono oggetto sotto il regime comunista sovietico. Il concerto è un film sull'oggi di un'Europa disomogenea e alla ricerca di difficili nuovi equilibri. E tutto questo ce lo dice evitando di cadere nella trappola del sentimentalismo grazie a quell'arma straordinaria che è l'ironia.
Grazie, Radu.
Voto: 4/5
Ieri, però, in uno slancio di superamento dell'inerzia che mi teneva dentro casa a riflettere sul mio futuro, ho scelto il cinema per ritrovare il senso di una continuità attraverso qualcosa che mi appartiene.
E forse ho anche scelto il film giusto, visto che Il concerto mi assomiglia nell'essere un film decisamente post-moderno, ossia un film che ha molteplici registri e identità, che rappresenta un mondo svuotato di qualunque ideologia e che non riesce più a credere in alcun ideale politico, sociale e religioso.
La decadenza umana e sociale della Russia post-sovietica, ma anche del presunto Occidente civilizzato, è soltanto il punto di partenza di una satira spietata e a 360° su una società contemporanea popolata di una umanità piccola, opportunista, meschina, volgare, traffichina, a volte squallida, e che proprio per questo risulta tragicamente ridicola, ma anche a tratti poetica. Dal mafioso russo all'ebreo mercante, al decaduto funzionario del partito comunista sovietico, allo zingaro con il suo ingombrante seguito familiare, all'intellettuale alcolizzato, tutti appaiono privi di punti di riferimento, impegnati a sopravvivere più che a vivere, eppure ancora dotati di scintille di straordinaria umanità.
Quella di Radu Mihaileanu è una babele di umanità di risulta, da cui si stacca solo la luce e la purezza della bellissima Anne-Marie (Mélanie Laurent), simbolo della suprema armonia della musica. Perché, come dice il protagonista, il decaduto direttore d'orchestra Andreï Filipov (Aleksei Guskov), il vero comunismo sta in quei momenti in cui, come durante un'esecuzione musicale, questa massa informe di umanità si fa miracolosamente armonia, al punto da far credere che esista qualcuno lassù. Ma sono solo momenti di grazia.
Il quarto d'ora finale del film in cui, durante la magistrale esecuzione del Concerto per Violino e Orchestra di Tchaikovsky, si svela il segreto di Anne-Marie e la disarmonia trova composizione, è costruito per strappare lacrime e applauso, ma non è necessariamente la cosa migliore del film. Mi è tornato in mente a questo proposito il film Quattro minuti, che pure si concludeva con una straordinaria interpretazione musicale e, in qualche modo, affrontava temi vicini, seppure in modo diverso.
La storia de Il concerto è in parte prevedibile, il doppiaggio italiano è fastidioso ai limiti della sopportabilità (questo è uno dei film che non andrebbero assolutamente doppiati), i vicini di poltrona con i loro commenti vuoti e idioti ad alta voce non hanno certo contribuito a produrre ottimismo e a mettere in discussione la decadenza della nostra presunta civiltà.
E, però, il film si libra leggero sulle note di Tchaikovsky, trasmettendo la vita e la bellezza che riescono a superare anche il quotidiano, umano, squallore.
Non ho visto Train de vie, il precedente film di Mihaileanu; mi dicono che fosse superiore. Certo è che il regista romeno è dotato di uno sguardo corrosivamente ironico, capace di smontare dall'interno la nostra idea di civiltà per suggerirci una strada nuova, più individuale, alla ricerca di un alternativo tessuto di socialità che rimpiazzi quello del passato.
Non credete a chi vi dice che Il concerto è un film sugli ebrei e sulle persecuzioni di cui furono oggetto sotto il regime comunista sovietico. Il concerto è un film sull'oggi di un'Europa disomogenea e alla ricerca di difficili nuovi equilibri. E tutto questo ce lo dice evitando di cadere nella trappola del sentimentalismo grazie a quell'arma straordinaria che è l'ironia.
Grazie, Radu.
Voto: 4/5
domenica 7 febbraio 2010
The Swell Season (+ Josh Ritter)
Roma, Auditorium - Parco della musica, 6 febbraio 2010. È la volta di The Swell Season, alias Glen Hansard e Markéta Irglová, insomma i protagonisti di quel piccolo/grande film che è Once, ma prima di tutto i protagonisti di una vicenda musicale di grande interesse.
In realtà, stasera ci sono proprio tutti, perché Glen Hansard si è portato dietro anche i musicisti del gruppo musicale con cui ha suonato per anni, The Frames, prima di iniziare il nuovo progetto musicale con Markéta. The Swell Season, infatti, prende il nome dal primo CD del duo Hansard/Irglová, a sua volta strettamente collegato alla storia raccontata nel film Once. E lo spettacolo non tarda ad arrivare.
