Metà di un sole giallo / Chimamanda Ngozi Adichie; trad. di Susanna Basso. Torino: Einaudi, 2016.
Dopo aver amato il suo Americanah, torno a leggere un romanzo di Chimamanda Ngozi Adichie, scrittrice nigeriana che vive tra la Nigeria e gli Stati Uniti, dove ha svolto una parte dei suoi studi.
Con Metà di un sole giallo procedo all'indietro nella sua produzione, visto che il romanzo è uscito prima di Americanah, cosicché a questo punto non mi rimane che "chiudere" con la lettura die L'ibisco viola.
Se in Americanah la storia raccontata era quella di una giovane donna nigeriana trasferitasi negli Stati Uniti prima per studio e poi per lavoro e il suo contradditorio e complesso rapporto sia con il paese di origine sia con quello di adozione, in Metà di un sole giallo l'ambientazione è completamente nigeriana.
Siamo negli anni Sessanta in Nigeria. Un primo capitolo è ambientato nei primi anni Sessanta, e un secondo capitolo nella seconda metà del decennio quando scoppia la guerra civile. Poi si ritorna nuovamente ai primi anni Sessanta e poi nuovamente all'epoca della guerra civile.
Protagonisti di questa storia sono Olanna, una giovane e bellissima donna che decide di tornare in Nigeria dopo aver studiato all'estero per amore di Odenigbo, professore all'Università di Nsukka e attivista politico, e sua sorella gemella, Kainene, donna forte e concreta, oggetto dell'amore di Richard, un cittadino britannico appassionato di Africa. Il punto di connessione tra questi personaggi è Ugwu, un giovane di modeste origini, che diventa il domestico in casa di Odenigbo, che sarà poi anche casa di Olanna.
Ognuno di loro rappresenta un modo di essere, un punto di vista sulla Nigeria e sul mondo.
Tutte queste visioni, da quelle colte e raffinate di Olanna, Odenigbo e della stessa Kainene, a quelle ingenue - seppure per motivi diversi - di Richard e Ugwu si scontreranno a un certo punto con lo scoppio della guerra civile, la tristemente nota guerra del Biafra, offrendo uno sguardo interno alla comunità igbo (cui appartengono tutti, tranne ovviamente Richard), protagonista del tentativo di secessione e di indipendenza del Biafra dalla Nigeria.
Come già era stato durante la lettura di Americanah, Chimamanda Ngozi Adichie riesce a farci entrare nella mente dei suoi personaggi - che in questo caso si alternano come protagonisti della storia e a turno raccontano il loro modo di stare e vedere gli eventi - realizzando il non facile obiettivo di empatizzare con ciascuno di essi, ed è fondamentalmente attraverso questa empatia che la scrittrice ci offre anche molti elementi conoscitivi e di documentazione, ci aiuta a mettere insieme dati e idee, per capire quanto accade.
La sua straordinaria capacità sta nell'azzerare qualunque elemento di giudizio semplicistico e nel mettere in evidenza la contradditorietà del reale. Man mano che si prosegue nella lettura è dunque inevitabile per il lettore passare da uno sguardo di contemplazione di una borghesia nigeriana che ci è in buona parte sconosciuta a una vera appropriazione dei loro sentimenti e stati d'animo che produce nel lettore un'amarezza e una sofferenza crescente, man mano che la vita di queste persone - che nel frattempo abbiamo in qualche modo imparato ad amare - viene completamente devastata materialmente e moralmente dalla guerra.
Si esce per l'ennesima volta con la convinzione che la guerra, qualunque guerra, è sempre una tragedia, per i vinti e pure per i vincitori, e lascia ferite enormi, difficili se non impossibili da sanare. In questo caso, poi, emerge potentissimo il tema del post-colonialismo, i danni che i paesi occidentali hanno fatto in territorio africano (e non solo), e che - possiamo aggiungere - continuano a fare, calpestando identità, mancando di rispetto alle culture locali, sfruttando il territorio.
Più leggo Chimamanda e più mi rendo conto della mia ignoranza su questi mondi, e mi scatta il desiderio di leggere ancora, saperne di più e possibilmente capirne di più.
Voto: 4/5
mercoledì 31 gennaio 2024
lunedì 29 gennaio 2024
The Holdovers
Ho incrociato il percorso cinematografico di Alexander Payne diverse volte, ma la mia idea di lui resta legata a uno dei primi film che ho visto della sua produzione, Sideways (in realtà prima ancora avevo visto A proposito di Schmidt che pure mi era piaciuto molto). Per me Payne è il regista di Sideways, e anche se poi ne ho visti anche altri, tra cui Paradiso amaro (invero piuttosto diverso), quando ho saputo che era uscito un suo nuovo film il mio pensiero è andato immediatamente a Sideways.
Sicuramente anche la presenza di Paul Giamatti che accomuna i due film ha contribuito a determinare la mia associazione di idee e non ho esitato un minuto ad andare a vederlo, mentre già leggevo in giro recensioni molto positive del film.
La storia è presto detta. Siamo a dicembre del 1970 e gli allievi della Barton Academy si preparano ad andare a casa per le vacanze. Come ogni anno qualche studente deve restare al college perché non ha nessuno o non può raggiungere i suoi cari e un professore viene scelto per fare babysitting agli studenti rimasti. Si ritroveranno così a trascorrere le festività insieme il professor Hunhum (Paul Giamatti), lo studente Angus (Dominic Sessa) e la cuoca Mary (Da'Vine Joy Randolph), tre persone che più diverse e più lontane non potrebbero essere, ma che condividono la medesima solitudine e hanno – seppure in modi differenti – storie dolorose alle spalle. Scopriranno a poco a poco le proprie affinità al di là delle differenze, e impareranno a volersi bene, meglio e più di una famiglia tradizionale, sostenendosi reciprocamente nelle proprie difficoltà. Soprattutto l’insegnante reietto e lo studente semi-scapestrato faranno un pezzetto di strada insieme, uscendo da questo percorso ciascuno trasformato e arricchito.
In questo mio breve commento partirò dalla confezione del film: fin dai titoli di testa si capisce che quello di Alexander Payne è un esplicito omaggio ai film dell’epoca della New Hollywood (dagli anni Sessanta agli anni Ottanta). Vintage è la grafica, la scelta della pellicola 35 mm e della sua inevitabile grana, le zoomate improvvise oggi ormai demodé. Da questo punto di vista il film è davvero apprezzabile e godibile.
Lo stesso direi della recitazione: i tre attori, Paul Giamatti, Dominic Sessa e Da'Vine Joy Randolph, nei rispettivi ruoli, fanno decisamente a gara di bravura, e sono adorabili, insopportabili e credibili al contempo.
Resta inoltre apprezzabile il tono agrodolce di Payne, la scelta del dramedy che fa sorridere e riflettere al contempo.
Cos’è che dunque non mi è piaciuto? Mi aspettavo un film in cui i sentimenti e le relazioni restassero più sottotraccia, lasciati all’interpretazione dello spettatore, un po’ come in Sideways, e invece mi ritrovo di fronte a un film che per certi versi mi è sembrato molto esplicito, a tratti quasi didascalico nel convogliare certi sentimenti ed emozioni.
Posso certamente comprendere che da Sideways siano passati vent’anni (era il 2004), e mentre l’allora quarantreenne Payne affidava all’alter ego Giamatti i sentimenti di un uomo nella fase ancora espansiva della vita, l’attuale sessantreenne Payne riporta sulla scena il suo doppio con un ruolo e una posizione completamente diversi. Non più quello di un uomo che si confronta con un suo coetaneo, ma quello di un quasi vecchio che si sta ripiegando su sé stesso, ma che nel futuro di un giovanissimo riesce a trovare ancora il senso della propria vita e del proprio sacrificio.
E sicuramente ci sta. Però a me l’incertezza di Jack e Miles (i protagonisti del film 2004) e le loro in fondo improbabili riflessioni esistenziali risultavano più interessanti e convincenti del messaggio fin troppo esplicito della sceneggiatura su cui si regge quest’ultimo film. Bello, ma secondo me non memorabile.
Voto: 3/5
Sicuramente anche la presenza di Paul Giamatti che accomuna i due film ha contribuito a determinare la mia associazione di idee e non ho esitato un minuto ad andare a vederlo, mentre già leggevo in giro recensioni molto positive del film.
La storia è presto detta. Siamo a dicembre del 1970 e gli allievi della Barton Academy si preparano ad andare a casa per le vacanze. Come ogni anno qualche studente deve restare al college perché non ha nessuno o non può raggiungere i suoi cari e un professore viene scelto per fare babysitting agli studenti rimasti. Si ritroveranno così a trascorrere le festività insieme il professor Hunhum (Paul Giamatti), lo studente Angus (Dominic Sessa) e la cuoca Mary (Da'Vine Joy Randolph), tre persone che più diverse e più lontane non potrebbero essere, ma che condividono la medesima solitudine e hanno – seppure in modi differenti – storie dolorose alle spalle. Scopriranno a poco a poco le proprie affinità al di là delle differenze, e impareranno a volersi bene, meglio e più di una famiglia tradizionale, sostenendosi reciprocamente nelle proprie difficoltà. Soprattutto l’insegnante reietto e lo studente semi-scapestrato faranno un pezzetto di strada insieme, uscendo da questo percorso ciascuno trasformato e arricchito.
