Mah... Il film non mi è dispiaciuto, ma non posso neppure dire che mi sia piaciuto.
Certo si fa fatica ad essere convinti delle proprie percezioni di fronte a un mostro sacro come Terrence Malick (regista misterioso e difficilmente etichettabile che ha portato nei suoi pochissimi film una forte componente intellettualistica) e alla consacrazione di questo film come vincitore della Palma d'Oro nella difficile piazza di Cannes.
Comunque sfiderò questo timore reverenziale, magari ammettendo preliminarmente la mia inadeguatezza culturale a cogliere la complessa sottotrama filosofica, musicale, religiosa, cosmologica che Malick tesse all'interno di questo film anomalo, in cui il racconto di una storia per certi versi un po' banale viene inserita (e allo stesso tempo contrapposta) in una riflessione di ampio respiro sulla vita umana all'interno dell'immensità e dell'inspiegabilità dell'universo e dei fenomeni naturali.
Così l'infanzia e l'adolescenza di Jack (da ragazzino Hunter McCracken, da adulto Sean Penn) in un sobborgo residenziale di una cittadina del Texas, le sue relazioni con un padre autoritario e anaffettivo (Brad Pitt) e una madre sottomessa ed eterea (Jessica Chastein), nonché con i suoi fratelli, in particolare quello caratterialmente più diverso da lui e destinato a una fine tragica, appaiono in qualche modo la traccia narrativa e parzialmente autobiografica che il regista utilizza per un suo dialogo interiore con il trascendente.
Parole sussurrate, musica sacra e sinfonica, immagini suggestive a metà tra il National Geographic e la trilogia Qatsi (grazie A.), inserti che ricordano quasi Jurassic Park, echi di 2001 Odissea nello spazio, presenza costante dell'elemento religioso sono le componenti che rendono quello che avrebbe potuto essere un racconto cinematografico tradizionale un oggetto nuovo dal punto di vista visivo e concettuale.
Esperimento dunque interessante, sebbene le sue diverse componenti non riescono ad omogeneizzarsi e amalgamarsi completamente.
Resta forte alla fine in me la sensazione che il film sia l'espressione di una necessità che frequentemente caratterizza una certa fase del percorso anagrafico dell'essere umano, quello nel quale si fa un bilancio della propria vita, il pensiero della morte si affaccia sempre più spesso alla mente, i ricordi dell'infanzia diventano vividi e la ricerca del trascendente e gli interrogativi sul senso dell'esistenza diventano inevitabili.
In tutto ciò appaiono inoltre determinanti il contesto culturale ed educativo nel quale il regista è cresciuto (vi ricordate Blankets)e il profondo condizionamento di una pesante cultura religiosa e di una morale molto rigida sullo sviluppo libero e completo della sua personalità adulta.
In definitiva, ho trovato potente (nelle immagini naturalistiche e nella rappresentazione della violenza delle relazioni umane) e tenero (nella rappresentazione della prima infanzia e della bellezza della natura) lo sguardo di Malick, e mi sono detta che la complessità e l'ampiezza delle nostre conoscenze non sono una protezione sufficiente di fronte alla smarrimento che l'assenza di senso e la fragilità della nostra dimensione umana sollevano a più riprese nella nostra esistenza.
Dal mio attuale punto di osservazione l'approccio di Malick, pur essendo visivamente di grande impatto, lascia perplessi in quanto irrisolto sul piano squisitamente umano, e il suo afflato poetico risulta troppo connotato e forse pretenzioso, sintomo - in qualche modo - di una sconfitta di quella visione umanistica che personalmente privilegio.
Voto: 3/5
giovedì 26 maggio 2011
venerdì 20 maggio 2011
Un weekend a Martignano
Nasce tutto dal desiderio di C. di passare un weekend nel verde anziché a Roma, ma senza fare centinaia di chilometri.
E così quale migliore soluzione che fare un salto dalle parti dei laghi di Bracciano e Martignano, che da casa mia in fondo non sono molto più lontani del litorale laziale?
Mi attira il lago più piccolo e meno conosciuto, anche perché mi dicono che qui non ci sono paesi o zone urbanizzate direttamente affacciati sul lago, eccetto qualche agriturismo.
Convinta, prenoto auto e alloggio e il sabato mattina (non esattamente di buon'ora) si parte. La destinazione è l'agriturismo Il Castoro, il più rustico tra quelli della zona e ovviamente quello che - almeno sulla carta - ci è piaciuto di più.
