Approfittando di una concomitanza di lavoro in un weekend pre-estate di San Martino, in cui il sole e la temperatura sono praticamente primaverili, io e C. decidiamo di fare un giro a Trento e dintorni.
L’idea era quella di vedere la città, che io in parte conoscevo e C. no, ma anche di fare qualche passeggiata nella natura per soddisfare il mio desiderio da troppo tempo insoddisfatto di fare delle foto. Tanto che allo scopo mi ero anche portata dietro la macchina fotografica grande, la mia fedele Nikon D80.
A Trento abbiamo preso un alloggio con Airbnb e siamo a dormire praticamente ai piedi del castello del Buonconsiglio, dunque in zona centralissima, nella stanza doppia con bagno ed entrata indipendente della signora Manuela che si è dimostrata efficientissima e gentilissima.
La prima sera – per entrare subito in clima, sebbene le condizioni meteo non siano quelle adatte – andiamo a mangiare alla Rosa d’oro, ristorante in stile altoatesino e bavarese che serve piatti tipici, non certo leggeri. Beviamo una buona bottiglia di Teroldego su uno stinco di maiale cotto nella birra con contorno di patate e cavolo rosso e un piatto degustazione con gulash, polenta, canederli e wurstel con crauti. Diciamo che la notte non è stata delle più semplici…
Il giorno dopo – con i nostri soliti ritmi mattinieri (!) – dopo aver fatto la doppia colazione, prima in camera e poi al bar Casa del caffè, di cui abbiamo i buoni – ci dirigiamo verso la Valle dei Laghi, che C. ha individuato come meta ideale per le mie foto. La prima tappa è al lago di Terlago, dove comincio a prendere la mano con la macchina fotografica e dove facciamo una bellissima passeggiata intorno allo specchio d’acqua.
Ripartiamo per scendere più a sud ovest, ma sbagliamo strada e finiamo ai laghi di Lamar, più piccoli ma davvero affascinanti. Qui i colori del foliage sono davvero incantevoli e io non smetterei mai di fare foto, ma l’ora del pranzo sta rapidamente passando e temiamo che non ci diano più da mangiare (non sia mai che si salti un pasto!!). Così ci fermiamo all’agriturismo Le Vallene che avevamo notato arrivando e anche qui – dacché volevamo mangiare poco e restare leggere – prendiamo una porzione di canederli alle verdure (che però sono 8 e sono affondati nel burro e nel formaggio) e un piatto di gnocchi al gorgonzola. Poi qualche verdurina (!): fagiolini ripassati nel burro e crauti con pezzetti di speck. Tutto buonissimo! Non so come, ma C. riesce anche a prendere lo strudel alla fine del pasto.
Ma eccoci alla volta degli altri laghi della valle. Innanzitutto quello di Toblino, dove c’è anche un castello (oggi un ristorante) che si affaccia sullo specchio d’acqua. Purtroppo, il sole è già calato dietro la montagna e la luce non è delle migliori ma passeggiando intorno al lago si aprono degli scorci magnifici e man mano che si va verso il tramonto anche la luce si fa più affascinante, cosicché anche le mie foto possono avvantaggiarsene.
Costeggiando in macchina il lago di Cavedine andiamo verso le rovine del castello di Drena, dove questa volta entriamo a fare visita e ancora foto, mentre il sole definitivamente tramonta e comincia a venire un po’ di freddo.
Ci dirigiamo dunque verso Trento, ma lungo la strada facciamo una tappa alla Cantina Toblino dove compriamo le nostre prime 4 bottiglie di vino nonché tre bottiglie di grappa!
Sera senza cena (era il minimo) e per l’indomani ancora non sappiamo cosa fare. Intanto però non perdiamo l’occasione di comprare un altro paio di vini all’enoteca Grado 12 e di fare un salto per bere un bicchiere all’osteria della Mal’ombra, subito fuori il centro, che C. ha sentito nominare in un documentario - che si chiama Senza trucco - su dei vignaioli naturali, una delle quali, Elisabetta Foradori, è appunto trentina. Il posto è veramente incredibile, una specie di piccolo corridoio pieno zeppo di bottiglie, persone che bevono e chiacchierano, oggetti, quadri e altro. L’atmosfera è piacevole e il vino (un teroldego della stessa Foradori e un marzemino di Eugenio Rosi) è ottimo.
Alla sveglia – sempre ai soliti orari sudamericani – E., un'amica che vive in zona, propone di andare a fare colazione al castello di Pergine e così eccoci in macchina, questa volta in direzione sud est. Il castello di Pergine è una struttura veramente mastodontica e al suo interno c’è un ristorante gestito da svizzeri. Lì prendiamo un cappuccino e una bella fetta di torta e poi facciamo un bel giro intorno al castello.
Poi ci dirigiamo verso i laghi di Caldonazzo e Levico, e dopo una breve sosta-foto a Caldonazzo, la nostra passeggiata pomeridiana sarà al lago di Levico, che con la sua passeggiata dalla zona della spiaggia al bosco ci offrirà punti di vista sempre diversi e un’atmosfera rilassante. I paesaggi, la luce, i riflessi sull’acqua e il foliage spettacolare fanno di questa passeggiata una specie di enorme spot per il Trentino, che si rifletterà anche nelle mie foto della giornata.
Sulla strada del ritorno ci fermiamo a mangiare un tagliere di salumi e formaggi (in barba all’OMS) sul lago di Caldonazzo e quando il sole è ormai completamente dietro i monti torniamo verso Trento. Giusto il tempo di sistemare definitivamente la valigia, andare verso la stazione, dare un occhio alla Badia di San Lorenzo, che però è chiusa, e prendere il treno per tornare a casa.
Una boccata di ossigeno in questo autunno “caldo”.
sabato 28 novembre 2015
mercoledì 25 novembre 2015
Rachel Sermanni (+ Tom Terrell). Teatro Quirinetta, 19 novembre 2015
Eccomi al Quirinetta con la mia macchina fotografica al seguito e pochi soldi in tasca per assistere al concerto di Rachel Sermanni, la giovane folk singer delle Highlands che avevo già ascoltato dal vivo a Roma con grande soddisfazione qualche anno fa.
Da poco è uscito il suo secondo album, Tied to the moon, che pur confermando lo stile tra il tradizionale e l'intimistico della Sermanni, introduce qualche novità negli arrangiamenti e nel tono di alcune canzoni. Personalmente resto affezionata al primo album, Under mountains, ma ho ascoltato gradevolmente anche questo secondo.
In attesa che aprano le porte del Quirinetta, faccio un giro in zona (siamo in pieno centro, vicino fontana di Trevi) ed entro in un negozio con delle cose coloratissime dove faccio un po' di acquisti con i pochi soldi che mi sono portata dietro.
Torno all'ingresso del Quirinetta da cui vedo uscire Rachel (accompagnata da due persone), che certamente va a mangiare un boccone prima del concerto.
Alle 22.40 circa il concerto comincia. Io mi sono strategicamente posizionata in prima fila, sostanzialmente nella posizione dopo si sono collocati tutti i fotografi ufficiali. Sono anche accanto al banchetto con i CD e i gadget, che comprendono dei disegni fatti da Rachel e anche un piccolo graphic novel scritto da lei e disegnato da Jo Whitby, che si chiama The tractor.
La sala non è pienissima, ma l'atmosfera è molto bella. Il pubblico è attento, e in sala ci sono molti fans che conoscono le canzoni della Sermanni. Dopo la prima canzone, quel folletto che sta sul palco senza scarpe e si muove quasi come fosse un tutt'uno con la sua chitarra, avvolta nel vestitone largo rosso (il rosso è quasi sempre presente indosso a Rachel), ci trascina - canzone dopo canzone - nel suo mondo notturno e magico, che ci fa immaginare gli altipiani scozzesi, il vento e il cielo stellato e illuminato dalla luna.
A rendere l'atmosfera ancora più magica è la presenza di Tom Terrell, un cantautore canadese che è in giro in tour con Rachel, nella macchina "giallo", come continua a dire la cantante nel suo italiano un po' stentato, ma molto migliorato dall'ultima volta.
