Giorgio Barberio Corsetti, ex direttore del Teatro di Roma e ora consulente artistico, porta in scena La metamorfosi di Franz Kafka al Teatro Argentina.
La storia è ben nota: Gregor Samsa un mattino si sveglia trasformato in uno scarafaggio e da quel momento vive nella sua stanza come in una tana, mentre la sua famiglia fa i conti con i sentimenti ambivalenti che questa trasformazione produce in loro, fino al sollievo finale offerto dalla morte di Gregor.
Lo spettacolo di Corsetti vede protagonista, nei panni di Gregor, Michelangelo Dalisi, con il suo fisico ossuto e nervoso, mentre gli altri ruoli (i familiari, il procuratore, gli ospiti) sono interpretati da Roberto Rustioni, Sara Putignano, Anna Chiara Colombo, Giovanni Prosperi, Giulia Trippetta e Dario Caccuri.
La scena è allestita in due parti che sono divise da un muro girevole: da una parte del muro c'è la stanza di Gregor e dall'altra c'è il resto della casa (e del mondo) dove agiscono tutti gli altri personaggi. Facendo ruotare il muro, a volte vediamo esclusivamente la stanza da letto, altre volte invece vediamo contemporaneamente il dentro e il fuori.
La scelta però più dirompente del regista è quella di far recitare gli attori in buona parte in terza persona, ciascuno per le parti del testo che li riguardano e descrivono. Cosicché accade che gli attori prima dicano cosa faranno e subito dopo la facciano.
Tale scelta appare certamente destabilizzante e curiosa. Probabilmente il regista, creando in questo modo una distanza tra attori e spettatori, punta a evitare una rappresentazione "realistica" e ad accentuare il carattere del testo come racconto di finzione.
Allo stesso scopo, i protagonisti (ad eccezione di Gregor Samsa) propongono una recitazione un po' sopra le righe e decisamente poco mimetica rispetto al parlato, mentre canti eseguiti a cappella sottolineano alcuni momenti della narrazione.
Ne viene fuori una rappresentazione che oscilla tra il grottesco e il dolente, in cui l'opera di Kafka ci chiama ancora una volta a riflettere sul cambiamento e sul modo in cui ognuno di noi reagisce di fronte a ciò che trasformandosi fa fatica a essere compreso. I due oggetti principali della critica kafkiana, chiaramente stigmatizzati anche nella messa in scena di Barberio Corsetti, sono la famiglia, i cui membri non mostrano alcuna pietà per Gregor, ma solo disgusto e cinismo, e la burocrazia lavorativa, nella figura del procuratore totalmente disinteressato al benessere di Gregor, bensì preoccupato del ritardo e delle conseguenze sullo svolgimento del lavoro.
Si tratta ovviamente di tematiche universali e che si possono variamente declinare in infinite forme e contesti, cosa tipica dei capolavori; d'altra parte, l'inevitabile tentativo di alcuni critici di ricondurre anche questo spettacolo al presente contingente e volerci trovare un legame con quello che stiamo vivendo mi risulta piuttosto forzato e decisamente indigesto. Anche se, certo, i classici, per la loro stessa grandezza, riescono ad accogliere in pancia quasi tutto.
Voto: 3/5
lunedì 28 febbraio 2022
sabato 26 febbraio 2022
Cronorifugio / Georgi Gospodinov
Cronorifugio / Georgi Gospodinov; trad. di Giuseppe Dell'Agata. Roma: Voland, 2021.
Di questo libro mi aveva parlato la mia amica A. dicendomi che leggendolo aveva pensato a me. La cosa mi aveva subito incuriosito (anche perché in passato avevo molto amato un altro suo suggerimento, Karoo). Poi, quando ho scoperto che il romanzo di Georgi Gospodinov è tutto incentrato sui temi del tempo e della memoria, ho immediatamente deciso che lo avrei acquistato e letto al più presto.
Ho saputo solo dopo che il romanzo ha anche vinto il Premio Strega europeo nel 2021, cosa che mi ha ulteriormente ben predisposto.
Di che parla Cronorifugio? Parla di un medico, Gaustin, un personaggio mitico, alter ego del narratore, forse viaggiatore nel tempo, che porta avanti un progetto ambizioso: la realizzazione di case di cura destinate al numero crescente di persone colpite dal morbo di Alzheimer, luoghi che hanno la caratteristica di essere organizzati in ambienti o interi piani ispirati a specifici decenni o anni del passato nei quali questi malati possano sentirsi a proprio agio. Il narratore – anche a seguito di vicende personali – finirà coinvolto in questo progetto, destinato ad ampliarsi sempre di più con la realizzazione di interi quartieri o paesi “collocati” nel passato, veri e propri “cronorifugi”.
Presto però l’idea di un “cronorifugio”, ossia di un tempo nel quale rifugiarsi, da fenomeno individuale si trasforma in esigenza collettiva e sociale, al punto che nei paesi europei viene indetto un referendum attraverso il quale i cittadini potranno decidere di tornare a un decennio del passato della loro storia nazionale, con esiti che oscillano tra il comico, il malinconico e il tragico.
La prima parte, quella che si sofferma sulla dimensione individuale della perdita della memoria, ha un tono più lirico e malinconico, mentre nella seconda parte, quando lo sguardo si allarga alla collettività e alle nostre società sempre più nostalgiche e polarizzate, il tono diventa quasi satirico, e ovviamente finisce per incontrare anche il drammatico e il tragico.
Certamente c’è una componente personale e culturale in questo senso della nostalgia che pervade le pagine di Gospodinov, che probabilmente viene anche dalla sua storia e da quella della Bulgaria (di cui mi rendo conto di sapere pochissimo, e di fare fatica a cogliere i riferimenti di cui è disseminato il romanzo. Meno male che ci sono delle note e un glossario esplicativi). Ma ci sono anche tanti, se non tutti, i mali della nostra società: le divisioni, le narrazioni tossiche, la finzione, l’incapacità di comunicare.
Quello che comunque alla fine colpisce è la completa assenza di uno sguardo di prospettiva, come se il futuro non avesse più nulla di veramente nuovo da offrire, o - peggio ancora - come se qualunque novità venisse percepita come negativa, e dunque si preferisse rifugiarsi in quello che si conosce. Anche se a guardare bene quello che conosciamo e che è stato non è poi così bello e soddisfacente come lo ricordavamo.
Al termine del romanzo resto con un pensiero nella testa (forse anche perché ho scritto questa recensione il 1 gennaio del 2022): lasciamoci sorprendere dal futuro, perché la curiosità e l’apertura a tutto quello che arriva è il bene più prezioso che possiamo coltivare come esseri umani.
Voto: 3,5/5
Di questo libro mi aveva parlato la mia amica A. dicendomi che leggendolo aveva pensato a me. La cosa mi aveva subito incuriosito (anche perché in passato avevo molto amato un altro suo suggerimento, Karoo). Poi, quando ho scoperto che il romanzo di Georgi Gospodinov è tutto incentrato sui temi del tempo e della memoria, ho immediatamente deciso che lo avrei acquistato e letto al più presto.
Ho saputo solo dopo che il romanzo ha anche vinto il Premio Strega europeo nel 2021, cosa che mi ha ulteriormente ben predisposto.
Di che parla Cronorifugio? Parla di un medico, Gaustin, un personaggio mitico, alter ego del narratore, forse viaggiatore nel tempo, che porta avanti un progetto ambizioso: la realizzazione di case di cura destinate al numero crescente di persone colpite dal morbo di Alzheimer, luoghi che hanno la caratteristica di essere organizzati in ambienti o interi piani ispirati a specifici decenni o anni del passato nei quali questi malati possano sentirsi a proprio agio. Il narratore – anche a seguito di vicende personali – finirà coinvolto in questo progetto, destinato ad ampliarsi sempre di più con la realizzazione di interi quartieri o paesi “collocati” nel passato, veri e propri “cronorifugi”.
Presto però l’idea di un “cronorifugio”, ossia di un tempo nel quale rifugiarsi, da fenomeno individuale si trasforma in esigenza collettiva e sociale, al punto che nei paesi europei viene indetto un referendum attraverso il quale i cittadini potranno decidere di tornare a un decennio del passato della loro storia nazionale, con esiti che oscillano tra il comico, il malinconico e il tragico.