In questo mio breve commento partirò dalla confezione del film: fin dai titoli di testa si capisce che quello di Alexander Payne è un esplicito omaggio ai film dell’epoca della New Hollywood (dagli anni Sessanta agli anni Ottanta). Vintage è la grafica, la scelta della pellicola 35 mm e della sua inevitabile grana, le zoomate improvvise oggi ormai demodé. Da questo punto di vista il film è davvero apprezzabile e godibile.
Lo stesso direi della recitazione: i tre attori, Paul Giamatti, Dominic Sessa e Da'Vine Joy Randolph, nei rispettivi ruoli, fanno decisamente a gara di bravura, e sono adorabili, insopportabili e credibili al contempo.
Resta inoltre apprezzabile il tono agrodolce di Payne, la scelta del dramedy che fa sorridere e riflettere al contempo.
Cos’è che dunque non mi è piaciuto? Mi aspettavo un film in cui i sentimenti e le relazioni restassero più sottotraccia, lasciati all’interpretazione dello spettatore, un po’ come in Sideways, e invece mi ritrovo di fronte a un film che per certi versi mi è sembrato molto esplicito, a tratti quasi didascalico nel convogliare certi sentimenti ed emozioni.
Posso certamente comprendere che da Sideways siano passati vent’anni (era il 2004), e mentre l’allora quarantreenne Payne affidava all’alter ego Giamatti i sentimenti di un uomo nella fase ancora espansiva della vita, l’attuale sessantreenne Payne riporta sulla scena il suo doppio con un ruolo e una posizione completamente diversi. Non più quello di un uomo che si confronta con un suo coetaneo, ma quello di un quasi vecchio che si sta ripiegando su sé stesso, ma che nel futuro di un giovanissimo riesce a trovare ancora il senso della propria vita e del proprio sacrificio.
E sicuramente ci sta. Però a me l’incertezza di Jack e Miles (i protagonisti del film 2004) e le loro in fondo improbabili riflessioni esistenziali risultavano più interessanti e convincenti del messaggio fin troppo esplicito della sceneggiatura su cui si regge quest’ultimo film. Bello, ma secondo me non memorabile.
Voto: 3/5
venerdì 26 gennaio 2024
Il flauto magico / Mozart; regia di Damiano Michieletto. Teatro dell’opera, 14 gennaio 2024
Ed eccomi qua a parlare di quelle cose di cui non sono in grado di dire niente.
So pochissimo di musica classica, e di opera ancor meno, però - curiosa come sono - negli anni mi sono buttata anche in esperienze per me in qualche modo nuove.
Non è dunque la prima volta che vado al Teatro dell'Opera di Roma, anche se l'ultima volta risale ormai a più di sette anni fa quando ero andata a vedere la Cenerentola di Rossini per la regia di Emma Dante (e quello stesso anno avevo visto a Caracalla il Barbiere di Siviglia di Rossini).
Già allora - e nello stesso modo è andata anche questa volta - la scelta era nata non tanto come scelta dell'opera in sé, quanto per la curiosità dell'allestimento da parte di una regista che seguo e apprezzo, soprattutto a teatro.
Questa volta la mia curiosità è attivata dalla regia di Damiano Michieletto, di cui ho sentito tanto parlare dalle mie amiche G. e C., ma di cui non ho mai visto niente. In più, Il flauto magico è un'opera con cui ho almeno una minima familiarità, visto che diversi anni fa ne avevo visto la versione realizzata a teatro dall'Orchestra di piazza Vittorio. A grandi linee quindi conosco la storia, e mi dicono qualcosa i nomi di Tamino, Pamina, la regina della notte, Sarastro e Papageno, ma si tratta di reminiscenze piuttosto vaghe.
La mia amica G. con cui vado a teatro mi dà qualche elemento interpretativo, e poi quando si spengono le luci mi lascio andare allo spettacolo. Michieletto sceglie di ambientare la vicenda in una scuola, identificando questa come il regno della laicità e della conoscenza, e contrapponendola al mondo della regina della notte, dove domina la fede e l'istinto. Tutta l'opera viene quindi interpretata nell'ottica di una lotta tra questi due poli, e Tamino e Pamina sono due giovanissimi ancora un po' ingenui che attraverso l'avventura che vivono diventano adulti e comprendono l'importanza della conoscenza.
Da quando la mia amica G. mi dice che quest'opera è da sempre un rompicapo per chi deve comprenderne il significato profondo e certamente al suo interno ci sono molti temi che fanno capo alla massoneria, vedo tutto in quest'ottica, ma mi sforzo ovviamente di contestualizzare e di on lasciarmi condizionare.
Sicuramente, le invenzioni registiche mi aiutano ad apprezzare quest'opera, sia in termini di scenografia che in termini di luci e movimenti sulla scena, oltre che di costumi e molte altre cose. Penso in particolare alla grande lavagna che proietta e con cui in parte interagiscono i protagonisti, e che sollevandosi dà accesso a un nuovo ambiente che è quello dove abita la regina della notte, al bosco con i grandi alberi che sembrano veri, ma anche alle azioni dei protagonisti e alle piccole grandi sorprese che riservano.
Non posso dire molto sugli interpreti: a me ignorante sembrano tutti bravissimi, ma su questo la mia opinione non conta.
Me ne torno a casa con in testa il refrain della regina della notte, e questo già mi sembra un gran risultato.
Voti non ne do, ché non mi sento proprio all'altezza in questo caso. Sento che alla prima Michieletto è stato fischiato e molte persone che conosco e che ne sanno di opera molto più di me mi dicono che non si tratta di una lettura molto riuscita, ma io mi astengo dai giudizi.
So pochissimo di musica classica, e di opera ancor meno, però - curiosa come sono - negli anni mi sono buttata anche in esperienze per me in qualche modo nuove.
Non è dunque la prima volta che vado al Teatro dell'Opera di Roma, anche se l'ultima volta risale ormai a più di sette anni fa quando ero andata a vedere la Cenerentola di Rossini per la regia di Emma Dante (e quello stesso anno avevo visto a Caracalla il Barbiere di Siviglia di Rossini).
Già allora - e nello stesso modo è andata anche questa volta - la scelta era nata non tanto come scelta dell'opera in sé, quanto per la curiosità dell'allestimento da parte di una regista che seguo e apprezzo, soprattutto a teatro.
Questa volta la mia curiosità è attivata dalla regia di Damiano Michieletto, di cui ho sentito tanto parlare dalle mie amiche G. e C., ma di cui non ho mai visto niente. In più, Il flauto magico è un'opera con cui ho almeno una minima familiarità, visto che diversi anni fa ne avevo visto la versione realizzata a teatro dall'Orchestra di piazza Vittorio. A grandi linee quindi conosco la storia, e mi dicono qualcosa i nomi di Tamino, Pamina, la regina della notte, Sarastro e Papageno, ma si tratta di reminiscenze piuttosto vaghe.
La mia amica G. con cui vado a teatro mi dà qualche elemento interpretativo, e poi quando si spengono le luci mi lascio andare allo spettacolo. Michieletto sceglie di ambientare la vicenda in una scuola, identificando questa come il regno della laicità e della conoscenza, e contrapponendola al mondo della regina della notte, dove domina la fede e l'istinto. Tutta l'opera viene quindi interpretata nell'ottica di una lotta tra questi due poli, e Tamino e Pamina sono due giovanissimi ancora un po' ingenui che attraverso l'avventura che vivono diventano adulti e comprendono l'importanza della conoscenza.
Da quando la mia amica G. mi dice che quest'opera è da sempre un rompicapo per chi deve comprenderne il significato profondo e certamente al suo interno ci sono molti temi che fanno capo alla massoneria, vedo tutto in quest'ottica, ma mi sforzo ovviamente di contestualizzare e di on lasciarmi condizionare.
Sicuramente, le invenzioni registiche mi aiutano ad apprezzare quest'opera, sia in termini di scenografia che in termini di luci e movimenti sulla scena, oltre che di costumi e molte altre cose. Penso in particolare alla grande lavagna che proietta e con cui in parte interagiscono i protagonisti, e che sollevandosi dà accesso a un nuovo ambiente che è quello dove abita la regina della notte, al bosco con i grandi alberi che sembrano veri, ma anche alle azioni dei protagonisti e alle piccole grandi sorprese che riservano.
Non posso dire molto sugli interpreti: a me ignorante sembrano tutti bravissimi, ma su questo la mia opinione non conta.
Me ne torno a casa con in testa il refrain della regina della notte, e questo già mi sembra un gran risultato.
Voti non ne do, ché non mi sento proprio all'altezza in questo caso. Sento che alla prima Michieletto è stato fischiato e molte persone che conosco e che ne sanno di opera molto più di me mi dicono che non si tratta di una lettura molto riuscita, ma io mi astengo dai giudizi.
mercoledì 24 gennaio 2024
Libia / storia di Francesca Mannocchi; sceneggiatura di Daniele Brolli; disegni di Gianluca Costantini
Libia / storia di Francesca Mannocchi; sceneggiatura di Daniele Brolli; disegni di Gianluca Costantini. Milano: Mondadori, 2019.
