I nerd salveranno il mondo? Oppure la Disney si è finalmente svegliata e riesce anche a confezionare dei cartoni un po’ diversi dal suo solito e che parlano un linguaggio più moderno?
In ogni caso, per quanto mi riguarda saluto con favore e con gioia questa svolta che ha permesso alla Disney di realizzare Big Hero 6, decisamente un bel film (vagamente ispirato all’omonima serie della Marvel) per bambini – diciamo ragazzini – e per adulti che non vogliono crescere.
Intanto l’ambientazione. Siamo a San Fransokio che, come dice il nome, è una specie di ibrido nato dalla fusione di San Francisco (di cui riconosciamo le case in collina e i grandi ponti sul mare) e Tokio (che invece prevale nei nomi, nelle scritte e in alcuni stili di vita nonché nell’approccio culturale e in alcuni tratti somatici dei protagonisti). Bella e divertente.
Il protagonista è Hiro Hamada, un ragazzino di quattordici anni che è un piccolo genio del computer e della robotica. Ha già conseguito il diploma e si guadagna da vivere partecipando agli incontri tra robot (Bot-fights), nei quali ha facilmente la meglio con il robot da lui progettato.
Suo fratello Tadashi frequenta l’università dei nerd, un posto dove lui e i suoi amici (un ragazzo nero con i capelli rasta, un fricchettone figlio di papà, una ragazza tostissima con i capelli viola e un’altra ragazza con gli occhialoni rossi) progettano il futuro, mettendo a frutto le loro capacità e la loro passione in un’applicazione e un utilizzo della tecnologia che sia di supporto al progresso dell’umanità. Il fratello di Hiro in particolare sta lavorando a Baymax, un robot in lattice (una specie di omino Michelin che quando è inattivo sta chiuso dentro una valigetta) che dovrebbe svolgere il ruolo di operatore sanitario per aiutare le persone in difficoltà.
Tutto sembra andare a rotoli quando l’Università va a fuoco e Tadashi muore per salvare il suo professore. Dopo qualche tempo Hiro scopre che i micro-bot da lui progettati per essere ammesso all'università sono stati rubati da un malvagio con la maschera che li vuole utilizzare per uccidere.
A questo punto Hiro decide di riprogrammare Baymax per farne un robot da attacco e coinvolge gli amici nerd utilizzando la tecnologia per potenziarne le capacità e le invenzioni e costituire una squadra di improbabili supereroi, Big Hero 6 appunto.
Hiro capirà a poco a poco che l’insegnamento che il fratello gli ha lasciato e l’eredità che lui deve sviluppare consiste nel fatto che la tecnologia deve essere utilizzata per il bene dell’umanità, per farla evolvere e progredire, non per la sua distruzione o per il conflitto.
Che dire? Un bel film edificante, pieno di invenzioni che piaceranno moltissimo ai nerd (o agli aspiranti tali), un protagonista non umano tenerissimo che non si può non amare, dei protagonisti umani intelligenti e al contempo fragili e un po’ sciroccati come è giusto che sia, per un mix che non può lasciare indifferenti.
Tra tutte le fesserie che il Natale cinematografico propina, mi sento di consigliarvi di non perdere questa pellicola.A me e ai miei nipoti è piaciuto moltissimo :-)
Voto: 3,5/5
domenica 28 dicembre 2014
Big Hero 6
Etichette:
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martedì 23 dicembre 2014
La regola dell’equilibrio / Gianrico Carofiglio
La regola dell’equilibrio / Gianrico Carofiglio. Torino: Einaudi, 2014.
A mio modesto parere, non certo uno dei migliori libri di Carofiglio, anche se tutti aspettavamo con tale trepidazione la nuova avventura dell’avvocato Guido Guerrieri che – nonostante tutto – lo scrittore ci ha fatto un bellissimo regalo di Natale.
Cosa c’è che non va? Innanzitutto, la trama, molto esile, quasi inesistente. E direi fin troppo classica, a tratti un po' banale. Guerrieri deve difendere dall’infame accusa di corruzione l’amico giudice Larocca. E in questo è aiutato dall’amico poliziotto Carmelo Tancredi (collocato quasi a cornice della storia) e dall’investigatrice privata Annapaola Doria, un donna forte e affascinante di cui inevitabilmente e un po' prevedibilmente Guido si innamorerà.
Ciò detto, intorno a questa piccola storia c’è il carattere ombroso e fin troppo “pippaiolo” (lasciatemi passare il termine) di Guido, che riflette su se stesso, sulla vita, sulla morte, sulla giustizia, sul mestiere di avvocato e su quello di giudice. Un profluvio di parole, di pensieri ad alta voce, di “avrei voluto dire, ma non ho detto”, “avrei voluto fare, ma non ho fatto”. Parole e pensieri spesso indirizzati a Mr Sacco, il sacco da boxe che pende al centro del suo salotto, altre volte rivolti direttamente al lettore (cosa che mi è sembrata un inedita nei romanzi con Guerrieri, ma forse ricordo male, e che comunque mi è risultata un po’ fastidiosa in quanto scopre in qualche modo il gioco del narratore e dunque la finzione, togliendo sincerità alla narrazione).
La parte più bella del romanzo – e che in qualche modo mi fa sempre riconciliare con Carofiglio – è quella in cui emerge il rapporto strettissimo tra il protagonista e la terra a cui appartiene: la Puglia, il mare, la città di Bari. Guido Guerrieri sarebbe incomprensibile senza Bari.
E in questo senso, secondo me, le pagine più belle e più vere del romanzo sono due: quella in cui Guido - mentre va in macchina verso Lecce percorrendo la statale 16 - decide di uscire sulla complanare tra Cozze e San Vito per fare una passeggiata nei luoghi dove da ragazzo andava al mare, Pietra Egea, dove trova tutto esattamente come se lo ricordava. Uno dei luoghi che amo di più della mia terra, a pochissimi chilometri da dove sono nata anch’io, dove il blu del mare, il rosso della terra, l’argento degli ulivi, il verde intenso delle insalate e il bianco della calce dei trulli producono uno scenario poetico di una bellezza irripetibile.
Un’altra delicata pagina del libro è la serata/nottata in cui Guido - che non riesce a dormire - va all’Osteria del caffellatte, una libreria-caffetteria di Bari che sta aperta sera e notte, e dove sorseggiando un caffè o un cocktail si possono leggere o acquistare libri. Qui Guido comincia a scambiare pensieri e quasi confidenze con una donna di passaggio per Bari per un convegno; uno di quegli incontri in cui si condivide – sebbene e forse solo perché fugacemente - qualcosa di profondo, delle sensazioni, dei sentimenti. Momenti in qualche modo magici, che riconciliano con l’esistenza.
Per il resto è Carofiglio, e noi lo amiamo a prescindere. E così per farvi venire voglia di leggerlo, nonostante le premesse, qui di seguito alcuni passaggi che più mi hanno colpito:
[…] stavo facendo quello che avevo sempre trovato patetico negli altri. […] Rimpiangere il passato come se fosse l’età dell’oro. (p. 5)
Li avevo comprati io, quei libri. Quando entro in una libreria i miei freni inibitori si disattivano. Posso acquistare di tutto, salvo poi non ricordare perché e chiedermi quale entità mi abbia posseduto nella mezz’ora trascorsa fra gli scaffali. (p. 43)
A volte la prevedibilità ossessiva dei miei spostamenti, dei loro tempi e dei loro ritmi mi dà un senso di oppressione. L’idea è che la mia vita sia come la somma dei percorsi della pallina di un vecchio flipper. A prima vista, se non eri esperto del gioco, ti sembrava che ci fossero un sacco di possibilità, imprevisti, sorprese. Poi, a mano a mano che giocavi – magari era il flipper del bar sotto casa, o della spiaggia, o del biliardo vicino alla scuola – ti accorgevi che i percorsi si ripetevano e tu li conoscevi tutti, e dopo un po’ ti passava la voglia di giocare con quel flipper e andavi a cercarne un altro. (p. 103)
Era una nostalgia strana, perché il ricordo doloroso della giovinezza si mischiava a una sensazione diversa, come l’impressione di aver sprecato il mio tempo, di non aver fatto quello che avrei dovuto, di essermi accontentato per paura, vigliaccheria, pigrizia.
