lunedì 25 febbraio 2013
Fifty kids / Elliott Erwitt
Nelle sale espositive del Fandango Incontro di via dei Prefetti, 22 è in corso fino al 17 marzo la mostra di fotografia Fifty kids di Elliott Erwitt, promossa dalla Provincia di Roma.
Si tratta di 50 fotografie selezionate da Erwitt nel suo vastissimo repertorio, che hanno come tema centrale i bambini, coprendo un arco cronologico e un'area geografica molto estesi.
Elliott Erwitt è un esponente di spicco della famosa agenzia fotografica Magnum, celebre in tutto il mondo per i suoi scatti, alcuni dei quali sono diventati vere e proprie icone (ad esempio quello che vedete in questo post, con un piccolo cane a fianco a due paia di gambe, gli stivali di una donna e le zampe di un cane altissimo).
Le foto in mostra sono molto belle, alcune particolarmente riuscite e suggestive. I bambini sono decisamente un soggetto straordinario da fotografare che, in mano a un grande maestro come Erwitt, diventano pasta da modellare in tutte le fogge.
Ho trovato però particolarmente interessante la lettura della biografia del fotografo e le sue riflessioni esposte in forma di citazione a complemento delle foto. In particolare, mi è parso sorprendente che un fotografo di tale statura affermi che nelle sue foto non ci sono significati e messaggi nascosti, recondite ricerche concettuali, sfide visive con lo spettatore o con i soggetti, bensì sono attimi estrapolati dalla realtà e dalla quotidianità di cui il fotografo in qualche modo si mette a servizio.
L'umiltà e al contempo il talento di Erwitt nel realizzare questo miracolo sorprendono per la naturalezza e la semplicità con cui arrivano agli occhi e all'animo dello spettatore.
Probabilmente - anzi sicuramente - ci sono e ci saranno in giro mostre di Erwitt più ambiziose e ricche, ma se volete prendere un primo contatto con il suo mondo vi consiglio di fare un salto a Palazzo Incontro.
Voto: 3/5
venerdì 15 febbraio 2013
Argo
Quello di Ben Affleck è proprio un gran bel film. Di quelli che ai festival ti viene spontaneo battere le mani. Due ore che volano mescolando registri cinematografici differenti in maniera quasi perfetta.
La storia è nota: alla fine del 1979 in Iran gli studenti rivoluzionari assalgono l’ambasciata americana prendendo in ostaggio 52 americani. La cosiddetta crisi degli ostaggi durò 444 giorni e creò una tensione altissima tra l’Iran di Khomeini e gli Stati Uniti di Jimmy Carter.
Affleck si sofferma in particolare sulla vicenda di sei dipendenti dell’ambasciata americana che erano riusciti a fuggire e a rifugiarsi nella residenza dell’ambasciatore canadese.
Tony Mendez (interpretato – a dirla tutta con un eccesso di staticità - dallo stesso Ben Affleck) è l’agente della CIA specializzato in “esflitrazioni” incaricato di portare in salvo i sei cittadini americani fuori dall’Iran.
La strategia adottata sarà quella di chiedere aiuto a Hollywood per fingere la produzione cinematografica di un film di fantascienza, intitolato appunto Argo, da realizzare in Iran, trasformando i sei americani in altrettanti componenti della troupe cinematografica.
Quello di Affleck è un film che sa costruire e far crescere la tensione in maniera mirabile, ma sa anche stemperarla con straordinaria ironia per gli esiti originali dell’incontro tra il variopinto e improbabile mondo hollywodiano e l’altrettanto improbabile e decadente mondo della politica e dei servizi segreti. I personaggi del truccatore (interpretato da John Goodman) e del produttore (interpretato da Alan Arkin) sono tra le cose migliori del film e sono fondamentali per spazzare i rischi della retorica patriottica americana che sono insiti nella sceneggiatura.
Ben Affleck sceglie ovviamente di abbracciare la paura e le difficoltà degli ostaggi e dell’eroe Tony Mendez che permetterà ai sei americani di prendere un aereo per gli Stati Uniti, e non può sfuggire alla necessità di celebrare la “grandezza” dell’America alla maniera degli americani, ma non manca di richiamare le ragioni storiche dell’odio iraniano per gli americani (ragioni tra l’altro estremamente complesse in quanto complessa è la storia politica dell’Iran), né si fa sfuggire l’occasione per ironizzare sul labile confine tra farsa e tragedia che caratterizza Hollywood e che rappresenta perfettamente lo spirito americano.