Diciamo che l'inizio della vacanzina del weekend non è delle più felici. Mi accorgo, una volta uscita dall'autonoleggio, che l'auto non ha il pieno, tento di contattare telefonicamente la Hertz, ma praticamente non c'è modo e quel telefono continuerà a squillare a vuoto per tutta la giornata. Decido di uscire da Roma prendendo la Cassia anziché imboccando Salaria e raccordo e me ne pento amaramente, perché in quel budello assurdo si procede a passo d'uomo e certamente ci mettiamo di più a prendere il raccordo che ad arrivare al lago, che si rileva essere sostanzialmente a un tiro di schioppo.
Per fortuna, tutti i nervosismi scivolano via quando in men che non si dica ci ritroviamo sul lungolago (quello grande di Bracciano) e da lì, una volta preso uno sterrato, siamo al cancello del nostro agriturismo. Colline verdi, casa padronale in pietra, appartamentino con giardinetto privato, mucche e cavalli, e - tra gli alberi - il blu del lago.
Solo allora realizziamo che nell'appartamento c'è tutto. Ma per chi abbia fatto la spesa! E dunque immediatamente ci preoccupiamo della colazione dell'indomani mattina, perché ci sarà pure il posto di ristoro sulla spiaggia sul lago - come ci ha detto la proprietaria dell'agriturismo - ma chi ce la fa a uscire di casa senza una prima colazione domestica? ;-)
Comunque, il problema viene rimandato alla serata, quando ci sposteremo per la cena verso Anguillara. Intanto il lago ci attende. Stradina di campagna ed eccoci su un prato verdissimo e curatissimo, con un lungo viale tra grandi alberi cui sono appesa decine e decine di amache. Qualche pedalò è parcheggiato sulla spiaggia (che è tutta prato fino alla riva), ma non è chiaro se siano a disposizione oppure no. In ogni caso il nostro obiettivo è goderci il sole e la tranquillità. Non c'è praticamente nessuno. Ogni tanto passa qualcuno con una canoa o una piccola barca a vela, qualcuno si ferma sulla spiaggia ad asciugarsi, ma le 4-5 ore di completa nullafacenza (eccetto gli esercizi di pilates!) sono davvero un toccasana.
Una volta fatto il pieno di sole e di silenzio, il tempo di una doccia e siamo in macchina. Discesa in retromarcia, abbattimento di staccionata in legno (!), e poi via verso Anguillara. Tappa al supermercato per comprare tutto quello che ci serve per la colazione e poi passeggiata per il centro storico del paese alla ricerca di un'osteria dove prendere un aperitivo, godendoci il tramonto.
Seguendo un cartello, finiremo da Ciccio Pasticcio, dove il padrone di casa corrisponde esattamente al nome del locale... I tavoli fuori non sono ancora stati allestiti, quindi staremo dentro nell'atmosfera surreale del locale, dove campeggia un cartello con una scritta in veneto. Mah! Comunque, il nostro bicchiere di vino l'abbiamo bevuto; non resta che andare da Boricella, consigliatoci da C.
Strano posto questo ristorante. Mi ricorda certi posti dove andavo il sabato sera con i miei genitori a managiare quando ero piccola (date un'occhiata al sito!). Posto per famiglie, dove fanno anche la pizza, in cui tutto è semplice, ma anche elegante nel senso in cui un posto poteva essere elegante negli anni '80. Comunque noi ci siamo andate per mangiare il pesce di lago e così è: dopo un fritto di pesce di lago e un persico in carpione, non ci faremo mancare una grigliatona mista con verdure e patate di contorno. Il tutto spruzzato di un onesto bianco locale. Crema catalana e ritorno al Castoro a dormire, nonostante le buone intenzioni di fare una passeggiata notturna sul lago.
Al mattino (in realtà è mezzogiorno), il tempo non promette niente di buono, ma tanto noi abbiamo la nostra colazione che ci aspetta. Thè, porchetta, pane e marmellata ;-))
Nel frattempo comincia a piovere. Riusciamo a malapena a fare un salto sulla spiaggia, ma le condizioni non sono le migliori per bissare l'esperienza del giorno precedente. La pioggia però conferisce al luogo un'atmosfera magica, soffusa, rilassata e misteriosa. Ci godiamo per un po' lo spettacolo.
Ma è già tempo di tornare verso Roma. Non senza un giro in macchina attraverso Trevignano e Bracciano.
