venerdì 31 marzo 2023

Da lontano. Chiusa nel rimpianto / di Lucia Calamaro; con Isabella Ragonese. Teatro India, 12 marzo 2023

Da lontano è il terzo lavoro di Lucia Calamaro che vedo a teatro, e il secondo monologo (in questo caso "quasi" monologo) che sembra pensato per l'attrice che l'interpreta. L'anno scorso si trattava di Smarrimento interpretato da Lucia Mascino, quest'anno invece è la volta di Isabella Ragonese (ormai sempre più spostata sul teatro, anche se restano memorabili alcune sue interpretazioni al cinema).

Da lontano è il dialogo impossibile tra una figlia ormai adulta - diventata nel frattempo psicoterapeuta - e una madre che non c'è più, rievocata com'era al tempo in cui la figlia era ancora bambina o adolescente. Il testo della Calamaro vuole essere l'occasione di comprendere a posteriori, con l'esperienza e la maturità che solo il tempo può regalarci, i turbamenti, i silenzi, le reticenze, il malessere di una figura così centrale per la nostra vita, con cui spesso non si ha la possibilità di "fare i conti" perché prima si è troppo piccoli e poi, quando si è adulti, lei è troppo vecchia o non c'è più.

La Calamaro ambienta questo dialogo impossibile in una stanza bianca, praticamente vuota, con una parete su cui c'è una porta chiusa. È da dietro questa porta che proviene la voce della madre, sbuca una mano, e a un certo punto compare lei "in persona"; e sarà questa stessa porta che la protagonista dovrà attraversare per comprendere - o quanto meno accettare - il mistero di un rapporto che non può che rimanere in parte irrisolto e vivere di ricordi e suggestioni.

Il testo della Calamaro, pur affrontando un tema emotivamente non certo leggero, sceglie di non calcare la mano sull'aspetto melodrammatico del racconto, bensì adotta un registro a tratti ironico, anche grazie all'interpretazione delle due protagoniste. Nel complesso, l'andamento del racconto è un po' altalenante e personalmente l'ho trovato non del tutto risolto, soprattutto in alcuni passaggi a mio avviso un po' forzati (ad esempio quello della videocall). Originalità e profondità si alternano a passaggi che risultano più banali e scontati: nel complesso mi pare che sia più riuscita la dimensione ironica che quella drammatica, almeno se devo giudicare dal livello di immedesimazione ed empatia che ho provato in prima persona.

Isabella Ragonese conferma la sua bravura, trasmettendo di volta in volta attraverso i gesti e il volto l'insicurezza, l'imbranataggine, il dolore, il disappunto, la frustrazione del suo personaggio, e quindi conferendo allo stesso molte sfumature diverse. Sicuramente la sua interpretazione è parte significativa della buona riuscita dello spettacolo, che ho apprezzato sicuramente più di altri visti recentemente, pur non avendo sperimentato una piena soddisfazione.

Voto: 3,5/5

mercoledì 29 marzo 2023

Empire of light

E anche Sam Mendes porta in sala il suo personale omaggio al potere salvifico e riparatore del cinema (inteso come insieme di contenitore - la sala cinematografica - e di contenuto - i film), e lo fa attraverso la figura di Hilary (una sempre straordinaria Olivia Colman, che vale molto più della metà del valore complessivo del film), una donna che lavora presso il cinema Empire, sul lungomare della cittadina di Margate, sulla costa sud dell'Inghilterra.

Siamo nei primissimi anni Ottanta. La Gran Bretagna vive una pesante fase di recessione, come contraccolpo della crisi economica della fine degli anni Settanta. Al potere è salita Margaret Thatcher, con il suo programma liberista e conservatore, mentre il malessere sociale alimenta un rigurgito razzista.

Il cinema Empire, diretto da Mr Ellis (un Colin Firth in un ruolo per lui insolito), è in declino, ma Hilary svolge il suo lavoro di manager del personale con grandissimo scrupolo e attenzione, oltre a sottostare ai desideri - anche e soprattutto sessuali - del suo capo. Nella vita privata Hilary è profondamente sola, e si porta dietro una sofferenza psichica non meglio identificata.

Un giorno entra nello staff Stephen (Micheal Ward II), un giovane ragazzo di colore che porta una ventata di freschezza e di novità nell'ambiente stantio del cinema. Presto tra Hilary e Stephen nasce una storia apparentemente impossibile, che però sarà determinante - in modi diversi - per le future scelte di entrambi.

Empire of light è un film visivamente superbo: la fotografia di Roger Deakins è straordinaria in ogni singolo fotogramma, dalle inquadrature ai colori, all'utilizzo di quella luce che fin dal titolo è protagonista di questo film, perché è l'anima pulsante del cinema (e della fotografia).