Sulla scia delle cose lette e viste negli ultimi tempi, e anche in relazione a quanto accade nel Mediterraneo, ho ripescato nei miei scaffali questo graphic novel che avevo comprato tempo fa e non avevo ancora letto.
Libia è un racconto in presa diretta della storia recente di questo paese così centrale rispetto alla rotta mediterranea dei migranti, basato sull'attività giornalistica di Francesca Mannocchi e sulle testimonianze di persone che vivono in Libia.
Il racconto inizia rievocando il massacro di Abu Salim, di cui personalmente non sapevo nulla. In questo carcere, in cui durante la presidenza di Gheddafi venivano rinchiusi soprattutto persone con simpatie politiche non coerenti con il governo in carica o di fede religiosa diversa da quella ufficiale, nel 1996 furono giustiziati oltre 1.200 prigionieri dei circa 1.600 che in quel momento popolavano il carcere.
Solo all'inizio degli anni Duemila i familiari - che per anni si erano presentati alle porte del carcere per portare cibo e oggetti ai loro cari - sono stati informati della loro morte, senza che mai siano state chiariti modi e circostanze.
Il massacro di Abu Salim è stato uno degli eventi da cui ha preso avvio la protesta che nel 2011 portò alla guerra civile e al rovesciamento del regime di Gheddafi, ucciso quello stesso anno a Sirte.
E questa è solo la premessa del racconto, che si concentra infatti soprattutto su quello che è avvenuto dopo e che non è meno tragico. Il proseguire della guerra civile, la spaccatura a metà del paese con due diversi leader, diversamente sostenuti a livello internazionale, lo strapotere delle milizie armate, la corruzione dilagante, l'impoverimento economico in un paese che ha risorse naturali enormi, e come conseguenza un'economia che in buona parte ruota attorno alla tratta degli esseri umani, in cui più o meno tutti sono coinvolti e di cui quasi nessuno si sente colpevole.
Nel mezzo, moltitudini di disperati che qui arrivano scappando da guerre e carestie, o semplicemente inseguendo i loro sogni, gente che rimane intrappolata in questo paese, subendo violenze e angherie di ogni tipo, e che nella migliore delle ipotesi può sperare di essere caricata su un barchino o un gommone e spedita verso Lampedusa, se mai ci arriverà.
Sullo sfondo un mondo occidentale che fa finta di non sapere e di non vedere, che fa politiche interne e internazionali che sono più fumo negli occhi per il loro elettorato che strategie effettive finalizzate ad affrontare la situazione.
E la conclusione inevitabile è che ai paesi occidentali non interessa nulla se i migranti che arrivano da ogni parte del mondo vengono sfruttati o muoiono in Libia o in Tunisia, purché non arrivino nei nostri paesi a turbare i nostri equilibri. Così come non importa nulla della situazione politica ed economica dei paesi del Nord Africa da cui i migranti tentano il salto verso l'Europa, anzi ci fanno accordi con lo scopo di ottenere il risultato di cui sopra, restando totalmente indifferenti alle condizioni interne di questi paesi.
Per chi ha visto Io capitano (da poco candidato come miglior film straniero per gli Oscar) qualcosa risuonerà, ma qui non trapela alcuna speranza, solo pessimismo e disperazione. Non una lettura semplice.
Voto: 3,5/5
Sulla scia delle cose lette e viste negli ultimi tempi, e anche in relazione a quanto accade nel Mediterraneo, ho ripescato nei miei scaffali questo graphic novel che avevo comprato tempo fa e non avevo ancora letto.
Libia è un racconto in presa diretta della storia recente di questo paese così centrale rispetto alla rotta mediterranea dei migranti, basato sull'attività giornalistica di Francesca Mannocchi e sulle testimonianze di persone che vivono in Libia.
Il racconto inizia rievocando il massacro di Abu Salim, di cui personalmente non sapevo nulla. In questo carcere, in cui durante la presidenza di Gheddafi venivano rinchiusi soprattutto persone con simpatie politiche non coerenti con il governo in carica o di fede religiosa diversa da quella ufficiale, nel 1996 furono giustiziati oltre 1.200 prigionieri dei circa 1.600 che in quel momento popolavano il carcere.
Solo all'inizio degli anni Duemila i familiari - che per anni si erano presentati alle porte del carcere per portare cibo e oggetti ai loro cari - sono stati informati della loro morte, senza che mai siano state chiariti modi e circostanze.
Il massacro di Abu Salim è stato uno degli eventi da cui ha preso avvio la protesta che nel 2011 portò alla guerra civile e al rovesciamento del regime di Gheddafi, ucciso quello stesso anno a Sirte.
E questa è solo la premessa del racconto, che si concentra infatti soprattutto su quello che è avvenuto dopo e che non è meno tragico. Il proseguire della guerra civile, la spaccatura a metà del paese con due diversi leader, diversamente sostenuti a livello internazionale, lo strapotere delle milizie armate, la corruzione dilagante, l'impoverimento economico in un paese che ha risorse naturali enormi, e come conseguenza un'economia che in buona parte ruota attorno alla tratta degli esseri umani, in cui più o meno tutti sono coinvolti e di cui quasi nessuno si sente colpevole.
Nel mezzo, moltitudini di disperati che qui arrivano scappando da guerre e carestie, o semplicemente inseguendo i loro sogni, gente che rimane intrappolata in questo paese, subendo violenze e angherie di ogni tipo, e che nella migliore delle ipotesi può sperare di essere caricata su un barchino o un gommone e spedita verso Lampedusa, se mai ci arriverà.
Sullo sfondo un mondo occidentale che fa finta di non sapere e di non vedere, che fa politiche interne e internazionali che sono più fumo negli occhi per il loro elettorato che strategie effettive finalizzate ad affrontare la situazione.
E la conclusione inevitabile è che ai paesi occidentali non interessa nulla se i migranti che arrivano da ogni parte del mondo vengono sfruttati o muoiono in Libia o in Tunisia, purché non arrivino nei nostri paesi a turbare i nostri equilibri. Così come non importa nulla della situazione politica ed economica dei paesi del Nord Africa da cui i migranti tentano il salto verso l'Europa, anzi ci fanno accordi con lo scopo di ottenere il risultato di cui sopra, restando totalmente indifferenti alle condizioni interne di questi paesi.
Per chi ha visto Io capitano (da poco candidato come miglior film straniero per gli Oscar) qualcosa risuonerà, ma qui non trapela alcuna speranza, solo pessimismo e disperazione. Non una lettura semplice.
Voto: 3,5/5
lunedì 22 gennaio 2024
Enea
Pietro Castellitto è alla seconda, attesa prova cinematografica, dopo l'ottimo successo dell'opera prima, I predatori, che io però non ho visto.
Ci arriva con la spavalderia di chi non ha paura di sognare e realizzare in grande.
Enea (lo stesso Castellitto) è il primogenito di una ricca famiglia di Roma nord: il padre Celeste (interpretato dal padre Sergio Castellitto) fa lo psicanalista, mentre la madre (Chiara Noschese) conduce un programma televisivo che parla di libri. Enea ha anche un fratello più piccolo, Simone (interpretato dal fratello minore di Pietro, Cesare Castellitto), e un migliore amico, Valentino (Giorgio Quarzo Guarascio, anche musicista con il nome di Tutti Fenomeni), che ha appena preso il brevetto come pilota di aerei da turismo.
Tutti questi personaggi si muovono all'interno degli ambienti della Roma bene, tra case e ragazze bellissime, domestici in livrea, ristoranti di livello, feste in posti esclusivi con fuochi d'artificio, e così via. Ma, nonostante e forse a causa di tutto questo, Enea e Valentino sono costantemente alla ricerca dell'adrenalina che li sollevi dal baratro depressivo al bordo del quale costantemente viaggiano. È per questo che, nell'ambito della loro ordinaria attività di spaccio di cocaina negli ambienti che frequentano, si ritrovano a un certo punto coinvolti in un affare di grandi proporzioni, nel quale sono coinvolti boss importanti della malavita locale, e - nel rischiare il tutto per tutto in esso (non per soldi, ma per pura noia) - i due ragazzi andranno incontro al loro destino.
Che film è Enea? A mio modo di vedere è una Suburra ambientata a Roma nord, "impreziosita" da echi sorrentiniani, sia a livello estetico che a livello di registro (come è evidente negli inserti grotteschi e kitsch). Si potrebbe anche dire che Enea è una visione capovolta, ma speculare de La terra dell'abbastanza dei fratelli D'Innocenzo (che tra l'altro appartengono alla stessa generazione di Castellitto figlio).
Si vede benissimo che Pietro Castellitto nel cinema ci sta a suo agio e di film ne ha macinati tanti (tra le altre cose, la scena della festa mi ha fatto pensare a quella di Chazelle in Babylon), e si capisce anche che il ragazzo ha mestiere e vuole mostrarlo quasi a tutti i costi: il film è una sequenza quasi continua di inquadrature, girato e scelte registiche originali e piene di inventiva (o quanto meno di mestiere), al limite della stucchevolezza.