Terrell è un cantautore e un polistrumentista, che ha pubblicato da poco l'album omonimo (che ho subito comprato): accompagna Rachel alla chitarra, alla batteria e alla voce. E l'armonia tra di loro è assolutamente perfetta, trasformando le sonorità da folk a jazz a pop nel corso della serata.
La Sermanni ci propone in egual misura canzoni del vecchio e del nuovo album, cosa che mi rende particolarmente felice, e qua e là viene infilata una cover, a segnare le tante ascendenze della musica di Rachel. Così, ci viene proposta un pezzo di Johnny Cash, una canzone tradizionale irlandese e, al termine del bis richiestissimo dal pubblico, una bellissima versione di Dream a little dream of me, la canzone resa famosa da Ella Fitzgerald.
Alla fine del concerto siamo tutti innamorati di questi due ragazzi, schivi e appassionati della loro musica, che viene voglia davvero di abbracciarli.
Tom si posiziona al banchetto per la vendita, mentre Rachel va - sempre senza scarpe - al bancone del bar in fondo alla sala a bere qualcosa.
Io vorrei tanto comprare il graphic novel a cui ho dato un'occhiata prima, ma costa 5 euro e io in tasca ho solo 3 euro. Faccio un po' su e giù per la sala, poi mi decido e vado da Rachel. Scambiamo qualche parola sul concerto al Caracciolo di qualche anno fa e poi mi chiede se sono io quella che faceva le foto in prima fila, dopo che tutti gli altri fotografi erano ormai andati via. Allora mi faccio coraggio e le dico che ho bisogno di un favore: le faccio vedere i 3 euro che ho in mano e le dico che vorrei tanto il graphic novel con la sua firma. Mi fa un sorrisone enorme e mi porta con sé al banchetto, dove finalmente il libricino è mio.
"You're great, Rachel". Così la saluto :-)
Esco felice, un po' commossa, piena di vita, di bellezza, di gioia. Guardo questa città con occhi più grandi e più profondi.
Sono passati solo pochi giorni dall'attacco terroristico al Bataclan di Parigi, dove molte persone - come me stasera - stavano trascorrendo una serata all'insegna della musica e dello stare insieme. Il mio pensiero va a tutti quelli che sono stati uccisi o che hanno guardato la morte in faccia.
La vita porta con sé sufficienti dolori e difficoltà perché qualcuno possa pensare di toglierci la gioia di godere delle cose per cui essa - inevitabilmente caduca, breve, incerta - vale comunque e sempre la pena di essere riempita di ciò che per ciascuno di noi è bellezza.
Voto: 4,5/5
Da poco è uscito il suo secondo album, Tied to the moon, che pur confermando lo stile tra il tradizionale e l'intimistico della Sermanni, introduce qualche novità negli arrangiamenti e nel tono di alcune canzoni. Personalmente resto affezionata al primo album, Under mountains, ma ho ascoltato gradevolmente anche questo secondo.
In attesa che aprano le porte del Quirinetta, faccio un giro in zona (siamo in pieno centro, vicino fontana di Trevi) ed entro in un negozio con delle cose coloratissime dove faccio un po' di acquisti con i pochi soldi che mi sono portata dietro.
Torno all'ingresso del Quirinetta da cui vedo uscire Rachel (accompagnata da due persone), che certamente va a mangiare un boccone prima del concerto.
Alle 22.40 circa il concerto comincia. Io mi sono strategicamente posizionata in prima fila, sostanzialmente nella posizione dopo si sono collocati tutti i fotografi ufficiali. Sono anche accanto al banchetto con i CD e i gadget, che comprendono dei disegni fatti da Rachel e anche un piccolo graphic novel scritto da lei e disegnato da Jo Whitby, che si chiama The tractor.
La sala non è pienissima, ma l'atmosfera è molto bella. Il pubblico è attento, e in sala ci sono molti fans che conoscono le canzoni della Sermanni. Dopo la prima canzone, quel folletto che sta sul palco senza scarpe e si muove quasi come fosse un tutt'uno con la sua chitarra, avvolta nel vestitone largo rosso (il rosso è quasi sempre presente indosso a Rachel), ci trascina - canzone dopo canzone - nel suo mondo notturno e magico, che ci fa immaginare gli altipiani scozzesi, il vento e il cielo stellato e illuminato dalla luna.
A rendere l'atmosfera ancora più magica è la presenza di Tom Terrell, un cantautore canadese che è in giro in tour con Rachel, nella macchina "giallo", come continua a dire la cantante nel suo italiano un po' stentato, ma molto migliorato dall'ultima volta.
Terrell è un cantautore e un polistrumentista, che ha pubblicato da poco l'album omonimo (che ho subito comprato): accompagna Rachel alla chitarra, alla batteria e alla voce. E l'armonia tra di loro è assolutamente perfetta, trasformando le sonorità da folk a jazz a pop nel corso della serata.
La Sermanni ci propone in egual misura canzoni del vecchio e del nuovo album, cosa che mi rende particolarmente felice, e qua e là viene infilata una cover, a segnare le tante ascendenze della musica di Rachel. Così, ci viene proposta un pezzo di Johnny Cash, una canzone tradizionale irlandese e, al termine del bis richiestissimo dal pubblico, una bellissima versione di Dream a little dream of me, la canzone resa famosa da Ella Fitzgerald.
Alla fine del concerto siamo tutti innamorati di questi due ragazzi, schivi e appassionati della loro musica, che viene voglia davvero di abbracciarli.
Tom si posiziona al banchetto per la vendita, mentre Rachel va - sempre senza scarpe - al bancone del bar in fondo alla sala a bere qualcosa.
Io vorrei tanto comprare il graphic novel a cui ho dato un'occhiata prima, ma costa 5 euro e io in tasca ho solo 3 euro. Faccio un po' su e giù per la sala, poi mi decido e vado da Rachel. Scambiamo qualche parola sul concerto al Caracciolo di qualche anno fa e poi mi chiede se sono io quella che faceva le foto in prima fila, dopo che tutti gli altri fotografi erano ormai andati via. Allora mi faccio coraggio e le dico che ho bisogno di un favore: le faccio vedere i 3 euro che ho in mano e le dico che vorrei tanto il graphic novel con la sua firma. Mi fa un sorrisone enorme e mi porta con sé al banchetto, dove finalmente il libricino è mio.
"You're great, Rachel". Così la saluto :-)
Esco felice, un po' commossa, piena di vita, di bellezza, di gioia. Guardo questa città con occhi più grandi e più profondi.
Sono passati solo pochi giorni dall'attacco terroristico al Bataclan di Parigi, dove molte persone - come me stasera - stavano trascorrendo una serata all'insegna della musica e dello stare insieme. Il mio pensiero va a tutti quelli che sono stati uccisi o che hanno guardato la morte in faccia.
La vita porta con sé sufficienti dolori e difficoltà perché qualcuno possa pensare di toglierci la gioia di godere delle cose per cui essa - inevitabilmente caduca, breve, incerta - vale comunque e sempre la pena di essere riempita di ciò che per ciascuno di noi è bellezza.
Voto: 4,5/5
venerdì 20 novembre 2015
The wolfpack
Sette fratelli: sei maschi, una femmina. Figli di una donna americana e di un uomo di origine peruviana. Vissuti e cresciuti per oltre 15 anni a New York in un appartamento del Lower East Side di Manhattan, senza praticamente alcun contatto con il mondo esterno. Costretti a guardare il mondo dalla finestra fisica della loro casa e dalla finestra virtuale e distorta del cinema, che entra abbondantemente in casa con i dvd che porta loro il padre. Cresciuti con l'idea che il mondo esterno sia un luogo pericoloso e gli altri siano solo causa di problemi e fonte di condizionamenti.
Un esperimento sociale di straordinaria efficacia.
Un perfetto soggetto per una sceneggiatura cinematografica.
Ma a volte la realtà supera l'immaginazione, perché questa è la storia vera dei fratelli Angulo, e The wolfpack è il documentario che Crystal Moselle ha realizzato su di loro utilizzando interviste realizzate negli ultimi anni e video amatoriali girati all'interno della famiglia da quando i bambini erano piccoli.