Per quanto mi riguarda l'interpretazione di Olivia Colman e la fotografia di Deakins, assolutamente pensata per il grande schermo, valgono da soli il prezzo del biglietto, e anche di più. Per il resto, il film di Mendes si guarda piacevolmente e anche con qualche commozione, soprattutto in riferimento al personaggio di Hilary, però sul piano narrativo non appare secondo me del tutto risolto, soprattutto nel tentativo - che per certi versi appare un po' forzato - di utilizzare il cinema come strumento "curativo" dei disturbi di Hilary e delle incertezze di Stephen, grazie anche al personaggio-ponte del proiezionista Norman (Toby Jones).

In definitiva, anche Sam Mendes ci propone la sua personale versione di una lettera d'amore al cinema, riportandoci agli anni della sua adolescenza e celebrando i suoi miti del passato, nonché il suo amore per un luogo, la sala cinematografica, che già allora mostrava i segni della crisi.

In Mendes non c'è trionfalismo né proiezione verso il futuro, bensì un sentimento dolceamaro che non fornisce risposte né indica strade da percorrere.

Voto: 3/5 (ma darei molto di più a Olivia Colman e al direttore della fotografia)


lunedì 27 marzo 2023

La valigia / con Giuseppe Battiston. Teatro Ambra Jovinelli, 9 marzo 2023

Siamo in uno studio radiofonico, mentre è in corso un programma che si propone di raccontare storie di persone. Protagonista è Sergej Dovlatov (autore de La valigia, il testo da cui adattamento nasce questo spettacolo), un russo di Leningrado emigrato da tanti anni in America, che rievoca persone e situazioni del suo passato nella terra di origine.

Ne viene fuori una narrazione agrodolce, in cui c'è da un lato la nostalgia di quello che si è perso, dall'altro la spensieratezza un po' sopra le righe dei tempi andati, il tutto filtrato attraverso la lente della memoria che in parte rende i ricordi più vividi, in parte li offusca.

Giuseppe Battiston si cimenta in questo testo certo non facile, interpretando tutti i personaggi, attraverso cambi di posture, di voce e di atteggiamento.

Il risultato è interessante, ma devo dire che - pur apprezzando la recitazione di Battiston, sempre molto molto bravo - non sono riuscita a entrare in sintonia con il testo, che alla fine mi ha fatto più l'effetto di un puzzle di episodi e aneddoti che quello di una vera storia. Forse anche per questo ho fatto fatica a seguire lo spettacolo e mi sono persa per strada a più riprese.

Insomma, ancora una volta esco dal teatro in parte insoddisfatta e con la sensazione che trovare uno spettacolo che ci conquisti davvero non è per niente facile, anche al di là e nonostante la bravura degli attori.

Voto: 3/5

venerdì 24 marzo 2023

La vita anteriore / Mirko Sabatino

La vita anteriore / Mirko Sabatino. Milano: nottetempo, 2021.

Siamo nel foggiano. Ettore, il protagonista di questo romanzo, nasce nel 1977 da una giovane donna, Marina, e un ragazzo che sparisce proprio il giorno della nascita e che suo figlio cercherà per tutta la vita. La vita anteriore non è però una storia individuale, bensì familiare, quella della famiglia Maggio le cui vicende saranno determinanti per il destino di Ettore e diventeranno oggetto della sua ossessione per la scrittura.

Si parte dunque con la storia di Ottavio Maggio, padre di tre figlie di cui una è Marina, nonno innamorato fin dal principio del nipote Ettore, gestore di una pasticceria intorno alla quale ruoteranno i destini di molti componenti di questa famiglia. L'incidente che toglie a Ettore il nonno lega in maniera indissolubile la sua vita e il suo futuro a quelli di Bruno, il bambino che nello stesso incidente perde i genitori, e ben presto conduce sulla stessa traiettoria Irene, amica prima e poi oggetto dell'amore di entrambi.

Il libro di Sabatino è una storia di destini e coincidenze, nel quale il tempo fa il suo giro per tornare infine a chiudere il cerchio.

Non posso dire che non mi sia piaciuto e che non l'abbia letto con trasporto e interesse. Ma - pur affascinante nella scrittura - l'ho trovato narrativamente poco credibile e un po' artificioso. Ma questo potrebbe anche non essere un difetto perché non è necessariamente la verosimiglianza che cerchiamo nei romanzi.

Il fatto è che la storia non mi ha toccato davvero sul piano emotivo, non ha risuonato con la mia vita. E dunque mi sono accorta che già a distanza di pochi giorni dal termine della lettura mi era rimasto davvero troppo poco: qualche sensazione e qualche dettaglio narrativo, ma non molto di più.

Voto: 3/5

mercoledì 22 marzo 2023

Micah P. Hinson. Monk, 7 marzo 2023

È la sesta volta che vado a un concerto di Micah P. Hinson, e di queste almeno tre al Monk, luogo di Roma che amo molto.