La prima parte, quella che si sofferma sulla dimensione individuale della perdita della memoria, ha un tono più lirico e malinconico, mentre nella seconda parte, quando lo sguardo si allarga alla collettività e alle nostre società sempre più nostalgiche e polarizzate, il tono diventa quasi satirico, e ovviamente finisce per incontrare anche il drammatico e il tragico.
Certamente c’è una componente personale e culturale in questo senso della nostalgia che pervade le pagine di Gospodinov, che probabilmente viene anche dalla sua storia e da quella della Bulgaria (di cui mi rendo conto di sapere pochissimo, e di fare fatica a cogliere i riferimenti di cui è disseminato il romanzo. Meno male che ci sono delle note e un glossario esplicativi). Ma ci sono anche tanti, se non tutti, i mali della nostra società: le divisioni, le narrazioni tossiche, la finzione, l’incapacità di comunicare.
Quello che comunque alla fine colpisce è la completa assenza di uno sguardo di prospettiva, come se il futuro non avesse più nulla di veramente nuovo da offrire, o - peggio ancora - come se qualunque novità venisse percepita come negativa, e dunque si preferisse rifugiarsi in quello che si conosce. Anche se a guardare bene quello che conosciamo e che è stato non è poi così bello e soddisfacente come lo ricordavamo.
Al termine del romanzo resto con un pensiero nella testa (forse anche perché ho scritto questa recensione il 1 gennaio del 2022): lasciamoci sorprendere dal futuro, perché la curiosità e l’apertura a tutto quello che arriva è il bene più prezioso che possiamo coltivare come esseri umani.
Voto: 3,5/5
giovedì 24 febbraio 2022
The Spank / di Hanif Kureishi. Teatro Parioli, 11 febbraio 2022
Leggo qua e là recensioni più o meno entusiastiche di quest'opera teatrale, basata sul testo di Hanif Kureishi, tradotto da Monica Capuani e interpretato da Filippo Dini (anche regista) e Valerio Binasco.
The Spank racconta la storia di due amici, Sonny (Valerio Binasco) e Vargas (Filippo Dini), dentista il primo, farmacista il secondo, i quali si incontrano regolarmente dopo il lavoro in un pub che si chiama The Spankies e che loro hanno ribattezzato The Spank (la sculacciata).
La storia viene raccontata retrospettivamente da Vargas, ad anni di distanza da quando ha perso di vista Sonny e le loro vite hanno preso strade diverse, e il racconto spiega il motivo di questo allontanamento.
Tutto comincia quando viene fuori che Sonny ha una relazione extraconiugale di cui Vargas non sa nulla: complice la decisione di quest'ultimo di raccontare questa cosa a sua moglie e la circolazione non voluta di un video da un telefono all'altro, le vite apparentemente ordinate e regolari di Sonny e Vargas finiscono sottosopra e soprattutto la loro amicizia viene messa alla prova e va in crisi di fronte a punti di vista profondamente diversi dei due uomini. Il "caso" si espande a macchia d'olio coinvolgendo non solo le mogli ma anche i figli di Sonny e Vargas e portando alla luce disfunzionalità e problemi irrisolti. La rottura finale sarà inevitabile.
La sinossi di quest'opera mi aveva fortemente incuriosita e per questo avevo accettato di buon grado di andare a teatro a vedere lo spettacolo. Il nome di Hanif Kureishi e il tema trattato (l'amicizia) mi facevano pensare a uno spettacolo dai toni malinconici e molto attento ai profili psicologici dei protagonisti.
Non voglio dire che nello spettacolo non ci siano queste componenti, né ritengo fuori luogo quel po' di goliardia che credo sia una componente essenziale dell'amicizia maschile; e però lo spettacolo non mi ha conquistata per diversi motivi. Innanzitutto il mescolarsi di registri opposti (il comico, il drammatico, il malinconico) in modi dal mio punto di vista un po' forzati e poco realistici; in secondo luogo, uno sviluppo narrativo secondo me poco curato, al punto che lo spettatore fa fatica a capire il ruolo e il senso delle azioni di alcuni personaggi collaterali, richiamati dai protagonisti; in terzo luogo, la recitazione di Filippo Dini e Valerio Binasco, che a mio personale gusto risulta un po' troppo sopra le righe.
Cosicché a fronte di una storia di vita che avrebbe potuto favorire una forte immedesimazione e di un allestimento complessivo che punta certamente alla resa realistica e naturalistica, a me lo spettacolo ha creato distanza ed è risultato un po' "finto" e non del tutto sensato.
Sicuramente sono un po' troppo critica in questa mia recensione, e probabilmente mi sfugge qualcosa, oppure semplicemente è il testo di Kureishi a non piacermi (prima ancora dello spettacolo). Fatto sta che agli applausi convinti del pubblico e ai commenti positivi di F. non so bene cosa rispondere se non che lo spettacolo non mi ha convinta.
Voto: 2,5/5
The Spank racconta la storia di due amici, Sonny (Valerio Binasco) e Vargas (Filippo Dini), dentista il primo, farmacista il secondo, i quali si incontrano regolarmente dopo il lavoro in un pub che si chiama The Spankies e che loro hanno ribattezzato The Spank (la sculacciata).
La storia viene raccontata retrospettivamente da Vargas, ad anni di distanza da quando ha perso di vista Sonny e le loro vite hanno preso strade diverse, e il racconto spiega il motivo di questo allontanamento.
Tutto comincia quando viene fuori che Sonny ha una relazione extraconiugale di cui Vargas non sa nulla: complice la decisione di quest'ultimo di raccontare questa cosa a sua moglie e la circolazione non voluta di un video da un telefono all'altro, le vite apparentemente ordinate e regolari di Sonny e Vargas finiscono sottosopra e soprattutto la loro amicizia viene messa alla prova e va in crisi di fronte a punti di vista profondamente diversi dei due uomini. Il "caso" si espande a macchia d'olio coinvolgendo non solo le mogli ma anche i figli di Sonny e Vargas e portando alla luce disfunzionalità e problemi irrisolti. La rottura finale sarà inevitabile.
La sinossi di quest'opera mi aveva fortemente incuriosita e per questo avevo accettato di buon grado di andare a teatro a vedere lo spettacolo. Il nome di Hanif Kureishi e il tema trattato (l'amicizia) mi facevano pensare a uno spettacolo dai toni malinconici e molto attento ai profili psicologici dei protagonisti.
Non voglio dire che nello spettacolo non ci siano queste componenti, né ritengo fuori luogo quel po' di goliardia che credo sia una componente essenziale dell'amicizia maschile; e però lo spettacolo non mi ha conquistata per diversi motivi. Innanzitutto il mescolarsi di registri opposti (il comico, il drammatico, il malinconico) in modi dal mio punto di vista un po' forzati e poco realistici; in secondo luogo, uno sviluppo narrativo secondo me poco curato, al punto che lo spettatore fa fatica a capire il ruolo e il senso delle azioni di alcuni personaggi collaterali, richiamati dai protagonisti; in terzo luogo, la recitazione di Filippo Dini e Valerio Binasco, che a mio personale gusto risulta un po' troppo sopra le righe.
Cosicché a fronte di una storia di vita che avrebbe potuto favorire una forte immedesimazione e di un allestimento complessivo che punta certamente alla resa realistica e naturalistica, a me lo spettacolo ha creato distanza ed è risultato un po' "finto" e non del tutto sensato.
Sicuramente sono un po' troppo critica in questa mia recensione, e probabilmente mi sfugge qualcosa, oppure semplicemente è il testo di Kureishi a non piacermi (prima ancora dello spettacolo). Fatto sta che agli applausi convinti del pubblico e ai commenti positivi di F. non so bene cosa rispondere se non che lo spettacolo non mi ha convinta.
Voto: 2,5/5
venerdì 18 febbraio 2022
Brevi interviste con uomini schifosi. Teatro India, 8 febbraio 2022
David Foster Wallace è un autore di culto nella letteratura contemporanea del quale un folto gruppo di appassionati e fan (in particolare nella fascia d'età tra 30 e i 45 anni) conosce ogni scritto e atto. Non a caso allo spettacolo in programma al Teatro India il pubblico è tendenzialmente diverso da quello solito, e vede presente un numero di giovani (intorno e sotto i trent'anni) parecchio significativo.