La storia della famiglia Angulo ha dell'incredibile e - a raccontarla - anche dell'inquietante. A partire dai nomi. I sei fratelli maschi su cui è incentrato il documentario (l'unica sorella - dicono gli altri - vive in un mondo tutto suo) si chiamano Mukunda, Baghava, Jagadisa, Krsna, Narayana e Govinda. Nel progetto di vita del padre (un padre padrone, fanatico e alcolizzato) - e di una madre totalmente succube - dovevano essere parte di una specie di nuova tribu destinata a una vita diversa dagli altri, più libera, priva di qualunque condizionamento sociale e religioso, in transito a New York in attesa di trasferirsi in Scandinavia per vivere secondo il loro ideale. Ma alla fine dall'appartamento di New York non si sono più mossi.
I fratelli Angulo sono dei sopravvissuti, salvati da quella straordinaria tensione della mente umana all'autodeterminazione, che spinge prima uno dei fratelli a uscire per strada da solo, senza il consenso del padre, e poi, a poco a poco, crea le condizioni affinché ciascuno di loro - con difficoltà enormi nel comprendere il mondo che li circonda e nell'adattarvisi, anche quando ne sono affascinati - si avventuri fuori dalle mura di casa alla ricerca di se stesso.
Questa storia incredibile che - così raccontata - potrebbe avere i tratti di un film drammatico e comunicare sentimenti di angoscia, in realtà riesce a trasmettere la straordinaria vitalità e capacità di sopravvivenza di questi fratelli che hanno trovato nel cinema non solo la loro valvola di sfogo ma anche il loro strumento di conoscenza e di rappresentazione della realtà. E così siamo catapultati in questo set cinematografico nel quale i fratelli trascrivono le battute dei loro film preferiti con la macchina da scrivere, preparano costumi di scena straordinari con materiali riciclati (strepitoso il costume da Batman!), mettono in scena negli angusti spazi della casa le loro scene preferite, e infine parlano di se stessi e del mondo utilizzando lo sguardo cinematografico come filtro. Infine, uno di loro - una volta ritrovata la propria parziale indipendenza - deciderà di girare - avendo come protagonisti tutti i componenti della sua famiglia - il film di un uomo che seduto alla finestra vede passare tutti i sentimenti, sentendoli ma senza poterli toccare.
Un meraviglioso viaggio di andata e ritorno, che parte dal cinema per arrivare alla vita, e che dalla vita torna al cinema.
Voto: 4/5
Un esperimento sociale di straordinaria efficacia.
Un perfetto soggetto per una sceneggiatura cinematografica.
Ma a volte la realtà supera l'immaginazione, perché questa è la storia vera dei fratelli Angulo, e The wolfpack è il documentario che Crystal Moselle ha realizzato su di loro utilizzando interviste realizzate negli ultimi anni e video amatoriali girati all'interno della famiglia da quando i bambini erano piccoli.
La storia della famiglia Angulo ha dell'incredibile e - a raccontarla - anche dell'inquietante. A partire dai nomi. I sei fratelli maschi su cui è incentrato il documentario (l'unica sorella - dicono gli altri - vive in un mondo tutto suo) si chiamano Mukunda, Baghava, Jagadisa, Krsna, Narayana e Govinda. Nel progetto di vita del padre (un padre padrone, fanatico e alcolizzato) - e di una madre totalmente succube - dovevano essere parte di una specie di nuova tribu destinata a una vita diversa dagli altri, più libera, priva di qualunque condizionamento sociale e religioso, in transito a New York in attesa di trasferirsi in Scandinavia per vivere secondo il loro ideale. Ma alla fine dall'appartamento di New York non si sono più mossi.
I fratelli Angulo sono dei sopravvissuti, salvati da quella straordinaria tensione della mente umana all'autodeterminazione, che spinge prima uno dei fratelli a uscire per strada da solo, senza il consenso del padre, e poi, a poco a poco, crea le condizioni affinché ciascuno di loro - con difficoltà enormi nel comprendere il mondo che li circonda e nell'adattarvisi, anche quando ne sono affascinati - si avventuri fuori dalle mura di casa alla ricerca di se stesso.
Questa storia incredibile che - così raccontata - potrebbe avere i tratti di un film drammatico e comunicare sentimenti di angoscia, in realtà riesce a trasmettere la straordinaria vitalità e capacità di sopravvivenza di questi fratelli che hanno trovato nel cinema non solo la loro valvola di sfogo ma anche il loro strumento di conoscenza e di rappresentazione della realtà. E così siamo catapultati in questo set cinematografico nel quale i fratelli trascrivono le battute dei loro film preferiti con la macchina da scrivere, preparano costumi di scena straordinari con materiali riciclati (strepitoso il costume da Batman!), mettono in scena negli angusti spazi della casa le loro scene preferite, e infine parlano di se stessi e del mondo utilizzando lo sguardo cinematografico come filtro. Infine, uno di loro - una volta ritrovata la propria parziale indipendenza - deciderà di girare - avendo come protagonisti tutti i componenti della sua famiglia - il film di un uomo che seduto alla finestra vede passare tutti i sentimenti, sentendoli ma senza poterli toccare.
Un meraviglioso viaggio di andata e ritorno, che parte dal cinema per arrivare alla vita, e che dalla vita torna al cinema.
Voto: 4/5
mercoledì 18 novembre 2015
Io, Nessuno e Polifemo. Intervista impossibile / Emma Dante
Io, Nessuno e Polifemo. Intervista impossibile / Emma Dante. Teatro Vittoria, 5 novembre 2015.
Non avevo mai visto spettacoli di Emma Dante a teatro. La mia conoscenza dell'autrice e attrice era limitata al cinema e, in particolare, al film Via Castellana Bandiera, che mi era piaciuto molto.
Così quando M. mi ha proposto di prendere i biglietti di questo evento del RomaEuropa Festival 2015 ho accettato ben volentieri.
Ed eccomi qui al Teatro Vittoria un giovedì sera di una settimana in cui sono uscita tutte le sere e sono distrutta, ma non demordo :-)
Lo spettacolo - come ci spiegherà la stessa Emma Dante nel dibattito con il pubblico - nasce da un testo scritto qualche anno prima, quando - a un precedente RomaEuropaFestival - ad alcuni autori e scrittori era stato chiesto di realizzare delle interviste impossibili. L'intervista impossibile con Polifemo e Odisseo è poi diventata un testo teatrale ed è stata portata in scena.
E detto così potrebbe sembrare molto noioso, e invece non lo è.
Sulla scena si muovono tre bambole rotte (le bravissime Federica Aloisio, Viola Carinci e Giusi Vicari) e sul trabattino alle spalle della scena sale una musicista, Serena Ganci, che si occuperà delle canzoni e delle musiche dal vivo che accompagnano parole e azioni.
Sul proscenio arrivano poi Emma Dante, che interpreta se stessa, l'intervistatrice impossibile, e Polifemo (Salvatore D'Onofrio). E tutto risulta spiazzante fin dal principio, perché questo gigante accecato - consegnato alla storia da tanti racconti e tanta letteratura - non solo parla napoletano, ma si presenta come un povero cristo, la cui vita è stata rovinata da un imbroglio e che pure non ha perso il senso dell'umorismo. Fino a quando non entra in scena Odisseo, Ulisse, Nessuno (Carmine Maringola), che fa il suo ingresso come un supereroe di periferia, un guitto, un gigione pieno di sé, uno che ama la vita al punto da aver rifiutato l'immortalità e che della vita vuole prendersi tutto, anche quando questo si traduce in sofferenza per qualcun altro, che sia Polifemo o Penelope. Ma un guitto simpatico, che parla napoletano anche lui, e che è difficile odiare per davvero.
Commedia e dramma si alternano in scena, e una forma di meta teatralità fa capolino qua e là, attraverso l'intervistatrice che parla con Polifemo del significato del teatro o attraverso le mille maschere di Nessuno.
Il momento più emozionante per me è la scena dedicata a Penelope e alla sua tela infinita, interpretata magistralmente dalle tre ballerine che replicano quest'unica donna nella sua dimensione diacronica e sincronica, avvolte e quasi imprigionate nella tela che Penelope ha scelto di tessere ma da cui in qualche modo non riesce più a liberarsi.
Lo spettacolo è nel suo complesso interessante, forse non potente come mi dicono essere normalmente i lavori di Emma Dante, ma il pubblico accoglie con favore e, anche nel dibattito successivo, coordinato da Elena Stancanelli, interviene con domande e curiosità, cui fa da contrappunto l'ironia tutta siciliana di Emma Dante.