Rispetto alle altre volte arrivo molto più preparata: l'ultimo disco, I lie to you, mi è piaciuto già al primo ascolto, e da quel momento l'ho ascoltato innumerevoli volte fino a imparare a memoria alcune delle canzoni. Lo stile è quello a cui Micah ci ha abituati, ma a questo giro gli arrangiamenti sono davvero spettacolari e dentro c'è molta Italia. Il disco è nato infatti in Irpinia, in seguito alla partecipazione di Micah al festival musicale organizzato da Vinicio Capossela, lo Sponz Fest, e gli arrangiamenti sono di Alessandro "Asso" Stefana (il chitarrista di Capossela). È proprio quest'ultimo che - insieme al bravo batterista Paolo Mongardi - accompagna Micah nel suo tour.

A questo giro, il chitarrista americano, originario di Memphis e poi cresciuto in Texas - come del resto lui stesso tiene tutte le volte a sottolineare -, si presenta sul palco con una specie di tuta da meccanico e una acconciatura da nativo americano (di cui rivendica le ascendenze). Dopo un po' di canzoni, Micah indossa un cappello con una piuma che completa questo quadro un po' eccentrico.

La formula adottata per il concerto è quella di cantare gruppi di 2-3 canzoni dal nuovo album, alternate a vecchi successi e cover. La maggior parte delle canzoni sono accompagnate dai due musicisti: Stefana in particolare svolge il ruolo di polistrumentista suonando il basso, la chitarra, la tastiera, l'armonica da bocca e la steel guitar. Su alcune canzoni Micah P. Hinson resta da solo sul palco con la sua chitarra acustica (ci dice che quella con la scritta "This machine kills fascists" si è purtroppo rotta e l'ha dovuta buttar via) e la sua voce, che sembra provenire dalle profondità della terra.

L'ultimo album viene eseguito interamente. Il pubblico si scalda sull'esecuzione della cover di John Denver Please daddy, don't get drunk for Christmas, su cui poi Micah commenta che è curioso come questa canzone coinvolga il pubblico in un clima quasi festoso, sebbene abbia un contenuto non certo allegro. Del resto - aggiunge - ciò è proprio del potere di manipolazione della musica, che può orientare le nostre reazioni e sentimenti in un senso o nell'altro nonostante i testi e i messaggi da essi veicolati.

Io apprezzo particolarmente l'esecuzione di Carelessly e What does it matter now (una delle mie canzoni preferite dell'album), nonché quella di On the way home (to Abilene), che proviene da un album precedente. Gli arrangiamenti sono a tratti davvero entusiasmanti e ci si incanta non solo ad ascoltare Micah che canta, ma anche a guardare e ascoltare i tre musicisti nelle loro esecuzioni.

Tra una canzone e l'altra - come è tipico dei suoi concerti - Micah chiacchiera con il pubblico, passando da temi molto gravi ad altri decisamente più scherzosi e leggeri, con questo dimostrando di non essere solo il poeta maledetto del folk americano (con le sue stramberie e i suoi tic).

Al termine del concerto è rimasta fuori una canzone per me centrale dell'album, forse la più bella, You and me, ma sono sicura che Micah ce la regalerà nel dovuto e richiestissimo bis. E infatti eccolo di nuovo sul palco a cantare questo struggente pezzo e poi di nuovo con i musicisti a trascinarci nella cover di una scatenata ballata country, con cui Micah certifica la sua ascendenza musicale e si colloca idealmente in continuità con i grandi nomi del genere "americana".

Ascoltando Micah si sente tutta la polvere e la solitudine delle grandi lande americane, con i loro paesini opprimenti e privi di prospettive, dove il sogno americano si infrange contro forme di devastazione umana e familiare più o meno gravi. Non ho potuto fare a meno di collegare il concerto cui ho assistito alla lettura attualmente in corso del libro Il caos da cui veniamo di Tiffany McDaniel, che proprio di questa provincia americana desolata e di persone spezzate ci racconta con grande profondità.

I concerti di Micah P. Hinson non andrebbero mai persi.

Voto: 4,5/5

lunedì 20 marzo 2023

Arturo / Laura Nardinocchi e Niccolò Matcovich. San Venanzio di Galliera, Auditorium Scuola Giovanni XXIII, 4 marzo 2023

Agorà è la rassegna teatrale organizzata dall'Unione Reno Galliera, un ente che associa diversi Comuni della provincia di Bologna.

È nell'ambito di questa rassegna che - durante un mio weekend bolognese - vado a vedere lo spettacolo Arturo, scritto, diretto e interpretato da Laura Nardinocchi e Niccolò Matcovich.

I due sono accomunati dal fatto di aver perso i rispettivi padri alcuni anni fa, e lo spettacolo è sostanzialmente un modo di ricostruirne la memoria e fare i conti con la perdita, ma trasformando un sentimento individuale in un'esperienza collettiva e condivisa.

