sabato 28 novembre 2020
Molecole
Sono però comunque contenta di aver visto quello che probabilmente è uno dei primi film che nasce nel periodo del lockdown della primavera 2020 e che di quel periodo rappresenta un primo momento di riflessione.
A fine febbraio Andrea Segre si trovava a Venezia per il progetto di un documentario che riguardava la città di Venezia e in particolare le sue tensioni, tra acqua alta e turismo di massa. Il regista inizia a girare proprio nel momento in cui in Italia si cominciava a parlare della circolazione del virus Sars-Cov-2 e i numeri dei contagiati crescevano giorno dopo giorno.
Segre però – pur di fronte a crescenti difficoltà – continua a girare per Venezia e a documentare il suo svuotamento, anche con l’aiuto di due amiche esperte di voga alla veneta che lo portano in giro in barca per i canali, fino a quando il lockdown nazionale immobilizza tutti, compreso il regista che rimane anche lui bloccato a Venezia.
A poco a poco il film di Segre va oltre le intenzioni iniziali, ma non diventa un film sulla pandemia o banalmente un film sugli effetti del lockdown sulla città di Venezia, bensì diventa l’occasione di una riflessione intima, che ha a che fare con il rapporto con suo padre Ulderico e la riscoperta post-mortem di una figura che per il regista è rimasta in parte oscura e silenziosa, poco propensa alla condivisione dei pensieri più profondi. Le molecole erano l’oggetto di studio del fisico Ulderico Segre, ma Andrea ne fa il simbolo della ricerca di un senso o quantomeno di una spiegazione rispetto al determinismo della materia.
La narrazione di Segre intreccia così un destino e una storia individuale con quella di una città con cui suo padre aveva un rapporto profondo e forse poco comprensibile per suo figlio, un rapporto che sembra affiorare nelle parole di tutti i veneziani intervistati, legati a Venezia in un modo probabilmente inintelleggibile per chi non è di Venezia. Un rapporto viscerale e in fondo difficile da spiegare persino per gli stessi protagonisti, esattamente come accade in un rapporto padre-figlio. Un rapporto fatto di silenzi, di dolori, di gioie, di tradimenti e di riavvicinamenti, in pratica tutto quello che sempre c’è dentro un rapporto d’amore.
Sarebbe stato ancora più emozionante visto sul grande schermo, ma per il momento ci accontentiamo di questo.
Voto: 3,5/5
giovedì 26 novembre 2020
Ladies Football Club / Stefano Massini
Ladies Football Club / Stefano Massini. Milano: Mondadori, 2019.
Stefano Massini l’ho scoperto relativamente tardi e a teatro, prima indirettamente attraverso i testi da lui scritti e da qualcun altro portati in scena (vedi 7 minuti, ovvero L’odore assordante del bianco, o ancora L’ora di ricevimento), e poi direttamente grazie allo spettacolo Magari ci fosse una parola per dirlo, ispirato a parti del suo libro Dizionario inesistente, in cui Massini mette in campo non solo la sua scrittura evocativa ma anche il suo straordinario talento come raccontastorie.
Dopo quest’ultima esperienza ho deciso che forse poteva aver senso anche leggere qualcuno dei suoi numerosi libri, e il primo su cui è caduta la mia scelta è stato Ladies Football Club, la storia della prima squadra di calcio femminile, nata a Sheffield su iniziativa di un gruppo di operaie durante la Prima guerra mondiale.
In realtà, non si tratta di un romanzo, forse potremmo definirlo un racconto breve (si legge in meno di due ore) e lo stile è tale che sembra pensato per essere recitato/raccontato piuttosto che letto. Quindi caso ha voluto che il primo libro di Massini da me letto mi abbia riportato direttamente al mondo del teatro in cui l’ho conosciuto.
Che dire di Ladies Football Club? Un po’ quello che si può dire di molti altri testi di Massini, ossia che non è mai chiaro nelle sue storie cosa c’è di realtà e cosa di fantasia per quanto appaiono incredibili, salvo poi scoprire che i contenuti storici sono molto maggiori di quelli che immaginiamo ed è solo lo stile narrativo dello scrittore a conferire a questa materia un carattere quasi favolistico.
Così accade nel caso della storia di queste undici operaie che un giorno un po’ per caso si trovano a dare calci a una palla, che poi si rivela essere una bomba, e che decidono di mettere su una squadra utilizzando delle divise nere fatte con le stoffe utilizzate per avvolgere i cadaveri su cui spicca la scritta gialla LFC, che loro traducono appunto in Ladies Football Club.
Da qui in poi le avventure di queste undici strambe donne si fanno sempre più incredibili e in parte esilaranti in un crescendo che culmina nell’ultimo match ch’esse giocano dopo la fine della guerra contro una vera squadra maschile.
La lettura è gradevole, ma mai stupida (e c’è anche una riflessione leggera ma non banale sul ruolo delle donne in una società maschilista e sulla specificità del loro modo di essere). A me il libro ha risollevato un viaggio in treno seguito a un weekend emotivamente difficile. E non è poco.
Voto: 3/5
martedì 24 novembre 2020
Corpus Christi
Quando esce per buona condotta, destinato a lavorare nella segheria di un paese vicino, Daniel si rifugia in una chiesa e qui si presenta come sacerdote. La sorte vuole che il parroco abbia bisogno temporaneamente di cure e chieda a Daniel di sostituirlo.
Il giovane si troverà dunque risucchiato nelle dinamiche del paese in una posizione di pastore di anime che scoprirà essergli particolarmente congeniale. Da peccatore e conoscitore di tutte le debolezze e tentazioni dell’animo umano, Daniel si addentra negli interstizi e negli anfratti più oscuri dell’apparentemente tranquilla vita di paese, portando a galla meschinità, ipocrisie e cattiverie che di cristiano hanno poco o nulla.