Voto: 3/5
Non avevo mai visto spettacoli di Emma Dante a teatro. La mia conoscenza dell'autrice e attrice era limitata al cinema e, in particolare, al film Via Castellana Bandiera, che mi era piaciuto molto.
Così quando M. mi ha proposto di prendere i biglietti di questo evento del RomaEuropa Festival 2015 ho accettato ben volentieri.
Ed eccomi qui al Teatro Vittoria un giovedì sera di una settimana in cui sono uscita tutte le sere e sono distrutta, ma non demordo :-)
Lo spettacolo - come ci spiegherà la stessa Emma Dante nel dibattito con il pubblico - nasce da un testo scritto qualche anno prima, quando - a un precedente RomaEuropaFestival - ad alcuni autori e scrittori era stato chiesto di realizzare delle interviste impossibili. L'intervista impossibile con Polifemo e Odisseo è poi diventata un testo teatrale ed è stata portata in scena.
E detto così potrebbe sembrare molto noioso, e invece non lo è.
Sulla scena si muovono tre bambole rotte (le bravissime Federica Aloisio, Viola Carinci e Giusi Vicari) e sul trabattino alle spalle della scena sale una musicista, Serena Ganci, che si occuperà delle canzoni e delle musiche dal vivo che accompagnano parole e azioni.
Sul proscenio arrivano poi Emma Dante, che interpreta se stessa, l'intervistatrice impossibile, e Polifemo (Salvatore D'Onofrio). E tutto risulta spiazzante fin dal principio, perché questo gigante accecato - consegnato alla storia da tanti racconti e tanta letteratura - non solo parla napoletano, ma si presenta come un povero cristo, la cui vita è stata rovinata da un imbroglio e che pure non ha perso il senso dell'umorismo. Fino a quando non entra in scena Odisseo, Ulisse, Nessuno (Carmine Maringola), che fa il suo ingresso come un supereroe di periferia, un guitto, un gigione pieno di sé, uno che ama la vita al punto da aver rifiutato l'immortalità e che della vita vuole prendersi tutto, anche quando questo si traduce in sofferenza per qualcun altro, che sia Polifemo o Penelope. Ma un guitto simpatico, che parla napoletano anche lui, e che è difficile odiare per davvero.
Commedia e dramma si alternano in scena, e una forma di meta teatralità fa capolino qua e là, attraverso l'intervistatrice che parla con Polifemo del significato del teatro o attraverso le mille maschere di Nessuno.
Il momento più emozionante per me è la scena dedicata a Penelope e alla sua tela infinita, interpretata magistralmente dalle tre ballerine che replicano quest'unica donna nella sua dimensione diacronica e sincronica, avvolte e quasi imprigionate nella tela che Penelope ha scelto di tessere ma da cui in qualche modo non riesce più a liberarsi.
Lo spettacolo è nel suo complesso interessante, forse non potente come mi dicono essere normalmente i lavori di Emma Dante, ma il pubblico accoglie con favore e, anche nel dibattito successivo, coordinato da Elena Stancanelli, interviene con domande e curiosità, cui fa da contrappunto l'ironia tutta siciliana di Emma Dante.
Voto: 3/5
domenica 15 novembre 2015
Poco raccomandabile / Chloé Cruchaudet
Poco raccomandabile / Chloé Cruchaudet; tratto da La garçonne et l'assassin di Fabrice Virgili & Danièle Voldman. Bologna: Coconino Press, 2014.
I graphic novels - che pure sono un genere letterario che mi appassiona moltissimo - spesso hanno il limite di non riuscire a garantire un elevato livello sia sul piano grafico sia su quello narrativo. Accade così che storie disegnate molto bene risultino deludenti sul piano narrativo, o perché incompiute o perché banali. Altre volte - ma molto più raramente - accade il contrario, forse perché chi ha la vocazione del disegno è spesso a quello che dedica la sua massima attenzione.
Leggere il graphic novel di Chloé Cruchaudet è stata da questo punto di vista un'esperienza completa e soddisfacente, sia sul piano intellettuale che emotivo.
Sarà che la storia raccontata è ispirata a una storia vera e che su questa storia era già stato scritto un breve romanzo La garconne et l'assassin, che poi ha rappresentato il punto di partenza per la sceneggiatura dell'opera a fumetti. Sta di fatto che la Cruchaudet ha trasformato questa vicenda in tavole a fumetti con una capacità di rilettura emotiva eccellente.
La storia è quella di Louise e Paul, balzata agli onori delle cronache durante il processo contro Louise per l'omicidio di suo marito Paul. Da qui il lungo flashback che ci racconta come si sono conosciuti, amati e sposati e come sono stati subito separati dallo scoppio della prima guerra mondiale e dalla partenza di Paul per il fronte. L'atrocità della guerra e le esperienze scioccanti che Paul vive lo spingono prima a tagliarsi un dito per ottenere un congedo, poi a disertare. Da qui in poi è costretto a vivere recluso in una stanza d'albergo, fino a quando - un po' per caso - Paul si traveste da donna, unica possibilità per vivere nel mondo senza rischiare la fucilazione.
Paul vivrà in abiti femminili ben oltre la fine della guerra, ossia fino alla concessione dell'amnistia, e in questi lunghissimi dieci anni il suo processo di identificazione con il genere femminile sarà sempre più profondo e lo porterà a scoprire parti di sé che non conosceva, a confrontarsi con i confini mobili del genere, a sperimentare - anche grazie ai meandri oscuri del Bois de Boulogne - una libertà sessuale carica di vitalità. In tutto questo percorso sarà sempre affiancato dalla moglie che assisterà prima alla sua rinascita in abiti femminili, poi alla discesa agli inferi di Paul, incapace - una volta ottenuta l'amnistia e dunque ritornato alla normalità - di liberarsi dei propri fantasmi e mettere da parte i propri desideri, fino al tragico epilogo.
Non sono solita raccontare le trame per intero, ma in questo caso ritengo essenziale far comprendere la complessità del tema trattato, che fonde insieme il topos del trauma post-bellico e dell'orrore della vita di trincea (mi ha ricordato a tratti unastoria di Gipi) con la riflessione sull'identità di genere.
Dal punto di vista grafico il lavoro di Chloé Cruchaudet non è da meno. Non solo i disegni sono molto belli e riescono a essere di una delicatezza infinita anche di fronte alle situazioni più scabrose, ma personalmente ho trovato al contempo geniale e toccante l'uso del colore rosso all'interno di tavole tutte virate nelle tonalità del grigio e del seppia. Nell'uso del rosso si riassumono molti significati e livelli di analisi di questo graphic novel, solo in parte esplicitati dal punto di vista narrativo.
Il rosso appartiene inizialmente a Louise, espressione della sua femminilità, e per converso è il colore del sangue e dunque delle atrocità della guerra, mondo esclusivamente maschile; poi il rosso si trasferisce progressivamente a Paul nel suo processo di appropriazione di una femminilità che è sempre più interiore. Il colore scompare quando la coppia torna alla normalità, ma ricompare negli incubi e nelle fantasie di Paul, per poi infine tornare - sbiadito - nel vestito che Paul indossa per ritrovare la parte femminile perduta. E infine si trasforma di nuovo in sangue, ma che questa volta schizza su Louise quando uccide suo marito, in un ricongiungimento di quel femminile e maschile inizialmente separati. Scorrere queste tavole è un'esperienza sensoriale ed emotiva forte di cui, durante la lettura, quasi non ci si accorge ma che si amplifica progressivamente in modo quasi inconscio.
Quello della Cruchaudet è un graphic novel di altissimo livello che forse non ha avuto in Italia la risonanza che avrebbe meritato.
Un unico appunto alla Coconino Press, che pure ha avuto il merito di portare questo capolavoro al pubblico italiano: il titolo originale Mauvais genre - perfetto - non era facile da rendere in italiano, ma certo Poco raccomandabile è davvero troppo debole e persino sminuente per una storia di questa potenza.