Peccato che il weekend sia già finito. Ma scoprire che esiste uno spazio di fuga così bello così vicino alla città ci riempie di gioia.
E così quale migliore soluzione che fare un salto dalle parti dei laghi di Bracciano e Martignano, che da casa mia in fondo non sono molto più lontani del litorale laziale?
Mi attira il lago più piccolo e meno conosciuto, anche perché mi dicono che qui non ci sono paesi o zone urbanizzate direttamente affacciati sul lago, eccetto qualche agriturismo.
Convinta, prenoto auto e alloggio e il sabato mattina (non esattamente di buon'ora) si parte. La destinazione è l'agriturismo Il Castoro, il più rustico tra quelli della zona e ovviamente quello che - almeno sulla carta - ci è piaciuto di più.
Diciamo che l'inizio della vacanzina del weekend non è delle più felici. Mi accorgo, una volta uscita dall'autonoleggio, che l'auto non ha il pieno, tento di contattare telefonicamente la Hertz, ma praticamente non c'è modo e quel telefono continuerà a squillare a vuoto per tutta la giornata. Decido di uscire da Roma prendendo la Cassia anziché imboccando Salaria e raccordo e me ne pento amaramente, perché in quel budello assurdo si procede a passo d'uomo e certamente ci mettiamo di più a prendere il raccordo che ad arrivare al lago, che si rileva essere sostanzialmente a un tiro di schioppo.
Per fortuna, tutti i nervosismi scivolano via quando in men che non si dica ci ritroviamo sul lungolago (quello grande di Bracciano) e da lì, una volta preso uno sterrato, siamo al cancello del nostro agriturismo. Colline verdi, casa padronale in pietra, appartamentino con giardinetto privato, mucche e cavalli, e - tra gli alberi - il blu del lago.
Solo allora realizziamo che nell'appartamento c'è tutto. Ma per chi abbia fatto la spesa! E dunque immediatamente ci preoccupiamo della colazione dell'indomani mattina, perché ci sarà pure il posto di ristoro sulla spiaggia sul lago - come ci ha detto la proprietaria dell'agriturismo - ma chi ce la fa a uscire di casa senza una prima colazione domestica? ;-)
Comunque, il problema viene rimandato alla serata, quando ci sposteremo per la cena verso Anguillara. Intanto il lago ci attende. Stradina di campagna ed eccoci su un prato verdissimo e curatissimo, con un lungo viale tra grandi alberi cui sono appesa decine e decine di amache. Qualche pedalò è parcheggiato sulla spiaggia (che è tutta prato fino alla riva), ma non è chiaro se siano a disposizione oppure no. In ogni caso il nostro obiettivo è goderci il sole e la tranquillità. Non c'è praticamente nessuno. Ogni tanto passa qualcuno con una canoa o una piccola barca a vela, qualcuno si ferma sulla spiaggia ad asciugarsi, ma le 4-5 ore di completa nullafacenza (eccetto gli esercizi di pilates!) sono davvero un toccasana.
Una volta fatto il pieno di sole e di silenzio, il tempo di una doccia e siamo in macchina. Discesa in retromarcia, abbattimento di staccionata in legno (!), e poi via verso Anguillara. Tappa al supermercato per comprare tutto quello che ci serve per la colazione e poi passeggiata per il centro storico del paese alla ricerca di un'osteria dove prendere un aperitivo, godendoci il tramonto.
Seguendo un cartello, finiremo da Ciccio Pasticcio, dove il padrone di casa corrisponde esattamente al nome del locale... I tavoli fuori non sono ancora stati allestiti, quindi staremo dentro nell'atmosfera surreale del locale, dove campeggia un cartello con una scritta in veneto. Mah! Comunque, il nostro bicchiere di vino l'abbiamo bevuto; non resta che andare da Boricella, consigliatoci da C.
Strano posto questo ristorante. Mi ricorda certi posti dove andavo il sabato sera con i miei genitori a managiare quando ero piccola (date un'occhiata al sito!). Posto per famiglie, dove fanno anche la pizza, in cui tutto è semplice, ma anche elegante nel senso in cui un posto poteva essere elegante negli anni '80. Comunque noi ci siamo andate per mangiare il pesce di lago e così è: dopo un fritto di pesce di lago e un persico in carpione, non ci faremo mancare una grigliatona mista con verdure e patate di contorno. Il tutto spruzzato di un onesto bianco locale. Crema catalana e ritorno al Castoro a dormire, nonostante le buone intenzioni di fare una passeggiata notturna sul lago.