Si comincia con il singolo del nuovo CD Strict joy, dal titolo Low rising, una ballata di quelle che piacciono tanto a Glen.
Si prosegue con altri brani del CD, da In these arms, a The rain, a Fantasy man, quest'ultima cantata da Markéta, che introduce anche uno straordinario brano della colonna sonora del film, If you want me.
Sul palco si alternano l'energia e la socievolezza di Glen, che cambia chitarra e ritmo ad ogni canzone, che chiacchiera e scherza con il pubblico, raccontando retroscena ed aneddoti, alla timidezza e compostezza di Markéta, che canta con voce flautata accompagnandosi con la chitarra quando non suona il pianoforte. Il tutto nel contesto di un gruppo di musicisti di eccellenza che garantiscono un vero e proprio godimento sonoro.
Glen Hansard offre anche qualche tu per tu con il pubblico, solo voce e chitarra (la sua storica chitarra con un vistoso grosso buco sulla cassa) senza amplificazione, poi trascina il pubblico ad accompagnarlo nel motivetto che costituisce il ritornello di quella bellissima ninna nanna che è Back broke.
Di mezzo anche un piccolo momento di gloria per Colm Mac Con Iomaire, il violinista dei The Frames, che ha appena pubblicato un album da solista e con il suo violino ci trasporta nelle verdi terre d'Irlanda.
Per fortuna mi cantano When your mind's made up, che è una delle mie canzoni preferite, ma vanno via senza aver deliziato il pubblico con la canzone vincitrice dell'Oscar. A quel punto, ovviamente, il pubblico li richiama a gran voce e Glen e Markéta tornano sul palco per deliziarci con Falling slowly.
E poi spazio a Josh Ritter, che ha aperto il concerto con la sua chitarra e la sua musica dagli echi country, questa volta accompagnato da tutto il gruppo e in duetto con Glen. E infine tutti in piedi a cantare e a ballare con un gruppo di musicisti che ormai ci ha conquistato l'anima.
Voto: 4/5
In realtà, stasera ci sono proprio tutti, perché Glen Hansard si è portato dietro anche i musicisti del gruppo musicale con cui ha suonato per anni, The Frames, prima di iniziare il nuovo progetto musicale con Markéta. The Swell Season, infatti, prende il nome dal primo CD del duo Hansard/Irglová, a sua volta strettamente collegato alla storia raccontata nel film Once. E lo spettacolo non tarda ad arrivare.
Si comincia con il singolo del nuovo CD Strict joy, dal titolo Low rising, una ballata di quelle che piacciono tanto a Glen.
Si prosegue con altri brani del CD, da In these arms, a The rain, a Fantasy man, quest'ultima cantata da Markéta, che introduce anche uno straordinario brano della colonna sonora del film, If you want me.
Sul palco si alternano l'energia e la socievolezza di Glen, che cambia chitarra e ritmo ad ogni canzone, che chiacchiera e scherza con il pubblico, raccontando retroscena ed aneddoti, alla timidezza e compostezza di Markéta, che canta con voce flautata accompagnandosi con la chitarra quando non suona il pianoforte. Il tutto nel contesto di un gruppo di musicisti di eccellenza che garantiscono un vero e proprio godimento sonoro.
Glen Hansard offre anche qualche tu per tu con il pubblico, solo voce e chitarra (la sua storica chitarra con un vistoso grosso buco sulla cassa) senza amplificazione, poi trascina il pubblico ad accompagnarlo nel motivetto che costituisce il ritornello di quella bellissima ninna nanna che è Back broke.
Di mezzo anche un piccolo momento di gloria per Colm Mac Con Iomaire, il violinista dei The Frames, che ha appena pubblicato un album da solista e con il suo violino ci trasporta nelle verdi terre d'Irlanda.
Per fortuna mi cantano When your mind's made up, che è una delle mie canzoni preferite, ma vanno via senza aver deliziato il pubblico con la canzone vincitrice dell'Oscar. A quel punto, ovviamente, il pubblico li richiama a gran voce e Glen e Markéta tornano sul palco per deliziarci con Falling slowly.
E poi spazio a Josh Ritter, che ha aperto il concerto con la sua chitarra e la sua musica dagli echi country, questa volta accompagnato da tutto il gruppo e in duetto con Glen. E infine tutti in piedi a cantare e a ballare con un gruppo di musicisti che ormai ci ha conquistato l'anima.
Voto: 4/5
mercoledì 3 febbraio 2010
Joan as police woman
Circolo degli artisti, 2 febbraio 2010, ore 22. C'è Joan as police woman. È la compagna del compianto Jeff Buckley, ma sarebbe un delitto ricordarla solo per questo, visto che Joan Wasser è un'artista completa: compone, canta, suona (chitarra e tastiere) e ha personalità da vendere. E poi, come lei stessa tiene a sottolineare, Joan as police woman non è solo Joan Wasser, ma anche gli straordinari musicisti Parker Kindred (batteria e voce) e Tyler Woods (tastiere e voce).