All'ingresso della sala alla maggior parte degli spettatori viene consegnato un foglietto bianco e una penna, e ad alcuni un foglietto scuro che porta già scritta una frase e un gessetto. A questi ultimi sarà dato un grosso pezzo di puzzle con la superficie scrivibile con un gessetto, su cui ciascuno di loro dovrà completare la frase che ha trovato scritta sul foglietto nero. Ad una sola persona viene consegnata una scatolina, che scopriremo poi contenere delle date.

Lo spettacolo scorre così come un flusso di ricordi e di pensieri, a cui si aggiungono le interazioni tra i due protagonisti, e poi anche i pensieri scritti dagli spettatori sui foglietti bianchi e quelli dei pezzi di puzzle, che parzialmente modificano l'andamento dello spettacolo e i suoi contenuti.

Il nome del titolo, Arturo, non corrisponde al nome di nessuno dei due padri, ma è più che altro un elemento evocativo, che al principio dello spettacolo viene ricondotto in particolare alla stella omonima, che è una delle più luminose del cielo.

Quello di Laura Nardinocchi e Niccolò Matcovich è uno spettacolo semplice e poco pretenzioso, ma che proprio per questo risulta sincero e per niente retorico, e ottiene sicuramente un risultato interessante, quello di mettere in connessione i ricordi e di far parlare le generazioni attraverso un'esperienza che - in modo diversi - appartiene a tutti, ossia il rapporto con il proprio padre.

Personalmente ho apprezzato parecchio, e sono rimasta più soddisfatta di questo piccolo spettacolo che di tanti spettacoli più roboanti che personalmente ho trovato molto meno capaci di questo di trasmettere emozioni e senso.

Voto: 3,5/5

venerdì 17 marzo 2023

Benedetta

Recensendo Elle, il film che Verhoeven dopo diversi anni di assenza dal grande schermo aveva portato in sala nel 2017, mettevo in evidenza la poliedricità del regista olandese, che davvero nella sua carriera ha praticato un po' tutti i generi, pur rimanendo sostanzialmente fedele ad alcune caratteristiche di fondo del suo cinema.

Con quest'ultimo film, Benedetta, Verhoeven si avventura addirittura nei territori del romanzo storico o della storia romanzata, raccontando la storia della monaca teatina Benedetta Carlini, a partire dal libro di Judith C. Brown intitolato Atti impuri. Vita di una monaca lesbica nell'Italia del Rinascimento.

Siamo a Pescia, agli inizi del XVII secolo. Benedetta - a seguito di un voto dei suoi genitori - entra da bambina nel convento delle Teatine, del quale diventa a un certo punto badessa. La donna ha delle estasi mistiche che portano con sé dei problemi fisici e che le infondono un'aura soprannaturale. Quando le viene affiancata la giovane Bartolomea il confine tra misticismo ed erotismo si fa sempre più labile, e Benedetta viene sottoposta a un processo per appurare la natura dei suoi comportamenti.

Su questo nucleo storico ricostruito dalla Brown, Verhoeven imbastisce un film che personalmente mi ha suscitato più ilarità che interesse. La ricostruzione storica è approssimativa e a tratti grottesca (mi è sembrato di vedere uno sceneggiato mal realizzato degli anni Ottanta); la storia - che la Brown affronta con rigore e delicatezza, a quanto dicono le recensioni che ho letto - viene caricata di eccessi e vouyerismo gratuito alla maniera di Verhoeven; i possibili elementi di riflessione che la vicenda potrebbe suscitare sono accennati e poi abbandonati; le attrici (che certo non sono le ultime arrivate, vedi Charlotte Rampling e Virginie Efira) appaiono le macchiette di sé stesse. L'esito è poco credibile, risibile e decisamente poco interessante nel suo complesso. Sembra quasi che Verhoeven abbia cercato l'occasione giusta per applicare l'erotismo a un contesto religioso, per scandalizzare con sequenze dichiaratamente blasfeme (le visioni che Benedetta ha dei suoi incontri con Gesù, l'uso di una statuetta in legno della Madonna come dildo, ecc.)

Io non so che film abbia visto l'autrice della recensione per il sito MyMovies, visto che sta al capo diametralmente opposto al mio, ma sul cinema si sa che i giudizi possono divergere.

A me sono sembrate due ore del mio tempo sinceramente buttate. Posso dire di essermi fatta due risate, ma le mie due risate non credo giustifichino la visione di questo film.

Voto: 1/5




mercoledì 15 marzo 2023

Pour un oui ou pour un non / con Franco Branciaroli e Umberto Orsini. Teatro Argentina, 1 marzo 2023

Pour un oui ou pour un non è un testo del 1982 di Nathalie Sarraute, scrittrice francese di origine russa che non conoscevo prima di questa circostanza, ma che scopro essere una delle grandi voci del teatro - e non solo - francese.