Al di là però delle valutazioni di carattere storico, etico e ideologico, il film di Affleck è un grande omaggio al cinema ed uno straordinario prodotto cinematografico che ci riconcilia con la settima arte e ci offre due ore di grande spettacolo.
Il cinema hollywodiano classico al suo meglio.
E adesso posso dire anch'io "Argovaffan***o", ma se non avete visto il film non potete capire ;-)
Voto: 4/5
lunedì 11 febbraio 2013
Re della terra selvaggia
Hushpuppy (Quvenzhané Wallis) è una bambina di sei anni che vive con il padre in un piccolo e sperduto angolo della Louisiana, quello che i suoi abitanti chiamano la "grande vasca", un lembo di terra in un pezzo di fiume chiuso tra alti argini e una diga che all'arrivo degli uragani si riempie d'acqua spazzando via le baracche dei suoi abitanti.
Si tratta di una comunità caratterizzata da un esteso degrado e da una profonda povertà, ma anche da una straordinaria voglia di vivere (mirabilmente rappresentata nella scena dei fuochi di artificio) e da una grande solidarietà (altrettanto mirabilmente rappresentata nella scena della ricerca degli abitanti dopo l'uragano).
Un posto dove i bambini devono imparare l'arte della sopravvivenza scontrandosi con la durezza della quotidianità e con lo squallore della vita.
Hushpuppy ha paura come tutti i bambini di sei anni: ha paura dell'uragano che sta per arrivare, ha paura di rimanere da sola perché suo padre è malato, ha paura di non essere all'altezza delle sfide che dovrà affrontare. E per sfuggire a tutto questo si nasconde, come spesso fanno i bambini (e non solo loro!).
Hushpuppy ha però quella incredibile dote umana - particolarmente sviluppata nei bambini - che è l'immaginazione, l'unico modo possibile per trasformare l'incomprensibilità del dolore e la paura in una avventura, l'unico modo possibile nella mente di un bambino per elaborare eventi più grandi di sé e dar loro un significato.
Nel film di Benh Zeitlin (classe 1982) - di cui ancora una volta preferisco il titolo originale Beasts of the southern wild, ben più significativo - non è mai del tutto chiaro dove finisce la rappresentazione quasi documentaristica della realtà e dove comincia la ricostruzione immaginaria ed avventurosa di Hushpuppy. Resta intatta, però, nella realtà come nella fantasia, la bellezza e la forza di questa bambina indomita e fragile alla ricerca del senso della vita e della morte all'interno del movimento incessante dell'universo.
Quando Hushpuppy si volta a guardare negli occhi gli immaginari animali preistorici che la inseguono, sappiamo bene che tutti noi presto o tardi dobbiamo confrontarci con le nostre paure e passarci attraverso per crescere e continuare a vivere.
Immaginifico. Potente. Commovente.
Voto: 4/5
sabato 9 febbraio 2013
Quartet
All’età di 75 anni anche Dustin Hoffman passa dietro la macchina da presa.
E lo fa per dirigere una commedia dai toni molto inglesi, Quartet, i cui protagonisti sono degli anziani musicisti e cantanti che si sono ritirati in una casa di riposo a loro dedicata, Beecham House.
In particolare, l’attenzione si concentra su quattro di loro, ex cantanti d’opera, Reggie (Tom Courtenay), elegante e tutto d’un pezzo, Wilf (Billy Connolly), sempre all’inseguimento delle gonnelle e privo ormai di qualunque freno inibitore, Cissy (Pauline Collins), dolce e svampita anche a causa dell’Alzheimer, Jean (Maggie Smith), diva che non si rassegna al declino della vecchiaia, nonché ex moglie di Reggie.
Al centro del racconto il gala che la casa di riposo organizza ogni anno in occasione dell’anniversario della nascita di Verdi per raccogliere fondi per la stessa Beecham House, a rischio chiusura.
Riusciranno Reggie, Wilf e Cissy a convincere Jean a cantare ancora una volta insieme su un palco e a ricostituire il loro leggendario quartetto? Riuscirà Jean a farsi perdonare da Reggie e ad aprirsi di nuovo all’amore?
Il film scorre via leggero, divertente anche grazie a una buona sceneggiatura e alla prova degli attori principali. Il Rigoletto - declinato in tutte le sue possibili varianti - ci accompagna per tutta la durata del film, conferendo movimento a una narrazione che altrimenti rischierebbe a tratti di risultare un po’ piatta.