Premesso che non è esattamente il mio genere di film e che c'è anche un problema di distanza generazionale, due sono gli aspetti che non mi fanno esprimere un giudizio positivo sul film: un aspetto è di matrice soggettiva - mi rendo conto - ossia il fortissimo egocentrismo/narcisismo del regista/attore protagonista, che mette sé stesso in quasi ogni inquadratura e parla di sé stesso (e della sua famiglia); il secondo invece è un elemento più oggettivo: una sceneggiatura che personalmente ho trovato a tratti fastidiosa nel suo essere pretenziosa, fin dalla prima sequenza, in cui i personaggi parlano di cose che dovrebbero essere delle alte riflessioni esistenziali e invece sono delle assolute banalità. E un po' il film da questo punto di vista procede così. Qualcuno mi fa notare che forse si tratta di un'enorme parodia, quindi un doppio salto mortale per cui si ironizza sulla presunta profondità di questi discorsi ben sapendo che sono delle banalità. Però - mi viene da dire - se tutto è parodia, niente è parodia.
In conclusione, il ragazzo è bravo (e si avvale di tante collaborazioni interessanti: Luca Guadagnino è tra i produttori del film, la colonna sonora è di Niccolò Contessa, aka I Cani), ma rischia di schiantarsi contro un muro se pensa di proseguire la sua produzione cinematografica andando a questa velocità.
Voto: 3/5
Ci arriva con la spavalderia di chi non ha paura di sognare e realizzare in grande.
Enea (lo stesso Castellitto) è il primogenito di una ricca famiglia di Roma nord: il padre Celeste (interpretato dal padre Sergio Castellitto) fa lo psicanalista, mentre la madre (Chiara Noschese) conduce un programma televisivo che parla di libri. Enea ha anche un fratello più piccolo, Simone (interpretato dal fratello minore di Pietro, Cesare Castellitto), e un migliore amico, Valentino (Giorgio Quarzo Guarascio, anche musicista con il nome di Tutti Fenomeni), che ha appena preso il brevetto come pilota di aerei da turismo.
Tutti questi personaggi si muovono all'interno degli ambienti della Roma bene, tra case e ragazze bellissime, domestici in livrea, ristoranti di livello, feste in posti esclusivi con fuochi d'artificio, e così via. Ma, nonostante e forse a causa di tutto questo, Enea e Valentino sono costantemente alla ricerca dell'adrenalina che li sollevi dal baratro depressivo al bordo del quale costantemente viaggiano. È per questo che, nell'ambito della loro ordinaria attività di spaccio di cocaina negli ambienti che frequentano, si ritrovano a un certo punto coinvolti in un affare di grandi proporzioni, nel quale sono coinvolti boss importanti della malavita locale, e - nel rischiare il tutto per tutto in esso (non per soldi, ma per pura noia) - i due ragazzi andranno incontro al loro destino.
Che film è Enea? A mio modo di vedere è una Suburra ambientata a Roma nord, "impreziosita" da echi sorrentiniani, sia a livello estetico che a livello di registro (come è evidente negli inserti grotteschi e kitsch). Si potrebbe anche dire che Enea è una visione capovolta, ma speculare de La terra dell'abbastanza dei fratelli D'Innocenzo (che tra l'altro appartengono alla stessa generazione di Castellitto figlio).
Si vede benissimo che Pietro Castellitto nel cinema ci sta a suo agio e di film ne ha macinati tanti (tra le altre cose, la scena della festa mi ha fatto pensare a quella di Chazelle in Babylon), e si capisce anche che il ragazzo ha mestiere e vuole mostrarlo quasi a tutti i costi: il film è una sequenza quasi continua di inquadrature, girato e scelte registiche originali e piene di inventiva (o quanto meno di mestiere), al limite della stucchevolezza.
Premesso che non è esattamente il mio genere di film e che c'è anche un problema di distanza generazionale, due sono gli aspetti che non mi fanno esprimere un giudizio positivo sul film: un aspetto è di matrice soggettiva - mi rendo conto - ossia il fortissimo egocentrismo/narcisismo del regista/attore protagonista, che mette sé stesso in quasi ogni inquadratura e parla di sé stesso (e della sua famiglia); il secondo invece è un elemento più oggettivo: una sceneggiatura che personalmente ho trovato a tratti fastidiosa nel suo essere pretenziosa, fin dalla prima sequenza, in cui i personaggi parlano di cose che dovrebbero essere delle alte riflessioni esistenziali e invece sono delle assolute banalità. E un po' il film da questo punto di vista procede così. Qualcuno mi fa notare che forse si tratta di un'enorme parodia, quindi un doppio salto mortale per cui si ironizza sulla presunta profondità di questi discorsi ben sapendo che sono delle banalità. Però - mi viene da dire - se tutto è parodia, niente è parodia.
In conclusione, il ragazzo è bravo (e si avvale di tante collaborazioni interessanti: Luca Guadagnino è tra i produttori del film, la colonna sonora è di Niccolò Contessa, aka I Cani), ma rischia di schiantarsi contro un muro se pensa di proseguire la sua produzione cinematografica andando a questa velocità.
Voto: 3/5
venerdì 19 gennaio 2024
Clitennestra / regia di Roberto Andò; con Isabella Ragonese. Teatro Argentina, 12 gennaio 2024
Isabella Ragonese è attrice che apprezzo molto e di cui negli ultimi anni sto seguendo la bella carriera teatrale. È per questo che non ho avuto dubbi nell'acquistare il biglietto per Clitennestra all'Argentina, pur non sapendo molto dello spettacolo se non che la regia è di Roberto Andò e più o meno qual è la storia di Clitennestra.
Scopro dunque solo arrivando all'Argentina che lo spettacolo è il risultato dell'adattamento per il teatro di un romanzo dello scrittore irlandese Colm Tóibín, La casa dei nomi, in cui - ispirandosi alle tragedie greche di Eschilo, Sofocle ed Euripide - l'autore rilegge le storie di Clitennestra, Agamennone e dei loro figli Ifigenia, Elettra e Oreste, in una chiave squisitamente umana (in cui gli dei sono praticamente assenti) nell'intento di analizzare temi universali e senza tempo, come il male, la violenza, il dolore, la vendetta. Tóibín - come emerge dal libretto di presentazione dello spettacolo - cerca nel passato e nella tragedia greca risposte alla violenza che attraversa tutta la storia umana, e che si manifesta continuamente attraverso le numerose guerre che infuriano in varie parti del mondo.
Su questa materia già complessa ci mette le mani Andò (che avevo già visto a teatro alle prese con l'adattamento del romanzo Ferito a morte di Raffaele La Capria), e sceglie di collocare questa storia in un'ambientazione senza tempo, che ha tratti che mi sento di definire post-apocalittici (o forse da seconda guerra mondiale).
Come già in Ferito a morte, Andò sceglie di strutturare la scenografia in due piani sovrapposti, in cui ricostruire scene diverse dove a volte si svolgono azioni in contemporanea, ovvero in alcuni casi ad un piano qualcuno racconta qualcosa che vediamo avvenire sull'altro piano.
Visivamente - come già era stato per Ferito a morte - lo spettacolo è molto bello: scenografia, luci, coreografie, suoni. Lamento però una scelta di enfatizzazione che mi risulta alla fine faticosa e soprattutto che non agevola l'empatia con i personaggi.
Tutto negli spettacoli di Andò è un tantino carico, e alla lunga questa cosa risulta stancante.
La Ragonese è brava e, secondo me, sta a un livello decisamente superiore agli altri, numerosi attori che si muovono sulla scena.
Però alla fine, personalmente non sono riuscita a entrare nel mood e a sentire la storia come potenzialmente "mia"; mi è rimasta estranea e, nonostante le numerose scelte registiche a effetto, sono uscita dallo spettacolo senza portarmi dietro molto.
Se tutto questo dipenda dal testo di Tóibín, dalla regia di Andò o dalla recitazione degli attori, o semplicemente da me non saprei dirlo, ma è andata così.
Voto: 2,5/5
Scopro dunque solo arrivando all'Argentina che lo spettacolo è il risultato dell'adattamento per il teatro di un romanzo dello scrittore irlandese Colm Tóibín, La casa dei nomi, in cui - ispirandosi alle tragedie greche di Eschilo, Sofocle ed Euripide - l'autore rilegge le storie di Clitennestra, Agamennone e dei loro figli Ifigenia, Elettra e Oreste, in una chiave squisitamente umana (in cui gli dei sono praticamente assenti) nell'intento di analizzare temi universali e senza tempo, come il male, la violenza, il dolore, la vendetta. Tóibín - come emerge dal libretto di presentazione dello spettacolo - cerca nel passato e nella tragedia greca risposte alla violenza che attraversa tutta la storia umana, e che si manifesta continuamente attraverso le numerose guerre che infuriano in varie parti del mondo.
Su questa materia già complessa ci mette le mani Andò (che avevo già visto a teatro alle prese con l'adattamento del romanzo Ferito a morte di Raffaele La Capria), e sceglie di collocare questa storia in un'ambientazione senza tempo, che ha tratti che mi sento di definire post-apocalittici (o forse da seconda guerra mondiale).
Come già in Ferito a morte, Andò sceglie di strutturare la scenografia in due piani sovrapposti, in cui ricostruire scene diverse dove a volte si svolgono azioni in contemporanea, ovvero in alcuni casi ad un piano qualcuno racconta qualcosa che vediamo avvenire sull'altro piano.