Sono due mostri sacri del teatro italiano, Franco Branciaroli e Umberto Orsini, diretti da Pier Luigi Pizzi, a portare in scena per il pubblico italiano questo lavoro, che racconta il momento di rottura di una amicizia di vecchia data. I due protagonisti, dopo un periodo di allontanamento, si ritrovano a casa di uno dei due (una casa con grandi librerie piene di libri) per confrontarsi sui motivi che li hanno allontanati. L'ospite (Franco Branciaroli) cerca - più o meno bonariamente - di indagare sui motivi dell'allontanamento dell'amico, mentre il padrone di casa (Umberto Orsini) appare reticente. A poco a poco i contorni di questo allontanamento si svelano: al centro non c'è un evento eclatante, ma quella che potrebbe essere un'incomprensione (un nonnulla, come l'espressione francese che dà il titolo all'opera Pour un oui ou pour un non suggerisce), su cui si sono costruiti rancori, illazioni, sensi di colpa e molto altro. La conversazione, che finisce per coinvolgere anche un'altra coppia di amici, cui i due si rivolgono telefonicamente, diventa sempre più tesa e ambigua, fino all'inquietante epilogo.

Il tema è molto interessante, e il testo sicuramente affascinante. Tra l'altro è una conversazione in cui mi sarei tranquillamente potuta immedesimare. Purtroppo però tutto ciò non accade. Il modo di recitare di Branciaroli mi risulta eccessivamente impostato e teatrale fin dal principio, e pure la recitazione di Orsini - sicuramente un po' più realistica - non mi convince del tutto. In generale il loro modo di stare sul palco e di interagire mi risulta un po' rigido e tutto sommato non perfettamente coerente con il testo.

Leggo che i due hanno voluto moltissimo portare quest'opera a teatro da protagonisti. E di questo certamente bisogna riconoscergli il merito. Però personalmente nei due ruoli ci avrei visto degli attori di mezza età, perché - non so se per una mia non corretta interpretazione - mi è sembrato che l'autrice a quel tipo di figura facesse riferimento nella scrittura.

Sicuramente la capacità di Branciaroli e soprattutto di Orsini (che ha quasi 89 anni) di tenere da soli il palco, mostrando un'agilità e una capacità recitativa ammirevoli, non va taciuta. Purtroppo però il risultato è che lo spettacolo mi è scivolato addosso senza lasciarmi molto.

Voto: 2,5/5

lunedì 13 marzo 2023

Laggiù qualcuno mi ama

A settant’anni dalla nascita di Massimo Troisi esce in sala il documentario a lui dedicato da Mario Martone, un regista sempre più immerso nella sua napoletanità e al contempo sempre più capace di parlare all’universalità delle persone, come già evidente nel precedente Nostalgia.

È chiaro fin dal titolo che quello di Martone è un vero e proprio omaggio a un personaggio che è stato capace di conquistare i cuori di tutti coloro che lo hanno “incontrato” nella loro vita, un racconto della sua carriera artistica dagli esordi fino all’ultimo film, ma anche un’esplorazione della sua personalità sfaccettata e complessa, grazie anche alle testimonianze delle persone che gli sono state vicine, in particolare Anna Pavignano, a lungo sua compagna e fedele co-sceneggiatrice.

La narrazione si sviluppa attraverso immagini di repertorio dei suoi spettacoli teatrali, dei lavori televisivi e dei suoi film, ma anche e soprattutto attraverso interviste a persone che l’hanno conosciuto e ad altri che, pur non avendolo mai incontrato, ne sono stati profondamente influenzati, nonché attraverso materiali inediti (audio, fotografie, appunti manoscritti). Questi ultimi, in particolare, gettano luce sul processo creativo di Troisi e confermano la complessità e la densità della sua comicità profondamente malinconica, che mentre crea una ideale linea di continuità con autori colti come Truffaut (con cui Martone sottolinea i punti di contatto) lo rende anche profondamente popolare e riconoscibile da un vasto pubblico. La sua gestualità – che Martone non manca di inseguire attraverso le sue opere – è diventata iconica, così come alcune delle “gag” dei suoi film possono essere a buon diritto considerate patrimonio collettivo.

Il regista non nasconde l’ammirazione per Troisi e non ne tace l’eccezionalità nella veste di regista, autore e attore; d’altra parte, Martone non dimentica che Troisi è uno degli straordinari prodotti di un’epoca d’oro per la scena artistica napoletana, che in quegli anni portò alla ribalta autori e testi destinati a diventare dei capisaldi nella cultura del nostro paese.

È dunque un piacere, intriso di struggente nostalgia, questo viaggio che Martone ci fa fare nella vita e nella personalità di un artista che non ha mai smesso di scandagliare l’animo umano e di riflettere sui sentimenti, celebrando la vita nella sua entusiasmante insondabilità.