Voto: 4,5/5
I graphic novels - che pure sono un genere letterario che mi appassiona moltissimo - spesso hanno il limite di non riuscire a garantire un elevato livello sia sul piano grafico sia su quello narrativo. Accade così che storie disegnate molto bene risultino deludenti sul piano narrativo, o perché incompiute o perché banali. Altre volte - ma molto più raramente - accade il contrario, forse perché chi ha la vocazione del disegno è spesso a quello che dedica la sua massima attenzione.
Leggere il graphic novel di Chloé Cruchaudet è stata da questo punto di vista un'esperienza completa e soddisfacente, sia sul piano intellettuale che emotivo.
Sarà che la storia raccontata è ispirata a una storia vera e che su questa storia era già stato scritto un breve romanzo La garconne et l'assassin, che poi ha rappresentato il punto di partenza per la sceneggiatura dell'opera a fumetti. Sta di fatto che la Cruchaudet ha trasformato questa vicenda in tavole a fumetti con una capacità di rilettura emotiva eccellente.
La storia è quella di Louise e Paul, balzata agli onori delle cronache durante il processo contro Louise per l'omicidio di suo marito Paul. Da qui il lungo flashback che ci racconta come si sono conosciuti, amati e sposati e come sono stati subito separati dallo scoppio della prima guerra mondiale e dalla partenza di Paul per il fronte. L'atrocità della guerra e le esperienze scioccanti che Paul vive lo spingono prima a tagliarsi un dito per ottenere un congedo, poi a disertare. Da qui in poi è costretto a vivere recluso in una stanza d'albergo, fino a quando - un po' per caso - Paul si traveste da donna, unica possibilità per vivere nel mondo senza rischiare la fucilazione.
Paul vivrà in abiti femminili ben oltre la fine della guerra, ossia fino alla concessione dell'amnistia, e in questi lunghissimi dieci anni il suo processo di identificazione con il genere femminile sarà sempre più profondo e lo porterà a scoprire parti di sé che non conosceva, a confrontarsi con i confini mobili del genere, a sperimentare - anche grazie ai meandri oscuri del Bois de Boulogne - una libertà sessuale carica di vitalità. In tutto questo percorso sarà sempre affiancato dalla moglie che assisterà prima alla sua rinascita in abiti femminili, poi alla discesa agli inferi di Paul, incapace - una volta ottenuta l'amnistia e dunque ritornato alla normalità - di liberarsi dei propri fantasmi e mettere da parte i propri desideri, fino al tragico epilogo.
Non sono solita raccontare le trame per intero, ma in questo caso ritengo essenziale far comprendere la complessità del tema trattato, che fonde insieme il topos del trauma post-bellico e dell'orrore della vita di trincea (mi ha ricordato a tratti unastoria di Gipi) con la riflessione sull'identità di genere.
Dal punto di vista grafico il lavoro di Chloé Cruchaudet non è da meno. Non solo i disegni sono molto belli e riescono a essere di una delicatezza infinita anche di fronte alle situazioni più scabrose, ma personalmente ho trovato al contempo geniale e toccante l'uso del colore rosso all'interno di tavole tutte virate nelle tonalità del grigio e del seppia. Nell'uso del rosso si riassumono molti significati e livelli di analisi di questo graphic novel, solo in parte esplicitati dal punto di vista narrativo.
Il rosso appartiene inizialmente a Louise, espressione della sua femminilità, e per converso è il colore del sangue e dunque delle atrocità della guerra, mondo esclusivamente maschile; poi il rosso si trasferisce progressivamente a Paul nel suo processo di appropriazione di una femminilità che è sempre più interiore. Il colore scompare quando la coppia torna alla normalità, ma ricompare negli incubi e nelle fantasie di Paul, per poi infine tornare - sbiadito - nel vestito che Paul indossa per ritrovare la parte femminile perduta. E infine si trasforma di nuovo in sangue, ma che questa volta schizza su Louise quando uccide suo marito, in un ricongiungimento di quel femminile e maschile inizialmente separati. Scorrere queste tavole è un'esperienza sensoriale ed emotiva forte di cui, durante la lettura, quasi non ci si accorge ma che si amplifica progressivamente in modo quasi inconscio.
Quello della Cruchaudet è un graphic novel di altissimo livello che forse non ha avuto in Italia la risonanza che avrebbe meritato.
Un unico appunto alla Coconino Press, che pure ha avuto il merito di portare questo capolavoro al pubblico italiano: il titolo originale Mauvais genre - perfetto - non era facile da rendere in italiano, ma certo Poco raccomandabile è davvero troppo debole e persino sminuente per una storia di questa potenza.
Voto: 4,5/5
venerdì 13 novembre 2015
Josh T. Pearson (+ Calvin LeBaron), Roma, Monk, 30 ottobre 2015
Primo appuntamento invernale per me al Monk con questo concerto di Josh T. Pearson. Non lo conoscevo prima che questo concerto venisse annunciato, poi ho comprato il suo ultimo album Last of the country gentleman, ho visto alcune sue performance su YouTube, ho letto un po’ della sua storia in giro su Internet e mi sono detta che poteva essere un’esperienza interessante.
L’album è veramente bello; doloroso, ma bello. In quel lavoro c’è probabilmente la sintesi di questo personaggio davvero molto particolare anche fisicamente (una specie di sosia di Christian Bale con capelli lunghi e barba, anche se a Roma si è presentato con capelli e barba corti), un texano figlio di un predicatore, intorno al quale si è costruita una vera e propria aura mitica dopo l’esperienza breve ma acclamata della band Lift to experience e la recente carriera da solista, arrivata dopo un lungo periodo di pausa e di lontananza dalla scena musicale.
Ovviamente, andare ad ascoltare dal vivo un artista così è sempre una scommessa, ma credo che ne valga la pena.
Josh arriva in sala presto. Lo incontro, col suo cappellone da cowboy e vestito completamente di bianco, che fa una foto alla location con il suo cellulare. Il concerto invece inizia molto più tardi del previsto, anche perché la sala fa fatica a riempirsi. Io sono piazzata in prima fila con la mia birra e la mia macchina fotografica.
L’apertura la fa Calvin LeBaron, che è arrivato con lo stesso Pearson ed quest'ultimo in persona ad annunciare. Si tratta di un tipo decisamente particolare e credo basti da un’occhiata al suo sito web per rendersene conto. Una specie di Joaquin Cortes, però americano, che fa una musica che è una via di mezzo tra il country, il flamenco e la musica di chiesa. Lui - che porta una grossa croce sul petto - canta in buona parte in falsetto e si muove in modo particolare sul palco, cosicché il primo impatto di questa serata risulta quantomeno originale.
Dopo una breve pausa sale sul palco Josh T. Pearson che ci spiega che Calvin lo sta affiancando in un progetto che si chiamerà Two witnesses e del quale ci faranno poi ascoltare alcune canzoni.
Josh ci propone alcune canzoni dal suo album, ma stasera non sembra che si crei un grande feeling con il pubblico, che pure ascolta in perfetto silenzio ma non rapito. Pearson in questa esibizione non sembra un animale da palcoscenico; e nella sua staticità appare distaccato non solo dal pubblico ma anche da se stesso.
Segue il duetto con Calvin LeBaron e l’atmosfera da serata in parrocchia aumenta ulteriormente. I due hanno entrambi le cinte della chitarra con la croce, davanti a loro c’è un leggio che sorregge un cartone con la scritta “Two witnesses” e qualcosa che ha a che fare con il 666 e una grossa croce. Sulle loro custodie delle chitarre aperte ci sono altri due cartoni in bella vista con le scritte “Love thy god” e “Love thy neighborogh”. E tra la scelta prevalente di gospel, gli arrangiamenti molto essenziali e la voce in falsetto di Calvin, con il controcanto di Josh, un po’ di senso di alienazione diventa inevitabile.
Al termine dell’ultima canzone in scaletta Josh chiede al pubblico se vuole che canti ancora qualcosa oppure no. E qualcuno dal pubblico chiede a gran voce Honeymoon, senza essere accontentato. Pearson ci propone invece un’altra canzone da solista e poi un paio di canzoni ancora in coppia con LeBaron, concludendo con una slowed cover di I will follow him, canzone resa famosa dal film Sister act.
Che dire? Non esattamente quello che mi aspettavo, anche se devo ammettere che a tratti ho percepito il fascino di un cantante così schivo ed essenziale (in realtà parla moltissimo con il pubblico, ma in quel texano che a volte resta talmente nella sua bocca da essere incomprensibile), nonché la bellezza della sua musica.