Per quanto mi riguarda devo ammettere - ancora una volta - la mia ignoranza. Conosco lo scrittore solo di nome, e così alcune delle sue opere più famose. Ho da qualche parte Infinite jest che mi aspetta per la lettura ma non l'ho ancora affrontato. Dunque, arrivo allo spettacolo completamente impreparata, e attirata fondamentalmente dalla presenza di Lino Musella, che ormai seguo con una certa costanza.
Lo spettacolo, per la regia e la drammaturgia di Daniel Veronese, è interpretato da due uomini: uno è appunto Lino Musella e l'altro è Paolo Mazzarelli, già visto calcare la scena insieme a Musella in Orphans qualche anno fa.
I due si muovono su un palco che sembra una specie di ring e dove pochissimi elementi di scenografia, tra cui un tavolo e una sedia, creano il contesto del racconto. Uno grande schermo sullo sfondo ci ricorda man mano i titoli dei singoli racconti.
Il termine "racconto" probabilmente non è del tutto corretto. Nell'opera di Wallace si tratta in realtà di un certo numero di monologhi, in cui uomini diversi esprimono - in forme più o meno deliranti - il loro punto di vista sulle relazioni, le donne, i sentimenti, e in generale mettono a nudo un certo tipo di universo maschile. Questi monologhi in realtà sono pensati come una specie di risposta a una domanda (non a caso il titolo fa riferimento a delle interviste), la quale domanda rimane però non formulata e implicita.
Per quanto mi riguarda devo ammettere - ancora una volta - la mia ignoranza. Conosco lo scrittore solo di nome, e così alcune delle sue opere più famose. Ho da qualche parte Infinite jest che mi aspetta per la lettura ma non l'ho ancora affrontato. Dunque, arrivo allo spettacolo completamente impreparata, e attirata fondamentalmente dalla presenza di Lino Musella, che ormai seguo con una certa costanza.
Lo spettacolo, per la regia e la drammaturgia di Daniel Veronese, è interpretato da due uomini: uno è appunto Lino Musella e l'altro è Paolo Mazzarelli, già visto calcare la scena insieme a Musella in Orphans qualche anno fa.
I due si muovono su un palco che sembra una specie di ring e dove pochissimi elementi di scenografia, tra cui un tavolo e una sedia, creano il contesto del racconto. Uno grande schermo sullo sfondo ci ricorda man mano i titoli dei singoli racconti.
Il termine "racconto" probabilmente non è del tutto corretto. Nell'opera di Wallace si tratta in realtà di un certo numero di monologhi, in cui uomini diversi esprimono - in forme più o meno deliranti - il loro punto di vista sulle relazioni, le donne, i sentimenti, e in generale mettono a nudo un certo tipo di universo maschile. Questi monologhi in realtà sono pensati come una specie di risposta a una domanda (non a caso il titolo fa riferimento a delle interviste), la quale domanda rimane però non formulata e implicita.
Nel caso della trasposizione cinematografica di John Krasinski il regista decide di materializzare l'intervistatore, mentre invece nello spettacolo di Veronese viene messo in scena il destinatario di queste esternazioni, o meglio la destinataria, visto che fondamentalmente si tratta di punti di vista maschili che hanno a che fare con il rapporto uomo-donna.
Dunque Musella e Mazzarelli interpretano alternativamente la parte dell'uomo che esterna e quello della donna che ascolta e dà qualche piccolo, ma importante feedback, anche solo nell'espressione o nei gesti.
I due attori sono molto bravi e convincenti nel rappresentare questi strani "dialoghi", e alcuni di quelli portati in scena sono cinicamente e a volte inquietantemente divertenti nel portare alla luce punti di vista retrogradi e bizzarri, e vizi maschili più o meno consolidati. Devo però dire che personalmente non li ho trovati particolarmente dirompenti. Probabilmente a distanza di oltre 20 anni dalla pubblicazione del libro - e forse anche grazie all'influenza esercitata da Wallace sulla letteratura successiva - siamo molto più abituati a questo tipo di scrittura e di racconto, sebbene non ci sia nulla da essere contenti sul fatto che i tipi umani rappresentati ci risultino ancora familiari.
Diciamo che esco dal teatro ben impressionata dalla recitazione di Musella e Mazzarelli (ma questa non è una sorpresa) e decisa a recuperare Wallace con qualche lettura (speriamo presto!), ma non ancora conquistata dalla passione con cui tanti guardano a questo autore.
Voto: 3,5/5
Dunque Musella e Mazzarelli interpretano alternativamente la parte dell'uomo che esterna e quello della donna che ascolta e dà qualche piccolo, ma importante feedback, anche solo nell'espressione o nei gesti.
I due attori sono molto bravi e convincenti nel rappresentare questi strani "dialoghi", e alcuni di quelli portati in scena sono cinicamente e a volte inquietantemente divertenti nel portare alla luce punti di vista retrogradi e bizzarri, e vizi maschili più o meno consolidati. Devo però dire che personalmente non li ho trovati particolarmente dirompenti. Probabilmente a distanza di oltre 20 anni dalla pubblicazione del libro - e forse anche grazie all'influenza esercitata da Wallace sulla letteratura successiva - siamo molto più abituati a questo tipo di scrittura e di racconto, sebbene non ci sia nulla da essere contenti sul fatto che i tipi umani rappresentati ci risultino ancora familiari.
Diciamo che esco dal teatro ben impressionata dalla recitazione di Musella e Mazzarelli (ma questa non è una sorpresa) e decisa a recuperare Wallace con qualche lettura (speriamo presto!), ma non ancora conquistata dalla passione con cui tanti guardano a questo autore.
Voto: 3,5/5
mercoledì 16 febbraio 2022
Ohio / Stephen Markley
Ohio / Stephen Markley; trad. di Cristiana Mennella. Torino: Einaudi, 2020.
Con Ohio mi è capitata una cosa che spesso mi succede con la lettura: ho iniziato a leggere il romanzo mentre ero in vacanza, poi tornata al lavoro e alla routine sono andata avanti molto a rilento perdendo un po' il filo del discorso, infine ho approfittato di un'altra breve vacanzina per rituffarmi nelle pagine e terminare la lettura, in un crescendo di voracità.
Va detto che il libro di Stephen Markley è anche strutturato in un modo che favorisce questo tipo di approccio visto che quella che inizia come una classica narrazione d'ambiente si trasforma a poco a poco e poi in misura significativa nella parte finale del libro in un vero e proprio thriller che ci svelerà una verità scomoda e rimasta sepolta per tanti anni.
Siamo a New Canaan, un paesino dell'Ohio, dove un gruppo di ragazzi ha condiviso gli anni del liceo tra amicizie, amori, rancori e rivalità. Da allora molto tempo è passato e ognuno ha preso la sua strada: qualcuno è andato via, qualcun altro è rimasto; alcuni hanno trovato sé stessi, altri hanno fatto i conti con la difficoltà di realizzare i propri sogni.
Il libro si apre con la parata in onore di Rick Brinklan, partito per la guerra in Iraq dopo l'attacco alle torri gemelle e tornato morto. Poi ogni capitolo assume il punto di vista di uno dei protagonisti, svelando a poco a poco un pezzetto di verità e lasciando indizi che poi sta al lettore ricomporre in una storia coerente.
Il primo capitolo è dedicato a Bill Ashcraft, un'attivista disilluso che ha girato il mondo all'inseguimento dei suoi ideali, il secondo a Stacey Moore, che ha finalmente accettato la propria omosessualità e vorrebbe capire che fine ha fatto Lisa Han, la ragazza con cui per prima aveva avuto una storia, il terzo a Dan Eaton, un ragazzo di buoni sentimenti che le diverse campagne in Afghanistan a cui ha partecipato hanno segnato per sempre, il quarto a Tina Ross, una ragazza fragile che si porta dietro molti traumi adolescenziali.
Nell'ultimo capitolo, quando il romanzo ha già ampiamente preso la via del thriller/poliziesco, un approfondimento su Lisa Han scioglie tutti i nodi residui.