Le immagini che Martone dedica alla proiezione di un film di Troisi organizzata a Roma all’aperto dai ragazzi del cinema America (quelli che a lui hanno intitolato il cinema aperto qualche anno fa) sono il testimone che il regista mette con fiducia e speranza nelle mani delle nuove generazioni perché continuino a far conoscere l’opera di Massimo a quanti verranno e tengano viva la sua eredità.

Voto: 3,5/5



venerdì 10 marzo 2023

Life is (not) a game

Presentato alla Festa del cinema di Roma del 2022 (ma sfuggito alla mia programmazione), esce ora in sala questo documentario che il regista e co-sceneggiatore Antonio Valerio Spera ha dedicato alla street artist romana Laika, che in realtà definisce sé stessa una poster-attacchina.

I suoi lavori, alcuni dei quali famosissimi (per esempio l'abbraccio di Giulio Regeni a Patrick Zacky), sono infatti prodotti che mescolano stili e arti: la pittura, la fotografia, l'oggettistica, il fumetto. Di solito si presentano sotto forma di "poster" che Laika durante la notte - aiutata da alcuni amici - affigge sul muro che ha designato. Sono lavori che spesso hanno una vita breve, perché i poster vengono quasi sempre rimossi molto rapidamente, soprattutto quando hanno come soggetti personaggi politici oppure quando sollevano questioni controverse. Le opere di Laika vivono però attraverso le loro riproduzioni ("l'opera d'arte nell'era della riproducibilità tecnica") realizzate in primis da lei stessa con la sua macchina fotografica e in secundis dai pochi fortunati che riescono a catturarne l'immagine nelle poche ore/giornate che riesce a sopravvivere nel suo luogo originario.

Laika appartiene al gruppo degli street artist che ha scelto la via dell'anonimato: in video e per strada appare sempre con una maschera e una parrucca rossa a caschetto e vestita con una tuta bianca o una tenuta da lavoro. Nel film anche la sua voce è distorta per impedirne il riconoscimento.

Ma tutto questo fa parte del contesto. Andando al contenuto del fim, il documentario si propone di approfondire e far conoscere soprattutto il punto di vista di Laika e il significato che la street artist attribuisce al proprio lavoro. Ne viene fuori il ritratto di un'artista consapevole e molto impegnata e attenta sul piano politico e sociale. I suoi lavori sono sempre la manifestazione di una voce critica/ironica/pungente/stimolante sui fatti dell'attualità, dai più spinosi a quelli apparentemente più leggeri. Il suo campo di azione è Roma in via privilegiata, ma Laika ha portato i suoi lavori anche in altre città d'Italia e all'estero, per rendere ancora più significativa la sua azione e darle maggiore risonanza.

In particolare l'ultima parte del film è dedicata al suo viaggio nella zona del campo profughi di Lipa, nel nord della Bosnia, quello andato a fuoco nel dicembre del 2020, e ai suoi contatti con i migranti sulla rotta via terra verso l'Italia. Si tratta sicuramente della parte emotivamente più intensa del documentario, e anche quella che lascia maggiormente l'amaro in bocca rispetto al senso di sconfitta, di inutilità e di impossibilità di cambiare le cose. Ne sono uscita un po' frustrata personalmente, ma anche ammirata rispetto alla tenacia e alla caparbietà di Laika, e in fondo di tutti gli attivisti che continuano a lavorare per gli obiettivi in cui credono senza farsi scoraggiare dall'enormità dei problemi e dalla inevitabile limitatezza della loro azione.

Voto: 3,5/5



giovedì 9 marzo 2023

Tutto chiede salvezza / Daniele Mencarelli. Milano: Mondadori, 2020.

Quanto tutti ne hanno cominciato a parlare perché è uscita la serie (di cui però non ho letto un gran bene), mi sono finalmente decisa a leggere il libro autobiografico di Daniele Mencarelli, Tutto chiede salvezza.

Il libro contiene il racconto della settimana che Daniele, intorno ai suoi vent'anni, trascorse in un reparto psichiatrico in cui fu ricoverato dopo un TSO, ossia un trattamento sanitario obbligatorio, seguìto a uno scoppio d'ira violento.

Daniele ha una storia di dipendenza tossicologica e di instabilità emotiva, a cui lui stesso e nemmeno i numerosi dottori e psichiatri a cui si è rivolto hanno saputo dare un nome. Si tratta di una specie di ipersensibilità che gli fa avvertire amplificati la gioia e i dolori della vita quotidiana, anche attraverso forme accentuate di empatia con il mondo circostante, nonché una specie di metafisico ma anche molto concreto male di vivere, un malessere per l'assenza di senso dell'esistenza, un'ansia profonda per la caducità umana.