Visivamente - come già era stato per Ferito a morte - lo spettacolo è molto bello: scenografia, luci, coreografie, suoni. Lamento però una scelta di enfatizzazione che mi risulta alla fine faticosa e soprattutto che non agevola l'empatia con i personaggi.
Tutto negli spettacoli di Andò è un tantino carico, e alla lunga questa cosa risulta stancante.
La Ragonese è brava e, secondo me, sta a un livello decisamente superiore agli altri, numerosi attori che si muovono sulla scena.
Però alla fine, personalmente non sono riuscita a entrare nel mood e a sentire la storia come potenzialmente "mia"; mi è rimasta estranea e, nonostante le numerose scelte registiche a effetto, sono uscita dallo spettacolo senza portarmi dietro molto.
Se tutto questo dipenda dal testo di Tóibín, dalla regia di Andò o dalla recitazione degli attori, o semplicemente da me non saprei dirlo, ma è andata così.
Voto: 2,5/5
mercoledì 17 gennaio 2024
Andreas Gursky. Visual spaces of today. Bologna, Fondazione MAST, 31 dicembre 2023
In questo ultimo giorno del 2023 approfittiamo dell'apertura del MAST fino alle 17 per vedere in corner la mostra di Andreas Gursky.
Personalmente non conoscevo Gursky, e solo dopo aver deciso di andare a vedere questa mostra ho raccolto qualche informazione su di lui.
Artista tedesco, nato a Lipsia nel 1955, allievo di Bernd e Hilla Becker, Gursky è noto soprattutto per le sue fotografie di grande formato, che spesso - anche grazie agli interventi in postproduzione - indagano sulla contemporaneità, e in particolare sul turbocapitalismo, sul paesaggio nell'antropocene, sulle moltitudini, sulla globalizzazione, e lo fa spesso ingaggiando una specie di sfida visuale con lo spettatore.
Si va così dalla fotografia delle saline di Ibiza a quella delle colline delle Alpi della Alta Provenza ricoperte di pannelli solari, dalla straordinaria immagine del pit stop a quella delle corsie di un negozio 99 cent, dalla fotografia di un deposito Amazon a quella del paesaggio di serre per orticoltura in Spagna, dalla scena ipnotica nella discoteca di Francoforte a quella optical dei tulipani ripresi col drone.
Quasi tutte le fotografie di Gursky sono il risultato di forme di interpolazione, sovrapposizione tra più immagini, interventi in postproduzione, che però non sono mai fini a sé stessi, in quanto producono un impatto rilevante e uno specifico significato sullo spettatore, indotto così a riflettere su concetti e temi che la fotografia semplice non riuscirebbe a produrre.
Una bellissima scoperta e una interessantissima mostra.
Voto: 3,5/5
Personalmente non conoscevo Gursky, e solo dopo aver deciso di andare a vedere questa mostra ho raccolto qualche informazione su di lui.
Artista tedesco, nato a Lipsia nel 1955, allievo di Bernd e Hilla Becker, Gursky è noto soprattutto per le sue fotografie di grande formato, che spesso - anche grazie agli interventi in postproduzione - indagano sulla contemporaneità, e in particolare sul turbocapitalismo, sul paesaggio nell'antropocene, sulle moltitudini, sulla globalizzazione, e lo fa spesso ingaggiando una specie di sfida visuale con lo spettatore.
Nella mostra del MAST, organizzata in occasione dei 10 anni della Fondazione, il curatore Urs Stahel ha scelto insieme allo stesso Gursky 40 fotografie in tutta la produzione dell'artista, dai primi lavori a quelli più recenti, con una prevalenza delle immagini di grande formato cui si alternano fotografie di minori dimensioni, ma sempre coerenti sul piano dei contenuti.
Noi nella foto dei tulipani |
Quasi tutte le fotografie di Gursky sono il risultato di forme di interpolazione, sovrapposizione tra più immagini, interventi in postproduzione, che però non sono mai fini a sé stessi, in quanto producono un impatto rilevante e uno specifico significato sullo spettatore, indotto così a riflettere su concetti e temi che la fotografia semplice non riuscirebbe a produrre.
Una bellissima scoperta e una interessantissima mostra.
Voto: 3,5/5
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lunedì 15 gennaio 2024
Fotofinish / Antonio Rezza e Flavia Mastrella. Teatro Vascello, 20 dicembre 2023
Quest'anno la premiata coppia Rezza-Mastrella ha scelto di offrire al pubblico del Vascello una vera e propria full immersion nella propria dimensione teatrale, portando in scena in sequenza tre spettacoli, Amistade, Fotofinish e Hybris.
Con la mia amica F. prendiamo il biglietto per Fotofinish che non abbiamo mai visto, anche se mi rendo conto che gli spettacoli di Rezza e Mastrella si potrebbero vedere anche più volte con immutata soddisfazione e nuove sensazioni.
L'allestimento del palco è molto bello e la particolarità è una specie di scivolo bianco montato sulla scala che si trova tra le due ali dei sedili degli spettatori. Noi abbiamo i posti proprio accanto allo scivolo, in seconda fila, e quando ce ne rendiamo conto cominciamo a temere perché sappiamo che Rezza, nella sua totale imprevedibilità, può in qualche modo coinvolgerci nello spettacolo.
Come sempre accade con gli spettacoli di Rezza-Mastrella, è molto difficile dire quale sia la trama. Si tratta di spettacoli che sono costruiti al punto di incontro tra la fisicità di Antonio Rezza, che continua ad andare avanti e indietro sul palco, su e giù sullo scivolo, in mezzo agli spettatori, a travestirsi e svestirsi con gli elementi della scenografia, a fare facce ed espressioni incredibili, e un flusso ininterrotto di parole e di immagini che oscillano tra il nonsense, l'esilarante, il comico, il sacrilego, il politicamente scorretto e il crudele.
Negli spettacoli di Rezza-Mastrella si parla di religione, di sessualità, di libertà, di relazioni, di famiglia, e anche di politica, e lo si fa senza peli sulla lingua, creando collegamenti impossibili tra le cose e immagini mentali che fanno sbellicare o raccapricciare a seconda dei casi.
A un certo punto Rezza comincia a giocare col pubblico, prendendo di mira alcune persone, ovvero coinvolgendole, tra le resistenze e le reazioni più o meno terrorizzate delle persone. A un certo punto le persone vengono portate sul palco, mentre i loro cappotti e giacche vengono lanciate in platea, e io comincio a temere. Metto la giacca per terra e di lì a poco vengo trascinata pure io sul palco, dove tutti noi veniamo "giustiziati" e finiamo per terra morti. E mentre il palco è pieno di persone "morte" lo spettacolo continua e ci ritroviamo al punto che Rezza e il co-protagonista Armando toccano le chiappe di chi è a terra, comprese le mie!!
Al termine dello spettacolo usciamo ridendo con quel po' di sconcerto che è tipico di questi spettacoli e che in fondo è la cosa che li rende unici.
Esperienza difficile da descrivere e che secondo me va vissuta almeno una volta nella vita.
Voto: 3,5/5
Voto: 3,5/5
venerdì 12 gennaio 2024
Il ragazzo e l'airone
Dopo 10 anni da quello che avrebbe dovuto essere l'ultimo film di Hayao Miyazaki, il regista giapponese - ormai ottantaduenne - torna al cinema con questo nuovo film, Il ragazzo e l'airone, che attinge alla sua lunga carriera e sembra auspicare una sorta di passaggio di testimone.
Protagonista di questo racconto è Mahito, un ragazzino che, a causa dei bombardamenti della seconda guerra mondiale, perde la madre nell'incendio dell'ospedale dove si trovava.
Pochi anni dopo, il padre si sposa con la sorella minore della madre, Natsuko, che è anche incinta, e Mahito si trasferisce con il padre nella casa di famiglia dove lei vive.
Qui Mahito - che fa fatica a elaborare il lutto e ad accettare il cambiamento - fa subito amicizia con uno strano airone parlante ed è incuriosito da una torre abbandonata che si trova nella proprietà. Avventurandosi nella torre, il ragazzino si troverà in un mondo altro, parallelo e magico, dove farà molti incontri importanti e capirà molte cose, fino a quando farà ritorno nel suo mondo, cambiato e non più bambino.
Siamo dunque in una "classica" storia di coming of age, che si realizza attraverso la complessa elaborazione di un lutto e la difficoltosa accettazione di un cambiamento e di un passaggio di consegne, cose che hanno molto a che fare anche con il Miyazaki di oggi.
Tutto questo si sviluppa all'interno di una narrazione che - com'è tipico di Miyazaki - non è lineare né razionale, in cui l'elemento magico, fantastico e immaginifico è onnipresente, e spesso sfugge a qualunque tentativo di lettura e interpretazione.
In questo mondo altro, che è un po' Ade e un po' mondo che contiene tutti i tempi e tutti i mondi (una specie di multiverso miyazakiano), confluiscono tante suggestioni presenti nei lavori precedenti del maestro (in particolare Il mio vicino Totoro e La città incantata), ma si percepisce qualcosa di profondamente diverso.
Il ragazzo e l'airone è il film di un uomo anziano il cui immaginario è ancora quello di un bambino, ma i cui pensieri sono quelli di qualcuno che sa di avvicinarsi alla fine della vita.