Mi ricordai una frase che avevo letto qualche settimana prima: It’s never too late to be who you might have been. Non è mai troppo tardi per essere chi saresti potuto essere. (p. 112)
A volte, nelle perquisizioni come nella vita, passi davanti a qualcosa di decisivo e non te ne accorgi. Perché non sai cosa cercare o perché magari quel qualcosa è troppo evidente per essere visto. Nelle perquisizioni, come nella vita, non è un problema di tecnica, è un problema di occhi e di tempo. (p. 131-132)
Le cose troppo sensate dette sul mio conto mi mettono un po’ in ansia. (p. 140)
Com’è possibile che tu abbia amato così tanto una persona, che tu abbia sofferto così tanto per lei, che tu abbia riso così tanto con lei e che ora tu sia così lontano da lei? (p. 143)
Era una bella giornata di primavera. Alberi, nubi grandi e amichevoli, il vento, il cielo, azzurro chiarissimo e abbagliante verso il sole, intenso, quasi blu, dalla parte opposta dell’orizzonte; la calce dei trulli, il marrone delle zolle, il verde degli orti, il rosso a macchie dei papaveri, il giallo e bianco a puntini delle piccole margherite. (p. 146)
«Una fondamentale qualità umana è la capacità di sostenere simultaneamente due idee opposte senza perdere la capacità di funzionare». (p. 148-149)
[…] c’è un modo sicuro di fallire in tutto: fare contemporaneamente – e male – più cose. (p. 153)
Non l’avevo chiamata. Non dovevo nutrire aspettative irrealistiche – mi dissi esattamente questa ridicola frase. (p. 202)
Per un paio di giorni avevo sperato, negandolo a me stesso, che lo facesse. Poi mi ero detto che era meglio così.
Una delle espressioni più sospette e false che io conosca: meglio così. (p. 209)
Qualcuno ha detto che il mondo è una confusione rombante e ronzante, resa tollerabile solo dalla nostra capacità di ignorare quasi tutto quello che c’è intorno a noi. (p. 227)
Ah, volevo chiederti una cosa, ti seccherebbe se adesso ce ne andassimo da qualche parte a fare l’amore? Intendo proprio adesso. Dove preferisci tu, magari non da te, che è un po’ lontano, ma casa mia è a dieci minuti da qui. Dopo se vuoi parliamo. Dopo. (p. 230)
La buona vecchia terapia della parola, nel senso di raccontare quello che ti rode, funziona sempre. Buttare fuori tutto. Una specie di idraulica delle emozioni. Sturare l’ingorgo, roba del genere. (p. 231)
Camminavamo vicini, con il ritmo pacifico di chi non ha niente di preciso da fare e in quel breve tempo che si è dato può ignorarlo, il tempo. (p. 234)
Feci un sorriso imbarazzato. Non so mai come rispondere ai complimenti. (p. 234)
- Perché non mi hai mai chiamato in questi giorni?
- Neanche tu mi ha chiamato.
- Era una gara? (p. 237)
Gli eventi importanti della mia vita sono accaduti per caso. Se c’era un disegno non me ne sono accorto. (p. 244)
Tutti mentono. Chi dice di non farlo mai o è un cretino o è più bugiardo degli altri. La salute mentale consiste nel trovare un punto di equilibrio fra verità e menzogna. Pensare di dovere – e di potere – dire sempre la verità è un’allucinazione da dementi. (p. 248)
«Chi mente a sé stesso e presta ascolto alle proprie menzogne arriva al punto di non distinguere più la verità, né in sé stesso, né intorno a sé». La citava spesso mio nonno, e diceva che la regola dell’equilibrio morale consiste nell’opposto del comportamento descritto in questa frase. Consiste nel non mentire a noi stessi sul significato e sulle ragioni di quello che facciamo e di quello che non facciamo. Consiste nel non cercare giustificazioni, nel non manipolare il racconto che facciamo di noi a noi stessi e agli altri. (p. 261)
La vera unità di misura del tempo sono gli accadimenti inattesi, quelli che cambiano tutto e ti fanno capire che tante altre cose, prima, sono successe e non te ne eri accorto, e avresti dovuto; e tante cose che davi per scontate non succederanno più. (p. 276)
Voto: 3/5
A mio modesto parere, non certo uno dei migliori libri di Carofiglio, anche se tutti aspettavamo con tale trepidazione la nuova avventura dell’avvocato Guido Guerrieri che – nonostante tutto – lo scrittore ci ha fatto un bellissimo regalo di Natale.
Cosa c’è che non va? Innanzitutto, la trama, molto esile, quasi inesistente. E direi fin troppo classica, a tratti un po' banale. Guerrieri deve difendere dall’infame accusa di corruzione l’amico giudice Larocca. E in questo è aiutato dall’amico poliziotto Carmelo Tancredi (collocato quasi a cornice della storia) e dall’investigatrice privata Annapaola Doria, un donna forte e affascinante di cui inevitabilmente e un po' prevedibilmente Guido si innamorerà.
Ciò detto, intorno a questa piccola storia c’è il carattere ombroso e fin troppo “pippaiolo” (lasciatemi passare il termine) di Guido, che riflette su se stesso, sulla vita, sulla morte, sulla giustizia, sul mestiere di avvocato e su quello di giudice. Un profluvio di parole, di pensieri ad alta voce, di “avrei voluto dire, ma non ho detto”, “avrei voluto fare, ma non ho fatto”. Parole e pensieri spesso indirizzati a Mr Sacco, il sacco da boxe che pende al centro del suo salotto, altre volte rivolti direttamente al lettore (cosa che mi è sembrata un inedita nei romanzi con Guerrieri, ma forse ricordo male, e che comunque mi è risultata un po’ fastidiosa in quanto scopre in qualche modo il gioco del narratore e dunque la finzione, togliendo sincerità alla narrazione).
La parte più bella del romanzo – e che in qualche modo mi fa sempre riconciliare con Carofiglio – è quella in cui emerge il rapporto strettissimo tra il protagonista e la terra a cui appartiene: la Puglia, il mare, la città di Bari. Guido Guerrieri sarebbe incomprensibile senza Bari.
E in questo senso, secondo me, le pagine più belle e più vere del romanzo sono due: quella in cui Guido - mentre va in macchina verso Lecce percorrendo la statale 16 - decide di uscire sulla complanare tra Cozze e San Vito per fare una passeggiata nei luoghi dove da ragazzo andava al mare, Pietra Egea, dove trova tutto esattamente come se lo ricordava. Uno dei luoghi che amo di più della mia terra, a pochissimi chilometri da dove sono nata anch’io, dove il blu del mare, il rosso della terra, l’argento degli ulivi, il verde intenso delle insalate e il bianco della calce dei trulli producono uno scenario poetico di una bellezza irripetibile.
Un’altra delicata pagina del libro è la serata/nottata in cui Guido - che non riesce a dormire - va all’Osteria del caffellatte, una libreria-caffetteria di Bari che sta aperta sera e notte, e dove sorseggiando un caffè o un cocktail si possono leggere o acquistare libri. Qui Guido comincia a scambiare pensieri e quasi confidenze con una donna di passaggio per Bari per un convegno; uno di quegli incontri in cui si condivide – sebbene e forse solo perché fugacemente - qualcosa di profondo, delle sensazioni, dei sentimenti. Momenti in qualche modo magici, che riconciliano con l’esistenza.
Per il resto è Carofiglio, e noi lo amiamo a prescindere. E così per farvi venire voglia di leggerlo, nonostante le premesse, qui di seguito alcuni passaggi che più mi hanno colpito:
[…] stavo facendo quello che avevo sempre trovato patetico negli altri. […] Rimpiangere il passato come se fosse l’età dell’oro. (p. 5)
Li avevo comprati io, quei libri. Quando entro in una libreria i miei freni inibitori si disattivano. Posso acquistare di tutto, salvo poi non ricordare perché e chiedermi quale entità mi abbia posseduto nella mezz’ora trascorsa fra gli scaffali. (p. 43)
A volte la prevedibilità ossessiva dei miei spostamenti, dei loro tempi e dei loro ritmi mi dà un senso di oppressione. L’idea è che la mia vita sia come la somma dei percorsi della pallina di un vecchio flipper. A prima vista, se non eri esperto del gioco, ti sembrava che ci fossero un sacco di possibilità, imprevisti, sorprese. Poi, a mano a mano che giocavi – magari era il flipper del bar sotto casa, o della spiaggia, o del biliardo vicino alla scuola – ti accorgevi che i percorsi si ripetevano e tu li conoscevi tutti, e dopo un po’ ti passava la voglia di giocare con quel flipper e andavi a cercarne un altro. (p. 103)
Era una nostalgia strana, perché il ricordo doloroso della giovinezza si mischiava a una sensazione diversa, come l’impressione di aver sprecato il mio tempo, di non aver fatto quello che avrei dovuto, di essermi accontentato per paura, vigliaccheria, pigrizia.