Protetto dalla sua tunica quasi fosse un’armatura che gli conferisce uno status speciale, Daniel è in grado di dire verità scomode e di parlare con sincerità a tutti, mettendosi in gioco in prima persona di fronte alle divisioni profonde che si sono determinate dopo un tragico incidente che ha portato alla morte sette persone.
Il film di Jan Komasa, candidato all’Oscar come miglior film straniero, funziona perfettamente sia come ritratto di questo sacerdote improvvisato e ampiamente imperfetto, ma al contempo responsabilizzato nel suo ruolo di guida spirituale, sia come rappresentazione delle dinamiche delle piccole comunità, tutte costruite sull’apparenza e continuamente impegnate nel tentativo di nascondere a sé stessi e agli altri le proprie colpe e debolezze, e di cercare capri espiatori.
Ne esce fortemente compromesso non il senso profondo del cattolicesimo, bensì la religiosità intesa come forma anziché come sostanza, incapace di correggere le storture di realtà piccole e provinciali come quella in cui è ambientata la vicenda.
Ispirato a una storia vera, e certamente molto legato alla specifica realtà polacca, il film non faticherà a essere compreso e sentito sotto pelle da chiunque provenga da piccole cittadine di provincia con una spiccata caratterizzazione religiosa. E senza dubbio gli occhi, invasati o rapiti di Bartosz Bielenia a seconda dei momenti, rimarranno a lungo nella memoria dello spettatore.
Voto: 3,5/5
sabato 21 novembre 2020
Scheletri / Zerocalcare
Scheletri / Zerocalcare. Milano: Bao Publishing, 2020.
Con Scheletri Zerocalcare torna con una storia lunga a fumetti che affonda le radici nel suo passato, più precisamente risale agli anni in cui si iscrisse all’università senza mai frequentarla, bloccato dal senso di inadeguatezza. Incapace di rivelare la verità ai suoi genitori, Zero usciva ogni mattina di casa per “andare a lezione” e invece si infilava nella metro e faceva su e giù per la linea B senza sosta.
È in questa parentesi spazio-temporale che Zero conosce un ragazzo più piccolo di lui, un graffitaro, che entra a far parte della sua comitiva e ne sconvolge gli equilibri, innescando una catena di eventi che fanno virare la storia quasi verso il noir, lasciando domande senza risposta che troveranno il loro scioglimento nel presente, quando alcuni protagonisti ricompariranno da quel passato.
Pur essendo caratterizzata dallo stile tipico di Zerocalcare che ormai conosciamo molto bene e che è capace di farci ridere e sorridere anche di fronte a situazioni di per sé non certo divertenti, questa storia di Zerocalcare risulta meno consolatoria delle sue precedenti, e l’autore appare particolarmente spietato nei propri stessi confronti.
Pur di fronte a una realtà di certo complessa e sfaccettata, in cui la marginalità diffusa non rende sempre facile “separare il grano dal loglio”, Zero evita qualunque forma di autoassoluzione e sembra quasi incolpare sé stesso di un’autoreferenzialità crescente che lo allontana dalla comprensione di ciò che lo circonda.
Come ho detto commentando l’albo con la mia amica S., leggendo Scheletri si ha nettamente la sensazione che questo albo marchi il “passaggio all’età adulta” di Zero, l’avvicinarsi inesorabile dei quarant’anni con tutto quello che portano con sé.
Da parte sua Zero sembra conservare l’umiltà di guardare a sé stesso con onestà e sincerità, e questo dovrebbe preservarlo da involuzioni imprevedibili, però al contempo lo apre alla necessità di fare i conti con quella seconda parte della propria vita che inevitabilmente ci fa vedere le cose in modo diverso, anche se non mette in discussione i nostri princìpi.
Voto: 3,5/5
giovedì 19 novembre 2020
Rue de Berne, numero 39 / Max Lobe
Dipita è un giovane camerunense di 18 anni ed è rinchiuso in un carcere svizzero. Non sappiamo perché, lo sapremo solo alla fine del romanzo quando il cerchio della narrazione si chiuderà.
È dalla sua condizione di prigioniero che Dipita srotola il flusso dei ricordi e ci racconta la sua storia, nonché quella di sua madre Mbila, risalendo a quando Mbila era una ragazzina e abitava in Camerun con suo fratello/padre Demoney.
Proprio quest'ultimo aveva contattato i cosiddetti Filantropi/Benefattori (in realtà esponenti della mafia locale impegnati nella tratta degli esseri umani) per far partire Mbila per la Francia insieme a una compagnia di danza, mentendo sulla sua età.
Arrivata in Francia Mbila segue il destino di molti altri migranti, costretta a prostituirsi per ripagare il suo debito, messa incinta da un uomo che non ha nessuna intenzione di occuparsi di lei, e infine rassegnata a fare la prostituta per tutta la vita.
Dipita cresce con Mbila e con le altre prostitute di rue de Berne 39, e pur essendo talvolta risucchiato nelle attività illegali della madre, riesce a studiare e anche a vivere la propria omosessualità, venuta alfine allo scoperto quando conosce in Internet William, il biondo figlio di una escort russa, e si innamora di lui.
Ma la vita di Dipita - che sogna di poter lavorare per aiutare suo zio Demoney che è rimasto in Camerun - è nata sotto una cattiva stella e i suoi sogni sono destinati a infrangersi contro un destino che sembra quasi inevitabile.