Al mattino (in realtà è mezzogiorno), il tempo non promette niente di buono, ma tanto noi abbiamo la nostra colazione che ci aspetta. Thè, porchetta, pane e marmellata ;-))
Nel frattempo comincia a piovere. Riusciamo a malapena a fare un salto sulla spiaggia, ma le condizioni non sono le migliori per bissare l'esperienza del giorno precedente. La pioggia però conferisce al luogo un'atmosfera magica, soffusa, rilassata e misteriosa. Ci godiamo per un po' lo spettacolo.
Ma è già tempo di tornare verso Roma. Non senza un giro in macchina attraverso Trevignano e Bracciano.
Peccato che il weekend sia già finito. Ma scoprire che esiste uno spazio di fuga così bello così vicino alla città ci riempie di gioia.
lunedì 16 maggio 2011
Pillole blu / Frederik Peeters
Pillole blu / Frederik Peeters. Bologna: Kappa edizioni, 2004.
Erano anni che questa graphic novel del ginevrino Frederik Peeters era parcheggiata sugli scaffali della mia libreria, dopo essere stata acquistata con molto entusiasmo al mio primo BilBolBul, il festival del fumetto di Bologna.
Ora, complice la nuova edizione da poco uscita per la stessa casa editrice, la mia rinnovata passione per i fumetti e lo scarsissimo tempo a disposizione per la lettura dei romanzi tradizionali, ho messo sul comodino questo Pillole blu e per qualche giorno ho fatto mezzanotte immersa nella sua lettura.
Ancora una volta una storia autobiografica, la storia d'amore tra lo stesso Frederik e Cati. Una storia iniziata come tante e con le stesse difficoltà e tenerezze di tutte le altre, se non fosse che Cati è sieropositiva così come il suo bambino.
La forza di questa graphic novel è la sconcertante normalità e leggerezza con cui ci viene raccontata la quotidianità di Frederik e Cati. Due giovani come tanti altri, con le facce ingenue e pulite, con le loro paure e la forza del loro legame. Due giovani che, rispetto agli altri, devono però confrontarsi quotidianamente e convivere con la paura del contagio, l'angoscia della morte, l'ansia del futuro, i sensi di colpa. Che si desiderano e si amano intensamente, ma sono chiamati a interrogarsi sulla loro sessualità.
E che pure riescono a trovare una loro strada per un amore bello e profondo, per l'ironia e il sorriso. Il capitolo centrale in cui i due sono distesi a letto e, su richiesta di Cati, Frederik prova a elencare i motivi per cui la ama è forte e commovente, sincera e tenera. Quasi da incorniciare.
Daniele Barbieri sintetizza bene il messaggio che viene fuori dalla lettura di Pillole blu: "Non è perché siamo destinati a morire che non possiamo vivere". E - aggiungerei io - la sfida per tutti, tutti i giorni, qualunque sia la nostra situazione, è conquistarci il nostro pezzettino di felicità quotidiana, è costruirci il nostro personale senso dell'esistenza, quello che ci ricompone e ci pacifica con noi stessi e con il mondo circostante.
Non mi sembra un messaggio di poco conto.
Voto: 3,5/5
Erano anni che questa graphic novel del ginevrino Frederik Peeters era parcheggiata sugli scaffali della mia libreria, dopo essere stata acquistata con molto entusiasmo al mio primo BilBolBul, il festival del fumetto di Bologna.
Ora, complice la nuova edizione da poco uscita per la stessa casa editrice, la mia rinnovata passione per i fumetti e lo scarsissimo tempo a disposizione per la lettura dei romanzi tradizionali, ho messo sul comodino questo Pillole blu e per qualche giorno ho fatto mezzanotte immersa nella sua lettura.
Ancora una volta una storia autobiografica, la storia d'amore tra lo stesso Frederik e Cati. Una storia iniziata come tante e con le stesse difficoltà e tenerezze di tutte le altre, se non fosse che Cati è sieropositiva così come il suo bambino.
La forza di questa graphic novel è la sconcertante normalità e leggerezza con cui ci viene raccontata la quotidianità di Frederik e Cati. Due giovani come tanti altri, con le facce ingenue e pulite, con le loro paure e la forza del loro legame. Due giovani che, rispetto agli altri, devono però confrontarsi quotidianamente e convivere con la paura del contagio, l'angoscia della morte, l'ansia del futuro, i sensi di colpa. Che si desiderano e si amano intensamente, ma sono chiamati a interrogarsi sulla loro sessualità.