E alla fine capisco perfettamente il significato di questo pezzo di intervista che avevo letto qualche tempo fa:
[Intervistatore]: “È una storia molto nota che sei figlio di un predicatore, che hai iniziato a suonare in chiesa, addirittura che hai pensato di diventare un predicatore tu stesso. Cosa è rimasto di questa necessità, questa attitudine, o visione, nella tua vita di artista o di normale essere umano in generale?”
[Pearson]: “Beh, credo di esserlo diventato! Voglio dire... Diffondere la buona Notizia! Lo spero! Opere buone. Nella tradizione del mio Dio, diffondo le cose buone, fare del bene. È meglio fare del bene, credere. Spero di condividere qualcosa di questo... Se è buono o è buon lavoro, stai predicando la speranza e la vita. Ci sono posti in cui le persone hanno bisogno di incoraggiamento, sai.”
Voto: 3/5
L’album è veramente bello; doloroso, ma bello. In quel lavoro c’è probabilmente la sintesi di questo personaggio davvero molto particolare anche fisicamente (una specie di sosia di Christian Bale con capelli lunghi e barba, anche se a Roma si è presentato con capelli e barba corti), un texano figlio di un predicatore, intorno al quale si è costruita una vera e propria aura mitica dopo l’esperienza breve ma acclamata della band Lift to experience e la recente carriera da solista, arrivata dopo un lungo periodo di pausa e di lontananza dalla scena musicale.
Ovviamente, andare ad ascoltare dal vivo un artista così è sempre una scommessa, ma credo che ne valga la pena.
Josh arriva in sala presto. Lo incontro, col suo cappellone da cowboy e vestito completamente di bianco, che fa una foto alla location con il suo cellulare. Il concerto invece inizia molto più tardi del previsto, anche perché la sala fa fatica a riempirsi. Io sono piazzata in prima fila con la mia birra e la mia macchina fotografica.
L’apertura la fa Calvin LeBaron, che è arrivato con lo stesso Pearson ed quest'ultimo in persona ad annunciare. Si tratta di un tipo decisamente particolare e credo basti da un’occhiata al suo sito web per rendersene conto. Una specie di Joaquin Cortes, però americano, che fa una musica che è una via di mezzo tra il country, il flamenco e la musica di chiesa. Lui - che porta una grossa croce sul petto - canta in buona parte in falsetto e si muove in modo particolare sul palco, cosicché il primo impatto di questa serata risulta quantomeno originale.
Dopo una breve pausa sale sul palco Josh T. Pearson che ci spiega che Calvin lo sta affiancando in un progetto che si chiamerà Two witnesses e del quale ci faranno poi ascoltare alcune canzoni.
Josh ci propone alcune canzoni dal suo album, ma stasera non sembra che si crei un grande feeling con il pubblico, che pure ascolta in perfetto silenzio ma non rapito. Pearson in questa esibizione non sembra un animale da palcoscenico; e nella sua staticità appare distaccato non solo dal pubblico ma anche da se stesso.
Segue il duetto con Calvin LeBaron e l’atmosfera da serata in parrocchia aumenta ulteriormente. I due hanno entrambi le cinte della chitarra con la croce, davanti a loro c’è un leggio che sorregge un cartone con la scritta “Two witnesses” e qualcosa che ha a che fare con il 666 e una grossa croce. Sulle loro custodie delle chitarre aperte ci sono altri due cartoni in bella vista con le scritte “Love thy god” e “Love thy neighborogh”. E tra la scelta prevalente di gospel, gli arrangiamenti molto essenziali e la voce in falsetto di Calvin, con il controcanto di Josh, un po’ di senso di alienazione diventa inevitabile.
Al termine dell’ultima canzone in scaletta Josh chiede al pubblico se vuole che canti ancora qualcosa oppure no. E qualcuno dal pubblico chiede a gran voce Honeymoon, senza essere accontentato. Pearson ci propone invece un’altra canzone da solista e poi un paio di canzoni ancora in coppia con LeBaron, concludendo con una slowed cover di I will follow him, canzone resa famosa dal film Sister act.
Che dire? Non esattamente quello che mi aspettavo, anche se devo ammettere che a tratti ho percepito il fascino di un cantante così schivo ed essenziale (in realtà parla moltissimo con il pubblico, ma in quel texano che a volte resta talmente nella sua bocca da essere incomprensibile), nonché la bellezza della sua musica.
E alla fine capisco perfettamente il significato di questo pezzo di intervista che avevo letto qualche tempo fa:
[Intervistatore]: “È una storia molto nota che sei figlio di un predicatore, che hai iniziato a suonare in chiesa, addirittura che hai pensato di diventare un predicatore tu stesso. Cosa è rimasto di questa necessità, questa attitudine, o visione, nella tua vita di artista o di normale essere umano in generale?”
[Pearson]: “Beh, credo di esserlo diventato! Voglio dire... Diffondere la buona Notizia! Lo spero! Opere buone. Nella tradizione del mio Dio, diffondo le cose buone, fare del bene. È meglio fare del bene, credere. Spero di condividere qualcosa di questo... Se è buono o è buon lavoro, stai predicando la speranza e la vita. Ci sono posti in cui le persone hanno bisogno di incoraggiamento, sai.”
Voto: 3/5
mercoledì 11 novembre 2015
Non essere cattivo
Al secondo tentativo (il primo era fallito a causa di un problema di audio del cinema) finalmente riesco a vedere l'ultimo film realizzato da Claudio Caligari (l'autore di culto di Amore tossico) prima della sua morte.
Non essere cattivo è la storia di Cesare (un irriconoscibile Luca Marinelli) e di Vittorio (Alessandro Borghi), due amici di infanzia, figli della periferia romana degli anni Ottanta e Novanta (in questo caso siamo a Ostia), una periferia disperata nella quale la droga scorreva a fiumi.
I due vivono facendo dei lavoretti poco puliti per conto di un piccolo criminale locale, Bruno, e trascorrono le loro serate sballandosi di cocaina e pasticche e poi facendo i bulli in un baretto della zona oppure rimorchiando delle ragazze.
Cesare ha perso la sorella, morta di AIDS, e vive con la madre e con la nipotina, anch'essa malata. Di Vittorio non sappiamo molto, ma certamente anche lui è uno che deve fare costantemente i conti con il dolore e la miseria.
Cesare e Vittorio sono due antieroi disperati e fragili, destinati alla sconfitta in ogni caso, sia che tentino di riscattare la propria esistenza come prova a fare Vittorio quando si innamora di Lidia, sia che continuino a vivere una vita irresponsabile e autodistruttiva come Cesare.
Caligari ci porta dentro le vite di personaggi che, sotto la loro aria spavalda e i loro modi "sbruffoni", si rivelano dolenti e teneri al contempo nel cercare disperatamente di strappare alla vita quella felicità di cui essa è stata così avara nei loro confronti.
Il film di Claudio Caligari ci fa fare un vero e proprio tuffo in un passato prossimo che sentiamo ancora fresco sulla nostra pelle, ma che il regista riporta in vita con una sincerità e una compassione rare.
I due attori sono bravissimi nel conferire a Cesare e Vittorio da un lato quei tratti di immaturità e ruvidezza che ne fanno l'espressione tipica dell'ambiente dal quale provengono e dall'altro quella vulnerabilità che fa venir voglia di abbracciarli e sottrarli a un destino inevitabile.
Il mondo di Caligari è un mondo nel quale gli uomini sono rimasti adolescenti e dell'adolescenza si portano dietro la forza e l'indissolubilità dei rapporti amicali, mentre le donne sono le uniche capaci di guardare in faccia la realtà - per quanto brutta - provando a passarci attraverso, senza però per questo riuscire a salvare da se stessi i loro figli, amanti, mariti.
Un film in cui si ride e si sorride, ma con un'amarezza di fondo che trasforma rapidamente il sorriso in lacrime di commozione.
Neppure i cattivi sono davvero cattivi in questo film. Ma non essere cattivi sul serio non è sufficiente a salvarsi.