Ebbene, nel reparto psichiatrico, Daniele si trova fianco a fianco con persone che pure si portano dietro i loro drammi personali e le loro storie: Madonnina, che appena entrato gli dà fuoco ai capelli, Alessandro che guarda un punto lontano e non reagisce ad alcuno stimolo, Gianluca, omosessuale bipolare rifiutato dalla famiglia, Mario, un maestro elementare allontanato da moglie e figlia per i suoi comportamenti violenti, Giorgio, un ragazzone che si porta dietro un trauma infantile.

In questo universo composito e complesso, e non certo semplice, Daniele e gli altri ospiti del reparto devono interfacciarsi con gli infermieri e le infermiere e con i medici che si alternano nei turni. Le interazioni sono un mix di comprensione, conflitto, vicinanza, freddezza, scambio e silenzio, all'interno del quale Daniele trova affetto, supporto e senso. Il micromondo del reparto psichiatrico è una piccola scuola di vita che rispecchia le ingiustizie e le insensatezze del mondo, ma anche l'importanza delle relazioni umane.

Un libro, quello di Mencarelli, che si legge in un paio di giorni, che fa sorridere e commuovere, ma che non pretende di dire e/o insegnare grandi verità, ma solo la necessità del rispetto per le storie individuali e il superamento dei pregiudizi nei confronti degli altri, che sono quasi sempre il frutto della non conoscenza.

Mencarelli scrittore conferma una sensibilità individuale fatta di grande empatia, anche se da un lato il suo approccio escatologico in bilico tra lo spirituale e il religioso e dall'altro la semplicità del libro - che a volte rischia la semplificazione - mi hanno tenuto emotivamente un pochino distante e non mi hanno prodotto quell'emozione sottopelle che a molti altri ha fatto apprezzare questa lettura.

Voto: 3/5

lunedì 6 marzo 2023

Holy spider

Forse Holy spider non è originale e spiazzante come Border – Creature di confine, il precedente film di Ali Abbasi, però è un film ancora più necessario.

Dopo un film ispirato al testo di uno scrittore svedese e in parte debitore nei confronti della cultura scandinava, il regista iraniano naturalizzato danese Ali Abbasi sposta lo sguardo verso il suo paese di origine, quello che ha lasciato molti anni fa, l’Iran, per raccontare una vicenda ispirata alla storia vera di Saeed Hanaei, il serial killer delle prostitute che operò a Mashad tra il 2000 e il 2001.

In realtà il film inizia come un thriller/poliziesco classico di finzione, e la triste verità di quello che ci viene raccontato è rivelata solo alla fine, prima dei titoli di coda.

La storia, nella sua essenza, potrebbe essere ambientata ovunque: Saeed (Mehdi Bajestani) è un reduce di guerra, marito e padre di tre figli, il quale esce la notte per adescare per strada prostitute che poi ammazza in casa strangolandole. Una giovane giornalista, Rahimi (la luminosa Zahra Amir Ebrahimi, giusta vincitrice del premio per la migliore interpretazione femminile a Cannes) arriva dalla città per capirne di più su questi omicidi, e inizia a indagare mettendo a rischio la propria stessa vita.

Ciò che rende questo racconto diverso da altri classici film incentrati su serial killer e dalle trame tutto sommato molto simili è l’ambientazione e il contesto nel quale si svolge. Siamo in Iran, in una città la cui vita ruota attorno a un santuario che è meta di pellegrinaggio, e Saeed è un fanatico religioso, convinto di fare la volontà di Allah ripulendo le strade da donne indegne, e proprio per questo cerca visibilità e seguito. Saeed si muove in un contesto profondamente maschilista e bigotto, nel quale la religione informa e condiziona ogni aspetto della vita individuale e sociale.

La giovane Rahimi, che proviene da Teheran e ha subìto sulla propria pelle gli effetti del maschilismo tossico e violento, si muove nelle pieghe di questo caso con determinazione e sprezzo del pericolo, ma anche con compassione e intelligenza. L’andamento dell’indagine prima e il suo esito dopo sono un viaggio nell’orrore di un paese dominato da uomini autorizzati a spadroneggiare e di donne trattate come oggetti. Un paese le cui istituzioni – ampiamente conniventi se non ispiratrici dei più biechi sentimenti popolari – fanno esclusivamente i propri interessi, strumentalizzando gli individui e scaricandoli quando necessario.

La sequenza finale in cui Rahimi, mentre è nell’autobus che la riporterà a Teheran, riguarda sulla sua videocamera le immagini girate a casa di Saeed che hanno come protagonista il figlio maggiore di quest'ultimo - che ha non più di 12 anni - sono agghiaccianti, un vero e proprio pugno nello stomaco, che danno molto da riflettere sulla responsabilità collettiva del perpetuarsi di questa società profondamente tossica.

Uscendo dal cinema si riesce solo a pensare a quanto siamo fortunate noi donne che non siamo nate e non viviamo in un posto come l’Iran, e si avverte anche la frustrazione e l’impotenza di fronte a un mondo le cui malattie sembrano non avere cura.