E così, - come molti altri hanno scritto - questo è certamente un film-testamento, e forse proprio per questo è un film che è riduttivo definire malinconico, bensì definirei piuttosto cupo e quasi privo di speranza.
Un film in cui il piano narrativo per i bambini è ancora più minimale che in altri film di Miyazaki, ma anche il piano narrativo più complesso e stratificato non può essere propriamente definito per adulti, o quantomeno non per adulti di cultura occidentale.
I commenti sarcastici di un gruppo di giovani che commenta il film all'uscita dal cinema mi conferma il fatto che Il ragazzo e l'airone sfugge a qualsiasi classificazione e prende una strada che spiazza chiunque.
Personalmente l'ho interpretato come il film di un uomo che si sente sempre più estraneo al presente e per questo si rifugia nel passato e nei ricordi, e che sente non lontana la fine della vita, una vita a cui cerca in qualche modo di trovare un senso sapendo che il cambiamento è inevitabile e il passaggio di testimone non è scontato e forse illusorio, nella constatazione che l'unica realtà parzialmente controllabile è quella che costruisce con la sua fantasia.
Io ho vissuto la visione de Il ragazzo e l'airone come un'altalena di stati d'animo, tra tenerezza, divertimento, noia, stanchezza, adrenalina, perplessità, fino ad arrivare a una fine in fondo un po' improvvisa e forse fin troppo sintetica, come dopo un sogno pieno di mille cose che per un po' ci rimane dentro ma che in parte facciamo fatica a capire.
E in fondo - proprio come ai sogni - ai film di Miyazaki ci si può solo consegnare e abbandonarsi.
Voto: 3,5/5
Protagonista di questo racconto è Mahito, un ragazzino che, a causa dei bombardamenti della seconda guerra mondiale, perde la madre nell'incendio dell'ospedale dove si trovava.
Pochi anni dopo, il padre si sposa con la sorella minore della madre, Natsuko, che è anche incinta, e Mahito si trasferisce con il padre nella casa di famiglia dove lei vive.
Qui Mahito - che fa fatica a elaborare il lutto e ad accettare il cambiamento - fa subito amicizia con uno strano airone parlante ed è incuriosito da una torre abbandonata che si trova nella proprietà. Avventurandosi nella torre, il ragazzino si troverà in un mondo altro, parallelo e magico, dove farà molti incontri importanti e capirà molte cose, fino a quando farà ritorno nel suo mondo, cambiato e non più bambino.
Siamo dunque in una "classica" storia di coming of age, che si realizza attraverso la complessa elaborazione di un lutto e la difficoltosa accettazione di un cambiamento e di un passaggio di consegne, cose che hanno molto a che fare anche con il Miyazaki di oggi.
Tutto questo si sviluppa all'interno di una narrazione che - com'è tipico di Miyazaki - non è lineare né razionale, in cui l'elemento magico, fantastico e immaginifico è onnipresente, e spesso sfugge a qualunque tentativo di lettura e interpretazione.
In questo mondo altro, che è un po' Ade e un po' mondo che contiene tutti i tempi e tutti i mondi (una specie di multiverso miyazakiano), confluiscono tante suggestioni presenti nei lavori precedenti del maestro (in particolare Il mio vicino Totoro e La città incantata), ma si percepisce qualcosa di profondamente diverso.
Il ragazzo e l'airone è il film di un uomo anziano il cui immaginario è ancora quello di un bambino, ma i cui pensieri sono quelli di qualcuno che sa di avvicinarsi alla fine della vita.
E così, - come molti altri hanno scritto - questo è certamente un film-testamento, e forse proprio per questo è un film che è riduttivo definire malinconico, bensì definirei piuttosto cupo e quasi privo di speranza.
Un film in cui il piano narrativo per i bambini è ancora più minimale che in altri film di Miyazaki, ma anche il piano narrativo più complesso e stratificato non può essere propriamente definito per adulti, o quantomeno non per adulti di cultura occidentale.
I commenti sarcastici di un gruppo di giovani che commenta il film all'uscita dal cinema mi conferma il fatto che Il ragazzo e l'airone sfugge a qualsiasi classificazione e prende una strada che spiazza chiunque.
Personalmente l'ho interpretato come il film di un uomo che si sente sempre più estraneo al presente e per questo si rifugia nel passato e nei ricordi, e che sente non lontana la fine della vita, una vita a cui cerca in qualche modo di trovare un senso sapendo che il cambiamento è inevitabile e il passaggio di testimone non è scontato e forse illusorio, nella constatazione che l'unica realtà parzialmente controllabile è quella che costruisce con la sua fantasia.
Io ho vissuto la visione de Il ragazzo e l'airone come un'altalena di stati d'animo, tra tenerezza, divertimento, noia, stanchezza, adrenalina, perplessità, fino ad arrivare a una fine in fondo un po' improvvisa e forse fin troppo sintetica, come dopo un sogno pieno di mille cose che per un po' ci rimane dentro ma che in parte facciamo fatica a capire.
E in fondo - proprio come ai sogni - ai film di Miyazaki ci si può solo consegnare e abbandonarsi.
Voto: 3,5/5
mercoledì 10 gennaio 2024
L'interpretazione dei sogni / di e con Stefano Massini. Teatro Argentina, 16 dicembre 2023
Stefano Massini è autore ormai riconosciuto ampiamente non solo a livello nazionale, bensì anche internazionale. I suoi testi sono alla base di numerose opere teatrali e cinematografiche, e possono essere apprezzate anche attraverso una lettura diretta dei libri a sua firma.
Io stessa ho incrociato i suoi testi molte volte nel corso del testo, apprezzandoli più o meno a seconda dei casi, ma sempre riconoscendogli grandi qualità narrative.
Nel 2019 per la prima volta ho avuto l'occasione di ascoltarlo dal vivo a teatro con lo spettacolo Magari ci fosse una parola per dirlo ispirato al suo libro Diario inesistente, e sono rimasta molto favorevolmente colpita. All'interesse per le storie piccole e grandi raccontate, Massini aggiunge le sue straordinarie qualità di affabulatore e raccontastorie che producono il mix perfetto.
Così, a distanza di qualche anno dal mio ultimo contatto con lui - e dopo che il suo successo è cresciuto esponenzialmente -, lo ritrovo in uno spettacolo teatrale nientedimenoche al Teatro Argentina, L'interpretazione dei sogni, anche questo tratto da un suo libro, L'interpretatore di sogni, frutto della sua ricerca sul personaggio di Sigmund Freud.
Mentre a suo tempo l'avevo ascoltato raccontare storie su un palco vuoto e conquistare il pubblico con la sola forza della narrazione, a questo giro il prodotto si è fatto molto più articolato. Lo spettacolo è accompagnato da musicisti che suonano dal vivo, c'è una scenografia importante in cui sul fondo del palcoscenico vengono proiettate immagini statiche o in movimento su cui domina un occhio, si utilizzano costumi e oggetti di scena. Lo stesso Massini non è solo uno che racconta su un palco, ma si trasforma in interprete e attore, mettendo in evidenza qualità che di lui personalmente ancora non conoscevo.
Il risultato è uno spettacolo sontuoso e accattivante, in cui l'abilità narrativa dell'autore viene potenziata dall'apparato teatrale, comprensiva della recitazione dello stesso Massini.
Non posso dire che esco dal teatro scontenta: tra l'altro lo spettacolo sta riscuotendo un enorme successo al punto che è stata programmata una replica straordinaria che lo stesso Massini annuncia orgogliosamente dal palco al termine dello spettacolo.
Però - lo so, sono una rompiscatole - a me Massini piaceva nella sua versione semplificata, quella che tirava fuori dal cassetto storie spesso piccole e sconosciute, che collegava gli eventi, che creava interesse a partire quasi dal nulla.
Questo Massini in grande stile mi risulta invece meno interessante, forse anche perché a questo punto molto più simile ad altri prodotti teatrali.
Infine, non posso non esprimere un certo qual fastidio per quello che secondo me è ormai un abuso dello storytelling o quanto modo di un certo modo (secondo me molto americano) di fare storytelling. Se ogni racconto inizia con cose tipo "Era una notte buia e tempestosa, e..." oppure "18 dicembre 1892: il signor X stava uscendo di casa per andare..." alla quarta o quinta volta per me diventa stucchevole. Ogni tanto ho la sensazione che questa cosa dello storytelling ci abbia preso un po' troppo la mano, e personalmente attendo - invero un po' impaziente - che la moda passi un po' e che si ritorni ad un approccio più equilibrato, in cui si trovino modi vari e diversi per catturare l'attenzione del pubblico.
Voto: 3/5
Io stessa ho incrociato i suoi testi molte volte nel corso del testo, apprezzandoli più o meno a seconda dei casi, ma sempre riconoscendogli grandi qualità narrative.
Nel 2019 per la prima volta ho avuto l'occasione di ascoltarlo dal vivo a teatro con lo spettacolo Magari ci fosse una parola per dirlo ispirato al suo libro Diario inesistente, e sono rimasta molto favorevolmente colpita. All'interesse per le storie piccole e grandi raccontate, Massini aggiunge le sue straordinarie qualità di affabulatore e raccontastorie che producono il mix perfetto.