Voto: 3,5/5
Non essere cattivo è la storia di Cesare (un irriconoscibile Luca Marinelli) e di Vittorio (Alessandro Borghi), due amici di infanzia, figli della periferia romana degli anni Ottanta e Novanta (in questo caso siamo a Ostia), una periferia disperata nella quale la droga scorreva a fiumi.
I due vivono facendo dei lavoretti poco puliti per conto di un piccolo criminale locale, Bruno, e trascorrono le loro serate sballandosi di cocaina e pasticche e poi facendo i bulli in un baretto della zona oppure rimorchiando delle ragazze.
Cesare ha perso la sorella, morta di AIDS, e vive con la madre e con la nipotina, anch'essa malata. Di Vittorio non sappiamo molto, ma certamente anche lui è uno che deve fare costantemente i conti con il dolore e la miseria.
Cesare e Vittorio sono due antieroi disperati e fragili, destinati alla sconfitta in ogni caso, sia che tentino di riscattare la propria esistenza come prova a fare Vittorio quando si innamora di Lidia, sia che continuino a vivere una vita irresponsabile e autodistruttiva come Cesare.
Caligari ci porta dentro le vite di personaggi che, sotto la loro aria spavalda e i loro modi "sbruffoni", si rivelano dolenti e teneri al contempo nel cercare disperatamente di strappare alla vita quella felicità di cui essa è stata così avara nei loro confronti.
Il film di Claudio Caligari ci fa fare un vero e proprio tuffo in un passato prossimo che sentiamo ancora fresco sulla nostra pelle, ma che il regista riporta in vita con una sincerità e una compassione rare.
I due attori sono bravissimi nel conferire a Cesare e Vittorio da un lato quei tratti di immaturità e ruvidezza che ne fanno l'espressione tipica dell'ambiente dal quale provengono e dall'altro quella vulnerabilità che fa venir voglia di abbracciarli e sottrarli a un destino inevitabile.
Il mondo di Caligari è un mondo nel quale gli uomini sono rimasti adolescenti e dell'adolescenza si portano dietro la forza e l'indissolubilità dei rapporti amicali, mentre le donne sono le uniche capaci di guardare in faccia la realtà - per quanto brutta - provando a passarci attraverso, senza però per questo riuscire a salvare da se stessi i loro figli, amanti, mariti.
Un film in cui si ride e si sorride, ma con un'amarezza di fondo che trasforma rapidamente il sorriso in lacrime di commozione.
Neppure i cattivi sono davvero cattivi in questo film. Ma non essere cattivi sul serio non è sufficiente a salvarsi.
Voto: 3,5/5
lunedì 9 novembre 2015
Cent'anni in 2 / Andrea Saraceni. Teatro dei Conciatori, 31 ottobre 2015
Ed eccomi qui al Teatro dei Conciatori, che neppure sapevo esistesse, a vedere una piccola opera teatrale che mi è stata segnalata da un'amica, Cent'anni in 2.
Il teatro è di quelli così piccoli che si è seduti a contatto strettissimo con il palco, cosa che personalmente non mi dispiace affatto.
In questo caso la scena è formata da un bancone coperto di abiti (ce ne sono anche appesi alle spalle del bancone) e una poltrona vicino a un mobiletto col telefono.
Si tratta della tintoria della nonna di Graziano, dove si svolge tutta la narrazione. Cent'anni in 2 sono quelli appunto dei due protagonisti, la nonna (Lucia Batassa) che proviene da un'altra epoca ma che dimostra un grande acume nel capire il mondo nonché una notevole apertura mentale, e Graziano (Giustiniano Alpi), che a causa della sua omosessualità ha un rapporto difficile con i suoi genitori e lavora nella tintoria della nonna in attesa di trovare lavoro.
Intorno a loro si muovono altri due personaggi, entrambi clienti della tintoria: l'amante di un Senatore (Rossella Gardini) cui la nonna cerca di raccomandare Graziano e il "ragioniere" (Vito Di Bella), un giovane imprenditore che fa la corte a Graziano e vorrebbe offrirgli un lavoro.
Ognuno di questi personaggi ha la sua storia di sofferenza individuale come tutti, e nel corso della messa in scena a ognuno verrà riservato un piccolo monologo nel quale potrà raccontarla. Ma alla fine la storia principale resta quella di Graziano, disincantato e ironico che vorrebbe arrivare un posto di lavoro con le sue forze, e la nonna, concreta e realista che pensa di poter aiutare il nipote in ben altri modi.
La sceneggiatura è certamente interessante e ben congegnata, e la messa in scena si segue gradevolmente e senza momenti di stanchezza. Alcuni momenti riescono ad essere anche coinvolgenti grazie al realismo del testo e della recitazione.
Complessivamente però non si riesce a sfuggire alla sensazione di aver assistito a una messa in scena in qualche modo amatoriale; la distanza rispetto al teatro con la T maiuscola non è poca sia sul piano recitativo che sul piano narrativo. Indubbiamente va riconosciuto il coraggio di Andrea Saraceni, che si è cimentato – oltre che con la regia - con un testo teatrale originale, nel quale i contenuti narrativi sono molteplici e densi, anche se a tratti un po' forzati, e i tempi di transizione non sempre risultano perfetti e fluidi.
E poi mi è rimasto un dubbio: ma se la pièce è ambientata ai giorni nostri e visto che nipote e nonna hanno cent'anni in due (presumibilmente 25 anni il nipote e 75 la nonna), com'è possibile che in un passaggio della sceneggiatura la nonna, incalzata da Graziano sul fatto che a suo tempo aveva fatto parte della gioventù balilla, dica di aver cambiato idea sul fascio nel '39 (ossia quando secondo i miei calcoli più o meno dovrebbe essere nata)? Forse non ho capito qualcosa?
Comunque, il teatro è certamente qualcosa di difficile, e l'alto numero di delusioni anche quando si va agli spettacoli "maggiori" lo dimostra. Per questo ben venga chi ancora investe in questo linguaggio artistico e ci prova con passione e con coraggio.
Dunque, a chi ha portato in scena questo lavoro va il mio plauso e il mio in bocca al lupo, sperando che trovino la voglia e l'entusiasmo di andare avanti e di crescere, e di riuscire nel loro sogno.
Voto: 3/5
Il teatro è di quelli così piccoli che si è seduti a contatto strettissimo con il palco, cosa che personalmente non mi dispiace affatto.
In questo caso la scena è formata da un bancone coperto di abiti (ce ne sono anche appesi alle spalle del bancone) e una poltrona vicino a un mobiletto col telefono.
Si tratta della tintoria della nonna di Graziano, dove si svolge tutta la narrazione. Cent'anni in 2 sono quelli appunto dei due protagonisti, la nonna (Lucia Batassa) che proviene da un'altra epoca ma che dimostra un grande acume nel capire il mondo nonché una notevole apertura mentale, e Graziano (Giustiniano Alpi), che a causa della sua omosessualità ha un rapporto difficile con i suoi genitori e lavora nella tintoria della nonna in attesa di trovare lavoro.
Intorno a loro si muovono altri due personaggi, entrambi clienti della tintoria: l'amante di un Senatore (Rossella Gardini) cui la nonna cerca di raccomandare Graziano e il "ragioniere" (Vito Di Bella), un giovane imprenditore che fa la corte a Graziano e vorrebbe offrirgli un lavoro.
Ognuno di questi personaggi ha la sua storia di sofferenza individuale come tutti, e nel corso della messa in scena a ognuno verrà riservato un piccolo monologo nel quale potrà raccontarla. Ma alla fine la storia principale resta quella di Graziano, disincantato e ironico che vorrebbe arrivare un posto di lavoro con le sue forze, e la nonna, concreta e realista che pensa di poter aiutare il nipote in ben altri modi.
La sceneggiatura è certamente interessante e ben congegnata, e la messa in scena si segue gradevolmente e senza momenti di stanchezza. Alcuni momenti riescono ad essere anche coinvolgenti grazie al realismo del testo e della recitazione.
Complessivamente però non si riesce a sfuggire alla sensazione di aver assistito a una messa in scena in qualche modo amatoriale; la distanza rispetto al teatro con la T maiuscola non è poca sia sul piano recitativo che sul piano narrativo. Indubbiamente va riconosciuto il coraggio di Andrea Saraceni, che si è cimentato – oltre che con la regia - con un testo teatrale originale, nel quale i contenuti narrativi sono molteplici e densi, anche se a tratti un po' forzati, e i tempi di transizione non sempre risultano perfetti e fluidi.