No, non pensate a una sofisticata newyorkese (ci tiene però a sottolineare di Brooklyn) con la puzza sotto il naso. Joan si è presentata come una donna dai modi spicci e decisi: pronta a rimboccarsi le maniche quando alla sua chitarra non arriva corrente, a sorridere di se stessa quando a un certo punto non ricorda le parole di una canzone, a scherzare su Britney Spears di cui ha cantato una cover, a tornare sul palco con un cucchiaino di miele in bocca perché le sta andando via la voce...
Pantalone di pelle nera, stivaletti spaziali, giacca di pelle - volata via appena l'atmosfera si è scaldata - e attillato top con gli strass. Ma soprattutto una grande voce e una grande artista, che ha spaziato dalle sue canzoni più intime e dalle sonorità jazz (in particolare quelle dello straordinario CD Real life, decisamente il mio preferito) a quelle malinconiche e drammatiche del suo secondo CD To survive, infine a quelle decisamente più rock dell'ultimo CD Cover, da cui ha cantato David Bowie, Public Enemy e, appunto, Britney Spears.
La sua forza, secondo me, è nella capacità di fondere e alternare una straordinaria dolcezza (grazie a una voce suadente, piena e musicale come poche) e una positiva ed energetica rabbia, entrambe espressione del tentativo di rielaborare un profondo dolore. A questo si aggiunge la magia di un'eccellente sintonia con i suoi musicisti.
E poi - lasciatemelo dire - non c'è niente di più straordinario di poter assistere a un concerto in un ambiente raccolto, stando sotto il palco e potendo ascoltare e fotografare in libertà.
Una piccola annotazione per l'artista che ha aperto il concerto di Joan: Thony, giovane cantautrice italo-polacca (ma canta in inglese), che da sola sul palco con la sua chitarra e con la sua semplicità credo che abbia conquistato buona parte del pubblico. Echi di Regina Spektor e di Feist, ma voce, sonorità e melodie assolutamente personali fanno scommettere sul futuro di questa ragazza, di cui a questo punto aspettiamo il primo CD. La scena indie-acustica italiana si arricchisce di una nuova protagonista.
Voto: 4/5
No, non pensate a una sofisticata newyorkese (ci tiene però a sottolineare di Brooklyn) con la puzza sotto il naso. Joan si è presentata come una donna dai modi spicci e decisi: pronta a rimboccarsi le maniche quando alla sua chitarra non arriva corrente, a sorridere di se stessa quando a un certo punto non ricorda le parole di una canzone, a scherzare su Britney Spears di cui ha cantato una cover, a tornare sul palco con un cucchiaino di miele in bocca perché le sta andando via la voce...
Pantalone di pelle nera, stivaletti spaziali, giacca di pelle - volata via appena l'atmosfera si è scaldata - e attillato top con gli strass. Ma soprattutto una grande voce e una grande artista, che ha spaziato dalle sue canzoni più intime e dalle sonorità jazz (in particolare quelle dello straordinario CD Real life, decisamente il mio preferito) a quelle malinconiche e drammatiche del suo secondo CD To survive, infine a quelle decisamente più rock dell'ultimo CD Cover, da cui ha cantato David Bowie, Public Enemy e, appunto, Britney Spears.
La sua forza, secondo me, è nella capacità di fondere e alternare una straordinaria dolcezza (grazie a una voce suadente, piena e musicale come poche) e una positiva ed energetica rabbia, entrambe espressione del tentativo di rielaborare un profondo dolore. A questo si aggiunge la magia di un'eccellente sintonia con i suoi musicisti.
E poi - lasciatemelo dire - non c'è niente di più straordinario di poter assistere a un concerto in un ambiente raccolto, stando sotto il palco e potendo ascoltare e fotografare in libertà.
Una piccola annotazione per l'artista che ha aperto il concerto di Joan: Thony, giovane cantautrice italo-polacca (ma canta in inglese), che da sola sul palco con la sua chitarra e con la sua semplicità credo che abbia conquistato buona parte del pubblico. Echi di Regina Spektor e di Feist, ma voce, sonorità e melodie assolutamente personali fanno scommettere sul futuro di questa ragazza, di cui a questo punto aspettiamo il primo CD. La scena indie-acustica italiana si arricchisce di una nuova protagonista.
Voto: 4/5
lunedì 1 febbraio 2010
Avatar
No, non l'ho visto in 3D... Sì, sì, lo so, il bello di questo film sono i suoi effetti speciali e la tecnica cinematografica che ha consentito di realizzare un 3D di grande qualità... Ma io non l'ho visto in 3D e tutto sommato sono contenta, perché questo forse mi consente di dare una lettura meno tecnologicamente condizionata di questo film.