Hoffman ci mostra sullo schermo la vecchiaia come la vorremmo, allegra e disinibita, capace di accendere ancora la speranza di affetti e relazioni. E certo lo ringraziamo per averci consentito di sognare un po’ e di dimenticare la realtà, che però ci attende un istante dopo aver varcato la porta del cinema.
In definitiva, gradevole serata cinematografica, ma senza grandi ambizioni e pretese.
Voto: 3/5
E lo fa per dirigere una commedia dai toni molto inglesi, Quartet, i cui protagonisti sono degli anziani musicisti e cantanti che si sono ritirati in una casa di riposo a loro dedicata, Beecham House.
In particolare, l’attenzione si concentra su quattro di loro, ex cantanti d’opera, Reggie (Tom Courtenay), elegante e tutto d’un pezzo, Wilf (Billy Connolly), sempre all’inseguimento delle gonnelle e privo ormai di qualunque freno inibitore, Cissy (Pauline Collins), dolce e svampita anche a causa dell’Alzheimer, Jean (Maggie Smith), diva che non si rassegna al declino della vecchiaia, nonché ex moglie di Reggie.
Al centro del racconto il gala che la casa di riposo organizza ogni anno in occasione dell’anniversario della nascita di Verdi per raccogliere fondi per la stessa Beecham House, a rischio chiusura.
Riusciranno Reggie, Wilf e Cissy a convincere Jean a cantare ancora una volta insieme su un palco e a ricostituire il loro leggendario quartetto? Riuscirà Jean a farsi perdonare da Reggie e ad aprirsi di nuovo all’amore?
Il film scorre via leggero, divertente anche grazie a una buona sceneggiatura e alla prova degli attori principali. Il Rigoletto - declinato in tutte le sue possibili varianti - ci accompagna per tutta la durata del film, conferendo movimento a una narrazione che altrimenti rischierebbe a tratti di risultare un po’ piatta.
Hoffman ci mostra sullo schermo la vecchiaia come la vorremmo, allegra e disinibita, capace di accendere ancora la speranza di affetti e relazioni. E certo lo ringraziamo per averci consentito di sognare un po’ e di dimenticare la realtà, che però ci attende un istante dopo aver varcato la porta del cinema.
In definitiva, gradevole serata cinematografica, ma senza grandi ambizioni e pretese.
Voto: 3/5
mercoledì 6 febbraio 2013
Lincoln
Il regista è Steven Spielberg, ma non vi aspettate un classico colossal hollywodiano alla maniera di Spielberg. Perché, nelle oltre due ore di durata di questo film, di azione ce n’è veramente poca e anche di prosopopea hollywodiana in senso stretto.
La grande protagonista del film è la parola, una parola che raramente risulta retorica, ed è invece a volte asciutta e diretta, altre volte ambigua e sfuggente, ma sempre di grandissimo peso specifico, e lo stesso Lincoln viene presentato come un gran narratore.
Al centro del film c’è il presidente Abraham Lincoln (straordinariamente interpretato da Daniel Day Lewis), ma il film non è su Lincoln, bensì sulle ambiguità insite nel concetto stesso di democrazia, sull’impossibilità della politica di sfuggire al compromesso. L’eco della massima machiavellica “Il fine giustifica i mezzi” risuona qua e là con le sue inquietanti ombre.
Nella rappresentazione di Spielberg e del suo sceneggiatore Tony Kushner, in parte tratta dal saggio Team of Rivals: The political genius of Abraham Lincoln di Doris Kearns Goodwin, Lincoln è un grande presidente, molto amato dal popolo e perfettamente consapevole del grande potere che ha a disposizione e dunque della grande responsabilità delle proprie scelte.
Mentre infuria la guerra civile, scoppiata dopo l’elezione di Lincoln e l’emancipazione degli schiavi proclamata dallo stesso presidente, Lincoln viene eletto per il secondo mandato durante il quale porta avanti con ostinazione l’obiettivo dell’approvazione del 13° emendamento alla Camera dei rappresentanti, ossia l’abolizione della schiavitù.
Fin qui sembrerebbe il classico film americano che esalta i valori della democrazia americana e celebra i suoi miti. E invece il personaggio di Lincoln è molto più sfaccettato di quanto si potrebbe immaginare. Non è la forza dei suoi ideali a convincere gli avversari democratici a votare a favore dell’emendamento, ma la insistita pressione esercitata dagli emissari del presidente, la corruzione, lo sfruttamento delle altrui meschinerie e debolezze.