E che pure riescono a trovare una loro strada per un amore bello e profondo, per l'ironia e il sorriso. Il capitolo centrale in cui i due sono distesi a letto e, su richiesta di Cati, Frederik prova a elencare i motivi per cui la ama è forte e commovente, sincera e tenera. Quasi da incorniciare.
Daniele Barbieri sintetizza bene il messaggio che viene fuori dalla lettura di Pillole blu: "Non è perché siamo destinati a morire che non possiamo vivere". E - aggiungerei io - la sfida per tutti, tutti i giorni, qualunque sia la nostra situazione, è conquistarci il nostro pezzettino di felicità quotidiana, è costruirci il nostro personale senso dell'esistenza, quello che ci ricompone e ci pacifica con noi stessi e con il mondo circostante.
Non mi sembra un messaggio di poco conto.
Voto: 3,5/5
martedì 10 maggio 2011
Blankets / Craig Thompson
Blankets / Craig Thompson; prefazione di Luca Sofri. Milano: Rizzoli Lizard, 2010.
Ha ragione chi dice che l'immagine di quell'America avanzata, innovativa e di mente aperta che spesso noi europei ci portiamo dietro a malapena corrisponde alle sponde est e ovest degli Stati Uniti. Perché tutto quello che c'è lì, nel mezzo, è in realtà un mondo che per certi versi ci è sconosciuto e per certi altri ci è molto più familiare.
Siamo nel Wisconsin, uno stato della regione dei Grandi Laghi, al confine con il Canada, innevato per buona parte dell'anno, con una presenza pervasiva della cultura cattolica che permea di sé l'educazione e la vita delle famiglie.
Qui vive Craig, insieme a un padre burbero e autoritario, una madre molto devota e il fratello Phil, con cui divide il lettone e le punizioni per le marachelle. Crescerà con la passione per il disegno, affascinato e nello stesso tempo compresso dai racconti della Bibbia e dalla morale cattolica, deriso, lui timido e gracilino, dai compagni di scuola, esuberanti e muscolosi, ma anche un po' stupidi.
La graphic novel è il romanzo di formazione del suo autore, il racconto del passaggio dall'adolescenza alla vita adulta, con lunghi flashback sull'infanzia e con al centro la storia d'amore con Raina, una coetana del Michigan. Con lei inizia un rapporto epistolare e telefonico che si tradurrà in una vacanza di due settimane a casa sua, momento del disvelamento dell'amore, dei sogni di bellezza, della pienezza interiore, delle prospettive luminose che l'innamoramento può dare. Il tutto in un confronto doloroso con un insegnamento morale severo che ha lasciato segni profondi nell'anima sensibile di Craig.
Il ritorno a casa, il dolore del distacco, la fine del primo, sognante e puro rapporto d'amore della sua vita aprirà il protagonista al bisogno di una cesura nella propria esistenza. Abbandonare la sua città, seguire la sua vocazione per il disegno, allontanarsi non da Dio, ma da quell'insieme di precetti e da quell'apparato che non comprende più, ritrovare il rapporto con suo fratello, cercare la propria identità, quella cui nessuna istituzione dall'esterno (sia essa la Chiesa, la famiglia, la coppia) può dare una risposta compiuta.
Il titolo, Blankets, fa riferimento alla trapunta cucita a mano che Raina regala a Craig quando si incontrano, ma anche alla spessa coltre di neve bianca che ricopre il paesaggio e l'anima del protagonista fino al disgelo della primavera della vita. Quella in cui cadono le illusioni, si guarda in faccia la realtà, senza coperture, si confrontano le proprie immagini mentali con il mondo circostante. Più felici forse no, più consapevoli certamente sì.
Non una lettura leggera quella delle quasi 600 pagine del romanzo a fumetti di Thompson, a tratti irritante nel tratteggiare una realtà che ha tutte le caratteristiche del provincialismo più gretto. Forse una ricostruzione amplificata dalla memoria dell'infanzia e dell'adolescenza, come smisurata è la rappresentazione grafica degli adulti. Certo una lettura in cui chiunque abbia fatto un percorso - più o meno doloroso - di affrancamento dall'imprinting che ha ricevuto - e magari per questo ha dovuto fisicamente creare un distacco con quel mondo e quelle persone, per ritrovarli solo in un momento successivo - vi si riconoscerà. Con lo sguardo tenero che solo chi - attraverso questo processo - ha tirato fuori
- un pezzetto alla volta - il suo io più nascosto può avere.
