Se la vita che salvi è la tua / Fabio Geda. Torino: Einaudi, 2014.
Sono in un periodo di letture frammentarie e poco entusiasmanti. Mi muovo nella mia libreria, in particolare nella sezione dei libri ancora da leggere che poco a poco si accresce sempre di più, come un'anima in pena alla ricerca di un momento di quiete.
Ma sarà il mio stato d'animo, sarà la mia scarsa vena nella scelta, purtroppo accade spesso ultimamente che i libri che leggo non riescano a svolgere – per un motivo o per l'altro – quella funzione di balsamo dell'anima di cui sono alla ricerca.
E questo è successo anche con il libro di Fabio Geda, Se la vita che salvi è la tua. Non avevo mai letto niente di quest'autore ma alcuni pareri positivi letti in rete, anche da parte di amici, mi aveva convinto prima a comprarlo e poi a leggerlo.
Nel momento in cui l'ho tirato fuori dalla libreria il titolo del libro sembrava parlare a me e così è iniziata la lettura della storia di Andrea Luna, un giovane uomo sposato, la cui moglie ha appena perso il figlio tanto desiderato.
Questo evento è per la coppia la scintilla che fa deflagrare la crisi e che porta Andrea a decidere di fare un breve viaggio a New York per staccare un po' la spina, lui che lavora come insegnante ma deve attendere di essere chiamato per delle supplenze.
A New York però Andrea perde, più o meno volontariamente, un aereo dietro l'altro fino alla decisione di liberarsi del telefono e di tutto quello lo lega alla sua vita precedente. Inizia così il suo lungo percorso per ritrovare il se stesso perso lungo la strada della vita e che passerà per un periodo di accattonaggio, per l'incontro con Ary e i suoi due figli gemelli, per il lavoro nella ditta di pulizie di un amico, poi per il ritorno dopo un anno in Italia e la scoperta che della sua vita non è rimasto più niente e che tutto ciò che conta sta in America, dove però ora Andrea potrà tornare da clandestino solo attraverso il confine messicano.
Come si può facilmente notare da questa breve sinossi, nella vita di Andrea accade una quantità di eventi incredibili che forse a chiunque nella realtà servirebbero dieci vite per sperimentare.
Mentre leggo il libro di Geda mi sembra di assistere a uno di quei film americani di riscatto personale, in cui l'antieroe protagonista attraversa e supera delle prove incredibili uscendone indenne.
Cosicché, nonostante il romanzo sia scritto bene – per quanto con una scrittura molto semplice – e ci siano anche passaggi interessanti e riflessioni che danno da pensare, il senso di straniamento rispetto a una vita decisamente fuori dalla norma e, a dire la verità, alquanto inverosimile impedisce di prendere davvero sul serio il protagonista e di poter vivere dall'interno e in maniera emotivamente partecipe la sua vicenda umana.
Non a caso, sebbene il libro sia molto scorrevole e si possa divorare in pochi giorni, io ci ho messo comunque tanto a finirlo perché non propriamente catturata, e quando sono arrivata all'ultima pagina – con il suo finale in parte ambiguo – l'ho chiuso sapendo che non mi avrebbe lasciato granché.
Voto: 2,5/5
mercoledì 29 marzo 2017
lunedì 27 marzo 2017
Due donne che ballano / con Maria Paiato e Arianna Scommegna. Teatro Vittoria, 23 marzo 2017
Due donne. Una sala da pranzo. Una è anziana, ha due figli (un maschio e una femmina) e un'insana passione per i fumetti che colleziona sugli scaffali della sala. L'altra molto più giovane, è un'insegnante, ma per necessità ha accettato questo lavoro come donna delle pulizie.
Entrambe si portano dentro grandi dolori e una specie di stanchezza della vita che le ha rese ostili al mondo esterno, incattivita la prima, depressa la seconda.
Il loro incontro è una deflagrazione tra due bombe a orologeria. Inizia una schermaglia emotivamente sempre più impegnativa che via via si trasforma in rispecchiamento, vicinanza, comprensione profonda, pur mantenendo i toni a volte esagerati e sopra le righe di un rapporto madre-figlia. Allontanamenti e riavvicinamenti si succedono, mettendo progressivamente a nudo le fragilità e i dolori di ognuna, e il loro senso di sconfitta che culminerà nella condivisa decisione finale.
Sul palco giganteggiano e fanno davvero a gara di bravura le due straordinarie interpreti: la grande Maria Paiato che ormai non mi sorprende neanche più per quanto riesce a diventare un tutt'uno con il personaggio che interpreta, e la sorpresa (almeno per me!) Arianna Scommegna, che si dimostra totalmente all'altezza del compito.