Per essere un esordio letterario il risultato è certamente ottimo. Markley si muove dalle parti di tutte quelle narrazioni che si concentrano sugli orrori che si nascondono dietro la facciata borghese e benpensante della provincia americana, e al contempo il suo è un romanzo sulla perdita di innocenza e la caduta dei sogni, che in un modo o nell'altro segnano il passaggio alla vita adulta e condizionano il futuro.
Per il mio personale modo di vedere, Ohio ha il difetto di essere un po' troppo carico (tutti hanno segreti - non piccoli - da nascondere) e un po' troppo autoreferenziale (l'America e l'americanità sono il metro per misurare tutte le cose). Nel complesso l'ho trovato un libro un po' troppo costruito a tavolino, e per questo non mi ha convinta del tutto.
Voto: 3/5
Con Ohio mi è capitata una cosa che spesso mi succede con la lettura: ho iniziato a leggere il romanzo mentre ero in vacanza, poi tornata al lavoro e alla routine sono andata avanti molto a rilento perdendo un po' il filo del discorso, infine ho approfittato di un'altra breve vacanzina per rituffarmi nelle pagine e terminare la lettura, in un crescendo di voracità.
Va detto che il libro di Stephen Markley è anche strutturato in un modo che favorisce questo tipo di approccio visto che quella che inizia come una classica narrazione d'ambiente si trasforma a poco a poco e poi in misura significativa nella parte finale del libro in un vero e proprio thriller che ci svelerà una verità scomoda e rimasta sepolta per tanti anni.
Siamo a New Canaan, un paesino dell'Ohio, dove un gruppo di ragazzi ha condiviso gli anni del liceo tra amicizie, amori, rancori e rivalità. Da allora molto tempo è passato e ognuno ha preso la sua strada: qualcuno è andato via, qualcun altro è rimasto; alcuni hanno trovato sé stessi, altri hanno fatto i conti con la difficoltà di realizzare i propri sogni.
Il libro si apre con la parata in onore di Rick Brinklan, partito per la guerra in Iraq dopo l'attacco alle torri gemelle e tornato morto. Poi ogni capitolo assume il punto di vista di uno dei protagonisti, svelando a poco a poco un pezzetto di verità e lasciando indizi che poi sta al lettore ricomporre in una storia coerente.
Il primo capitolo è dedicato a Bill Ashcraft, un'attivista disilluso che ha girato il mondo all'inseguimento dei suoi ideali, il secondo a Stacey Moore, che ha finalmente accettato la propria omosessualità e vorrebbe capire che fine ha fatto Lisa Han, la ragazza con cui per prima aveva avuto una storia, il terzo a Dan Eaton, un ragazzo di buoni sentimenti che le diverse campagne in Afghanistan a cui ha partecipato hanno segnato per sempre, il quarto a Tina Ross, una ragazza fragile che si porta dietro molti traumi adolescenziali.
Nell'ultimo capitolo, quando il romanzo ha già ampiamente preso la via del thriller/poliziesco, un approfondimento su Lisa Han scioglie tutti i nodi residui.
Per essere un esordio letterario il risultato è certamente ottimo. Markley si muove dalle parti di tutte quelle narrazioni che si concentrano sugli orrori che si nascondono dietro la facciata borghese e benpensante della provincia americana, e al contempo il suo è un romanzo sulla perdita di innocenza e la caduta dei sogni, che in un modo o nell'altro segnano il passaggio alla vita adulta e condizionano il futuro.
Per il mio personale modo di vedere, Ohio ha il difetto di essere un po' troppo carico (tutti hanno segreti - non piccoli - da nascondere) e un po' troppo autoreferenziale (l'America e l'americanità sono il metro per misurare tutte le cose). Nel complesso l'ho trovato un libro un po' troppo costruito a tavolino, e per questo non mi ha convinta del tutto.
Voto: 3/5
lunedì 14 febbraio 2022
Smarrimento / di Lucia Calamaro. Teatro India, 1 febbraio 2022
Di Lucia Calamaro avevamo visto a gennaio del 2020, prima che le nostre vite venissero sconvolte dal Covid, lo spettacolo Si nota all'imbrunire, attirata in quel caso dall'interpretazione di Silvio Orlando oltre che dal tema trattato.
Lo spettacolo mi era piaciuto, e così - come mi è successo molte altre volte al teatro - ho cominciato a seguire un po' questa drammaturga. Così quando ho visto che quest'anno all'India era in programmazione un suo spettacolo interpretato da Lucia Mascino ho proposto a F. di andare a vederlo.
È la sera della prima, e nonostante sia anche la prima serata di Sanremo, il teatro è pieno, e ci sono anche alcuni volti noti nel pubblico. Mentre entriamo in sala sul palco c'è già l'attrice che "recita". E quando tutti sono al loro posto, la protagonista si rivolge direttamente al pubblico: si tratta di una scrittrice in crisi, perseguitata dai suoi agenti ed editori perché è molto tempo che non termina una storia, pur avendo moltissimi inizi di storie. Noi siamo il pubblico di un suo reading, organizzato per riavvicinarla al pubblico e rilanciare le vendite.
Ma in realtà il reading diventa una specie di flusso di coscienza, in cui la nostra autrice rivela il suo senso di "smarrimento", le sue fragilità, le sue insicurezze, le idiosincrasie (spesso comuni a tutti coloro che lavorano con le storie e con le parole), ma anche la sua simpatia. L'effetto è fortemente empatico, anche grazie alle forme di "quasi interazione" che lo spettacolo offre a più riprese.
Ho letto che questo testo è stato scritto appositamente per Lucia Mascino, e infatti le calza addosso come un vestito fatto su misura. Lei l'avevo vista altre volte a teatro e in televisione e non ne ero mai stata particolarmente colpita; qui, invece, la apprezzo molto, sembra tirare fuori la parte migliore della sua capacità recitativa, risultando emotivamente intensa e al contempo leggera.
Un'ora di monologo fortemente partecipato che, se vi capita, vi consiglio senza ombra di dubbio di vedere.
Voto: 3,5/5
Lo spettacolo mi era piaciuto, e così - come mi è successo molte altre volte al teatro - ho cominciato a seguire un po' questa drammaturga. Così quando ho visto che quest'anno all'India era in programmazione un suo spettacolo interpretato da Lucia Mascino ho proposto a F. di andare a vederlo.
È la sera della prima, e nonostante sia anche la prima serata di Sanremo, il teatro è pieno, e ci sono anche alcuni volti noti nel pubblico. Mentre entriamo in sala sul palco c'è già l'attrice che "recita". E quando tutti sono al loro posto, la protagonista si rivolge direttamente al pubblico: si tratta di una scrittrice in crisi, perseguitata dai suoi agenti ed editori perché è molto tempo che non termina una storia, pur avendo moltissimi inizi di storie. Noi siamo il pubblico di un suo reading, organizzato per riavvicinarla al pubblico e rilanciare le vendite.
Ma in realtà il reading diventa una specie di flusso di coscienza, in cui la nostra autrice rivela il suo senso di "smarrimento", le sue fragilità, le sue insicurezze, le idiosincrasie (spesso comuni a tutti coloro che lavorano con le storie e con le parole), ma anche la sua simpatia. L'effetto è fortemente empatico, anche grazie alle forme di "quasi interazione" che lo spettacolo offre a più riprese.
Ho letto che questo testo è stato scritto appositamente per Lucia Mascino, e infatti le calza addosso come un vestito fatto su misura. Lei l'avevo vista altre volte a teatro e in televisione e non ne ero mai stata particolarmente colpita; qui, invece, la apprezzo molto, sembra tirare fuori la parte migliore della sua capacità recitativa, risultando emotivamente intensa e al contempo leggera.
Un'ora di monologo fortemente partecipato che, se vi capita, vi consiglio senza ombra di dubbio di vedere.
Voto: 3,5/5
venerdì 11 febbraio 2022
Oceano nero / disegni Bastien Vivès; testi Martin Quenehen
Oceano nero / disegni Bastien Vivès; testi Martin Quenehen; dall'opera di Hugo Pratt. Svizzera: CONG, 2021.