Mi ricordai una frase che avevo letto qualche settimana prima: It’s never too late to be who you might have been. Non è mai troppo tardi per essere chi saresti potuto essere. (p. 112)
A volte, nelle perquisizioni come nella vita, passi davanti a qualcosa di decisivo e non te ne accorgi. Perché non sai cosa cercare o perché magari quel qualcosa è troppo evidente per essere visto. Nelle perquisizioni, come nella vita, non è un problema di tecnica, è un problema di occhi e di tempo. (p. 131-132)
Le cose troppo sensate dette sul mio conto mi mettono un po’ in ansia. (p. 140)
Com’è possibile che tu abbia amato così tanto una persona, che tu abbia sofferto così tanto per lei, che tu abbia riso così tanto con lei e che ora tu sia così lontano da lei? (p. 143)
Era una bella giornata di primavera. Alberi, nubi grandi e amichevoli, il vento, il cielo, azzurro chiarissimo e abbagliante verso il sole, intenso, quasi blu, dalla parte opposta dell’orizzonte; la calce dei trulli, il marrone delle zolle, il verde degli orti, il rosso a macchie dei papaveri, il giallo e bianco a puntini delle piccole margherite. (p. 146)
«Una fondamentale qualità umana è la capacità di sostenere simultaneamente due idee opposte senza perdere la capacità di funzionare». (p. 148-149)
[…] c’è un modo sicuro di fallire in tutto: fare contemporaneamente – e male – più cose. (p. 153)
Non l’avevo chiamata. Non dovevo nutrire aspettative irrealistiche – mi dissi esattamente questa ridicola frase. (p. 202)
Per un paio di giorni avevo sperato, negandolo a me stesso, che lo facesse. Poi mi ero detto che era meglio così.
Una delle espressioni più sospette e false che io conosca: meglio così. (p. 209)
Qualcuno ha detto che il mondo è una confusione rombante e ronzante, resa tollerabile solo dalla nostra capacità di ignorare quasi tutto quello che c’è intorno a noi. (p. 227)
Ah, volevo chiederti una cosa, ti seccherebbe se adesso ce ne andassimo da qualche parte a fare l’amore? Intendo proprio adesso. Dove preferisci tu, magari non da te, che è un po’ lontano, ma casa mia è a dieci minuti da qui. Dopo se vuoi parliamo. Dopo. (p. 230)
La buona vecchia terapia della parola, nel senso di raccontare quello che ti rode, funziona sempre. Buttare fuori tutto. Una specie di idraulica delle emozioni. Sturare l’ingorgo, roba del genere. (p. 231)
Camminavamo vicini, con il ritmo pacifico di chi non ha niente di preciso da fare e in quel breve tempo che si è dato può ignorarlo, il tempo. (p. 234)
Feci un sorriso imbarazzato. Non so mai come rispondere ai complimenti. (p. 234)
- Perché non mi hai mai chiamato in questi giorni?
- Neanche tu mi ha chiamato.
- Era una gara? (p. 237)
Gli eventi importanti della mia vita sono accaduti per caso. Se c’era un disegno non me ne sono accorto. (p. 244)
Tutti mentono. Chi dice di non farlo mai o è un cretino o è più bugiardo degli altri. La salute mentale consiste nel trovare un punto di equilibrio fra verità e menzogna. Pensare di dovere – e di potere – dire sempre la verità è un’allucinazione da dementi. (p. 248)
«Chi mente a sé stesso e presta ascolto alle proprie menzogne arriva al punto di non distinguere più la verità, né in sé stesso, né intorno a sé». La citava spesso mio nonno, e diceva che la regola dell’equilibrio morale consiste nell’opposto del comportamento descritto in questa frase. Consiste nel non mentire a noi stessi sul significato e sulle ragioni di quello che facciamo e di quello che non facciamo. Consiste nel non cercare giustificazioni, nel non manipolare il racconto che facciamo di noi a noi stessi e agli altri. (p. 261)
La vera unità di misura del tempo sono gli accadimenti inattesi, quelli che cambiano tutto e ti fanno capire che tante altre cose, prima, sono successe e non te ne eri accorto, e avresti dovuto; e tante cose che davi per scontate non succederanno più. (p. 276)
Voto: 3/5
sabato 20 dicembre 2014
La foresta / Joe R. Lansdale
La foresta / Joe R. Lansdale; trad. di Luca Briasco. Torino: Einaudi, 2013.
Con La foresta Joe Lansdale torna ad una formula narrativa ormai consolidata e già sperimentata in romanzi precedenti quali In fondo alla palude e La sottile linea scura. Il protagonista è sempre un ragazzo (in questo caso Jack) che racconta in prima persona una storia avvenuta molti anni prima (di solito tra gli anni '30 e '50) e che coincide con quel momento decisivo nella vita che ne ha segnato il passaggio all'età adulta.
A me personalmente questo è il Lansdale che piace.
Perché è vero che c'è quasi una forma di serialità in questi romanzi, ma la combinazione tra il fascino di un'America ormai dimenticata - tratteggiata con grande maestria - e la bellezza di alcuni personaggi - originali e profondamente veri al contempo - producono una lettura altamente piacevole, che può essere di volta in volta commovente, appassionante, splatter, divertente o coinvolgente. O addirittura tutte queste cose insieme.
In questo caso, il protagonista Jack è un adolescente che ha appena perso i genitori e insieme alla sorella più piccola, Lula, e al nonno sta andando a vivere dalla zia. Non arriverà mai a destinazione, perché lungo la strada una banda di spietati assassini ucciderà il nonno e rapirà Lula. Jack partirà dunque alla ricerca della sorella, coinvolgendo via via altre persone e dando vita a una combriccola alquanto bizzarra: un ragazzino appunto, un omone nero fortissimo, un nano che filosofeggia sulla vita e sull'amore, uno sceriffo dal viso sfregiato, un maiale domestico e ferocissimo insieme e una giovanissima ex prostituta.
La ricerca di Lula prenderà così gli accenti di un viaggio picaresco in un'America che sta profondamente cambiando, dove ai cavalli presto si sostituiranno le automobili e ai campi coltivati i pozzi di petrolio. E nel frattempo anche Jack cambierà, imparando a rimettere in discussione le sue convinzioni un po' manichee da ragazzino ingenuo, a giudicare le persone al di là del loro aspetto, ad affrontare le paure e ad amare.
Alla fine una lacrimuccia mi è scesa. Lansdale ha fatto centro.
Voto: 3,5/5
Con La foresta Joe Lansdale torna ad una formula narrativa ormai consolidata e già sperimentata in romanzi precedenti quali In fondo alla palude e La sottile linea scura. Il protagonista è sempre un ragazzo (in questo caso Jack) che racconta in prima persona una storia avvenuta molti anni prima (di solito tra gli anni '30 e '50) e che coincide con quel momento decisivo nella vita che ne ha segnato il passaggio all'età adulta.
A me personalmente questo è il Lansdale che piace.
Perché è vero che c'è quasi una forma di serialità in questi romanzi, ma la combinazione tra il fascino di un'America ormai dimenticata - tratteggiata con grande maestria - e la bellezza di alcuni personaggi - originali e profondamente veri al contempo - producono una lettura altamente piacevole, che può essere di volta in volta commovente, appassionante, splatter, divertente o coinvolgente. O addirittura tutte queste cose insieme.