Così, a distanza di qualche anno dal mio ultimo contatto con lui - e dopo che il suo successo è cresciuto esponenzialmente -, lo ritrovo in uno spettacolo teatrale nientedimenoche al Teatro Argentina, L'interpretazione dei sogni, anche questo tratto da un suo libro, L'interpretatore di sogni, frutto della sua ricerca sul personaggio di Sigmund Freud.
Mentre a suo tempo l'avevo ascoltato raccontare storie su un palco vuoto e conquistare il pubblico con la sola forza della narrazione, a questo giro il prodotto si è fatto molto più articolato. Lo spettacolo è accompagnato da musicisti che suonano dal vivo, c'è una scenografia importante in cui sul fondo del palcoscenico vengono proiettate immagini statiche o in movimento su cui domina un occhio, si utilizzano costumi e oggetti di scena. Lo stesso Massini non è solo uno che racconta su un palco, ma si trasforma in interprete e attore, mettendo in evidenza qualità che di lui personalmente ancora non conoscevo.
Il risultato è uno spettacolo sontuoso e accattivante, in cui l'abilità narrativa dell'autore viene potenziata dall'apparato teatrale, comprensiva della recitazione dello stesso Massini.
Non posso dire che esco dal teatro scontenta: tra l'altro lo spettacolo sta riscuotendo un enorme successo al punto che è stata programmata una replica straordinaria che lo stesso Massini annuncia orgogliosamente dal palco al termine dello spettacolo.
Però - lo so, sono una rompiscatole - a me Massini piaceva nella sua versione semplificata, quella che tirava fuori dal cassetto storie spesso piccole e sconosciute, che collegava gli eventi, che creava interesse a partire quasi dal nulla.
Questo Massini in grande stile mi risulta invece meno interessante, forse anche perché a questo punto molto più simile ad altri prodotti teatrali.
Infine, non posso non esprimere un certo qual fastidio per quello che secondo me è ormai un abuso dello storytelling o quanto modo di un certo modo (secondo me molto americano) di fare storytelling. Se ogni racconto inizia con cose tipo "Era una notte buia e tempestosa, e..." oppure "18 dicembre 1892: il signor X stava uscendo di casa per andare..." alla quarta o quinta volta per me diventa stucchevole. Ogni tanto ho la sensazione che questa cosa dello storytelling ci abbia preso un po' troppo la mano, e personalmente attendo - invero un po' impaziente - che la moda passi un po' e che si ritorni ad un approccio più equilibrato, in cui si trovino modi vari e diversi per catturare l'attenzione del pubblico.
Voto: 3/5
lunedì 8 gennaio 2024
Il giorno in cui mio padre mi ha insegnato ad andare in bicicletta / con Valerio Aprea. Teatro India, 15 dicembre 2023
Valerio Aprea, più volte attore per Mattia Torre e da me attenzionato proprio per questo, mi piace molto e ormai da parecchio tempo.
Di Sandro Bonvissuto, invece, non ne conoscevo l'esistenza fino a un po' di mesi fa, quando la mia amica e collega L. mi ha regalato il libro La gioia fa parecchio rumore. E lì ho scoperto questo cameriere/scrittore che incarna in qualche modo la parte migliore della romanità. Il romanzo, che racconta il coming of age di un ragazzino che cresce in una famiglia di romanisti sfegatati, è un condensato di romanità, ma - come dicevo - quella buona, che fa sorridere ma anche riflettere.
Quando ho visto che nell'ambito del festival Flautissimo era previsto lo spettacolo Il giorno in cui mio padre mi ha insegnato ad andare in bicicletta, tratto appunto da un racconto di Sandro Bonvissuto e interpretato da Valerio Aprea non me lo sono fatto sfuggire.
Si tratta sostanzialmente di un reading in cui tutto è affidato alla bontà del testo di Bonvissuto e alla qualità della recitazione di Aprea.
È il racconto di alcuni giorni di un'estate di molti anni prima, quella in cui il narratore era ancora bambino ed era uno dei pochi del gruppetto di ragazzini con cui giocava a non saper ancora andare in bicicletta. Nelle parole di Bonvissuto si respira l'aria di quei giorni, si visualizzano le situazioni come guardando un film, e si percepiscono chiaramente sentimenti, pensieri e sensazioni che attraversano il protagonista.
Questa seconda esperienza con un testo di Bonvissuto mi conferma la capacità dello scrittore di restituire in particolare il vissuto dell'infanzia, rendendo vividi stati d'animo che per tutti noi sono ormai lontani nel tempo.
A questa dote specifica dell'autore si unisce, amplificando il risultato, la recitazione di Valerio Aprea, che con la voce e i gesti conferisce alle parole una tridimensionalità tale da rendere ancora più forte la sensazione di stare osservando la scena, e non solo di ascoltarla.
L'esperienza è nel complesso molto interessante e apprezzabile, in un panorama in cui per gente come me che vede tantissimo a teatro è sempre più difficile uscire dalla sala davvero soddisfatti.
Voto: 3,5/5
Di Sandro Bonvissuto, invece, non ne conoscevo l'esistenza fino a un po' di mesi fa, quando la mia amica e collega L. mi ha regalato il libro La gioia fa parecchio rumore. E lì ho scoperto questo cameriere/scrittore che incarna in qualche modo la parte migliore della romanità. Il romanzo, che racconta il coming of age di un ragazzino che cresce in una famiglia di romanisti sfegatati, è un condensato di romanità, ma - come dicevo - quella buona, che fa sorridere ma anche riflettere.
Quando ho visto che nell'ambito del festival Flautissimo era previsto lo spettacolo Il giorno in cui mio padre mi ha insegnato ad andare in bicicletta, tratto appunto da un racconto di Sandro Bonvissuto e interpretato da Valerio Aprea non me lo sono fatto sfuggire.
Si tratta sostanzialmente di un reading in cui tutto è affidato alla bontà del testo di Bonvissuto e alla qualità della recitazione di Aprea.
È il racconto di alcuni giorni di un'estate di molti anni prima, quella in cui il narratore era ancora bambino ed era uno dei pochi del gruppetto di ragazzini con cui giocava a non saper ancora andare in bicicletta. Nelle parole di Bonvissuto si respira l'aria di quei giorni, si visualizzano le situazioni come guardando un film, e si percepiscono chiaramente sentimenti, pensieri e sensazioni che attraversano il protagonista.
Questa seconda esperienza con un testo di Bonvissuto mi conferma la capacità dello scrittore di restituire in particolare il vissuto dell'infanzia, rendendo vividi stati d'animo che per tutti noi sono ormai lontani nel tempo.
A questa dote specifica dell'autore si unisce, amplificando il risultato, la recitazione di Valerio Aprea, che con la voce e i gesti conferisce alle parole una tridimensionalità tale da rendere ancora più forte la sensazione di stare osservando la scena, e non solo di ascoltarla.
L'esperienza è nel complesso molto interessante e apprezzabile, in un panorama in cui per gente come me che vede tantissimo a teatro è sempre più difficile uscire dalla sala davvero soddisfatti.
Voto: 3,5/5
venerdì 5 gennaio 2024
L'ammore nun'è ammore / di e con Lino Musella. Teatro Vascello, 3 dicembre 2023
Lino Musella è attore che va crescendo progressivamente nella mia considerazione man mano che vedo suoi spettacoli a teatro.
Con questo spettacolo - che scopro essere in giro già da diversi anni con grande successo - Musella si cimenta in quella che potrebbe sembrare un'impresa impossibile: portare in scena 30 sonetti shakespeariani, tradotti in napoletano da Dario Jacobelli, scrittore e poeta napoletano scomparso prematuramente nel 2013.
Jacobelli si cimentò in questo lavoro di traduzione quasi per gioco, senza una finalità editoriale, ma con l'idea di dedicare e regalare via via ciascuna traduzione a un amico o a qualcuno della sua cerchia.
Lino Musella ce li propone tutti di seguito, accompagnato sul palco dalle musiche di Marco Vidino. L'attore napoletano fa un grande lavoro di diversificazione per rendere lo spettacolo il più mosso possibile: si sposta sul palco, si traveste, cambia completamente i toni, interagisce con il musicista, sale su un palco sopraelevato, va in mezzo al pubblico, compare sulla balconata che aggetta sulla platea, gioca con gli spettatori come quando cammina tra le file bendato o quando recita dei sonetti sottovoce per un'unica persona a cui affida l'estremità di un tubo.
Insomma, quello che poteva essere uno spettacolo piatto e forse noioso diventa un'occasione continua di scoperta e una fonte inesauribile di curiosità.
Al centro di tutto ci sono ovviamente i testi di questi sonetti, che ruotano in buona parte intorno al tema dell'amore, delle sue gioie e delle sue pene, ma anche intorno alla tematica del tempo e al ruolo della poesia come strumento capace di donare l'immortalità sia al poeta che le scrive sia all'amato cui si rivolge.
Non sono in grado di fare un confronto erudito tra gli originali shakespeariani e le traduzioni in napoletano, in quanto non conosco quasi per nulla la materia prima. Dunque faccio anche fatica a cogliere e di conseguenza a verbalizzare la differente percezione ed effetto prodotti dai sonetti originali e in napoletano.