Il romanzo di Max Lobe è un'esperienza di lettura interessante sia dal punto di vista della scrittura (pare che il traduttore abbia fatto i salti mortali per rendere in italiano la lingua franco-africana utilizzata) sia dal punto di vista dei contenuti. Noi europei abbiamo sentito o letto il punto di vista interno - sebbene attraverso un romanzo e non un'autobiografia - di chi è arrivato in Europa dall'Africa o di chi è nato in Europa ma da genitori che hanno lasciato la loro terra d'origine e si sono trovati a dover sopravvivere in qualche modo in un mondo che li sfrutta ma non li riconosce. Il racconto di Dipita è però non solo un racconto sull'Africa, in particolare sul Camerun, e sui suoi enormi problemi politici ed economici, ma anche e soprattutto sull'Europa e sulle enormi responsabilità che ha sia nello spingere gli africani a lasciare i loro paesi sia nel renderli manodopera della criminalità organizzata una volta arrivati in Europa.
Il romanzo di Lobe ha però il grande merito di non assumere un atteggiamento vittimistico, bensì di far emergere le straordinarie risorse e la grande vitalità di queste persone e della loro cultura.
Una bella lettura.
Voto: 3,5/5
lunedì 16 novembre 2020
La trilogia di Fabio Montale / Jean-Claude Izzo
Dopo la vacanza marsigliese di inizio 2020 e soprattutto dopo la gita finale a Les Goudes, il piccolo villaggio di pescatori poco fuori Marsiglia ai piedi della riserva di calanchi, mi è venuta voglia di leggere La trilogia di Fabio Montale di Jean-Claude Izzo.
Il protagonista di questi tre noir, Casino totale, Chourmo e Solea, che si chiama appunto Fabio Montale, ed è un poliziotto di origine italiana ma profondamente legato alla sua Marsiglia, vive in una casetta ereditata dal padre che si trova a Les Goudes, dove ha per vicini di casa la vecchia Honorine e il gestore di un bar-osteria che si chiama Fonfon. Da qui Montale esce in barca per pescare e soprattutto per perdersi nei suoi pensieri e per coltivare la solitudine.
Fabio Montale è un personaggio dolente, un poliziotto anomalo, innamorato profondamente della sua città, ma preoccupato per le derive razziste e per il peso crescente della mafia nelle vicende urbane e non solo.
Leggendo i tre romanzi di seguito come ho fatto io, grazie all’edizione integrale realizzata da e/o, impariamo a conoscere a poco a poco quest’uomo e la sua storia travagliata: l’amicizia durante l’infanzia e la gioventù con Manu e Ugo, la discesa verso l’abisso dell’illegalità, la separazione delle strade nel momento in cui Fabio prima si arruola e poi diventa poliziotto, l’amore per la stessa donna, Lole, la morte prima di Manu e poi di Ugo a seguito di alcuni regolamenti di conti mafiosi, i tentativi di Fabio di ricostruirsi una vita, l’impossibilità di sfuggire a quello che sembra un destino già segnato.
Sicuramente Montale con il suo carattere ombroso, il suo desiderio di giustizia, il bisogno di amare e di essere amato senza riuscire mai a lasciarsi andare del tutto è il protagonista centrale della narrazione di Izzo, che si articola in storie singole per ciascun romanzo, ognuna delle quali però si inserisce nella cornice complessiva del percorso di vita di Montale.
Ma, oltre a Fabio Montale, protagonista indiscussa dei romanzi di Izzo è la città di Marsiglia che lo scrittore ci fa attraversare in lungo e in largo, raccontandocene la storia, i cambiamenti, le bellezze, i difetti, una città che come lui stesso dice non ha vere attrazioni turistiche ma è una città che non può non entrare nel cuore se si entra in sintonia con il suo spirito e con la luce incredibile che la illumina.
Bello attraversare insieme a Montale (e a Izzo) le stradine del Panier, la Corniche, il Vieux Port, la Canébiére, i quartieri nord, l’Estaque, la Belle de Mai, Les Goudes, scoprendo tutte le anime di una città piena di contraddizioni ma proprio per questo anche ricca di significati e di cose da scoprire.
Quello che Izzo ci fa fare è anche un viaggio attraverso i bar e i ristoranti di Marsiglia, quelli che Fabio Montale frequenta e ama, e di conseguenza anche un percorso nella cucina marsigliese, sempre accompagnata dall’immancabile pastis e da ottimi vini, soprattutto rosati, i preferiti di Montale.
Personalmente non ho fatto fatica a identificarmi con questo personaggio che ama i piaceri della vita e ad essa è attaccato con tutte le sue forze, ma al contempo ne è spaventato per le sofferenze e il dolore che porta con sé, e che lo spingono – soprattutto nei sentimenti – a non esporsi mai troppo. Non a caso così si esprime in Chourmo: "Mi piaceva questa immagine della clessidra. Del tempo che scorre. Si vive la vita in quel lasso di tempo. Fin quando nessuno viene più a girare la clessidra. Perché si è perso il piacere di vivere." (Chourmo, p. 457)
Fa tenerezza Montale per la trasparenza cristallina delle sue idee e della sua visione del mondo, per quel mix di forza e di fragilità che lo caratterizzano, per l’amore e l’orrore al contempo che esprime verso l’umanità.
I romanzi sono dei noir, con una forte componente poliziesca, ma alla fine a prevalere su tutto è sempre l’umanità dei personaggi raccontati. Letti in sequenza costituiscono quasi un romanzo unico, anche se personalmente esprimo una preferenza per Chourmo, che è quello che ho preferito e che ho trovato maggiormente ispirato.
