Primo appuntamento invernale per me al Monk con questo concerto di Josh T. Pearson. Non lo conoscevo prima che questo concerto venisse annunciato, poi ho comprato il suo ultimo album Last of the country gentleman, ho visto alcune sue performance su YouTube, ho letto un po’ della sua storia in giro su Internet e mi sono detta che poteva essere un’esperienza interessante.
L’album è veramente bello; doloroso, ma bello. In quel lavoro c’è probabilmente la sintesi di questo personaggio davvero molto particolare anche fisicamente (una specie di sosia di Christian Bale con capelli lunghi e barba, anche se a Roma si è presentato con capelli e barba corti), un texano figlio di un predicatore, intorno al quale si è costruita una vera e propria aura mitica dopo l’esperienza breve ma acclamata della band Lift to experience e la recente carriera da solista, arrivata dopo un lungo periodo di pausa e di lontananza dalla scena musicale.
Ovviamente, andare ad ascoltare dal vivo un artista così è sempre una scommessa, ma credo che ne valga la pena.
Josh arriva in sala presto. Lo incontro, col suo cappellone da cowboy e vestito completamente di bianco, che fa una foto alla location con il suo cellulare. Il concerto invece inizia molto più tardi del previsto, anche perché la sala fa fatica a riempirsi. Io sono piazzata in prima fila con la mia birra e la mia macchina fotografica.
L’apertura la fa Calvin LeBaron, che è arrivato con lo stesso Pearson ed quest'ultimo in persona ad annunciare. Si tratta di un tipo decisamente particolare e credo basti da un’occhiata al suo sito web per rendersene conto. Una specie di Joaquin Cortes, però americano, che fa una musica che è una via di mezzo tra il country, il flamenco e la musica di chiesa. Lui - che porta una grossa croce sul petto - canta in buona parte in falsetto e si muove in modo particolare sul palco, cosicché il primo impatto di questa serata risulta quantomeno originale.
Dopo una breve pausa sale sul palco Josh T. Pearson che ci spiega che Calvin lo sta affiancando in un progetto che si chiamerà Two witnesses e del quale ci faranno poi ascoltare alcune canzoni.
Josh ci propone alcune canzoni dal suo album, ma stasera non sembra che si crei un grande feeling con il pubblico, che pure ascolta in perfetto silenzio ma non rapito. Pearson in questa esibizione non sembra un animale da palcoscenico; e nella sua staticità appare distaccato non solo dal pubblico ma anche da se stesso.
Segue il duetto con Calvin LeBaron e l’atmosfera da serata in parrocchia aumenta ulteriormente. I due hanno entrambi le cinte della chitarra con la croce, davanti a loro c’è un leggio che sorregge un cartone con la scritta “Two witnesses” e qualcosa che ha a che fare con il 666 e una grossa croce. Sulle loro custodie delle chitarre aperte ci sono altri due cartoni in bella vista con le scritte “Love thy god” e “Love thy neighborogh”. E tra la scelta prevalente di gospel, gli arrangiamenti molto essenziali e la voce in falsetto di Calvin, con il controcanto di Josh, un po’ di senso di alienazione diventa inevitabile.
Al termine dell’ultima canzone in scaletta Josh chiede al pubblico se vuole che canti ancora qualcosa oppure no. E qualcuno dal pubblico chiede a gran voce Honeymoon, senza essere accontentato. Pearson ci propone invece un’altra canzone da solista e poi un paio di canzoni ancora in coppia con LeBaron, concludendo con una slowed cover di I will follow him, canzone resa famosa dal film Sister act.
Che dire? Non esattamente quello che mi aspettavo, anche se devo ammettere che a tratti ho percepito il fascino di un cantante così schivo ed essenziale (in realtà parla moltissimo con il pubblico, ma in quel texano che a volte resta talmente nella sua bocca da essere incomprensibile), nonché la bellezza della sua musica.
E alla fine capisco perfettamente il significato di questo pezzo di intervista che avevo letto qualche tempo fa:
[Intervistatore]: “È una storia molto nota che sei figlio di un predicatore, che hai iniziato a suonare in chiesa, addirittura che hai pensato di diventare un predicatore tu stesso. Cosa è rimasto di questa necessità, questa attitudine, o visione, nella tua vita di artista o di normale essere umano in generale?”
[Pearson]: “Beh, credo di esserlo diventato! Voglio dire... Diffondere la buona Notizia! Lo spero! Opere buone. Nella tradizione del mio Dio, diffondo le cose buone, fare del bene. È meglio fare del bene, credere. Spero di condividere qualcosa di questo... Se è buono o è buon lavoro, stai predicando la speranza e la vita. Ci sono posti in cui le persone hanno bisogno di incoraggiamento, sai.”
Voto: 3/5
venerdì 13 novembre 2015
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