Quello che ho pensato, mentre ascoltavo Lino Musella, è che - se non avessi saputo che si trattava dei sonetti di Shakespeare - avrei pensato a poesie napoletane originali, nate dal mondo e dalla cultura napoletani, il che è sorprendente se si pensa qual è la reale origine di questi testi.
Non so se ciò dipenda dalla versatilità e universalità dei versi del Bardo oppure dalla forza identitaria della lingua napoletana. Il risultato però è molto interessante.
Voto: 3,5/5
Con questo spettacolo - che scopro essere in giro già da diversi anni con grande successo - Musella si cimenta in quella che potrebbe sembrare un'impresa impossibile: portare in scena 30 sonetti shakespeariani, tradotti in napoletano da Dario Jacobelli, scrittore e poeta napoletano scomparso prematuramente nel 2013.
Jacobelli si cimentò in questo lavoro di traduzione quasi per gioco, senza una finalità editoriale, ma con l'idea di dedicare e regalare via via ciascuna traduzione a un amico o a qualcuno della sua cerchia.
Lino Musella ce li propone tutti di seguito, accompagnato sul palco dalle musiche di Marco Vidino. L'attore napoletano fa un grande lavoro di diversificazione per rendere lo spettacolo il più mosso possibile: si sposta sul palco, si traveste, cambia completamente i toni, interagisce con il musicista, sale su un palco sopraelevato, va in mezzo al pubblico, compare sulla balconata che aggetta sulla platea, gioca con gli spettatori come quando cammina tra le file bendato o quando recita dei sonetti sottovoce per un'unica persona a cui affida l'estremità di un tubo.
Insomma, quello che poteva essere uno spettacolo piatto e forse noioso diventa un'occasione continua di scoperta e una fonte inesauribile di curiosità.
Al centro di tutto ci sono ovviamente i testi di questi sonetti, che ruotano in buona parte intorno al tema dell'amore, delle sue gioie e delle sue pene, ma anche intorno alla tematica del tempo e al ruolo della poesia come strumento capace di donare l'immortalità sia al poeta che le scrive sia all'amato cui si rivolge.
Non sono in grado di fare un confronto erudito tra gli originali shakespeariani e le traduzioni in napoletano, in quanto non conosco quasi per nulla la materia prima. Dunque faccio anche fatica a cogliere e di conseguenza a verbalizzare la differente percezione ed effetto prodotti dai sonetti originali e in napoletano.
Quello che ho pensato, mentre ascoltavo Lino Musella, è che - se non avessi saputo che si trattava dei sonetti di Shakespeare - avrei pensato a poesie napoletane originali, nate dal mondo e dalla cultura napoletani, il che è sorprendente se si pensa qual è la reale origine di questi testi.
Non so se ciò dipenda dalla versatilità e universalità dei versi del Bardo oppure dalla forza identitaria della lingua napoletana. Il risultato però è molto interessante.
Voto: 3,5/5
mercoledì 3 gennaio 2024
La gioia fa parecchio rumore / Sandro Bonvissuto
La gioia fa parecchio rumore / Sandro Bonvissuto. Torino: Einaudi, 2020.
Non credo che avrei mai comprato di mia iniziativa un libro che sulla copertina porta un disegno rappresentante Paulo Roberto Falcão che esulta dopo un gol. Ma la mia amica e collega L. me lo regala dicendomi che non l'avrebbe mai preso in considerazione neanche lei se non le fosse stato suggerito da una persona di cui si fida e che, dopo averlo letto in prima persona, mi può dire che non è un libro sul calcio - di cui neanche a lei frega nulla - ma sulla quintessenza della romanità, quella buona.
Sandro Bonvissuto, scrittore e cameriere, ci racconta questa romanità attraverso un punto di vista specifico, quello di un ragazzino che vive in una famiglia di romanisti e che a sua volta sviluppa un amore sconfinato per la squadra della Roma. Siamo nei primi anni Ottanta, e quel ragazzino che parla in prima persona del suo rapporto con la Roma potrebbe essere lo stesso scrittore, ma - come è tipico della scrittura - è anche qualcosa d'altro e di diverso.
Il mondo del protagonista ragazzino è quello in cui le donne preparano panini e contengono le esagerazioni maschili relativamente alla passione per il calcio, il padre e lo Zio sono i compari di tutte le avventure calcistiche, i vicini e gli amici romanisti sono la "nostra gente", Barabba è uno che vive alle propaggini della società civile, ma si rivela un filosofo e un uomo di cultura.
La narrazione si incentra su un momento topico della storia della AS Roma, quello dell'arrivo di Falcão fino all'impensabile sogno della vittoria dello scudetto.
Dentro c'è l'amore per una squadra, ma c'è anche l'amore per una città e per la sua filosofia di vita, fatta di ironia, autoironia, scaramanzia, malinconia, capacità di adattamento e fedeltà, che sono poi le medesime caratteristiche che vanno a formare l'amore per la squadra giallorossa. Il rapporto dei romani con la città e con la squadra della Roma è qualcosa di unico al mondo, perché in entrambi i casi - città e squadra - parliamo di realtà con cui non è sempre tutto rosa e fiori e c'è spesso e inevitabilmente da soffrire, salvo poi cancellare qualunque sofferenza con un singolo mirabile momento di straordinaria e "rumorosissima" gioia.
Per me che con questa città ho fatto pace solo molto tardi e che ho capito la romanità ancora più tardi, leggere questo libro e sentirlo in parte un po' mio è stata un'emozione importante e non scontata, io che non seguo il calcio, non sono di Roma e non mi sento romana, ma ho imparato a volere bene a questa città difficile, complicata, irrisolta e irrisolvibile, prendendo quanto di meglio essa da offrire e cercando di reagire con lo stesso spirito della romanità migliore (di cui in Bonvissuto si trova un interessante saggio) ai momenti in cui il suo peggio ti si scarica addosso.
Forse non c'è modo di sopravvivere a questa città se non abbracciando l'essenza della romanità, che è il superpotere che la natura ha dato ai romani per non soccombere al luogo nel quale il destino li ha fatti nascere, e che noi "naturalizzati" siamo chiamati ad apprendere se abbiamo scelto questa città come luogo nel quale vivere.
Voto: 3,5/5
Non credo che avrei mai comprato di mia iniziativa un libro che sulla copertina porta un disegno rappresentante Paulo Roberto Falcão che esulta dopo un gol. Ma la mia amica e collega L. me lo regala dicendomi che non l'avrebbe mai preso in considerazione neanche lei se non le fosse stato suggerito da una persona di cui si fida e che, dopo averlo letto in prima persona, mi può dire che non è un libro sul calcio - di cui neanche a lei frega nulla - ma sulla quintessenza della romanità, quella buona.
Sandro Bonvissuto, scrittore e cameriere, ci racconta questa romanità attraverso un punto di vista specifico, quello di un ragazzino che vive in una famiglia di romanisti e che a sua volta sviluppa un amore sconfinato per la squadra della Roma. Siamo nei primi anni Ottanta, e quel ragazzino che parla in prima persona del suo rapporto con la Roma potrebbe essere lo stesso scrittore, ma - come è tipico della scrittura - è anche qualcosa d'altro e di diverso.
Il mondo del protagonista ragazzino è quello in cui le donne preparano panini e contengono le esagerazioni maschili relativamente alla passione per il calcio, il padre e lo Zio sono i compari di tutte le avventure calcistiche, i vicini e gli amici romanisti sono la "nostra gente", Barabba è uno che vive alle propaggini della società civile, ma si rivela un filosofo e un uomo di cultura.
La narrazione si incentra su un momento topico della storia della AS Roma, quello dell'arrivo di Falcão fino all'impensabile sogno della vittoria dello scudetto.
Dentro c'è l'amore per una squadra, ma c'è anche l'amore per una città e per la sua filosofia di vita, fatta di ironia, autoironia, scaramanzia, malinconia, capacità di adattamento e fedeltà, che sono poi le medesime caratteristiche che vanno a formare l'amore per la squadra giallorossa. Il rapporto dei romani con la città e con la squadra della Roma è qualcosa di unico al mondo, perché in entrambi i casi - città e squadra - parliamo di realtà con cui non è sempre tutto rosa e fiori e c'è spesso e inevitabilmente da soffrire, salvo poi cancellare qualunque sofferenza con un singolo mirabile momento di straordinaria e "rumorosissima" gioia.
Per me che con questa città ho fatto pace solo molto tardi e che ho capito la romanità ancora più tardi, leggere questo libro e sentirlo in parte un po' mio è stata un'emozione importante e non scontata, io che non seguo il calcio, non sono di Roma e non mi sento romana, ma ho imparato a volere bene a questa città difficile, complicata, irrisolta e irrisolvibile, prendendo quanto di meglio essa da offrire e cercando di reagire con lo stesso spirito della romanità migliore (di cui in Bonvissuto si trova un interessante saggio) ai momenti in cui il suo peggio ti si scarica addosso.
Forse non c'è modo di sopravvivere a questa città se non abbracciando l'essenza della romanità, che è il superpotere che la natura ha dato ai romani per non soccombere al luogo nel quale il destino li ha fatti nascere, e che noi "naturalizzati" siamo chiamati ad apprendere se abbiamo scelto questa città come luogo nel quale vivere.
Voto: 3,5/5
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