In questo caso, il protagonista Jack è un adolescente che ha appena perso i genitori e insieme alla sorella più piccola, Lula, e al nonno sta andando a vivere dalla zia. Non arriverà mai a destinazione, perché lungo la strada una banda di spietati assassini ucciderà il nonno e rapirà Lula. Jack partirà dunque alla ricerca della sorella, coinvolgendo via via altre persone e dando vita a una combriccola alquanto bizzarra: un ragazzino appunto, un omone nero fortissimo, un nano che filosofeggia sulla vita e sull'amore, uno sceriffo dal viso sfregiato, un maiale domestico e ferocissimo insieme e una giovanissima ex prostituta.
La ricerca di Lula prenderà così gli accenti di un viaggio picaresco in un'America che sta profondamente cambiando, dove ai cavalli presto si sostituiranno le automobili e ai campi coltivati i pozzi di petrolio. E nel frattempo anche Jack cambierà, imparando a rimettere in discussione le sue convinzioni un po' manichee da ragazzino ingenuo, a giudicare le persone al di là del loro aspetto, ad affrontare le paure e ad amare.
Alla fine una lacrimuccia mi è scesa. Lansdale ha fatto centro.
Voto: 3,5/5
martedì 16 dicembre 2014
Come prima / Alfred
Come prima / Alfred; collaborazione ai colori: Maxime Derouen. Milano: Bao Publishing, 2014.
Alfred è lo pseudonimo del fumettista francese di origine italiana Lionel Papagalli, che quest’anno con la sua opera Come prima ha vinto il Fauve d’or, in pratica l’Oscar per il miglior fumetto assegnato dalla più importante manifestazione dedicata al genere, ossia il Festival internazionale del fumetto di Angouleme.
Per far capire l’importanza di questo premio vi dirò soltanto che in passato l’hanno vinto Guy Delisle, Bastien Vivès e Manuele Fior. Direi dunque che il Fauve d’or è sinonimo di qualità. Ed effettivamente anche questa volta non si può certo dire diversamente.
Come prima (il cui titolo è in italiano anche nella versione originale francese perché si ispira a una famosa canzone italiana degli anni Cinquanta) è la storia di due fratelli, Fabio e Giovanni.
Il primo vive in Francia dopo essere fuggito di casa molti anni prima; Giovanni il più piccolo è sempre vissuto all’ombra e nell’ammirazione dell’altro, ma non ha mai compreso i motivi della sua fuga e si è sentito abbandonato.
Ora Giovanni è tornato a cercare Fabio con l’urna che contiene le ceneri del padre per fare con lui il viaggio di ritorno verso casa, a bordo di una scassatissima Cinquecento.
Per i due fratelli non sarà facile superare in una volta un silenzio durato troppi anni. E così passeranno attraverso incomprensioni, litigi, silenzi, bugie, nella difficoltà di guardare entrambi in faccia al loro passato e farci i conti.
L’episodio che ha spinto tanti anni prima Fabio a fuggire via in Francia ha creato molti vuoti, e soprattutto ha soffocato nel silenzio molte verità. La distanza ha lasciato ciascuno dei due fratelli solo con le proprie debolezze e incapace di prendere veramente in mano la propria vita, sia per chi è andato via sia per chi è rimasto.
Nel lungo viaggio attraverso le Alpi, costellato di incontri buffi, tuffi nel passato, rivelazioni e ricordi, Fabio e Giovanni ritroveranno la forza del loro legame di sangue, che solo l’intervento di una donna sostanzialmente esterna alla famiglia rende possibile riscoprire, vincendo l’orgoglio e trovando il perdono.
Il segno grafico di Alfred ha da un lato qualcosa di profondamente classico, dall’altro qualcosa di genuinamente moderno. Non si tratta di un segno elegante e pulito, bensì di un segno che a seconda dei casi si fa duro o caricaturale, il tutto all'interno di una sceneggiatura di grande qualità, che mi ha tenuta incollata alle pagine. Belli gli inserti dei ricordi (con le loro macchie di colore prive di contorni), così come alcune vere e proprie citazioni cinematografiche (come la sequenza sul terrazzo tra le lenzuola che ricorda la famosa scena di Una giornata particolare), perché in fondo questo fumetto non è solo una bella storia familiare, ma anche un omaggio all’Italia degli anni Cinquanta.
Voto: 3,5/5
Alfred è lo pseudonimo del fumettista francese di origine italiana Lionel Papagalli, che quest’anno con la sua opera Come prima ha vinto il Fauve d’or, in pratica l’Oscar per il miglior fumetto assegnato dalla più importante manifestazione dedicata al genere, ossia il Festival internazionale del fumetto di Angouleme.
Per far capire l’importanza di questo premio vi dirò soltanto che in passato l’hanno vinto Guy Delisle, Bastien Vivès e Manuele Fior. Direi dunque che il Fauve d’or è sinonimo di qualità. Ed effettivamente anche questa volta non si può certo dire diversamente.
Come prima (il cui titolo è in italiano anche nella versione originale francese perché si ispira a una famosa canzone italiana degli anni Cinquanta) è la storia di due fratelli, Fabio e Giovanni.
Il primo vive in Francia dopo essere fuggito di casa molti anni prima; Giovanni il più piccolo è sempre vissuto all’ombra e nell’ammirazione dell’altro, ma non ha mai compreso i motivi della sua fuga e si è sentito abbandonato.
Ora Giovanni è tornato a cercare Fabio con l’urna che contiene le ceneri del padre per fare con lui il viaggio di ritorno verso casa, a bordo di una scassatissima Cinquecento.
Per i due fratelli non sarà facile superare in una volta un silenzio durato troppi anni. E così passeranno attraverso incomprensioni, litigi, silenzi, bugie, nella difficoltà di guardare entrambi in faccia al loro passato e farci i conti.
L’episodio che ha spinto tanti anni prima Fabio a fuggire via in Francia ha creato molti vuoti, e soprattutto ha soffocato nel silenzio molte verità. La distanza ha lasciato ciascuno dei due fratelli solo con le proprie debolezze e incapace di prendere veramente in mano la propria vita, sia per chi è andato via sia per chi è rimasto.
Nel lungo viaggio attraverso le Alpi, costellato di incontri buffi, tuffi nel passato, rivelazioni e ricordi, Fabio e Giovanni ritroveranno la forza del loro legame di sangue, che solo l’intervento di una donna sostanzialmente esterna alla famiglia rende possibile riscoprire, vincendo l’orgoglio e trovando il perdono.
Il segno grafico di Alfred ha da un lato qualcosa di profondamente classico, dall’altro qualcosa di genuinamente moderno. Non si tratta di un segno elegante e pulito, bensì di un segno che a seconda dei casi si fa duro o caricaturale, il tutto all'interno di una sceneggiatura di grande qualità, che mi ha tenuta incollata alle pagine. Belli gli inserti dei ricordi (con le loro macchie di colore prive di contorni), così come alcune vere e proprie citazioni cinematografiche (come la sequenza sul terrazzo tra le lenzuola che ricorda la famosa scena di Una giornata particolare), perché in fondo questo fumetto non è solo una bella storia familiare, ma anche un omaggio all’Italia degli anni Cinquanta.
Voto: 3,5/5
domenica 14 dicembre 2014
Sharon Van Etten, Roma, Circolo degli artisti, 7 dicembre 2014
L’aspetto più originale di questa serata di concerto al Circolo è la presenza di mio nipote diciottenne, P., che è a Roma in visita con la famiglia. Gli ho proposto di trascorrere una serata io e lui, andando a vedere il concerto di Sharon Van Etten e anche se lui non sa di chi si tratti (e anzi ammetterà in seguito che non è neppure tanto il suo genere di musica) accetta volentieri.
La nostra serata inizia con una pizza di Farro Zero a casa e poi via in motorino fino al Circolo.
Arriviamo piuttosto presto; ci sarà al massimo una decina di persone. Ma per me è la norma, visto che tengo particolarmente a stare nelle prime file per fare le foto con la mia macchina fotografica. Dopo una chiacchierata col nipote, e man mano che la sala si riempie, arriva sul palco Marisa Anderson, un donnone di Portland (Oregon), che si posiziona sulla sua sedia e comincia a inanellare una serie di canzoni strumentali suonate con una normale chitarra elettrica e un altro strumento che sembra una chitarrina orizzontale, suonata con le dita ma quasi come uno xilofono. Marisa ci spiega il perché e le origini di ogni sua canzone e ci strappa qualche sorriso e diversi applausi, creando atmosfere country che ci portano direttamente dentro alcuni paesaggi americani. Poi com’è venuta così va via, lasciando il palco agli strumenti della band di Sharon Van Etten.