Voto: 4/5
sabato 14 novembre 2020
Omar Sosa. Bari in jazz, Il Minareto, Selva di Fasano, 12 agosto 2020
È passato un po' troppo tempo, ma siccome avevo un po' di nostalgia dei concerti ho pensato di pubblicare lo stesso questa recensione dell'ultimo concerto dal vivo che ho visto/ascoltato.
Dopo la piacevolissima esperienza dello scorso anno, anche quest’anno approfitto della mia presenza in Puglia per andare a vedere almeno un concerto della rassegna Bari in jazz nella splendida cornice del Minareto sulla Selva di Fasano.
Scelgo il concerto di Omar Sosa, non perché conosca direttamente l’artista ma perché vedo che si tratta di un pianista cubano che ha fatto spesso coppia sul palco con il nostro Paolo Fresu. Ascolto qualcosina online faccio il biglietto già quando sono a Roma.
Quando poi sono in Puglia coinvolgo altri amici e alla fine al concerto saremo in cinque.
Il Minareto è sempre un posto magnifico, soprattutto quando il sole è appena tramontano dietro le colline e la campagna sottostante fino al mare si colorano di blu e poi di nero.
Omar Sosa sale sul palco alle 21,30 in versione solo: è circondato da un pianoforte a coda, tastiera elettronica, computer e altri piccoli strumenti che utilizzerà alla bisogna e secondo l’estro del momento.
Come ci spiega, in questo tipo di concerti non ha una scaletta né degli spartiti: è tutto frutto di improvvisazione, anche grazie al feeling che si crea con il pubblico e alle vibrazioni che gli arrivano. E questo fa già impressione di per sé.
Quando inizia a suonare resto piuttosto spiazzata: mi aspettavo sonorità latino-americane, quelle della tradizione cubana a cui appartiene e che anche in Europa conosciamo molto bene, e invece la musica di Omar Sosa è l’espressione di un sincretismo musicale che copre tutte le aree geografiche e culturali e che spazia nel tempo. Nelle sue composizioni si alternano e si fondono sonorità che spaziano dalla musica classica a quella contemporanea, dalla musica occidentale a quella latina fino ad arrivare a quella africana, le cui radici affondano saldamente nel background di Sosa. Il suono pulito e “acustico” del pianoforte a coda si alterna a sonorità elettroniche, ed è inframmezzato da voci registrate, ovvero da performance del musicista che suona le corde del pianoforte con spazzole più grandi di quelle che si utilizzano nella batteria jazz.
Nel flusso d’improvvisazione di Sosa qua e là sembra di riconoscere motivi che si conoscono, o comunque che innescano ricordi e sensazioni di musiche conosciute e conoscibili, ma alla fine il risultato è sempre originale e inaspettato, mai pienamente conforme e appiattito su un unico genere.Le singole composizioni possono risuonare più o meno con il gusto individuale e le proprie aspettative, ma non possono non colpire per la perizia del pianista e l’originalità dei cambi di ritmo e dei contenuti sonori.
Il pubblico è via via conquistato dall’energia di Omar Sosa, fino a essere coinvolto attivamente nelle improvvisazioni con il battito delle mani. Cosicché quando dopo circa un’ora e mezza il concerto è finito il pubblico chiede il bis a gran voce e il pianista non si sottrae e ci regala un’ultima composizione di grande intensità emotiva.
Bari in Jazz si conferma anche quest’anno e nonostante tutte le limitazioni e le difficoltà dovute al COVID una delle manifestazioni più vitali – insieme al Locus Festival – dell’estate pugliese.
Voto: 3,5/5
mercoledì 11 novembre 2020
Off-season / James Sturm
Off-season / James Sturm. Montreal: Drawn & Quarterly, 2019.
Il nome del fumettista James Sturm era per me sconosciuto prima di avere tra le mani questo graphic novel che mi è stato portato in regalo da Londra e che dunque ho letto in lingua originale, anche perché – come ho verificato – non è stato (ancora?) tradotto in italiano.
In realtà ho scoperto con questa lettura che Sturm è il co-fondatore del Center for Cartoon Studies in Vermont, ha pubblicato numerosi albi tradotti in tutto il mondo (alcuni titoli sono stati distribuiti anche in Italia, in particolare da Coconino Press), e collabora con testate quali il New York Times e New Yorker.
In Off-season, con un formato rettangolare orizzontale e dunque un’impaginazione alquanto originale, Sturm sceglie di raccontare la storia di Mark, un giovane uomo con due figli che sta attraversando le difficoltà della separazione dalla moglie Lisa, proprio a cavallo delle elezioni presidenziali del 2016 che portano Donald Trump al Campidoglio.
Mark è stato un sostenitore di Bernie Sanders, e dopo la scelta di Hillary Clinton come sfidante di Trump ha perso interesse nella competizione elettorale, mentre sua moglie è un’attivista per Hillary e, insieme alla figlia maggiore Suzie, critica l’atteggiamento poco impegnato di Mark.
Lo stato depressivo in cui versa Mark è reso ancora peggiore dal fatto che nella sua attività di operaio edile egli deve rapportarsi a un datore di lavoro e collega inaffidabile e sempre in ritardo sui pagamenti, che col passare del tempo esaspera il già fragile equilibrio di Mark.
Di fronte alle difficoltà economiche, alla difficile gestione dei figli, all’atteggiamento di chiusura della moglie e infine alla notizia della malattia di sua madre, Mark si trova a dover gestire uno stress e una rabbia crescenti che spesso determinano reazioni sbagliate e situazioni difficili.