Lincoln viene presentato come un uomo con una visione politica molto concreta e ampia, con convincimenti profondi, che non affondano le loro radici semplicisticamente nell’idealità, bensì nel perseguimento di una più alta ragione di stato, che il presidente identifica nel rafforzamento dell’unione grazie alla vittoria del Nord contro i confederati secessionisti del Sud e che passa attraverso la fine di un sistema economico duale caratterizzato al Sud dallo sfruttamento degli schiavi.
A questo scopo Lincoln utilizza tutto il potere che sa di avere e persegue le proprie finalità accettando profondi compromessi e battendo strade a volte illegali o comunque moralmente discutibili. È interessante da questo punto di vista un duplice confronto cui Spielberg sottopone Lincoln: sul piano politico quello con Thaddeus Stevens (Tommy Lee Jones), il repubblicano radicale che sostiene la causa dell’uguaglianza dei neri su un piano di idealità pura e di affermazione di principio, il quale inizialmente rifiuterà la realpolitik di Lincoln, ma alla fine dovrà cedere egli stesso al compromesso politico per ottenere il risultato dell'abolizione della schiavitù; sul piano personale quello con la moglie (Sally Field) e i figli che mettono il presidente di fronte a scelte difficili tra il bene privato della sua famiglia e l’interesse pubblico della nazione.
Quando le campane suonano a festa per l’approvazione dell’emendamento e i confederati seduti al tavolo del presidente firmano la resa, il pensiero che inevitabilmente affiora alla mente dello spettatore è che la politica la fanno le persone e la qualità della prima dipende dalla qualità dei secondi. Spielberg sembra voler ribadire che la democrazia di per se è un sistema profondamente imperfetto, in cui paradossalmente chi vuole restare fedele alla purezza dei suoi ideali è destinato alla sconfitta, mentre solo chi dimostra scaltrezza e conoscenza dei gangli del sistema ottiene dei risultati. Il fatto è che questa sua imperfezione può essere messa al servizio di battaglie ideali destinate a cambiare in meglio la società, per quanto con costi elevati – come in questo caso-, oppure di orribili misfatti e interessi puramente personali.
Voto: 4/5
lunedì 4 febbraio 2013
Aquiloni / Paolo Poli
Dopo la positiva sorpresa di due anni fa, quando avevo assistito affascinata allo spettacolo Il mare, ho accettato di buon grado di tornare al Teatro Eliseo a vedere Paolo Poli.
Questa volta l'attore - quasi ottantaquattrenne - si è cimentato nientepopodimenoche con le poesie e le atmosfere di Giovanni Pascoli. Ci vuole tutto il coraggio un po' retrò di Paolo Poli - del quale bisogna certamente rendergli merito - per pensare di portare a teatro nel 2013 i testi di Pascoli senza far addormentare la platea.
La scommessa si può dire almeno parzialmente vinta.
Poli e i suoi boys (i sempre bravissimi Fabrizio Casagrande, Daniele Corsetti, Alberto Gamberini e Giovanni Siniscalco) ci portano nel mondo bucolico e un po' triste del poeta, facendoci fare un vero e proprio tuffo nel passato. Per me che a scuola Pascoli l'avevo studiato poco e male è stato un incontro quasi del tutto inedito, visto che l'unica poesia che vagamente ricordavo, La cavalla storna, non è stata inserita nel repertorio!
Per fortuna l'alternanza degli impegnativi testi di Pascoli con siparietti fatti di canzoni e filastrocche animate da divertenti coreografie e lussureggianti costumi ha alleggerito il tono complessivo dello spettacolo e ha lasciato spazio al divertimento e alla risata, grazie anche alla straordinaria simpatia di Paolo Poli.
Certo, il format di Poli appare ormai un po' troppo ripetitivo e fin troppo standardizzato. Nella sostanza Aquiloni, spogliato dei testi, si presenta identico a Il mare. Identica la scelta del tipo di scenografia (tre pannelli con grandi disegni dai colori pastello), identica la struttura dello spettacolo (recitazione, balletti e canzoni), identiche le scelte attoriali . Peraltro, l'età costringe Poli - e inevitabilmente i suoi boys - a cantare in playback, cosa che a teatro non produce certo un bell'effetto.