Nel frattempo accanto a mio nipote si posizionano due ragazze che si rivelano super fans di Sharon Van Etten e che, oltre a spintonare mio nipote per guadagnare le prime posizioni, canteranno a squarciagola tutte le canzoni conoscendone tutti i testi a memoria (tranne delle due canzoni inedite!).
E così, dopo una breve pausa, ecco salire sul palco la protagonista della serata, con maglioncino lungo a righe e una frangetta che le copre completamente gli occhi, al punto che potremo realmente scoprirli solo molto più avanti durante il concerto. Accanto a lei quattro musicisti, la tastierista e seconda voce Heather Woods Broderick (la cui bravura colpisce non meno della sua bellezza), il chitarrista Doug Keith, il batterista Darren Jessee e il bassista Brad Cook, che festeggia proprio questa sera il suo compleanno.
Sharon ci dice subito che è la sua prima volta a Roma e subito dimostra di essere in vena di chiacchiere, di battute e di buonumore. Ringrazia più e più volte il pubblico presente e continuerà a farlo durante tutta la serata.
Il concerto si apre con la bellissima Afraid of nothing che è anche la canzone che apre il suo splendido ultimo album, Are we there.
La prima linea del palco è occupata visivamente ed emotivamente dalle due donne, Sharon e Heather, che si scambiano sguardi di intesa e sorrisi, e si rincorrono con le voci e gli strumenti, lasciando non solo fisicamente sullo sfondo i tre musicisti.
Il resto lo fa la voce di Sharon, che emoziona, scalda l’atmosfera e unisce (e a tratti mi fa venire in mente le emozioni di un altro concerto al Circolo, quello di Anna Calvi), mentre passa dalla chitarra elettrica a quella acustica e talvolta anche a una specie di sintetizzatore.
A una serie di brani suonati collettivamente dalla band al completo e tratti in parte dall’ultimo disco, in parte da quelli precedenti (di cui però io conosco solo Tramp), segue la cover di Perfect day eseguita da Sharon da sola sul palco con la sua chitarra e poi Don’t do it suonata e cantata insieme a Heather Brooke.
Con una delle canzoni di punta del suo ultimo lavoro, Your love is killing me, si chiude il concerto e la band si congeda, ma il pubblico li richiama a gran voce costringendoli a tornare sul palco, dove ci regalano ancora due canzoni, prima di salutarci nuovamente.
Però il pubblico non è ancora sazio e così Sharon accetta di tornare ancora una volta sul palco per cantarci Every time the sun comes up. Ma questa volta il suo è un saluto definitivo, o forse meglio un arrivederci alla prossima puntata romana.
Per quanto mi riguarda, uno dei migliori concerti dell’anno e Sharon Van Etten una conferma sul piano delle composizioni musicali e una scoperta nell’esecuzione dal vivo. Splendida.
Ne sentiremo parlare.
Voto: 4/5
La nostra serata inizia con una pizza di Farro Zero a casa e poi via in motorino fino al Circolo.
Arriviamo piuttosto presto; ci sarà al massimo una decina di persone. Ma per me è la norma, visto che tengo particolarmente a stare nelle prime file per fare le foto con la mia macchina fotografica. Dopo una chiacchierata col nipote, e man mano che la sala si riempie, arriva sul palco Marisa Anderson, un donnone di Portland (Oregon), che si posiziona sulla sua sedia e comincia a inanellare una serie di canzoni strumentali suonate con una normale chitarra elettrica e un altro strumento che sembra una chitarrina orizzontale, suonata con le dita ma quasi come uno xilofono. Marisa ci spiega il perché e le origini di ogni sua canzone e ci strappa qualche sorriso e diversi applausi, creando atmosfere country che ci portano direttamente dentro alcuni paesaggi americani. Poi com’è venuta così va via, lasciando il palco agli strumenti della band di Sharon Van Etten.
Nel frattempo accanto a mio nipote si posizionano due ragazze che si rivelano super fans di Sharon Van Etten e che, oltre a spintonare mio nipote per guadagnare le prime posizioni, canteranno a squarciagola tutte le canzoni conoscendone tutti i testi a memoria (tranne delle due canzoni inedite!).
E così, dopo una breve pausa, ecco salire sul palco la protagonista della serata, con maglioncino lungo a righe e una frangetta che le copre completamente gli occhi, al punto che potremo realmente scoprirli solo molto più avanti durante il concerto. Accanto a lei quattro musicisti, la tastierista e seconda voce Heather Woods Broderick (la cui bravura colpisce non meno della sua bellezza), il chitarrista Doug Keith, il batterista Darren Jessee e il bassista Brad Cook, che festeggia proprio questa sera il suo compleanno.
Sharon ci dice subito che è la sua prima volta a Roma e subito dimostra di essere in vena di chiacchiere, di battute e di buonumore. Ringrazia più e più volte il pubblico presente e continuerà a farlo durante tutta la serata.
Il concerto si apre con la bellissima Afraid of nothing che è anche la canzone che apre il suo splendido ultimo album, Are we there.
La prima linea del palco è occupata visivamente ed emotivamente dalle due donne, Sharon e Heather, che si scambiano sguardi di intesa e sorrisi, e si rincorrono con le voci e gli strumenti, lasciando non solo fisicamente sullo sfondo i tre musicisti.
Il resto lo fa la voce di Sharon, che emoziona, scalda l’atmosfera e unisce (e a tratti mi fa venire in mente le emozioni di un altro concerto al Circolo, quello di Anna Calvi), mentre passa dalla chitarra elettrica a quella acustica e talvolta anche a una specie di sintetizzatore.
A una serie di brani suonati collettivamente dalla band al completo e tratti in parte dall’ultimo disco, in parte da quelli precedenti (di cui però io conosco solo Tramp), segue la cover di Perfect day eseguita da Sharon da sola sul palco con la sua chitarra e poi Don’t do it suonata e cantata insieme a Heather Brooke.
Con una delle canzoni di punta del suo ultimo lavoro, Your love is killing me, si chiude il concerto e la band si congeda, ma il pubblico li richiama a gran voce costringendoli a tornare sul palco, dove ci regalano ancora due canzoni, prima di salutarci nuovamente.
Però il pubblico non è ancora sazio e così Sharon accetta di tornare ancora una volta sul palco per cantarci Every time the sun comes up. Ma questa volta il suo è un saluto definitivo, o forse meglio un arrivederci alla prossima puntata romana.
Per quanto mi riguarda, uno dei migliori concerti dell’anno e Sharon Van Etten una conferma sul piano delle composizioni musicali e una scoperta nell’esecuzione dal vivo. Splendida.
Ne sentiremo parlare.
Voto: 4/5
giovedì 11 dicembre 2014
Storia della bambina perduta / Elena Ferrante
Storia della bambina perduta / Elena Ferrante. Roma: Edizioni e/o, 2014.
Ed eccoci qua, al momento tanto atteso e tanto temuto.
La fine della saga di Lena e Lila. Il quarto e ultimo capitolo della storia della loro vita e della loro amicizia, il periodo che va dai quarant'anni fino alla vecchiaia.
Non so dire che sentimenti provo. Direi di svuotamento, come se improvvisamente tutto il sangue fosse fluito via dalle vene producendo una forma di atarassia, di assenza di emozioni.
Forse è la sensazione che si prova quando persone che hanno avuto una parte importante nella nostra vita vanno via. Segue un senso di impotenza, di vuoto, che sarà successivamente riempito da una valanga di ricordi.
Questo quarto capitolo del lungo racconto di Elena Greco è denso di avvenimenti e in qualche modo più compresso degli altri, foss'anche soltanto perché ci sono voluti tre volumi per raccontare i primi 40 anni della vita di Elena e Lila mentre in quest'unico libro si racconta della loro vita tra gli anni Ottanta e gli anni Duemila.