Qualche spiraglio si apre nell’ultima parte dell’albo, sebbene traspaia da tutto il racconto che non esistono risposte semplici a domande complesse come quelle che hanno a che fare con i sentimenti e gli stati d’animo, tanto più se le inevitabili complessità delle relazioni umane si vanno a inserire in un quadro politico-sociale complessivo deprimente nella migliore delle ipotesi, e preoccupante nella peggiore.
La particolarità dell’albo di Sturm è che i personaggi sono tutti rappresentati come dei cani, o meglio sono in tutto e per tutto degli esseri umani ma hanno il volto e la testa di un cane, creando un effetto per certi versi straniante, ma nello stesso tempo contribuendo a rendere ancora più umani i personaggi rappresentati e i loro comportamenti. La cartoonizzazione dei protagonisti se da un lato crea quel minimo di distanza che rende accettabili la gravosità dei sentimenti e delle situazioni raccontate, dall’altro in un certo senso favorisce l’empatia e la compassione umana.
A mio parere, però, l’albo di James Sturm si segnala non tanto e non solo per il modo intenso e delicato di trattare sentimenti complessi, ma anche e soprattutto per il modo in cui le vite individuali vengono inserite dentro la cornice più ampia di cambiamenti collettivi epocali, come appunto è stata per gli Stati Uniti (e per il mondo intero) l’elezione di Donald Trump.
Voto: 3/5
lunedì 9 novembre 2020
Il mio anno di riposo e oblio / Ottessa Moshfegh
Il mio anno di riposo e oblio / Ottessa Moshfegh; trad. di Gioia Guerzoni. Milano: Feltrinelli, 2019.
Visto il periodo di tempo sospeso che abbiamo vissuto, sono stata irrimediabilmente attirata dal titolo di questo romanzo della giovane scrittrice statunitense Ottessa Moshfegh (di cui tra l'altro avevo letto qua e là commenti positivi di alcune amiche).
Siamo a New York e la storia si svolge nell'arco di circa un anno, a cavallo tra il 2000 e il 2001. La protagonista - di cui non sapremo mai il nome - ha 27 anni, è orfana di entrambi i genitori (suo padre è morto di cancro e sua madre si è suicidata con un mix letale di farmaci), ha ereditato soldi a sufficienza per poter vivere di rendita e infatti si è licenziata dalla Galleria d'arte dove lavorava. Ha un ex fidanzato, Trevor, da cui non riesce a prendere le distanze nonostante lui la usi senza alcun rispetto per i suoi sentimenti, e un'unica amica, Reva, una ragazza di estrazione sociale certamente inferiore, fragile e insicura, rispetto alla quale la protagonista ha sentimenti ambivalenti.
La ragazza ci racconta della sua decisione di andare in una specie di "letargo farmacologico" per circa un anno, allo scopo di fare piazza pulita del suo passato e di tutti i pensieri che l'hanno attraversata fino a quel momento e rinascere come persona nuova.
Per realizzare il suo obiettivo, la nostra protagonista si serve della complicità inconsapevole della dottoressa Tuttle, una psichiatra trovata sulle Pagine Gialle, che è l'unica che risponde a una sua chiamata alle 23 e che - con il suo approccio antiscientifico e alternativo - le prescrive una quantità esorbitante di psicofarmaci, oltre a riempirla dei campioni di farmaci che ha nel suo studio.
Inizia così una fase in cui la ragazza alterna lunghe dormite a poche altri attività: brevi chiacchiere con la sua amica Reva che la va a trovare regolarmente per sfogarsi con lei della malattia della madre e della relazione fallimentare con il suo capo sposato, Ken; la visione di film più o meno dozzinali degli anni Ottanta e Novanta, soprattutto quelli con Whoopi Goldberg che è la sua attrice preferita; le visite al negozio gestito da egiziani dove compra caffè e altro o al Rite Aid per acquistare i medicinali.
A un certo punto la nostra protagonista scopre un farmaco, l'Infermiterol, che le provoca tre giorni di blackout totale; in pratica perde coscienza di quello che fa e la ritrova dopo tre giorni senza ricordarsi di nulla. Decide a quel punto di procurarsi - sempre grazie alla dottoressa Tuttle - un quantitativo sufficiente di compresse per trascorrere gli ultimi quattro mesi di riposo e oblio, rimanendo sveglia e cosciente solo per un numero limitato di giorni. Il tutto grazie anche alla complicità di un artista che l'aiuta in questa impresa ottenendone in cambio la possibilità di trasformare questo periodo in un'opera/performance da mettere in mostra.
In questo tentativo di annientamento della coscienza, attraverso i pensieri spesso caustici e respingenti della narratrice, via via scopriamo alcuni nodi irrisolti della sua vita, legati in particolare ai suoi genitori, due persone completamente diverse tra di loro e senza alcun tipo di connessione, l'uno - il padre - completamente votato alla sua missione di insegnante ma assente rispetto alla famiglia, l'altra - la madre - una donna dipendente dall'alcol e anaffettiva, incapace di prendersi cura della figlia e dei suoi bisogni. Si spiega così anche la dipendenza affettiva da Trevor e l'assenza di empatia verso Reva.
Il malessere esistenziale della protagonista e il suo tentativo di annegare la sua infelicità in un cocktail di psicofarmaci che le impediscano di pensare sono in realtà il sintomo dell'incapacità o impossibilità di attraversare ed elaborare il lutto e la perdita.