Il testo, scritto da un autore contemporaneo catalano, Josep Maria Benet i Jornet, è di straordinaria intensità sia nei suoi contenuti drammatici che nella sua venatura quasi comica, affidata soprattutto alle idiosincrasie e alle piccole meschinità e cattiverie della donna anziana.
Non si esce di certo sollevati dal teatro, ma convinti che quando a teatro confluiscono un buon testo e delle grandi interpreti non c'è spettacolo che tenga il confronto.
Voto: 4/5
Entrambe si portano dentro grandi dolori e una specie di stanchezza della vita che le ha rese ostili al mondo esterno, incattivita la prima, depressa la seconda.
Il loro incontro è una deflagrazione tra due bombe a orologeria. Inizia una schermaglia emotivamente sempre più impegnativa che via via si trasforma in rispecchiamento, vicinanza, comprensione profonda, pur mantenendo i toni a volte esagerati e sopra le righe di un rapporto madre-figlia. Allontanamenti e riavvicinamenti si succedono, mettendo progressivamente a nudo le fragilità e i dolori di ognuna, e il loro senso di sconfitta che culminerà nella condivisa decisione finale.
Sul palco giganteggiano e fanno davvero a gara di bravura le due straordinarie interpreti: la grande Maria Paiato che ormai non mi sorprende neanche più per quanto riesce a diventare un tutt'uno con il personaggio che interpreta, e la sorpresa (almeno per me!) Arianna Scommegna, che si dimostra totalmente all'altezza del compito.
Il testo, scritto da un autore contemporaneo catalano, Josep Maria Benet i Jornet, è di straordinaria intensità sia nei suoi contenuti drammatici che nella sua venatura quasi comica, affidata soprattutto alle idiosincrasie e alle piccole meschinità e cattiverie della donna anziana.
Non si esce di certo sollevati dal teatro, ma convinti che quando a teatro confluiscono un buon testo e delle grandi interpreti non c'è spettacolo che tenga il confronto.
Voto: 4/5
giovedì 23 marzo 2017
Family Business / Bastien Vivès
Family Business / Bastien Vivès. Milano: Bao Publishing, 2016.
Ed eccoci alla nuova raccolta di storie brevi disegnate da Bastien Vivès sul suo blog. Questa volta il tema è la famiglia.
Come è tipico di queste raccolte, il tono e l'approccio sono sempre fortemente ironici e dissacranti, e Vivès non si smentisce neppure in questa circostanza, portando allo scoperto gli imbarazzanti retroscena dell'immagine idealizzata della famiglia "Mulino Bianco" che spesso i mezzi di comunicazione di massa vogliono trasmetterci.
Siamo dalle parti della serie del Diario del cattivo papà di Guy Delisle, anche se nel caso di Vivès il sarcasmo è molto più feroce e il giovane fumettista francese calca la mano sulla scabrosità del privato che sta dentro una famiglia.
Come spesso mi accade con queste raccolte di Vivès, alcune storie mi risultano divertentissime, altre mi colpiscono per la ferocia dell'ironia che contengono, altre ancora le trovo totalmente indifferenti, e in alcuni casi non riesco proprio a capire che cosa ci voleva dire l'autore.
Alla fine però considero queste letture non solo un gradevole passatempo da divorare in un'oretta di tempo libero o comunque quando ci si vuole davvero distrarre, ma anche un'occasione per leggere in modo più completo la poliedricità di Vivès e le sue mille sfaccettature, che si manifestano in filoni molto diversi tra di loro (da quello più poetico e intimista, a quello avventuroso, a quello ironico ecc.).
Difficile inquadrare sotto un'etichetta Bastien Vivès, se non per dire che - qualunque cosa faccia - questo ragazzo dimostra di essere tutto fuorché superficiale.
Voto: 3,5/5
Ed eccoci alla nuova raccolta di storie brevi disegnate da Bastien Vivès sul suo blog. Questa volta il tema è la famiglia.
Come è tipico di queste raccolte, il tono e l'approccio sono sempre fortemente ironici e dissacranti, e Vivès non si smentisce neppure in questa circostanza, portando allo scoperto gli imbarazzanti retroscena dell'immagine idealizzata della famiglia "Mulino Bianco" che spesso i mezzi di comunicazione di massa vogliono trasmetterci.
Siamo dalle parti della serie del Diario del cattivo papà di Guy Delisle, anche se nel caso di Vivès il sarcasmo è molto più feroce e il giovane fumettista francese calca la mano sulla scabrosità del privato che sta dentro una famiglia.
Come spesso mi accade con queste raccolte di Vivès, alcune storie mi risultano divertentissime, altre mi colpiscono per la ferocia dell'ironia che contengono, altre ancora le trovo totalmente indifferenti, e in alcuni casi non riesco proprio a capire che cosa ci voleva dire l'autore.