Molte cose accadono in questi anni e riassumerle non solo sarebbe difficile ma toglierebbe parte del piacere alla lettura.
Su due cose mi preme soffermarmi alla fine di questa lettura così coinvolgente: innanzitutto il rapporto tra la storia personale delle due donne e dell'universo umano che le circonda e la storia più ampia della loro città e soprattutto dell'Italia; in secondo luogo, la sensazione di familiarità e quasi di ripetitività che nel prosieguo della saga sembra caratterizzare l'andamento della storia.
Sul primo aspetto, mi pare estremamente interessante osservare che - rispetto ai decenni precedenti in cui la storia del contesto aveva un peso significativo e si incrociava fortemente con le vite individuali, coinvolgendo più o meno diffusamente tutti i protagonisti del mondo di Lila ed Elena - in quest'ultimo capitolo (a parte alcuni avvenimenti particolarmente significativi, come ad esempio il terremoto in Irpinia del 1980 e le conseguenze politiche e sociali determinate da Tangentopoli) la storia politica, economica e sociale scorre sullo sfondo.
Questa diversa proporzione tra il peso della vita privata e quello del contesto sociale credo rifletta perfettamente un cambiamento effettivo intervenuto nella società e nella vita delle persone nel passaggio dagli anni Settanta agli anni Ottanta. E io che sono sostanzialmente figlia degli anni Ottanta l'ho vissuto sulla mia pelle. È anche vero, d’altronde, come dice V., che il fallimento di quell’ideale rivoluzionario, il minor impegno politico si salda al passaggio verso la maturità, che fa scivolare i protagonisti verso una sorta di ripiegamento interiore.
Riguardo al secondo aspetto, arrivati a questo quarto capitolo, riconosciamo tutte le dinamiche del rapporto tra Elena e Lila, nonché i meccanismi psicologici con cui Elena gestisce le sue insicurezze, in un andamento ciclico che può apparire a tratti scontato. In realtà, ciò che apparentemente è una inutile ripetizione ci racconta le nostre stesse debolezze e il percorso che ciascuno di noi compie nel tentativo di affermare la propria identità tra qualche passo avanti e numerosi passi indietro.
La vita è così, ciclica, ricorsiva, e proprio quando pensiamo di aver superato il nostro vecchio io eccoci lì che siamo di nuovo al punto di partenza.
E perciò, ancora di più di quanto non fosse già avvenuto per i volumi precedenti, la mia sensazione di comprendere perfettamente gli stati d'animo di Elena e la mia identificazione con il suo personaggio sono forti. Comprendo perfettamente il rapporto ambivalente con le sue origini, il desiderio di scappare e poi quello di tornare, comprendo la sua dipendenza (in positivo e in negativo) da Lila, suo termine di rispecchiamento e di paragone ideale, e anche in quali casi l'elastico emotivo a volte l'avvicina fortemente all'amica e altre volte gliela fa rifiutare; comprendo il senso di precarietà degli affetti a cui né gli uomini che ha amato, né le figlie che ha cresciuto, né l'amica di una vita possono completamente rimediare; comprendo la sensazione di pienezza e di forza che a volta la vita ti dà e che altre volte e altrettanto imprevedibilmente ti toglie, rendendoti insicuro e in balia degli eventi; comprendo anche la percezione di inevitabilità che il passare della vita porta con sé, mentre il mondo intorno a te - così come ti si era andato configurando fin dall'infanzia - si va sfaldando man mano che il tempo passa, perdendo sempre più i contorni netti che in tutti i modi abbiamo cercato di conferirgli. Quello "smarginarsi" che nella vita di Lila è stata invece caratteristica intrinseca fin dall'infanzia.
Di Lila (e di Napoli) meglio di me parla V. quando dice che la deuteragonista di questo straordinario romanzo corale resta per tutta la quadrilogia un fortissimo alter ego, l’altra voce, l’altra possibilità, l’intelligenza mai messa a frutto e anzi "sperperata come una gran signora, per la quale tutte le ricchezze del mondo sono solo un segno di volgarità" e perché in fondo "al mondo non c'era alcunché da vincere, che la sua vita era piena di avventure diverse e scriteriate proprio quanto la mia, e che il tempo semplicemente scivolava via senza alcun senso, ed era bello solo vedersi ogni tanto per sentire il suono folle del cervello dell'una echeggiare dentro il suono folle del cervello dell'altra". Lila che mostra il percorso e vede le cose prima che accadano. E non è casuale il legame, fortissimo, di Lila con la sua città, città dove "tutto si costruisce tutto si scassa", città dove le cose che accadono e le contraddizioni si vedono prima che altrove, città che, come Lila, "con naturalezza non si piega a nessun addestramento, a nessun uso e a nessun fine".
Elena e Lila mi mancheranno, ma ricorderò che mi hanno mostrato che la vita è un'esperienza incredibile, e non per l'eccezionalità delle cose che facciamo, ma per la complessità intrinseca che il flusso degli eventi porta con sé e a cui è umano talvolta abbandonarsi e altre volte opporsi.
Quella di Elena Ferrante (chiunque sia) non sarà alta letteratura, quella che piace ai grandi intellettuali; certamente però è letteratura capace di toccare con semplicità la verità dei sentimenti e delle cose con tale forza da spalancare spazi di emotività e di comprensione al contempo familiari e inediti.
Voto: 3,5/5
Ed eccoci qua, al momento tanto atteso e tanto temuto.
La fine della saga di Lena e Lila. Il quarto e ultimo capitolo della storia della loro vita e della loro amicizia, il periodo che va dai quarant'anni fino alla vecchiaia.
Non so dire che sentimenti provo. Direi di svuotamento, come se improvvisamente tutto il sangue fosse fluito via dalle vene producendo una forma di atarassia, di assenza di emozioni.
Forse è la sensazione che si prova quando persone che hanno avuto una parte importante nella nostra vita vanno via. Segue un senso di impotenza, di vuoto, che sarà successivamente riempito da una valanga di ricordi.
Questo quarto capitolo del lungo racconto di Elena Greco è denso di avvenimenti e in qualche modo più compresso degli altri, foss'anche soltanto perché ci sono voluti tre volumi per raccontare i primi 40 anni della vita di Elena e Lila mentre in quest'unico libro si racconta della loro vita tra gli anni Ottanta e gli anni Duemila.
Molte cose accadono in questi anni e riassumerle non solo sarebbe difficile ma toglierebbe parte del piacere alla lettura.
Su due cose mi preme soffermarmi alla fine di questa lettura così coinvolgente: innanzitutto il rapporto tra la storia personale delle due donne e dell'universo umano che le circonda e la storia più ampia della loro città e soprattutto dell'Italia; in secondo luogo, la sensazione di familiarità e quasi di ripetitività che nel prosieguo della saga sembra caratterizzare l'andamento della storia.
Sul primo aspetto, mi pare estremamente interessante osservare che - rispetto ai decenni precedenti in cui la storia del contesto aveva un peso significativo e si incrociava fortemente con le vite individuali, coinvolgendo più o meno diffusamente tutti i protagonisti del mondo di Lila ed Elena - in quest'ultimo capitolo (a parte alcuni avvenimenti particolarmente significativi, come ad esempio il terremoto in Irpinia del 1980 e le conseguenze politiche e sociali determinate da Tangentopoli) la storia politica, economica e sociale scorre sullo sfondo.
Questa diversa proporzione tra il peso della vita privata e quello del contesto sociale credo rifletta perfettamente un cambiamento effettivo intervenuto nella società e nella vita delle persone nel passaggio dagli anni Settanta agli anni Ottanta. E io che sono sostanzialmente figlia degli anni Ottanta l'ho vissuto sulla mia pelle. È anche vero, d’altronde, come dice V., che il fallimento di quell’ideale rivoluzionario, il minor impegno politico si salda al passaggio verso la maturità, che fa scivolare i protagonisti verso una sorta di ripiegamento interiore.
Riguardo al secondo aspetto, arrivati a questo quarto capitolo, riconosciamo tutte le dinamiche del rapporto tra Elena e Lila, nonché i meccanismi psicologici con cui Elena gestisce le sue insicurezze, in un andamento ciclico che può apparire a tratti scontato. In realtà, ciò che apparentemente è una inutile ripetizione ci racconta le nostre stesse debolezze e il percorso che ciascuno di noi compie nel tentativo di affermare la propria identità tra qualche passo avanti e numerosi passi indietro.