Non sono mai stata un'appassionata di Corto Maltese, anche se l'immagine del marinaio/pirata creato da Hugo Pratt l'ho sempre trovata affascinante e dopo aver visitato qualche anno fa a Bologna una mostra a lui dedicata mi sono incuriosita. Avrei voluto leggere Una ballata del mare salato, poi non l'ho fatto, e così quando Bastien Vivès (uno dei miei fumettisti preferiti) e Martin Quenehen hanno dato nuova vita al personaggio di Corto Maltese ho deciso che era arrivato il momento giusto per incontrare questo mondo.
Ho dunque comprato Oceano nero, la prima avventura del nuovo Corto Maltese, che nell'interpretazione di Vivès si presenta più giovane e un po' più femmineo (quindi in generale più in linea con i tempi), ma parimenti affascinante.
L'avventura raccontata dalla sceneggiatura di Quenehen ha tutti gli ingredienti classici dell'universo di Corto Maltese: una resa di conti tra criminali, un libro misterioso che parla di un tesoro in Perù, avventurieri e vagabondi, una storia d'amore, amici che ricompaiono da un più o meno lontano passato, uno scioglimento finale, mentre Corto parte per nuove avventure.
Il tipo di racconto non è tra quelli che generalmente attirano la mia attenzione: su questo genere tanti anni fa leggevo e amavo Martin Mystère, ma lì per me la curiosità e l'interesse nascevano primariamente dal portare all'attenzione del lettore misteri più o meno bizzarri, documentati in modo abbastanza approfondito seppure romanzati.
Per questi motivi, la storia di Oceano nero mi attraversa senza lasciare troppe tracce, però i chiaroscuri e i primi piani dei personaggi disegnati da Vivès sono qualcosa che rimane dentro a lungo e si imprime nella memoria.
Resto dunque in attesa di nuove avventure del rinnovato Corto Maltese.
Voto: 3,5/5
Non sono mai stata un'appassionata di Corto Maltese, anche se l'immagine del marinaio/pirata creato da Hugo Pratt l'ho sempre trovata affascinante e dopo aver visitato qualche anno fa a Bologna una mostra a lui dedicata mi sono incuriosita. Avrei voluto leggere Una ballata del mare salato, poi non l'ho fatto, e così quando Bastien Vivès (uno dei miei fumettisti preferiti) e Martin Quenehen hanno dato nuova vita al personaggio di Corto Maltese ho deciso che era arrivato il momento giusto per incontrare questo mondo.
Ho dunque comprato Oceano nero, la prima avventura del nuovo Corto Maltese, che nell'interpretazione di Vivès si presenta più giovane e un po' più femmineo (quindi in generale più in linea con i tempi), ma parimenti affascinante.
L'avventura raccontata dalla sceneggiatura di Quenehen ha tutti gli ingredienti classici dell'universo di Corto Maltese: una resa di conti tra criminali, un libro misterioso che parla di un tesoro in Perù, avventurieri e vagabondi, una storia d'amore, amici che ricompaiono da un più o meno lontano passato, uno scioglimento finale, mentre Corto parte per nuove avventure.
Il tipo di racconto non è tra quelli che generalmente attirano la mia attenzione: su questo genere tanti anni fa leggevo e amavo Martin Mystère, ma lì per me la curiosità e l'interesse nascevano primariamente dal portare all'attenzione del lettore misteri più o meno bizzarri, documentati in modo abbastanza approfondito seppure romanzati.
Per questi motivi, la storia di Oceano nero mi attraversa senza lasciare troppe tracce, però i chiaroscuri e i primi piani dei personaggi disegnati da Vivès sono qualcosa che rimane dentro a lungo e si imprime nella memoria.
Resto dunque in attesa di nuove avventure del rinnovato Corto Maltese.
Voto: 3,5/5
mercoledì 9 febbraio 2022
Quel giorno tu sarai
Sono ormai diventata un'affezionata frequentatrice del cinema Troisi, anche per la possibilità di partecipare a presentazione e dibattiti che riguardano i film in programmazione.
In questo caso, in occasione della Giornata della memoria, è prevista la proiezione del film Quel giorno tu sarai di Kornél Mundruczó, la cui sceneggiatura è stata scritta da Kata Wéber, autrice ungherese di madre ebrea, nonché moglie del regista.
Al dibattito/presentazione che precede il film, organizzato dalla rivista e il Centro Studi Confronti e dall'Associazione Piccolo America, partecipano la stessa sceneggiatrice (in video-collegamento), il regista e sceneggiatore Alberto Caviglia, la filosofa Raffaella Di Castro, la giornalista e scrittrice Lia Tagliacozzo, moderati da Michele Lipori. Viene anche proiettato un videomessaggio registrato della scrittrice ungherese Edith Bruck, sopravvissuta ai campi di sterminio e vincitrice del Premio Strega Giovani 2021 con il libro Il pane perduto. Il dibattito è interessante, anche se è parecchio disturbato da problemi di collegamento con la Webér cosicché risulta un po' meno coinvolgente di quanto avrebbe potuto essere.
Il film di Mundruczó, regista già conosciuto in Italia per la precedente pellicola Pieces of a woman (che però io non ho visto), racconta la storia dell'eredità della Shoah su tre generazioni, quella di Éva (miracolosamente ritrovata, piccolissima, in un campo di concentramento dopo l'arrivo dei russi), quella di Léna, la figlia di Éva (arrivata a Budapest per accudire la madre ormai anziana), e quella di Jonas, il figlio adolescente con cui Léna vive a Berlino.
Il tema centrale del film è certamente quello della memoria, strettamente connesso a quello dell'eredità della Shoah attraverso le generazioni, tema tra l'altro molto sensibile in un momento in cui i testimoni oculari dell'Olocausto sono rimasti in pochi e nel giro di qualche anno non ci saranno più.
Quel giorno tu sarai parla anche di questo, mostrando come - allontanandosi da Éva, che porta con sé i propri ricordi ma soprattutto i racconti di coloro che nella sua generazione hanno vissuto l'orrore dei campi di concentramento - il significato dell'essere ebrei e di quello che la Shoah ha rappresentato per loro comincia ad affievolirsi e ad essere percepito come un peso di cui liberarsi, più che come una vicenda collettiva di cui coltivare la memoria.
Mundruczó sceglie una forma cinematografica peculiare per comunicare questo processo: innanzitutto un formato piuttosto stretto dello schermo (una specie di 4:3) e in secondo luogo tre lunghissimi piani sequenza, che nelle tre parti del racconto non si staccano un attimo dai protagonisti e non danno respiro allo spettatore.
Sceneggiatrice e regista scelgono inoltre immagini forti (penso soprattutto a quella iniziale dei soldati che ripuliscono una delle celle del campo di concentramento) e molti simboli, primo fra tutti quello dell'acqua, protagonista sia nel primo capitolo che nel secondo, simbolo di purificazione. Anche nel terzo capitolo non mancano passaggi narrativi simbolici: Jonas che si toglie l'ultimo dente da latte, Jonas che indossa maschere di mostri, Jonas che si innamora di una ragazzina immigrata.
Per quanto mi riguarda, pur apprezzando la confezione stilistica del film e la forza di alcuni suoi contenuti, sono rimasta un po' interdetta dalla semplificazione operata in termini di simboli, oltre ad aver faticato parecchio in termini di attenzione in alcuni passaggi secondo me un po' ripetitivi.
Credo sia soprattutto questione di cultura cinematografica e di scelte narrative che sento meno vicine alla mia sensibilità e con cui faccio fatica a entrare in sintonia.
Voto: 3/5
In questo caso, in occasione della Giornata della memoria, è prevista la proiezione del film Quel giorno tu sarai di Kornél Mundruczó, la cui sceneggiatura è stata scritta da Kata Wéber, autrice ungherese di madre ebrea, nonché moglie del regista.