Da leggere. Ma solo se siete del mood giusto ;-)
Voto: 3,5/5
Ha ragione chi dice che l'immagine di quell'America avanzata, innovativa e di mente aperta che spesso noi europei ci portiamo dietro a malapena corrisponde alle sponde est e ovest degli Stati Uniti. Perché tutto quello che c'è lì, nel mezzo, è in realtà un mondo che per certi versi ci è sconosciuto e per certi altri ci è molto più familiare.
Siamo nel Wisconsin, uno stato della regione dei Grandi Laghi, al confine con il Canada, innevato per buona parte dell'anno, con una presenza pervasiva della cultura cattolica che permea di sé l'educazione e la vita delle famiglie.
Qui vive Craig, insieme a un padre burbero e autoritario, una madre molto devota e il fratello Phil, con cui divide il lettone e le punizioni per le marachelle. Crescerà con la passione per il disegno, affascinato e nello stesso tempo compresso dai racconti della Bibbia e dalla morale cattolica, deriso, lui timido e gracilino, dai compagni di scuola, esuberanti e muscolosi, ma anche un po' stupidi.
La graphic novel è il romanzo di formazione del suo autore, il racconto del passaggio dall'adolescenza alla vita adulta, con lunghi flashback sull'infanzia e con al centro la storia d'amore con Raina, una coetana del Michigan. Con lei inizia un rapporto epistolare e telefonico che si tradurrà in una vacanza di due settimane a casa sua, momento del disvelamento dell'amore, dei sogni di bellezza, della pienezza interiore, delle prospettive luminose che l'innamoramento può dare. Il tutto in un confronto doloroso con un insegnamento morale severo che ha lasciato segni profondi nell'anima sensibile di Craig.
Il ritorno a casa, il dolore del distacco, la fine del primo, sognante e puro rapporto d'amore della sua vita aprirà il protagonista al bisogno di una cesura nella propria esistenza. Abbandonare la sua città, seguire la sua vocazione per il disegno, allontanarsi non da Dio, ma da quell'insieme di precetti e da quell'apparato che non comprende più, ritrovare il rapporto con suo fratello, cercare la propria identità, quella cui nessuna istituzione dall'esterno (sia essa la Chiesa, la famiglia, la coppia) può dare una risposta compiuta.
Il titolo, Blankets, fa riferimento alla trapunta cucita a mano che Raina regala a Craig quando si incontrano, ma anche alla spessa coltre di neve bianca che ricopre il paesaggio e l'anima del protagonista fino al disgelo della primavera della vita. Quella in cui cadono le illusioni, si guarda in faccia la realtà, senza coperture, si confrontano le proprie immagini mentali con il mondo circostante. Più felici forse no, più consapevoli certamente sì.
Non una lettura leggera quella delle quasi 600 pagine del romanzo a fumetti di Thompson, a tratti irritante nel tratteggiare una realtà che ha tutte le caratteristiche del provincialismo più gretto. Forse una ricostruzione amplificata dalla memoria dell'infanzia e dell'adolescenza, come smisurata è la rappresentazione grafica degli adulti. Certo una lettura in cui chiunque abbia fatto un percorso - più o meno doloroso - di affrancamento dall'imprinting che ha ricevuto - e magari per questo ha dovuto fisicamente creare un distacco con quel mondo e quelle persone, per ritrovarli solo in un momento successivo - vi si riconoscerà. Con lo sguardo tenero che solo chi - attraverso questo processo - ha tirato fuori
- un pezzetto alla volta - il suo io più nascosto può avere.
Da leggere. Ma solo se siete del mood giusto ;-)
Voto: 3,5/5
domenica 8 maggio 2011
La fila (Line) di Israel Horovitz e il Lungotevere Testaccio
È in scena dal 27 aprile all'8 maggio al Teatro India La fila (Line), il testo teatrale scritto da Israel Horovitz nel 1967.
Ci vado in un pomeriggio di un'autentica domenica primaverile romana (chi ha detto che non esistono più le mezze stagioni?) senza sapere nemmeno chi sia Horovitz ma attirata dalla prospettiva di vedere questo famigerato Teatro India che in otto anni a Roma non ho ancora avuto la possibilità di visitare.