La vita è così, ciclica, ricorsiva, e proprio quando pensiamo di aver superato il nostro vecchio io eccoci lì che siamo di nuovo al punto di partenza.
E perciò, ancora di più di quanto non fosse già avvenuto per i volumi precedenti, la mia sensazione di comprendere perfettamente gli stati d'animo di Elena e la mia identificazione con il suo personaggio sono forti. Comprendo perfettamente il rapporto ambivalente con le sue origini, il desiderio di scappare e poi quello di tornare, comprendo la sua dipendenza (in positivo e in negativo) da Lila, suo termine di rispecchiamento e di paragone ideale, e anche in quali casi l'elastico emotivo a volte l'avvicina fortemente all'amica e altre volte gliela fa rifiutare; comprendo il senso di precarietà degli affetti a cui né gli uomini che ha amato, né le figlie che ha cresciuto, né l'amica di una vita possono completamente rimediare; comprendo la sensazione di pienezza e di forza che a volta la vita ti dà e che altre volte e altrettanto imprevedibilmente ti toglie, rendendoti insicuro e in balia degli eventi; comprendo anche la percezione di inevitabilità che il passare della vita porta con sé, mentre il mondo intorno a te - così come ti si era andato configurando fin dall'infanzia - si va sfaldando man mano che il tempo passa, perdendo sempre più i contorni netti che in tutti i modi abbiamo cercato di conferirgli. Quello "smarginarsi" che nella vita di Lila è stata invece caratteristica intrinseca fin dall'infanzia.
Di Lila (e di Napoli) meglio di me parla V. quando dice che la deuteragonista di questo straordinario romanzo corale resta per tutta la quadrilogia un fortissimo alter ego, l’altra voce, l’altra possibilità, l’intelligenza mai messa a frutto e anzi "sperperata come una gran signora, per la quale tutte le ricchezze del mondo sono solo un segno di volgarità" e perché in fondo "al mondo non c'era alcunché da vincere, che la sua vita era piena di avventure diverse e scriteriate proprio quanto la mia, e che il tempo semplicemente scivolava via senza alcun senso, ed era bello solo vedersi ogni tanto per sentire il suono folle del cervello dell'una echeggiare dentro il suono folle del cervello dell'altra". Lila che mostra il percorso e vede le cose prima che accadano. E non è casuale il legame, fortissimo, di Lila con la sua città, città dove "tutto si costruisce tutto si scassa", città dove le cose che accadono e le contraddizioni si vedono prima che altrove, città che, come Lila, "con naturalezza non si piega a nessun addestramento, a nessun uso e a nessun fine".
Elena e Lila mi mancheranno, ma ricorderò che mi hanno mostrato che la vita è un'esperienza incredibile, e non per l'eccezionalità delle cose che facciamo, ma per la complessità intrinseca che il flusso degli eventi porta con sé e a cui è umano talvolta abbandonarsi e altre volte opporsi.
Quella di Elena Ferrante (chiunque sia) non sarà alta letteratura, quella che piace ai grandi intellettuali; certamente però è letteratura capace di toccare con semplicità la verità dei sentimenti e delle cose con tale forza da spalancare spazi di emotività e di comprensione al contempo familiari e inediti.
Voto: 3,5/5
venerdì 5 dicembre 2014
Dimentica il mio nome / Zerocalcare
Come sapete, non sono una fan sfegatata di Zerocalcare.
Apprezzo alcuni dei suoi racconti a fumetti del lunedì (per esempio, tra gli ultimi pubblicati questo, Il bagaglio a mano) e trovo alcune sue invenzioni assolutamente geniali. Epperò c'è qualcosa nei suoi lavori che mi è in qualche modo estraneo e che me lo tiene a una certa distanza.
Devo dire che nel suo ultimo lavoro, Dimentica il mio nome, ho avuto la conferma di tutto quello che avevo pensato dopo la lettura di Un polpo alla gola. Ossia che i graphic novels di Zerocalcare sono traboccanti di parole, al punto che le pagine sembrano il risultato di un vero e proprio horror vacui, che Zero è una specie di fucina di idee, tantissime, fors'anche troppe, che vanno a invadere ed esondare dai suoi racconti, che il doppio disegnato di Zero è la massima espressione di una generazione che non riesce ad affrancarsi da una condizione tardo-adolescenziale anche in età adulta, forse ancora più di quanto non sia accaduto alla mia generazione (che è quella immediatamente precedente).
Tutto ciò detto, questo nuovo lavoro mi è piaciuto molto.
Mi pare che - pur con qualche eccesso narrativo - la storia tenga e sia ben organizzata, oltre che interessante per chi legge. Mi piace anche molto l'idea di una narrazione continua ma organizzata per unità in qualche modo autonome, una specie di approfondimenti o divagazioni, identificate da un titolo proprio, una specie di via di mezzo tra il romanzo a fumetti e la striscia del lunedì.
Alcuni passaggi sono a dir poco esilaranti. E credo che la migliore qualità di Zerocalcare consista nella sua capacità di tradurre in parole e in immagini cose che in qualche modo tutti abbiamo pensato, provato e vissuto. Cosicché Zerocalcare dà una specie di rilevanza universale a quelle esperienze, che pur essendo in buona parte personali e legate al momento storico che si vive, in qualche misura appartengono a tutti.
E così, "depurando" le sue strisce di tutti i riferimenti che appartengono nello specifico all'immaginario collettivo della generazione dell'autore, la sostanza del racconto attiene alle caratteristiche intrinseche dell'umanità tutta, che Zerocalcare rivela e svela con un umorismo e un'autoironia più che apprezzabili.
Per chiudere voglio citare solo alcuni passaggi che mi hanno fatto particolarmente ridere o colpito:
[In riferimento a una incongruenza tra Wikipedia e i ricordi della nonna] Wikipedia a mi nonna je spiccia casa.
[durante la messa, l'amico "Secco"] Sto continuo alzarsi e sederci mi sconcentra. Me pare la lezione di step dei vecchi.
[Zero da piccolo] Mamma, che vuol dire apericena? Non dire quelle parole, figliolo. Prega che spariscano presto.
[Zero, dopo alcune rivelazioni sulla storia passata della sua famiglia] La nostra famiglia è come un film col primo tempo girato da John Woo e il secondo tempo, quando arrivo io, l'ha fatto Terrence Malick.
[Sull'attrazione inevitabile per la tranquillità] È come un baratto. Tu dai un pezzetto di una cosa tua, in cambio di sicurezza, comodità. Ma pezzetto dopo pezzetto, quanto sei disposto a cedere per essere rassicurato?
Dimentica il mio nome è un graphic novel sovrabbondante e forse fin troppo ambizioso, però - a parte qualche sfilacciamento nell'ultima parte - mi pare che dimostri che Zerocalcare sta crescendo in empatia e comunicatività anche nel racconto lungo. Speriamo che sappia coltivare queste qualità, senza farsi sopraffare dalla tendenza a strafare.
Comunque questo lavoro mi ha decisamente riconciliato con lui.
Voto: 4/5
mercoledì 3 dicembre 2014
Sils Maria
Il nome del regista, Olivier Assayas, qualcosa mi diceva. E infatti - andando a ricontrollare - mi sono accorta che è suo un film di qualche anno fa, Après Mai, che pure mi era piaciuto, ma che come Sils Maria si crogiolava in qualche modo nelle parole, in un approccio decisamente intellettualoide e in un ritmo narrativo un po' sincopato.
Dirò innanzitutto che cosa mi è piaciuto di questo film.
Certamente l'ambientazione. Stupendi i paesaggi svizzeri (non a caso la Svizzera è uno sponsor del film!), bellissimo il fenomeno che nel film viene chiamato Maloya snake, praticamente una formazione di nubi che con particolari condizioni meteorologiche si forma presso il passo di Maloya prendendo la forma di un serpente e invadendo la valle e il bacino d'acqua. Ovviamente, il fenomeno atmosferico è una delle tante metafore e dei tanti specchi di questo film.