Al dibattito/presentazione che precede il film, organizzato dalla rivista e il Centro Studi Confronti e dall'Associazione Piccolo America, partecipano la stessa sceneggiatrice (in video-collegamento), il regista e sceneggiatore Alberto Caviglia, la filosofa Raffaella Di Castro, la giornalista e scrittrice Lia Tagliacozzo, moderati da Michele Lipori. Viene anche proiettato un videomessaggio registrato della scrittrice ungherese Edith Bruck, sopravvissuta ai campi di sterminio e vincitrice del Premio Strega Giovani 2021 con il libro Il pane perduto. Il dibattito è interessante, anche se è parecchio disturbato da problemi di collegamento con la Webér cosicché risulta un po' meno coinvolgente di quanto avrebbe potuto essere.
Il film di Mundruczó, regista già conosciuto in Italia per la precedente pellicola Pieces of a woman (che però io non ho visto), racconta la storia dell'eredità della Shoah su tre generazioni, quella di Éva (miracolosamente ritrovata, piccolissima, in un campo di concentramento dopo l'arrivo dei russi), quella di Léna, la figlia di Éva (arrivata a Budapest per accudire la madre ormai anziana), e quella di Jonas, il figlio adolescente con cui Léna vive a Berlino.
Il tema centrale del film è certamente quello della memoria, strettamente connesso a quello dell'eredità della Shoah attraverso le generazioni, tema tra l'altro molto sensibile in un momento in cui i testimoni oculari dell'Olocausto sono rimasti in pochi e nel giro di qualche anno non ci saranno più.
Quel giorno tu sarai parla anche di questo, mostrando come - allontanandosi da Éva, che porta con sé i propri ricordi ma soprattutto i racconti di coloro che nella sua generazione hanno vissuto l'orrore dei campi di concentramento - il significato dell'essere ebrei e di quello che la Shoah ha rappresentato per loro comincia ad affievolirsi e ad essere percepito come un peso di cui liberarsi, più che come una vicenda collettiva di cui coltivare la memoria.
Mundruczó sceglie una forma cinematografica peculiare per comunicare questo processo: innanzitutto un formato piuttosto stretto dello schermo (una specie di 4:3) e in secondo luogo tre lunghissimi piani sequenza, che nelle tre parti del racconto non si staccano un attimo dai protagonisti e non danno respiro allo spettatore.
Sceneggiatrice e regista scelgono inoltre immagini forti (penso soprattutto a quella iniziale dei soldati che ripuliscono una delle celle del campo di concentramento) e molti simboli, primo fra tutti quello dell'acqua, protagonista sia nel primo capitolo che nel secondo, simbolo di purificazione. Anche nel terzo capitolo non mancano passaggi narrativi simbolici: Jonas che si toglie l'ultimo dente da latte, Jonas che indossa maschere di mostri, Jonas che si innamora di una ragazzina immigrata.
Per quanto mi riguarda, pur apprezzando la confezione stilistica del film e la forza di alcuni suoi contenuti, sono rimasta un po' interdetta dalla semplificazione operata in termini di simboli, oltre ad aver faticato parecchio in termini di attenzione in alcuni passaggi secondo me un po' ripetitivi.
Credo sia soprattutto questione di cultura cinematografica e di scelte narrative che sento meno vicine alla mia sensibilità e con cui faccio fatica a entrare in sintonia.
Voto: 3/5
lunedì 7 febbraio 2022
Nella casa dei tuoi sogni / Carmen Maria Machado
Nella casa dei tuoi sogni / Carmen Maria Machado; trad. di Monica Capuani. Torino: Codice edizioni, 2020.
L'anno scorso, in piena pandemia, avevo sentito parlare molto e molto bene di questo libro di Carmen Maria Machado, e per questo Nella casa dei tuoi sogni era entrato di diritto nella mia lista dei desideri. L'ho anche suggerito a chi mi chiedeva cosa poteva regalarmi, ma siccome la mia lista è davvero lunghissima alla fine nessuno me l'ha regalato e me lo sono comprato.
Durante un viaggio in treno verso Bari (ormai i viaggi in treno a medio-lunga percorrenza sono la mia condizione preferita per leggere, oltre che per dormire) ho iniziato questo libro e in quattro ore ero già oltre la metà. Cosicché il viaggio di ritorno è stato ampiamente sufficiente a completare la lettura.
Del libro mi aveva colpito il tema: la storia di un abuso o comunque di una forma di violenza psicologica all'interno di una coppia di donne, un tema davvero poco rappresentato nella letteratura e in generale nella narrazione sul mondo gay. Come la stessa Machado riflette, la condizione di minoranza della comunità gay e la lotta ancora in essere per la conquista dei diritti fanno sì che la narrazione su questo mondo tenda a presentarlo sempre sotto una luce positiva e a tacere degli aspetti meno spendibili sul piano della comunicazione, che sarebbero strumentalmente cavalcati da chi si oppone alla piena integrazione e riconoscimento dei diritti di questa minoranza. Tale discorso vale in realtà per tutte le minoranze, e crea inevitabilmente delle storture, perché innesca forme di bias incompatibili con la realtà delle cose, e la realtà delle cose si può sintetizzare in questo modo: gli esseri umani sono esseri umani, a qualunque minoranza appartengano, con le loro brutture e le loro virtù.
Questa necessità di coprire le brutture che avvengono all'interno di alcune minoranze ovviamente danneggia chi all'interno di quel gruppo subisce le conseguenze di quei comportamenti, e che si trova nella condizione di essere più invisibile di chi è in quella condizione all'interno della maggioranza.
Il tema trattato nel memoir di Carmen Maria Machado, che parla appunto della sua esperienza di coppia con una donna dalla personalità manipolatoria e instabile, non è molto dissimile da quanto raccontato dalla protagonista del graphic novel L'amore non basta! Quest'ultima ne parlava nell'ambito di una coppia etero e dunque la figura del manipolatore era quella di un uomo, mentre per quanto riguarda la Machado parliamo di una coppia lesbica.
Le dinamiche interne alla coppia e la condizione della vittima sono però molto simili: l'iniziale amore fulminante ed idilliaco, il successivo e rapido deteriorarsi del rapporto, le altalene di sentimenti, gli scoppi d'ira, le menzogne, la gelosia e la possessività esasperata, e la conseguente condizione di sofferenza psicologica, nonché la sensazione di minaccia costante della malcapitata, che a poco a poco si chiude in sé stessa e sprofonda in un buco nero.
La "casa dei tuoi sogni" di cui parla il titolo è quella che per alcuni periodi l'autrice ha condiviso con la sua compagna, ed è ovviamente un'espressione fortemente antifrastica, visto che quella casa è stata per la Machado un luogo di infelicità e sofferenza.
Il tema è importante, e necessita di essere portato alla luce, chiunque siano i/le protagonisti/e. Si tratta tra l'altro di un passaggio necessario per consentire a chi vive condizioni di questo tipo di riconoscerle come patologiche e di avviare un processo di riscatto individuale, che in casi come questo è molto difficile in una condizione di isolamento.
Andando oltre il contenuto, che di per sé meriterebbe la nostra attenzione, il memoir della Machado ci cattura anche sul piano stilistico per l'originalità dell'organizzazione dei contenuti e della scrittura. Il volume si articola infatti in brevi capitoli, concepiti come altrettante interpretazioni della "casa dei tuoi sogni", che in parte raccontano la storia oggetto del libro, in altri casi parlano di eventi del passato, ovvero aneddoti, o ancora particolari, ciascuno capace di gettare luce sul tema e sulla protagonista della storia. Particolare anche l'uso della narrazione con l'utilizzo della seconda persona singolare, come già si evince dal titolo: è come se la Machado narratrice in un certo senso parlasse alla sé stessa che ha vissuto quegli eventi e ne prendesse le distanze, con un effetto tra l'altro in parte destabilizzante per il lettore.
In definitiva, un libro importante e che merita certamente la lettura.
Voto: 4/5
L'anno scorso, in piena pandemia, avevo sentito parlare molto e molto bene di questo libro di Carmen Maria Machado, e per questo Nella casa dei tuoi sogni era entrato di diritto nella mia lista dei desideri. L'ho anche suggerito a chi mi chiedeva cosa poteva regalarmi, ma siccome la mia lista è davvero lunghissima alla fine nessuno me l'ha regalato e me lo sono comprato.