Alla fine però considero queste letture non solo un gradevole passatempo da divorare in un'oretta di tempo libero o comunque quando ci si vuole davvero distrarre, ma anche un'occasione per leggere in modo più completo la poliedricità di Vivès e le sue mille sfaccettature, che si manifestano in filoni molto diversi tra di loro (da quello più poetico e intimista, a quello avventuroso, a quello ironico ecc.).
Difficile inquadrare sotto un'etichetta Bastien Vivès, se non per dire che - qualunque cosa faccia - questo ragazzo dimostra di essere tutto fuorché superficiale.
Voto: 3,5/5
lunedì 20 marzo 2017
Il diritto di contare
Siamo all'inizio degli Sessanta in un'America in cui vige ancora la segregazione razziale.
Kennedy è diventato da poco presidente degli Stati Uniti. La sfida tra America e Russia per la corsa allo spazio è aperta e il nuovo presidente punta molto su questo settore per dimostrare la potenza americana.
Il diritto di contare (Hidden figures secondo il titolo originale) è la storia vera di tre donne afroamericane, Katherine Johnson (Taraji P. Henson), Dorothy Vaughan (Octavia Spencer) e Mary Jackson (Janelle Monáe), che lavorano tutte alla NASA.
La prima è una matematica, la seconda la responsabile di un gruppo di calcolo con un talento per l'informatica, la terza un'aspirante ingegnere aerospaziale. Nonostante la segregazione razziale e il fatto di essere donne, tutt'e tre saranno determinanti per il successo del programma spaziale americano.
Katherine Johnson in particolare, certamente una mente matematica superiore, è stata insignita in tempi recenti della Medal of Freedom da Barack Obama e a lei è stato intitolato un importante centro di ricerca della NASA.
La cosa più incredibile del film di Theodore Melfi - tratto dal libro Hidden figures: The story of the African-American women who helped win the space race di Margot Lee Shetterly - è che si tratta di una storia vera, per quanto adattata alle necessità della narrazione cinematografica, e questo conferisce al film una forza e un impatto sullo spettatore che in caso contrario non avrebbe certamente avuto.
Il diritto di contare è l'ennesima variante di quel genere di film in cui il vero protagonista è il sogno americano, ossia la convinzione tutta americana che chiunque, anche in condizioni di pesante svantaggio sociale e personale, come nel caso delle tre protagoniste del film, purché dotato di determinazione e talento, possa realizzare i propri obiettivi all'interno di una società che alla fine - nonostante tutto - premia sempre il merito.
La storia è molto bella e motivante, come solo Hollywood è in grado di fare, il cast degli attori è molto azzeccato e le tre protagoniste sono davvero trascinanti, e alla fine la lacrimuccia non può che scappare, perché - diciamocelo - abbiamo bisogno di storie edificanti e piene di speranza come questa e gli americani sono dei maestri nel fare questo tipo di film, così interni al loro approccio culturale.
Però è inevitabile che, una volta riemersi dal turbine emotivo che la visione può ingenerare, ci si renda conto del processo di semplificazione da un lato e di mitizzazione della realtà dall'altro che il film mette in atto, mostrandoci un mondo in cui il buonismo (di fidanzati, mariti, figli e capi) è a volte un po' stucchevole, per quanto funzionale al discorso civile del regista. E alla mia sensibilità cinematografica molto ipercriticamente europea questa cosa finisce per sembrare un grosso limite.
Voto: 3/5
Kennedy è diventato da poco presidente degli Stati Uniti. La sfida tra America e Russia per la corsa allo spazio è aperta e il nuovo presidente punta molto su questo settore per dimostrare la potenza americana.
Il diritto di contare (Hidden figures secondo il titolo originale) è la storia vera di tre donne afroamericane, Katherine Johnson (Taraji P. Henson), Dorothy Vaughan (Octavia Spencer) e Mary Jackson (Janelle Monáe), che lavorano tutte alla NASA.
La prima è una matematica, la seconda la responsabile di un gruppo di calcolo con un talento per l'informatica, la terza un'aspirante ingegnere aerospaziale. Nonostante la segregazione razziale e il fatto di essere donne, tutt'e tre saranno determinanti per il successo del programma spaziale americano.
Katherine Johnson in particolare, certamente una mente matematica superiore, è stata insignita in tempi recenti della Medal of Freedom da Barack Obama e a lei è stato intitolato un importante centro di ricerca della NASA.
La cosa più incredibile del film di Theodore Melfi - tratto dal libro Hidden figures: The story of the African-American women who helped win the space race di Margot Lee Shetterly - è che si tratta di una storia vera, per quanto adattata alle necessità della narrazione cinematografica, e questo conferisce al film una forza e un impatto sullo spettatore che in caso contrario non avrebbe certamente avuto.