E così, dopo essermi persa in quella zona per me praticamente sconosciuta che si estende tra il Tevere e viale Marconi, approdo alla ex-fabbrica Mira Lanza di Roma, un edificio industriale realizzato tra il 1918 e il 1924, una parte del quale è stato acquistato nel 1999 dal Comune e ristrutturato per diventare il Teatro India, sede "sperimentale" del Teatro di Roma. Il posto è veramente speciale: vista sul grande gazometro dall'altra parte del fiume, e subito dietro quelli più piccoli (quelli tante volte ritratti nei film di Ozpetek), il ponte di ferro sul fiume, terreni incolti e - qua e là - i segni della forte caratterizzazione industriale del passato. E poi, scese le scalette dell'India, archi e strutture di mattoni che forse un tempo erano espressione della bruttura della periferia industriale e oggi fanno quasi tenerezza e sono gradevoli a vedersi e a viversi, all'interno del giardino con bar e tavolini.
Del resto è una zona della città che - se fino a non molto tempo fa era abbandonata a se stessa - oggi è diventata un nuovo polo culturale della città, in cui batte soprattutto un cuore di cultura alternativa, visto che oltre al Teatro India, troviamo la Città del Gusto, la Città dell'Altraeconomia e il Farmer's Market nell'ex Mattatoio di Testaccio, una delle due sedi del MACRO e centri culturali di vario genere. È una Roma un po' diversa, che vuole farsi internazionale (mi ricorda certa Londra radical-chic), ma alla fine - ai piedi del Monte dei Cocci - finisce per svelare la sua romanità in quei tratti che sono così evidenti agli occhi di chi ci vive, ma sono intraducibili in parole. In ogni caso, oggi Roma mi è sembrata davvero bellissima!
E forse anche per questo - nonostante un raffreddore che mi tormenta da qualche giorno - mi predispongo positivamente a vedere questo spettacolo di cui non so quasi nulla. E resto sorpresa.
Un palcoscenico senza alcuna scenografia, nero, ad eccezione di una linea bianca (fosforescente al buio) che è protagonista dell'opera di Horovitz. L'esistenza di questa linea e della fila che impone farà esplodere infatti gli istinti più bassi dei cinque personaggi (4 uomini e 1 donna) che ad uno ad uno compariranno in scena e si contenderanno il primo posto per partecipare a non si sa bene quale evento, forse un concerto di Mozart (ma i protagonisti fanno dichiarazioni contraddittorie in proposito). Ognuno determinato a usare qualunque mezzo pur di ottenere il primato: l'astuzia, la forza, le arti femminili, il sesso, il ricatto psicologico, la minaccia, il sotterfugio. Si tratta di Stephen (giovane un po' esaltato il cui attore, Luca Nucera, sembra Heath Ledger nell'interpretazione di Joker in Batman), Fleming (un omone grande e grosso, ma un po' stupido), Dolan (narcisista e meschino), Molly (la materializzazione di una perfidia e di un sadismo che può essere solo femminile), Arnall (il suo pavido marito, che ama farsi calpestare da lei e dagli altri).
Gabbati dall'astuzia sottile di Stephen che per sancire la sua vittoria porterà via la linea, gli altri quattro lo assaliranno per conquistarsi il proprio pezzo di linea rispetto al quale essere primi, senza riuscire però nemmeno in questo modo a superare l'istinto primordiale alla competizione, che senza competitori non dà soddisfazione.
Ne viene fuori il quadro di un'umanità in cui la "tragedia dei beni comuni" di cui parlava Harding è assolutamente inevitabile, forse perché gli esseri umani hanno bisogno di una sfida - anche se insensata - con gli altri. E non ci sono regole interne o morali che tengano di fronte a questo istinto primordiale, capace di spingere a qualunque nefandezza.
Un testo che ha ormai oltre 50 anni e che sembra scritto ieri, in una società che promuove la competitività in tutte le forme e a tutti i livelli, considerandola fonte di ricchezza e benessere. Un testo in cui chiunque può riconoscersi, nonostante le tipizzazioni che, nel tentativo di astrazione, possono dare l'impressione di una lettura semplificata.
Un'ora intensa, ben recitata, con una buona regia, al termine della quale si applaude a lungo e volentieri. Con la promessa di tornare presto all'India, magari anche solo a prendere un aperitivo guardando il gazometro.
Voto: 4/5
Ci vado in un pomeriggio di un'autentica domenica primaverile romana (chi ha detto che non esistono più le mezze stagioni?) senza sapere nemmeno chi sia Horovitz ma attirata dalla prospettiva di vedere questo famigerato Teatro India che in otto anni a Roma non ho ancora avuto la possibilità di visitare.