Paolo Poli conferma però le sue straordinarie qualità, anche nel modo in cui riesce a rimediare a un errore di recitazione o a una dimenticanza; dimostra di mantenere intatti humour e verve anche ad un'età in cui la maggior parte di noi si farebbe notare solo per cinismo e acidità. E questo permette di continuare ad apprezzare lui e i suoi spettacoli e di perdonare qualche elemento di delusione.
D'altra parte, a quale altro spettacolo teatrale si possono ancora vedere all'uscita le facce esterrefatte di spettatori spiazzati dallo stile di Poli, dalla sua capacità di osare e di inventare? Ormai assuefatti a un linguaggio teatrale un po' monocorde perché imbastardito dalla contaminazione televisiva, ovvero capace di sorprendere solo perseguendo la strada dell'eccesso fine a se stesso, Paolo Poli ci ricorda che la misura e l'ironia sono strumenti potenti in mano a chi è in grado di utilizzarli, cosa che il teatro sembra sempre meno capace di fare.
E anche solo per questo tanto di cappello.
A questo punto mi è venuta voglia di recuperare qualcuno dei suoi spettacoli da giovane. S. mi ha parlato di uno spettacolo tratto da Esercizi di stile di Raymond Queneau. Ma non lo trovo né su YouTube né in DVD. Qualcuno mi sa dire dove recuperarlo?
Voto: 3/5
Questa volta l'attore - quasi ottantaquattrenne - si è cimentato nientepopodimenoche con le poesie e le atmosfere di Giovanni Pascoli. Ci vuole tutto il coraggio un po' retrò di Paolo Poli - del quale bisogna certamente rendergli merito - per pensare di portare a teatro nel 2013 i testi di Pascoli senza far addormentare la platea.
La scommessa si può dire almeno parzialmente vinta.
Poli e i suoi boys (i sempre bravissimi Fabrizio Casagrande, Daniele Corsetti, Alberto Gamberini e Giovanni Siniscalco) ci portano nel mondo bucolico e un po' triste del poeta, facendoci fare un vero e proprio tuffo nel passato. Per me che a scuola Pascoli l'avevo studiato poco e male è stato un incontro quasi del tutto inedito, visto che l'unica poesia che vagamente ricordavo, La cavalla storna, non è stata inserita nel repertorio!
Per fortuna l'alternanza degli impegnativi testi di Pascoli con siparietti fatti di canzoni e filastrocche animate da divertenti coreografie e lussureggianti costumi ha alleggerito il tono complessivo dello spettacolo e ha lasciato spazio al divertimento e alla risata, grazie anche alla straordinaria simpatia di Paolo Poli.
Certo, il format di Poli appare ormai un po' troppo ripetitivo e fin troppo standardizzato. Nella sostanza Aquiloni, spogliato dei testi, si presenta identico a Il mare. Identica la scelta del tipo di scenografia (tre pannelli con grandi disegni dai colori pastello), identica la struttura dello spettacolo (recitazione, balletti e canzoni), identiche le scelte attoriali . Peraltro, l'età costringe Poli - e inevitabilmente i suoi boys - a cantare in playback, cosa che a teatro non produce certo un bell'effetto.
Paolo Poli conferma però le sue straordinarie qualità, anche nel modo in cui riesce a rimediare a un errore di recitazione o a una dimenticanza; dimostra di mantenere intatti humour e verve anche ad un'età in cui la maggior parte di noi si farebbe notare solo per cinismo e acidità. E questo permette di continuare ad apprezzare lui e i suoi spettacoli e di perdonare qualche elemento di delusione.
D'altra parte, a quale altro spettacolo teatrale si possono ancora vedere all'uscita le facce esterrefatte di spettatori spiazzati dallo stile di Poli, dalla sua capacità di osare e di inventare? Ormai assuefatti a un linguaggio teatrale un po' monocorde perché imbastardito dalla contaminazione televisiva, ovvero capace di sorprendere solo perseguendo la strada dell'eccesso fine a se stesso, Paolo Poli ci ricorda che la misura e l'ironia sono strumenti potenti in mano a chi è in grado di utilizzarli, cosa che il teatro sembra sempre meno capace di fare.
E anche solo per questo tanto di cappello.
A questo punto mi è venuta voglia di recuperare qualcuno dei suoi spettacoli da giovane. S. mi ha parlato di uno spettacolo tratto da Esercizi di stile di Raymond Queneau. Ma non lo trovo né su YouTube né in DVD. Qualcuno mi sa dire dove recuperarlo?
Voto: 3/5
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