Durante un viaggio in treno verso Bari (ormai i viaggi in treno a medio-lunga percorrenza sono la mia condizione preferita per leggere, oltre che per dormire) ho iniziato questo libro e in quattro ore ero già oltre la metà. Cosicché il viaggio di ritorno è stato ampiamente sufficiente a completare la lettura.
Del libro mi aveva colpito il tema: la storia di un abuso o comunque di una forma di violenza psicologica all'interno di una coppia di donne, un tema davvero poco rappresentato nella letteratura e in generale nella narrazione sul mondo gay. Come la stessa Machado riflette, la condizione di minoranza della comunità gay e la lotta ancora in essere per la conquista dei diritti fanno sì che la narrazione su questo mondo tenda a presentarlo sempre sotto una luce positiva e a tacere degli aspetti meno spendibili sul piano della comunicazione, che sarebbero strumentalmente cavalcati da chi si oppone alla piena integrazione e riconoscimento dei diritti di questa minoranza. Tale discorso vale in realtà per tutte le minoranze, e crea inevitabilmente delle storture, perché innesca forme di bias incompatibili con la realtà delle cose, e la realtà delle cose si può sintetizzare in questo modo: gli esseri umani sono esseri umani, a qualunque minoranza appartengano, con le loro brutture e le loro virtù.
Questa necessità di coprire le brutture che avvengono all'interno di alcune minoranze ovviamente danneggia chi all'interno di quel gruppo subisce le conseguenze di quei comportamenti, e che si trova nella condizione di essere più invisibile di chi è in quella condizione all'interno della maggioranza.
Il tema trattato nel memoir di Carmen Maria Machado, che parla appunto della sua esperienza di coppia con una donna dalla personalità manipolatoria e instabile, non è molto dissimile da quanto raccontato dalla protagonista del graphic novel L'amore non basta! Quest'ultima ne parlava nell'ambito di una coppia etero e dunque la figura del manipolatore era quella di un uomo, mentre per quanto riguarda la Machado parliamo di una coppia lesbica.
Le dinamiche interne alla coppia e la condizione della vittima sono però molto simili: l'iniziale amore fulminante ed idilliaco, il successivo e rapido deteriorarsi del rapporto, le altalene di sentimenti, gli scoppi d'ira, le menzogne, la gelosia e la possessività esasperata, e la conseguente condizione di sofferenza psicologica, nonché la sensazione di minaccia costante della malcapitata, che a poco a poco si chiude in sé stessa e sprofonda in un buco nero.
La "casa dei tuoi sogni" di cui parla il titolo è quella che per alcuni periodi l'autrice ha condiviso con la sua compagna, ed è ovviamente un'espressione fortemente antifrastica, visto che quella casa è stata per la Machado un luogo di infelicità e sofferenza.
Il tema è importante, e necessita di essere portato alla luce, chiunque siano i/le protagonisti/e. Si tratta tra l'altro di un passaggio necessario per consentire a chi vive condizioni di questo tipo di riconoscerle come patologiche e di avviare un processo di riscatto individuale, che in casi come questo è molto difficile in una condizione di isolamento.
Andando oltre il contenuto, che di per sé meriterebbe la nostra attenzione, il memoir della Machado ci cattura anche sul piano stilistico per l'originalità dell'organizzazione dei contenuti e della scrittura. Il volume si articola infatti in brevi capitoli, concepiti come altrettante interpretazioni della "casa dei tuoi sogni", che in parte raccontano la storia oggetto del libro, in altri casi parlano di eventi del passato, ovvero aneddoti, o ancora particolari, ciascuno capace di gettare luce sul tema e sulla protagonista della storia. Particolare anche l'uso della narrazione con l'utilizzo della seconda persona singolare, come già si evince dal titolo: è come se la Machado narratrice in un certo senso parlasse alla sé stessa che ha vissuto quegli eventi e ne prendesse le distanze, con un effetto tra l'altro in parte destabilizzante per il lettore.
In definitiva, un libro importante e che merita certamente la lettura.
Voto: 4/5
venerdì 4 febbraio 2022
France
In un weekend bolognese riesco finalmente a recuperare France, il film di Bruno Dumont che avevo inseguito invano a Roma e che speravo di vedere in lingua originale. Alla fine mi accontento persino del doppiaggio pur di riuscire a vederlo, e mi chiedo ora se il vederlo doppiato non abbia in parte condizionato il mood della mia visione e il mio giudizio finale.
France è la storia di una giornalista televisiva, il cui nome dà il titolo al film (Léa Seydoux), molto popolare nel paese che si chiama come lei. France ha infatti un talk televisivo seguitissimo, nel quale spesso propone reportage di vario genere (guerra, cronaca nera, politica internazionale) di cui lei stessa è protagonista e anima. La sua fama la insegue qualunque cosa lei faccia e la sua assistente Lou (Blanche Gardin) non perde occasione per ricordarle quanto è brava e quanto è cool.
Non a caso il film inizia con una surreale conferenza stampa di Emmanuel Macron, in cui il presidente si rivolge proprio alla giornalista che ha l'onore di porre la prima domanda.
In questa vita al top accade un giorno che France investe con la macchina un rider, un ragazzo figlio di immigrati marocchini. L'episodio, di per sé non particolarmente significativo visto che tutto si risolve bene per il giovane, innesca in France una specie di reazione a catena che determina in lei una profonda crisi rispetto sia alla propria vita personale sia rispetto al proprio lavoro, al punto tale da essere costretta a trascorrere un periodo in una clinica in mezzo alle montagne. Da lì un altro episodio che non rivelerò produce una specie di movimento narrativo in direzione opposta, senza però che questo disinneschi la malinconia esistenziale di una donna la cui corazza è stata ormai scalfita in via definitiva.
Che dire? A me France è sembrato innanzitutto un film ipertrofico: mi capita raramente al cinema di pensare che un film sta andando avanti troppo per le lunghe e di non riuscire a capire dove andrà a parare, e in questo caso mi accade e alla parola "Fine" non smetto di pensare che non ho ben capito dove sia andato a parare.
In realtà ci sono nel film molte cose pregevoli: sicuramente la recitazione di Léa Seydoux, che non posso dire risultare credibile, ma certo perfettamente inserita nel registro narrativo scelto da Dumont. Il tema pure è parecchio interessante: uno squarcio di luce su un mondo, quello del giornalismo televisivo, che si è trasformato quasi in uno star system, al punto tale che la finzione o comunque la costruzione imposta dal linguaggio del reportage televisivo finalizzato a determinare un impatto emotivo si insinua nella realtà in maniera incontrollabile e pervasiva. Dumont rende fin troppo evidente - con il suo stile un po' sopra le righe - come il reportage giornalistico, che dovrebbe essere lo strumento primario di racconto del reale, è invece un elaborato spettacolo in cui lo storytelling ha la meglio sulla verità delle cose, sebbene la realtà sia presente e spesso potente di per sé stessa. È in questo cortocircuito che France finisce senza quasi volerlo e da cui non riesce più a tirarsi fuori.
E fin qui tutto bene. Però il mio problema durante tutto il film è la difficoltà a sospendere l'incredulità. La confezione, il registro narrativo, lo stile, la gratuità di alcune scene e la recitazione mi producono una distanza molto forte da quanto vedo sullo schermo e mi fanno sembrare tutto finto e poco credibile. Forse è voluto anche questo, ma con me funziona poco. Non avevo mai visto nulla di Bruno Dumont, che leggo essere un regista quasi di culto, quindi non so dire se è un qualcosa che riguarda questo film, o è invece la cifra stilistica del regista. Il risultato però per me è che il film non riesce a conquistarmi e alla lunga finisce per annoiarmi anche un po'.
Voto: 3/5
France è la storia di una giornalista televisiva, il cui nome dà il titolo al film (Léa Seydoux), molto popolare nel paese che si chiama come lei. France ha infatti un talk televisivo seguitissimo, nel quale spesso propone reportage di vario genere (guerra, cronaca nera, politica internazionale) di cui lei stessa è protagonista e anima. La sua fama la insegue qualunque cosa lei faccia e la sua assistente Lou (Blanche Gardin) non perde occasione per ricordarle quanto è brava e quanto è cool.
Non a caso il film inizia con una surreale conferenza stampa di Emmanuel Macron, in cui il presidente si rivolge proprio alla giornalista che ha l'onore di porre la prima domanda.