Il libro viene presentato come un racconto tragicomico e caratterizzato da uno stile ironico e divertente; a me sinceramente non ha mai fatto né ridere né sorridere. Mi ha solo trasmesso una profonda angoscia di vivere e una forte irritazione verso una protagonista che non si può fare a meno di interpretare come ragazza ricca e viziata, sebbene - man mano che le pagine scorrono - questi sentimenti tendano a trasformarsi in compassione per il congelamento emotivo che vive e che è palese nel momento in cui si capisce che la sua parte migliore emerge nelle fasi di assenza di coscienza, ossia sotto l'effetto dell'Infermiterol.
Non so se sono io che ormai mi sono fissata, ma per me queste scrittrici tra i trenta e i quarantanni hanno in comune uno sguardo sul mondo che si sostanzia in pratica in una forma di immaturità/tardoadolescenzialità accompagnata da un malessere in parte immotivato ovvero sovradimensionato, uno sguardo che mi è profondamente estraneo e mi risulta respingente.
Qui la Moshfegh parla di una quasi trentenne dei primissimi anni Duemila, in sostanza una mia coetanea (perché oggi avrebbe esattamente la mia età). Ma secondo me sta semplicemente proiettando nel passato il punto di vista di una quasi trentenne degli anni Duemilaventi perché è con i trentenni di oggi che la protagonista ha molte più cose in comune.
Voto: 2,5/5
venerdì 6 novembre 2020
Chi troppo vuole. Mazzacani trova la sua vendetta / Leonardo Palmisano
Chi troppo vuole. Mazzacani trova la sua vendetta / Leonardo Palmisano. Roma: Fandango Libri, 2020.
La mia amica V. - dopo aver partecipato a una bella presentazione del libro alla libreria-bistrot di Conversano Skribi - decide di comprarmi e regalarmi questo libro di Leonardo Palmisano, il terzo di una serie di gialli-polizieschi con protagonista il bandito Carlo Mazzacani, capo della Banda dei Santi, un gruppo malavitoso che opera in Puglia ma ha scelto di non affiliarsi alla Sacra Corona Unita.
Qui la narrazione prende le mosse dal ritrovamento in un campo abitato da immigrati che lavorano nella zona di Foggia del cadavere di una prostituta, della testa di un mafioso e di cinque altri corpi non meglio identificati.
Inizia da qui l'indagine della procuratrice di Bari Isa Buonamica, che finirà inesorabilmente per incrociare la propria strada con quella di Mazzacani, poiché a poco a poco emerge che l'omicidio della donna porta il segno di un killer rumeno con cui il bandito ha un conto in sospeso.
In realtà, dietro il ritrovamento dei corpi c'è una vicenda ancora più complessa di intrecci tra malavita foggiana, Sacra Corona Unita, 'ndrangheta e politica locale.
Palmisano scrive bene e tratteggia con attenzione i suoi personaggi, non solo quelli principali, cosicché la lettura scorre gradevolmente senza essere superficiale, visto che dietro questa narrativa "di evasione" si riconosce l'approfondita conoscenza che Palmisano ha della realtà pugliese in virtù del suo lavoro e dei suoi studi.
Il romanzo è un'occasione per guardare alla Puglia in un modo un po' meno da cartolina di quanto non si faccia ultimamente, per capirne le complessità e le contraddizioni che ne agitano la vita sociale ed economica e che tengono in scacco tanta gente.
Voto: 3/5
mercoledì 4 novembre 2020
Scannasurice / Enzo Moscato. Teatro Vascello, 22 ottobre 2020
Dopo aver visto Regina Madre al Piccolo Eliseo, cercando in rete notizie sull'inteprete Imma Villa e sul regista Carlo Cerciello, io e F. ci eravamo imbattute in un altro spettacolo che riproponeva la medesima coppia di regia e protagonista. Si trattava appunto di Scannasurice. Da quel momento avevamo cominciato a cercarlo nelle programmazioni romane fino a quando non lo abbiamo individuato nel calendario del Teatro Vascello a marzo 2020.
Abbiamo preso subito il biglietto ma poi è successo quel che è successo (e che ancora sta succedendo) e tutto è saltato.
In questa breve finestra temporale in cui i teatri avevano iniziato a riavviare la programmazione (prima del nuovo DPCM che li ha nuovamente obbligati alla chiusura) Scannasurice è ricomparso al Vascello e sono riuscita a vederlo nell'ultima settimana prima delle chiusure.
Scannasurice appartiene a quel momento d'oro del teatro napoletano che sono stati gli anni Ottanta (è infatti un testo del 1982) ed è opera di Enzo Moscato, un drammaturgo vivente che proprio negli anni Ottanta andò a popolare la vivace scena teatrale napoletana.
Protagonista di questo monologo è un travestito che abita nei bassifondi dei quartieri spagnoli, popolati di topi, e vive prostituendosi. A questo personaggio Enzo Moscato regala un monologo che alterna trivialità e lirismo, concretezza e magia, e che la straordinaria Imma Villa interpreta con grande maestria, non solo attraverso le parole, ma con una fisicità perfettamente coerente.
Verso il suo personaggio lo spettatore prova a seconda dei momenti ribrezzo, compassione, affetto, partecipazione.
Scannasurice racconta lo stato di paura e di incertezza determinato da un terremoto reale, quello di Napoli del 1980, ma anche da un terremoto interiore che di fronte alla ricerca di un'identità e di una via di uscita vede il protagonista soccombere a un destino che sembra già scritto.
Voto: 3,5/5
lunedì 2 novembre 2020
Festa del cinema di Roma, 15-25 ottobre 2020 - Terza e ultima parte
(Per la prima parte delle recensioni si veda qui e per la seconda qui)
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Il film di Hélier Cisterne - come ci racconta lui stesso nella breve intervista che precede la proiezione - è tratto dal romanzo omonimo di Joseph Andras, che a sua volta è basato un saggio che ricostruisce la vicenda di Fernand Iveton.