Non c'è dubbio: è proprio un kolossal. Due ore e mezza di invenzioni mirabolanti, battaglie, mostri e antichi sentimenti fanno certamente un kolossal. E non si può certo dire che a James Cameron manchi la fantasia. Inventare dal nulla il pianeta Pandora, con la sua popolazione Na'vi e la sua colorata e multiforme flora e fauna non è certo operazione da niente. Soprattutto, mi è parsa interessante la costruzione di una vera e propria mitologia che dà a questo popolo un fascino indiscutibile.
Certo, il tutto alla fine appare come un grande giocattolone, uno straordinario mix tra la WII, Transformers, le storie degli indiani, Aliens, Titanic e Terminator.
Dentro c'è di tutto, dal topos americano della critica alla guerra al terrorismo, all'apologo ecologista, all'uso più o meno intelligente della tecnologia, al rapporto con i diversi, all'elogio del primitivo contatto con la madre terra, alla riflessione sulle finalità della scienza e della ricerca ecc. ecc. Insomma, Cameron non si è fatto mancare proprio niente... E i suoi attori, da Sam Worthington a Sigourney Weaver, gli stanno dietro.
Eppure, in questo grande calderone - o forse proprio perché è uno straordinario pout-pourri - ognuno credo che possa trovare elementi di empatia con la propria personale sensibilità. Beh, a me, per esempio, sono piaciute - su tutto - due cose: la rappresentazione del popolo Na'vi come parte di una grande rete neuronale in equilibrio dinamico ed energetico con la terra e le altre creature della natura e, dunque, l'idea della vita come risultato di uno scambio energetico, anzi più esattamente, di un prestito di energia che a un certo punto si esaurisce.
In un certo senso, lo penso davvero. La mia rappresentazione classica della vita umana è il coniglio della pubblicità Duracell. Suona il suo tamburo e gira in tondo con grande energia all'inizio, poi sempre più stancamente, fino a fermarsi del tutto. Basta guardarsi intorno e valutare la differente quantità di energia che bambini, giovani, adulti e anziani sono in grado e sono istintivamente portati a mettere in uso. Sarebbe bello pensare che tutta questa energia non vada sprecata in questo apparentemente insensato girare a vuoto, ma in qualche modo torni alla terra per essere redistribuita. Sarebbe una piccola risposta al nostro insoddisfatto ed angosciante bisogno di eternità.
Voto: 3/5
Non c'è dubbio: è proprio un kolossal. Due ore e mezza di invenzioni mirabolanti, battaglie, mostri e antichi sentimenti fanno certamente un kolossal. E non si può certo dire che a James Cameron manchi la fantasia. Inventare dal nulla il pianeta Pandora, con la sua popolazione Na'vi e la sua colorata e multiforme flora e fauna non è certo operazione da niente. Soprattutto, mi è parsa interessante la costruzione di una vera e propria mitologia che dà a questo popolo un fascino indiscutibile.
Certo, il tutto alla fine appare come un grande giocattolone, uno straordinario mix tra la WII, Transformers, le storie degli indiani, Aliens, Titanic e Terminator.
Dentro c'è di tutto, dal topos americano della critica alla guerra al terrorismo, all'apologo ecologista, all'uso più o meno intelligente della tecnologia, al rapporto con i diversi, all'elogio del primitivo contatto con la madre terra, alla riflessione sulle finalità della scienza e della ricerca ecc. ecc. Insomma, Cameron non si è fatto mancare proprio niente... E i suoi attori, da Sam Worthington a Sigourney Weaver, gli stanno dietro.
Eppure, in questo grande calderone - o forse proprio perché è uno straordinario pout-pourri - ognuno credo che possa trovare elementi di empatia con la propria personale sensibilità. Beh, a me, per esempio, sono piaciute - su tutto - due cose: la rappresentazione del popolo Na'vi come parte di una grande rete neuronale in equilibrio dinamico ed energetico con la terra e le altre creature della natura e, dunque, l'idea della vita come risultato di uno scambio energetico, anzi più esattamente, di un prestito di energia che a un certo punto si esaurisce.
In un certo senso, lo penso davvero. La mia rappresentazione classica della vita umana è il coniglio della pubblicità Duracell. Suona il suo tamburo e gira in tondo con grande energia all'inizio, poi sempre più stancamente, fino a fermarsi del tutto. Basta guardarsi intorno e valutare la differente quantità di energia che bambini, giovani, adulti e anziani sono in grado e sono istintivamente portati a mettere in uso. Sarebbe bello pensare che tutta questa energia non vada sprecata in questo apparentemente insensato girare a vuoto, ma in qualche modo torni alla terra per essere redistribuita. Sarebbe una piccola risposta al nostro insoddisfatto ed angosciante bisogno di eternità.
Voto: 3/5
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