Zahra Amir Ebrahimi è interprete perfetta di questa figura di donna che non si vuole sentire inferiore a nessuno e vuole combattere il sistema, e illumina lo schermo con la sua presenza per tutta la durata del film. Conoscere (solo a posteriori nel mio caso) la sua storia personale (un video intimo è stato diffuso pubblicamente in Iran ed è dovuta per questo fuggire in Francia dove attualmente vive), è soltanto un elemento che suggella la forza del suo personaggio.

Voto: 3,5/5


giovedì 2 marzo 2023

Ink / Dimitris Papaioannou. Teatro Argentina, 16 febbraio 2023

Di Dimitris Papaioannou, delle sue opere - che sono teatro, ma anche danza e molto altro, - del suo ruolo di curatore della cerimonia di apertura e chiusura delle Olimpiadi di Atene, non sapevo praticamente nulla prima di andare a vedere questo spettacolo all’Argentina. Non so nemmeno bene come mai l’avessi inserito nella mia lista delle cose da vedere quest’anno (probabilmente avevo letto qualcosa qua e là), ma quando ho visto il tipo di pubblico che rapidamente ha affollato gli spazi del Teatro Argentina ho capito di stare per fare la conoscenza di un fuoriclasse.

L’elemento caratterizzante di quest’ultimo spettacolo di Papaioannou è l’acqua. Sul palco c’è un uomo totalmente vestito di nero (lo stesso Papaioannou), mentre da un tubo di irrigazione un grande getto d’acqua produce un effetto-pioggia. Nella primissima parte dello spettacolo l’uomo in nero sembra giocare con l’acqua e una grossa ciotola di vetro, creando – anche grazie a un sapiente uso delle luci, a un’attenta scelta dei movimenti e delle posizioni sul palco, nonché dei materiali – effetti visivi e sonori affascinanti e misteriosi (come nella scena in cui l’uomo è seduto pensoso o sonnacchioso e il getto dell’acqua, azionato in modo da coprire un angolo di 180 gradi, sembra provenire dalla sua testa e produce suoni differenti nell’incontro più o meno ravvicinato con i teli di plastica che circondano il palco). 

A un certo punto però la tranquillità dell’uomo viene interrotta dalla comparsa sul palco (invero sotto una serie di pannelli di plastica trasparente che ricoprono il palco) di una presenza oscura, un uomo completamente nudo (Šuka Horn), i cui colori chiari creano un effetto visivo di forte contrasto con il protagonista, con cui si innesca quella che inizialmente appare come una lotta (l’uomo in nero tenta di catturare l’altro avvolgendolo nel pannello di plastica), ma che nel corso dello spettacolo si trasforma in seduzione, attrazione, complicità, protezione paterna, per poi riesplodere all’improvviso di nuovo in conflitto. Protagonista di questo incontro-scontro, oltre all’onnipresente acqua, è un polipo che – dopo essere stato più volte infilato e sciacquato nella ciotola di vetro, aver coperto il sesso dell’uomo nudo, essere stato lanciato – finisce sbattuto a più riprese per terra dall’uomo in nero (secondo la pratica tradizionale dei pescatori greci, ma anche del sud Italia) nella scena finale dello spettacolo.

Difficile riassumere qui in poco spazio le tante invenzioni che caratterizzano questo lavoro e che ne fanno uno spettacolo straordinario per gli occhi – e non solo –, così come risulta probabilmente banale e per certi versi impossibile attribuire un significato univoco alla narrazione, che rifugge dal didascalico e dal razionale in maniera evidentemente voluta e insistita.

Ci sono sicuramente echi di miti ancestrali che emergono a più riprese durante lo spettacolo, ma – come è evidente dalle interviste a Papaioannou che ho letto – in esso si possono leggere tante cose che, come in ogni opera d’arte che si rispetti, vanno anche al di là delle intenzioni dell’autore. A me per esempio a tratti l’uomo nudo ha fatto pensare a una personificazione del polipo, e dunque l’intero spettacolo mi è sembrato una specie di caccia in cui l’uomo in nero non è l’unico soggetto senziente, e il rapporto tra i due è molto più complesso e meno unidirezionale di quello che si potrebbe pensare, un po’ come tra il capitano Achab e Moby Dick, e in fondo tra tutti gli opposti che nell’incontro rivelano la loro complementarietà.

Leggo in molte recensioni che Ink non è il lavoro più riuscito di Papaioannou, che si tratta di un abbozzo di spettacolo con ancora molti difetti. Non ho ovviamente gli strumenti per potermi esprimere pienamente da questo punto di vista. Ma da persona che per la prima volta ha incontrato l’arte del regista greco posso dire che questo spettacolo – per quanto imperfetto – va a segno, grazie alla sua originalità e alla bellezza delle sue invenzioni.

Voto: 4/5