Iveton (nel film interpretato da Vincent Lacoste) era nato ad Algeri da madre spagnola e padre francese. Seguendo le orme del padre, era entrato giovanissimo nel partito comunista e, solidale con la causa dell'indipendenza algerina e indignato per il trattamento che quotidianamente ricevevano gli arabi in Algeria, si era unito al Fronte di Liberazione Nazionale fino ad accettare di mettere una bomba nella propria stessa fabbrica, bomba però posizionata in un luogo e programmata in modo da non ferire né uccidere nessuno.
La bomba venne però disinnescata prima che esplodesse e lui arrestato e condannato a morte, sentenza eseguita dopo un breve processo in cui le attenuanti del gesto non furono nemmeno prese in considerazione.
Il libro di Andras e di conseguenza il film di Cisterne si concentrano, oltre che sulla vicenda politica di Iveton, anche sulla sua dimensione privata, in particolare sulla sua storia d'amore con la moglie Hélene, incontrata in Francia e poi trasferitasi con lui ad Algeri.
Iveton viene presentato come un uomo mite e idealista, innamorato del paese nel quale vive e dei semplici piaceri della vita. Hélene è invece una donna semplice, ma fiera e combattiva che sostiene Fernand fino alla fine.
Il film di Cisterne rende piuttosto bene il clima che viveva l'Algeria in quegli anni e l'atteggiamento delle istituzioni francesi e anche del popolo francese nei confronti del desiderio di autodeterminazione del popolo algerino, che fu osteggiato con tutti i metodi leciti e anche illeciti.
Des nos frères blessés, così come il romanzo da cui è tratto, è un atto pubblico di ammenda che la coscienza nazionale francese doveva fare nei confronti di Iveton e in generale di un periodo oscuro e in buona parte rimosso della storia nazionale.
Cinematograficamente il film è ben fatto, ma devo dire che nonostante i forti elementi di drammaticità e la componente sentimentale che lo caratterizzano su di me non è riuscito a innescare un processo empatico forte. E dunque la visione è rimasta per me un po' piatta.
Voto:3/5
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Under the open sky
Il signor Mishima ha scontato 13 anni di carcere per l'omicidio di un uomo durante un regolamento di conti tra bande affiliate alla yakuza, la mafia giapponese.
All'uscita dal carcere, Mishima è ben intenzionato a rigare dritto e a non tornare in galera, trovando un lavoro e un alloggio. Però i pregiudizi del mondo esterno e le regole che governano la società civile rendono il compito di Mishima particolarmente arduo, anche perché nel frattempo la stessa yakuza ha perso parte della sua aura e del potere che aveva in passato e il suo codice interno di condotta è ormai superato da una spinta sempre più individualista nella società.
In questo percorso Mishima incrocerà alcune persone tra cui un giovane scrittore e regista che intende girare un film su di lui, una coppia che si rende disponibile per il reinserimento degli ex detenuti e il responsabile di un supermercato tutto sommato di buon cuore.
Di fronte a un uomo di buoni principi ma abituato a risolvere tutto con la violenza e incapace di gestire la sua rabbia soprattutto di fronte alle ingiustizie queste persone a poco a poco ne apprezzeranno gli sforzi di reinserimento, diventando i suoi migliori amici.
Mishima dovrà imparare a pensare solo a sé stesso per ritrovare un posto nel mondo, ma questo modo di essere sarà per lui una costrizione quasi peggiore del carcere.
Under the open sky è una riflessione abbastanza spietata su una società giapponese in cui sull'individuo gravano responsabilità enormi e in cui le politiche sociali si basano su un conformismo senza correttivi e profondamente viziato da varie forme di ipocrisia.
Voto: 3/5
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Kajillionnaire - La truffa è di famiglia!
Sabato mattina andiamo all'auditorium per la cerimonia di premiazione di "Alice nella città", la rassegna parallela che si svolge ogni anno in concomitanza con la festa del cinema di Roma.
Tra premi e menzioni speciali connessi alla rassegna se ne va quasi un'ora prima di sapere che il vincitore assoluto di Alice nella città è il film di Miranda July Kajillionaire, cui si affiancano Ibrahim, vincitore del premio Camera d'Oro (la recensione a seguire) e Il mio corpo, vincitore del premio Raffaella Fioretti.
Miranda July è la regista di Me and you and everyone we know, film che era diventato un vero e proprio caso quando uscì circa 15 anni fa, in quanto massima rappresentazione di quello che si definisce cinema indie.
Con Kajillionaire la July mantiene lo stesso stile narrativo ma si avvale di un cast hollywoodiano, con Richard Jenkins e Debra Winger a interpretare i genitori borderline e anaffettivi di Evan Rachel Wood.
I due sono due truffatori incalliti, che abitano insieme alla loro figlia in un ex ufficio dove in alcuni momenti della giornata una parete viene invasa dalla schiuma rosa della vicina fabbrica.
Le loro truffe, a cui hanno educato anche la figlia, sono di basso profilo e permettono loro a malapena di sopravvivere, al punto che sono in difficoltà con il pagamento dell'affitto dell'ufficio dove vivono. La loro figlia si chiama Old Dolio come un barbone che aveva vinto alla lotteria e che loro speravano invano, dando il suo nome alla figlia, lasciasse a lei una parte della vincita.