E poi mi è rimasto un dubbio: ma se la pièce è ambientata ai giorni nostri e visto che nipote e nonna hanno cent'anni in due (presumibilmente 25 anni il nipote e 75 la nonna), com'è possibile che in un passaggio della sceneggiatura la nonna, incalzata da Graziano sul fatto che a suo tempo aveva fatto parte della gioventù balilla, dica di aver cambiato idea sul fascio nel '39 (ossia quando secondo i miei calcoli più o meno dovrebbe essere nata)? Forse non ho capito qualcosa?
Comunque, il teatro è certamente qualcosa di difficile, e l'alto numero di delusioni anche quando si va agli spettacoli "maggiori" lo dimostra. Per questo ben venga chi ancora investe in questo linguaggio artistico e ci prova con passione e con coraggio.
Dunque, a chi ha portato in scena questo lavoro va il mio plauso e il mio in bocca al lupo, sperando che trovino la voglia e l'entusiasmo di andare avanti e di crescere, e di riuscire nel loro sogno.
Voto: 3/5
venerdì 6 novembre 2015
Chi manda le onde / Fabio Genovesi
Chi manda le onde / Fabio Genovesi. Milano: Mondadori, 2015.
Il libro di Fabio Genovesi è davvero un bel libro e non mi meraviglio affatto che abbia vinto il Premio Strega Giovani, per quanto significato possano avere ancora questi premi letterari.
La cosa migliore di Chi manda le onde sono i suoi personaggi: strampalati, folli, assurdi, sfigati, teneri, immaturi, troppo maturi, inconsapevolmente tristi, immotivatamente felici. Tutti "diversi" a loro modo, estranei al mondo, eppure così interni alla vita.
Luna è una ragazzina albina, che va in giro sempre coperta e con gli occhialoni da sole; è sorella di Luca, più grande di lei, bello, solare, surfista, grande amante del mare. Entrambi sono figli di Serena, una donna sola, bellissima e desideratissima nonostante sia vestita sempre con indumenti maschili e militari, e che ritiene di aver chiuso per sempre con gli uomini e con l'amore.
Intorno a questo nucleo familiare ruotano Zot, un ragazzo della stessa età di Luna, che viene da Chernobyl, parla come un vecchio, veste come un vecchio e ascolta le canzoni degli anni Cinquanta, in particolare adora Claudio Villa. Zot vive con Ferro, un personaggio strampalato e molto politicamente scorretto che lui chiama "nonno", di nome Ferro, ed è una via di mezzo tra un toscanaccio greve e un vecchietto acido del Far West. E poi c'è Sandro, un quarantenne che nella vita non ha combinato granché e vive ancora con i genitori, è pieno di sogni e di desideri, ma alla fine sta sempre alla finestra delle cose ed è vigliaccamente rinunciatario. Sandro passa gran parte del proprio tempo con i suoi amici altrettanto scioperati, Marino e Rambo, anche loro con vite sostanzialmente incompiute, avari e generosi al contempo, adolescenti senza fine sempre impegnati una insensata, buffa e commovente ricerca di senso.
Intorno a loro tante storie e tanti personaggi che compongono e connotano questo microcosmo che si muove tra il mare di Forte dei Marmi e le retrostanti Alpi Apuane, non meno protagonisti dei personaggi in carne e ossa.
Fabio Genovesi dà la parola in prima persona a Luna, vero fulcro attorno al quale ruota il romanzo, mentre Serena parla in seconda persona come se a parlarle fosse la sua se stessa riflessa nello specchio. Tutti gli altri sono raccontati in terza persona.
Chi manda le onde è come una brezza estiva in una giornata di afa soffocante. È un libro che fa respirare, facendoci ridere a volte e altre volte commuovendoci profondamente, soprattutto trasmettendoci il principio universalmente valido che la normalità non esiste (è un concetto puramente teorico), perché tutte le vite e tutti gli individui - che nel caso di questo libro sono volutamente surreali - guardati sufficientemente da vicino rivelano una complessità e una storia che è molto meno banale e lineare di quanto non appaia a uno sguardo superficiale, e che tutti noi abbiamo le nostre stranezze nascoste e umanissime.
E non vi rivelerò altro della trama (piena di colpi di scena e di trovate originali, forse un pochino frettolosa nell'ultima parte), ma questo libro dovete assolutamente leggerlo. Per riconciliarvi con la letteratura e un pochino anche con voi stessi e con l'umanità per quanto assurda che vi circonda. Perché se c'è una cosa che il libro di Genovesi ci insegna è ad essere compassionevoli e tolleranti innanzitutto con noi e di conseguenza anche con coloro che attraversano questa vita insieme a noi, da vicino o da lontano.
Voto: 4/5
Il libro di Fabio Genovesi è davvero un bel libro e non mi meraviglio affatto che abbia vinto il Premio Strega Giovani, per quanto significato possano avere ancora questi premi letterari.
La cosa migliore di Chi manda le onde sono i suoi personaggi: strampalati, folli, assurdi, sfigati, teneri, immaturi, troppo maturi, inconsapevolmente tristi, immotivatamente felici. Tutti "diversi" a loro modo, estranei al mondo, eppure così interni alla vita.
Luna è una ragazzina albina, che va in giro sempre coperta e con gli occhialoni da sole; è sorella di Luca, più grande di lei, bello, solare, surfista, grande amante del mare. Entrambi sono figli di Serena, una donna sola, bellissima e desideratissima nonostante sia vestita sempre con indumenti maschili e militari, e che ritiene di aver chiuso per sempre con gli uomini e con l'amore.
Intorno a questo nucleo familiare ruotano Zot, un ragazzo della stessa età di Luna, che viene da Chernobyl, parla come un vecchio, veste come un vecchio e ascolta le canzoni degli anni Cinquanta, in particolare adora Claudio Villa. Zot vive con Ferro, un personaggio strampalato e molto politicamente scorretto che lui chiama "nonno", di nome Ferro, ed è una via di mezzo tra un toscanaccio greve e un vecchietto acido del Far West. E poi c'è Sandro, un quarantenne che nella vita non ha combinato granché e vive ancora con i genitori, è pieno di sogni e di desideri, ma alla fine sta sempre alla finestra delle cose ed è vigliaccamente rinunciatario. Sandro passa gran parte del proprio tempo con i suoi amici altrettanto scioperati, Marino e Rambo, anche loro con vite sostanzialmente incompiute, avari e generosi al contempo, adolescenti senza fine sempre impegnati una insensata, buffa e commovente ricerca di senso.
Intorno a loro tante storie e tanti personaggi che compongono e connotano questo microcosmo che si muove tra il mare di Forte dei Marmi e le retrostanti Alpi Apuane, non meno protagonisti dei personaggi in carne e ossa.
Fabio Genovesi dà la parola in prima persona a Luna, vero fulcro attorno al quale ruota il romanzo, mentre Serena parla in seconda persona come se a parlarle fosse la sua se stessa riflessa nello specchio. Tutti gli altri sono raccontati in terza persona.
Chi manda le onde è come una brezza estiva in una giornata di afa soffocante. È un libro che fa respirare, facendoci ridere a volte e altre volte commuovendoci profondamente, soprattutto trasmettendoci il principio universalmente valido che la normalità non esiste (è un concetto puramente teorico), perché tutte le vite e tutti gli individui - che nel caso di questo libro sono volutamente surreali - guardati sufficientemente da vicino rivelano una complessità e una storia che è molto meno banale e lineare di quanto non appaia a uno sguardo superficiale, e che tutti noi abbiamo le nostre stranezze nascoste e umanissime.
E non vi rivelerò altro della trama (piena di colpi di scena e di trovate originali, forse un pochino frettolosa nell'ultima parte), ma questo libro dovete assolutamente leggerlo. Per riconciliarvi con la letteratura e un pochino anche con voi stessi e con l'umanità per quanto assurda che vi circonda. Perché se c'è una cosa che il libro di Genovesi ci insegna è ad essere compassionevoli e tolleranti innanzitutto con noi e di conseguenza anche con coloro che attraversano questa vita insieme a noi, da vicino o da lontano.
Voto: 4/5
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