Il diritto di contare è l'ennesima variante di quel genere di film in cui il vero protagonista è il sogno americano, ossia la convinzione tutta americana che chiunque, anche in condizioni di pesante svantaggio sociale e personale, come nel caso delle tre protagoniste del film, purché dotato di determinazione e talento, possa realizzare i propri obiettivi all'interno di una società che alla fine - nonostante tutto - premia sempre il merito.
La storia è molto bella e motivante, come solo Hollywood è in grado di fare, il cast degli attori è molto azzeccato e le tre protagoniste sono davvero trascinanti, e alla fine la lacrimuccia non può che scappare, perché - diciamocelo - abbiamo bisogno di storie edificanti e piene di speranza come questa e gli americani sono dei maestri nel fare questo tipo di film, così interni al loro approccio culturale.
Però è inevitabile che, una volta riemersi dal turbine emotivo che la visione può ingenerare, ci si renda conto del processo di semplificazione da un lato e di mitizzazione della realtà dall'altro che il film mette in atto, mostrandoci un mondo in cui il buonismo (di fidanzati, mariti, figli e capi) è a volte un po' stucchevole, per quanto funzionale al discorso civile del regista. E alla mia sensibilità cinematografica molto ipercriticamente europea questa cosa finisce per sembrare un grosso limite.
Voto: 3/5
mercoledì 15 marzo 2017
Morte dei Marmi / Fabio Genovesi
Morte dei Marmi / Fabio Genovesi. Roma-Bari: Laterza, 2012.
Avevo già letto due libri di Genovesi, Chi manda le onde e Esche vive, che mi erano piaciuti entrambi moltissimo e che in momenti magari un po' faticosi o emotivamente pesanti della vita mi avevano rinfrancata, fatto fare qualche bella risata e anche allargato il cuore.
E così anche questa volta mi sono aggrappata a un suo libro, dopo le ultime faticose letture.
Morte dei Marmi, che non è propriamente un romanzo, bensì una specie di racconto semidocumentaristico e semiautobiografico di un luogo, una sorta di affresco personale di una cittadina e dei suoi abitanti, conferma le qualità di Genovesi come narratore, anzi meglio ancora affabulatore e raccontatore di storie.
La sua ironia e autoironia sono sempre apprezzabili e divertenti, e raccontano la realtà meglio di qualunque studio storico e/o sociologico.
Ovviamente, avendo io conosciuto Genovesi a partire dai libri più maturi e articolati (a dire la verità ho cominciato dall'ultimo e sto facendo il percorso a ritroso) questo libro mi è sembrato più sempliciotto e forse ho anche avuto qualche sensazione di deja vu, perché - quando ero andata a Padova alla presentazione del suo libro nell'ambito della Fiera delle parole - nella conversazione con la presentatrice e il pubblico lo scrittore aveva raccontato molte delle storie che sono presenti in questo volumetto.
Nonostante questo, leggere questo libro mi ha ancora una volta riconciliato con la lettura, risollevato da alcune pesantezze e ridato l'energia e la spinta per buttarmi in letture più impegnative.
Una vera pausa rigenerante. E di questo non posso che essere grata a Genovesi.
Voto: 3/5
Avevo già letto due libri di Genovesi, Chi manda le onde e Esche vive, che mi erano piaciuti entrambi moltissimo e che in momenti magari un po' faticosi o emotivamente pesanti della vita mi avevano rinfrancata, fatto fare qualche bella risata e anche allargato il cuore.
E così anche questa volta mi sono aggrappata a un suo libro, dopo le ultime faticose letture.
Morte dei Marmi, che non è propriamente un romanzo, bensì una specie di racconto semidocumentaristico e semiautobiografico di un luogo, una sorta di affresco personale di una cittadina e dei suoi abitanti, conferma le qualità di Genovesi come narratore, anzi meglio ancora affabulatore e raccontatore di storie.
La sua ironia e autoironia sono sempre apprezzabili e divertenti, e raccontano la realtà meglio di qualunque studio storico e/o sociologico.
Ovviamente, avendo io conosciuto Genovesi a partire dai libri più maturi e articolati (a dire la verità ho cominciato dall'ultimo e sto facendo il percorso a ritroso) questo libro mi è sembrato più sempliciotto e forse ho anche avuto qualche sensazione di deja vu, perché - quando ero andata a Padova alla presentazione del suo libro nell'ambito della Fiera delle parole - nella conversazione con la presentatrice e il pubblico lo scrittore aveva raccontato molte delle storie che sono presenti in questo volumetto.
Nonostante questo, leggere questo libro mi ha ancora una volta riconciliato con la lettura, risollevato da alcune pesantezze e ridato l'energia e la spinta per buttarmi in letture più impegnative.
Una vera pausa rigenerante. E di questo non posso che essere grata a Genovesi.
Voto: 3/5
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