Questo nucleo familiare vive in maniera totalmente autoreferenziale dentro un sistema di regole e di convincimenti totalmente irrazionali, ma di cui loro sono assolutamente convinti. Fino a quando, durante un assurdo viaggio di andata e ritorno a New York finalizzato a mettere in atto una delle loro truffe, conoscono una ragazza di origine portoricana, Melanie, che resta affascinata da questa famiglia totalmente fuori dagli schemi e si propone di aiutarli nelle loro truffe.
L'arrivo di Melanie farà saltare gli equilibri della famiglia e soprattutto romperà l'universo di convinzioni e l'accettazione partecipe di Old Dolio rispetto ai suoi genitori, facendole scoprire la possibilità di un'affettività ch'ella riteneva impensabile o non necessaria.
In un certo senso il tema di Kajillionaire è molto simile a quello di Kynodontas di Lanthimos, ossia i meccanismi perversi e tossici che possono costruirsi e alimentarsi all'interno dei nuclei familiari, ma questo tema viene qui virato non in chiave drammatica, bensì in chiave grottesca e di commedia.
Nel film di Miranda July se la famiglia protagonista è anomala e disfunzionale in maniera esplicita ed evidente, le altre famiglie sebbene in modo meno palese non sono da meno, ognuna con le proprie idiosincrasie e i suoi orrori.
Come in Kynodontas è un soggetto esterno, per quanto a sua volta disfunzionale, a innescare il processo di rottura dei morbosi legami familiari e a sancire l'affrancamento della figlia, la scoperta della propria identità e la scelta della propria strada.
Non esattamente il genere di film che preferisco in assoluto, ma un film godibile e per niente superficiale nonostante l'apparenza.
Voto: 3/5
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Tusker (Stanley Tucci) e Sam (Colin Firth) sono una coppia di vecchia data. Sam è un pianista e Tusker uno scrittore. Purtroppo quest'ultimo ha una demenza precoce e così, con la scusa di un concerto in cui Sam dovrà esibirsi, i due partono con il loro vecchio camper per un viaggio on the road che si trasforma presto in un amarcord. La prima sosta è al lago dove si sono incontrati, la seconda a casa di amici dove è stata organizzata per loro una festa a sorpresa, la terza in un bellissimo casale nella campagna inglese, dove però arriva per i due il momento di affrontare una scelta difficile.
Supernova affronta un tema non nuovo (mi ha fatto pensare a In viaggio contromano di Zadoorian) senza cedere al lacrimevole, anche grazie alle schermaglie tenere e divertenti tra i due protagonisti. Non viene però taciuto l'impatto che una situazione del genere ha sulla vita di una coppia: Tusker non accetta l'idea di non poter controllare la sua vita futura e di perdere la consapevolezza di sé, Sam è spaventato dalla responsabilità di occuparsi del suo compagno e anche sovrastato dal dolore di perdere colui che si capisce essere stato il suo punto di riferimento per tanto tempo.
Il film di Harry Mcqueen è delicato nell'inserirsi nelle dinamiche interne di questa coppia, ma personalmente l'ho trovato emotivamente poco coinvolgente. Vero è che quella di Tusker e Sam è una coppia di lunga data e tra loro c'è più tenerezza che passione, ma personalmente ho avuto la sensazione che la chimica e l'interazione tra Stanley Tucci e Colin Firth non abbiano funzionato perfettamente. Firth è molto bravo nel rappresentare un uomo fragile e indifeso di fronte alla malattia del compagno, Tucci resta un po' distaccato, fors'anche per scelta, al punto che il rapporto tra i due sembra più quello tra due camarades che quello tra due amanti.
La scelta del regista è sicuramente quella di affrontare temi importanti e forti, come la malattia, l'amore tra due uomini, il fine vita spegnendo i toni e sottraendo il melodramma, per far emergere in purezza la dignità e l'umanità dei due protagonisti.
Forse però proprio questa scelta, pure apprezzabile, ha fatto sì che il film mi arrivasse solo in parte e non si imprimesse profondamente nei miei occhi e nel mio cuore.
Voto: 3/5
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Ibrahim
Ibrahim (Abdel Bendaher) è un adolescente di origine araba che vive a Parigi insieme al padre, Ahmed (Samir Guesmi, anche regista del film) che lavora come cameriere in una brasserie del centro.
Il rapporto tra Ibrahim e Ahmed non è facile, anche perché entrambi sono avari di parole, e la percezione dei sentimenti reciproci sono interamente affidati all'intuito e all'intelligenza individuale.
Ibrahim però deve fare i conti con la confusione tipica dell'adolescenza, l'insicurezza individuale e sociale e la fatica di costruire la propria identità nel mondo. Ahmed d'altro canto porta le ferite di un passato doloroso e degli errori che ha fatto e che a tutti i costi vuole evitare che suo figlio ripeta, senza però rendersi conto che senza dialogo fraintendimenti e deviazioni sono inevitabili.
Entrambi appartengono a un'umanità che, pur inserita nella società francese, vive ai suoi margini e si sente spinta verso un'ulteriore marginalizzazione da un sistema che certo non li aiuta a integrarsi pienamente.
È così che Ibrahim, un ragazzo di sani principi e di buoni sentimenti, finisce per trovarsi all'interno di un circolo vizioso che rischia di portarlo in una direzione pericolosa. I silenzi del padre e i suoi rimproveri pieni di affetto sono male interpretati da Ibrahim, creando una distanza tra i due. Sarà l'incontro con una ragazza senza pregiudizi e dalla forte personalità a restituire a Ibrahim la fiducia in sé stesso e a spingerlo al chiarimento con suo padre. Dedicato al vero Ahmed, padre del regista che lo interpreta nel film quasi come a chiudere il cerchio e a fare pace con il proprio passato e le proprie origini.
Voto: 3,5/5