E così, dopo essermi persa in quella zona per me praticamente sconosciuta che si estende tra il Tevere e viale Marconi, approdo alla ex-fabbrica Mira Lanza di Roma, un edificio industriale realizzato tra il 1918 e il 1924, una parte del quale è stato acquistato nel 1999 dal Comune e ristrutturato per diventare il Teatro India, sede "sperimentale" del Teatro di Roma. Il posto è veramente speciale: vista sul grande gazometro dall'altra parte del fiume, e subito dietro quelli più piccoli (quelli tante volte ritratti nei film di Ozpetek), il ponte di ferro sul fiume, terreni incolti e - qua e là - i segni della forte caratterizzazione industriale del passato. E poi, scese le scalette dell'India, archi e strutture di mattoni che forse un tempo erano espressione della bruttura della periferia industriale e oggi fanno quasi tenerezza e sono gradevoli a vedersi e a viversi, all'interno del giardino con bar e tavolini.
Del resto è una zona della città che - se fino a non molto tempo fa era abbandonata a se stessa - oggi è diventata un nuovo polo culturale della città, in cui batte soprattutto un cuore di cultura alternativa, visto che oltre al Teatro India, troviamo la Città del Gusto, la Città dell'Altraeconomia e il Farmer's Market nell'ex Mattatoio di Testaccio, una delle due sedi del MACRO e centri culturali di vario genere. È una Roma un po' diversa, che vuole farsi internazionale (mi ricorda certa Londra radical-chic), ma alla fine - ai piedi del Monte dei Cocci - finisce per svelare la sua romanità in quei tratti che sono così evidenti agli occhi di chi ci vive, ma sono intraducibili in parole. In ogni caso, oggi Roma mi è sembrata davvero bellissima!
E forse anche per questo - nonostante un raffreddore che mi tormenta da qualche giorno - mi predispongo positivamente a vedere questo spettacolo di cui non so quasi nulla. E resto sorpresa.
Un palcoscenico senza alcuna scenografia, nero, ad eccezione di una linea bianca (fosforescente al buio) che è protagonista dell'opera di Horovitz. L'esistenza di questa linea e della fila che impone farà esplodere infatti gli istinti più bassi dei cinque personaggi (4 uomini e 1 donna) che ad uno ad uno compariranno in scena e si contenderanno il primo posto per partecipare a non si sa bene quale evento, forse un concerto di Mozart (ma i protagonisti fanno dichiarazioni contraddittorie in proposito). Ognuno determinato a usare qualunque mezzo pur di ottenere il primato: l'astuzia, la forza, le arti femminili, il sesso, il ricatto psicologico, la minaccia, il sotterfugio. Si tratta di Stephen (giovane un po' esaltato il cui attore, Luca Nucera, sembra Heath Ledger nell'interpretazione di Joker in Batman), Fleming (un omone grande e grosso, ma un po' stupido), Dolan (narcisista e meschino), Molly (la materializzazione di una perfidia e di un sadismo che può essere solo femminile), Arnall (il suo pavido marito, che ama farsi calpestare da lei e dagli altri).
Gabbati dall'astuzia sottile di Stephen che per sancire la sua vittoria porterà via la linea, gli altri quattro lo assaliranno per conquistarsi il proprio pezzo di linea rispetto al quale essere primi, senza riuscire però nemmeno in questo modo a superare l'istinto primordiale alla competizione, che senza competitori non dà soddisfazione.
Ne viene fuori il quadro di un'umanità in cui la "tragedia dei beni comuni" di cui parlava Harding è assolutamente inevitabile, forse perché gli esseri umani hanno bisogno di una sfida - anche se insensata - con gli altri. E non ci sono regole interne o morali che tengano di fronte a questo istinto primordiale, capace di spingere a qualunque nefandezza.
Un testo che ha ormai oltre 50 anni e che sembra scritto ieri, in una società che promuove la competitività in tutte le forme e a tutti i livelli, considerandola fonte di ricchezza e benessere. Un testo in cui chiunque può riconoscersi, nonostante le tipizzazioni che, nel tentativo di astrazione, possono dare l'impressione di una lettura semplificata.
Un'ora intensa, ben recitata, con una buona regia, al termine della quale si applaude a lungo e volentieri. Con la promessa di tornare presto all'India, magari anche solo a prendere un aperitivo guardando il gazometro.
Voto: 4/5
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