In questa vita al top accade un giorno che France investe con la macchina un rider, un ragazzo figlio di immigrati marocchini. L'episodio, di per sé non particolarmente significativo visto che tutto si risolve bene per il giovane, innesca in France una specie di reazione a catena che determina in lei una profonda crisi rispetto sia alla propria vita personale sia rispetto al proprio lavoro, al punto tale da essere costretta a trascorrere un periodo in una clinica in mezzo alle montagne. Da lì un altro episodio che non rivelerò produce una specie di movimento narrativo in direzione opposta, senza però che questo disinneschi la malinconia esistenziale di una donna la cui corazza è stata ormai scalfita in via definitiva.
Che dire? A me France è sembrato innanzitutto un film ipertrofico: mi capita raramente al cinema di pensare che un film sta andando avanti troppo per le lunghe e di non riuscire a capire dove andrà a parare, e in questo caso mi accade e alla parola "Fine" non smetto di pensare che non ho ben capito dove sia andato a parare.
In realtà ci sono nel film molte cose pregevoli: sicuramente la recitazione di Léa Seydoux, che non posso dire risultare credibile, ma certo perfettamente inserita nel registro narrativo scelto da Dumont. Il tema pure è parecchio interessante: uno squarcio di luce su un mondo, quello del giornalismo televisivo, che si è trasformato quasi in uno star system, al punto tale che la finzione o comunque la costruzione imposta dal linguaggio del reportage televisivo finalizzato a determinare un impatto emotivo si insinua nella realtà in maniera incontrollabile e pervasiva. Dumont rende fin troppo evidente - con il suo stile un po' sopra le righe - come il reportage giornalistico, che dovrebbe essere lo strumento primario di racconto del reale, è invece un elaborato spettacolo in cui lo storytelling ha la meglio sulla verità delle cose, sebbene la realtà sia presente e spesso potente di per sé stessa. È in questo cortocircuito che France finisce senza quasi volerlo e da cui non riesce più a tirarsi fuori.
E fin qui tutto bene. Però il mio problema durante tutto il film è la difficoltà a sospendere l'incredulità. La confezione, il registro narrativo, lo stile, la gratuità di alcune scene e la recitazione mi producono una distanza molto forte da quanto vedo sullo schermo e mi fanno sembrare tutto finto e poco credibile. Forse è voluto anche questo, ma con me funziona poco. Non avevo mai visto nulla di Bruno Dumont, che leggo essere un regista quasi di culto, quindi non so dire se è un qualcosa che riguarda questo film, o è invece la cifra stilistica del regista. Il risultato però per me è che il film non riesce a conquistarmi e alla lunga finisce per annoiarmi anche un po'.
Voto: 3/5
mercoledì 2 febbraio 2022
Troiane. Teatro Quirino, 18 gennaio 2022
La programmazione del Teatro Quirino da parecchi anni ormai non mi convince più tanto, cosicché alla fine ci vado a vedere sempre meno spettacoli. Ma se c'è Elisabetta Pozzi vado dappertutto, anche perché ormai la sua presenza a Roma è sempre più rara dunque cerco di non perdermela.
Di questo spettacolo avevo sentito parlare già da diverso tempo e dunque io e F. siamo in terza fila per la prima.
Le troiane è una tragedia di Euripide che racconta la triste sorte delle donne troiane dopo la caduta della città di Troia alla fine della lunga guerra del Peloponneso. Protagoniste sono in particolare la regina Ecuba, sua figlia Cassandra, la profetessa, Andromaca, moglie di Ettore, figlio di Ecuba, ed Elena. Le prime tre donne sono destinate come schiave ad altrettanti uomini greci, come annunciato dal messo Taltibio, mentre ancora più tragico è il destino di Astianatte, il figlio di Andromaca ed Ettore, che verrà fatto precipitare dalle mura di Troia. Ci sarà poi un confronto tra la regina ed Elena, quest'ultima smascherata nella superficialità dei comportamenti che hanno portato allo scoppio della guerra.
Lo spettacolo per la regia di Andrea Chiodi è basato sulla traduzione e l'adattamento di Angela Demattè, che pur rimanendo fedele alla storia e al suo pathos, sceglie di attualizzarne la narrazione. Tutti i personaggi sono vestiti in abiti moderni e anche la scenografia richiama il presente, e il personaggio di Elena in particolare si presenta vestito in tuta e quasi ipnotizzata di fronte a computer e cellulare, mentre il coro delle prigioniere troiane compare sotto forma di schermata tipo videoconferenza sullo sfondo del palcoscenico.
Pur apprezzando questo tentativo, trovo che la parte più intensa e apprezzabile dello spettacolo sia però quella più fedele all'originale euripideo, nonché le prove attoriali capaci di valorizzarla, che secondo me sono fondamentalmente quelle di Elisabetta Pozzi nel ruolo di Ecuba e di Federica Fracassi nel ruolo di Cassandra, entrambe capaci di un grande equilibrio tra pathos euripideo e recitazione naturalistica.
La storia raccontata da Euripide si presta ovviamente a molte letture e interpretazioni, ma al cuore del racconto ci sono sicuramente il dolore dei vinti e l'orrore della guerra, temi universali e declinabili in mille modi. Devo però dire che la tendenza che vedo spesso a teatro, non necessariamente negli adattamenti bensì anche nelle presentazioni degli spettacoli, ossia quella di ricondurre qualunque cosa al presente contingente mi risulta piuttosto insopportabile, e mi sembra un tentativo fallimentare di rendere il teatro facile banalizzandolo, e non invece - come secondo me sarebbe più corretto - rafforzandone la comprensione.
Voto: 3,5/5
Di questo spettacolo avevo sentito parlare già da diverso tempo e dunque io e F. siamo in terza fila per la prima.
Le troiane è una tragedia di Euripide che racconta la triste sorte delle donne troiane dopo la caduta della città di Troia alla fine della lunga guerra del Peloponneso. Protagoniste sono in particolare la regina Ecuba, sua figlia Cassandra, la profetessa, Andromaca, moglie di Ettore, figlio di Ecuba, ed Elena. Le prime tre donne sono destinate come schiave ad altrettanti uomini greci, come annunciato dal messo Taltibio, mentre ancora più tragico è il destino di Astianatte, il figlio di Andromaca ed Ettore, che verrà fatto precipitare dalle mura di Troia. Ci sarà poi un confronto tra la regina ed Elena, quest'ultima smascherata nella superficialità dei comportamenti che hanno portato allo scoppio della guerra.
Lo spettacolo per la regia di Andrea Chiodi è basato sulla traduzione e l'adattamento di Angela Demattè, che pur rimanendo fedele alla storia e al suo pathos, sceglie di attualizzarne la narrazione. Tutti i personaggi sono vestiti in abiti moderni e anche la scenografia richiama il presente, e il personaggio di Elena in particolare si presenta vestito in tuta e quasi ipnotizzata di fronte a computer e cellulare, mentre il coro delle prigioniere troiane compare sotto forma di schermata tipo videoconferenza sullo sfondo del palcoscenico.
Pur apprezzando questo tentativo, trovo che la parte più intensa e apprezzabile dello spettacolo sia però quella più fedele all'originale euripideo, nonché le prove attoriali capaci di valorizzarla, che secondo me sono fondamentalmente quelle di Elisabetta Pozzi nel ruolo di Ecuba e di Federica Fracassi nel ruolo di Cassandra, entrambe capaci di un grande equilibrio tra pathos euripideo e recitazione naturalistica.
La storia raccontata da Euripide si presta ovviamente a molte letture e interpretazioni, ma al cuore del racconto ci sono sicuramente il dolore dei vinti e l'orrore della guerra, temi universali e declinabili in mille modi. Devo però dire che la tendenza che vedo spesso a teatro, non necessariamente negli adattamenti bensì anche nelle presentazioni degli spettacoli, ossia quella di ricondurre qualunque cosa al presente contingente mi risulta piuttosto insopportabile, e mi sembra un tentativo fallimentare di rendere il teatro facile banalizzandolo, e non invece - come secondo me sarebbe più corretto - rafforzandone la comprensione.
Voto: 3,5/5
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