Ho trovato notevole la presenza scenica di Kristen Stewart (l'interprete di Twilight!). Credo che - fors'anche per il ruolo che interpreta - il suo personaggio, Valentine, l'assistente personale dell'attrice Maria Enders (Juliette Binoche), rubi quasi completamente la scena sia alla Binoche sia agli altri attori e la sua assenza nell'ultima parte del racconto si percepisce con forza.
Non mi è dispiaciuto il tema di fondo del film, il tempo che passa, cui sono legati tanti sottotemi altrettanto intriganti: l'inevitabile cambiamento del punto di vista, la nostalgia e l'attrazione potente esercitata dal passato, l'irriducibilità tra età diverse della vita che inevitabilmente non si comprendono fino in fondo, il contrapporsi tra la spregiudicatezza, ma anche la freschezza della gioventù, e la fragilità, ma anche la rotondità dell'età matura, il consumarsi di tutto, della vita, del tempo, ma anche dei desideri, dei gusti, delle cose.
Tutto ciò detto, la costruzione forzatamente meta-cinematografica (Maria Enders è un'attrice che dovrà recitare a teatro il personaggio adulto di un testo teatrale per il quale aveva recitato vent'anni prima la giovane protagonista), il gioco degli specchi tra il testo teatrale e la vita, nonché le metafore naturalistiche e verbali di cui è punteggiata la storia, sinceramente mi sono parse in qualche modo eccessive.
Un film al contempo verboso ed ermetico, originale e banale, ambiguo ma non fino in fondo.
Insomma, dal mio punto di vista decisamente un'operazione ambiziosa, ma non del tutto riuscita.
Voto: 2,5/5
Dirò innanzitutto che cosa mi è piaciuto di questo film.
Certamente l'ambientazione. Stupendi i paesaggi svizzeri (non a caso la Svizzera è uno sponsor del film!), bellissimo il fenomeno che nel film viene chiamato Maloya snake, praticamente una formazione di nubi che con particolari condizioni meteorologiche si forma presso il passo di Maloya prendendo la forma di un serpente e invadendo la valle e il bacino d'acqua. Ovviamente, il fenomeno atmosferico è una delle tante metafore e dei tanti specchi di questo film.
Ho trovato notevole la presenza scenica di Kristen Stewart (l'interprete di Twilight!). Credo che - fors'anche per il ruolo che interpreta - il suo personaggio, Valentine, l'assistente personale dell'attrice Maria Enders (Juliette Binoche), rubi quasi completamente la scena sia alla Binoche sia agli altri attori e la sua assenza nell'ultima parte del racconto si percepisce con forza.
Non mi è dispiaciuto il tema di fondo del film, il tempo che passa, cui sono legati tanti sottotemi altrettanto intriganti: l'inevitabile cambiamento del punto di vista, la nostalgia e l'attrazione potente esercitata dal passato, l'irriducibilità tra età diverse della vita che inevitabilmente non si comprendono fino in fondo, il contrapporsi tra la spregiudicatezza, ma anche la freschezza della gioventù, e la fragilità, ma anche la rotondità dell'età matura, il consumarsi di tutto, della vita, del tempo, ma anche dei desideri, dei gusti, delle cose.
Tutto ciò detto, la costruzione forzatamente meta-cinematografica (Maria Enders è un'attrice che dovrà recitare a teatro il personaggio adulto di un testo teatrale per il quale aveva recitato vent'anni prima la giovane protagonista), il gioco degli specchi tra il testo teatrale e la vita, nonché le metafore naturalistiche e verbali di cui è punteggiata la storia, sinceramente mi sono parse in qualche modo eccessive.
Un film al contempo verboso ed ermetico, originale e banale, ambiguo ma non fino in fondo.
Insomma, dal mio punto di vista decisamente un'operazione ambiziosa, ma non del tutto riuscita.
Voto: 2,5/5
lunedì 1 dicembre 2014
torneranno i prati
Confesso: i primi dieci minuti ho fatto fatica a tenere gli occhi aperti e se G. non mi avesse passato una caramella penso che avrei dormito per il resto del tempo ;-)
Però una volta ben sveglia (!) sono entrata nello spirito del film. Uno spirito fatto di cupezza e dolcezza al contempo.
Ermanno Olmi riesce a portarci per un'ora e mezza nel buio della trincea, tra senso di solitudine, noia, terrore, poesia. Visivamente il film è bellissimo; le montagne e gli alberi completamente coperti di neve e illuminati dalla luna, dove di notte si muovono furtivi gli animali, è un paesaggio quasi fiabesco, magico, irreale.
Bella ricostruzione, a metà tra lo storico e il poetico.
Di questo paesaggio sono spettatori e prigionieri un manipolo di soldati che presidia la trincea, in uno stato di sospensione palpabile, che metterebbe a dura prova anche le menti più stabili. Il nemico è vicinissimo (un soldato dice che talvolta sembra quasi di sentirne il respiro), eppure è invisibile e silenzioso, fino a quando non si scatena l'inferno dei cannoni e dei mortai che uccide gli uomini come topi in queste vere e proprie tane scavate nella terra.
E in questa attesa infinita, sospesa tra la vita e la morte, ognuno reagisce come può, chi con la contemplazione, chi con la nostalgia, chi con la musica, chi con la pazzia.
Non c'è retorica nel film di Olmi. Però tutto appare sensato e insensato al contempo.
Alla fine resta forte un senso di contrattura narrativa ed emotiva, che mai si spiega pienamente e che per questo forse non consente alcuno scioglimento della tensione.
Un film rispetto al quale non si riesce ad essere totalmente all'interno, ma del quale non si può dire di rimanere totalmente esterni. Forse proprio come della guerra di cui Olmi racconta, quella guerra che spazzerà una generazione e resterà per sempre nella mente di chi è tornato, ma rischia di essere dimenticata da chi non l'ha vissuta.
Voto: 3,5/5
Però una volta ben sveglia (!) sono entrata nello spirito del film. Uno spirito fatto di cupezza e dolcezza al contempo.
Ermanno Olmi riesce a portarci per un'ora e mezza nel buio della trincea, tra senso di solitudine, noia, terrore, poesia. Visivamente il film è bellissimo; le montagne e gli alberi completamente coperti di neve e illuminati dalla luna, dove di notte si muovono furtivi gli animali, è un paesaggio quasi fiabesco, magico, irreale.
Bella ricostruzione, a metà tra lo storico e il poetico.
Di questo paesaggio sono spettatori e prigionieri un manipolo di soldati che presidia la trincea, in uno stato di sospensione palpabile, che metterebbe a dura prova anche le menti più stabili. Il nemico è vicinissimo (un soldato dice che talvolta sembra quasi di sentirne il respiro), eppure è invisibile e silenzioso, fino a quando non si scatena l'inferno dei cannoni e dei mortai che uccide gli uomini come topi in queste vere e proprie tane scavate nella terra.
E in questa attesa infinita, sospesa tra la vita e la morte, ognuno reagisce come può, chi con la contemplazione, chi con la nostalgia, chi con la musica, chi con la pazzia.
Non c'è retorica nel film di Olmi. Però tutto appare sensato e insensato al contempo.
Alla fine resta forte un senso di contrattura narrativa ed emotiva, che mai si spiega pienamente e che per questo forse non consente alcuno scioglimento della tensione.
Un film rispetto al quale non si riesce ad essere totalmente all'interno, ma del quale non si può dire di rimanere totalmente esterni. Forse proprio come della guerra di cui Olmi racconta, quella guerra che spazzerà una generazione e resterà per sempre nella mente di chi è tornato, ma rischia di essere dimenticata da chi non l'ha vissuta.
Voto: 3,5/5
giovedì 27 novembre 2014
French for Rabbits (+ Fraser Ross), Black Market, Unplugged in Monti, 11 novembre 2014
Questa volta nessuna bomba d'acqua ha reso il mio tragitto verso il Black Market fortunoso. Anzi sono arrivata comodamente e ho potuto sorseggiare un amaro su un divanetto prima dell'apertura della saletta concerti. Nonostante la stanchezza di questi giorni ho voluto fortemente assistere a questo concerto, dopo aver comprato su Bandcamp i due album di questa band neozelandese ed averli apprezzati enormemente.
E devo dire che l'aspettativa non è stata delusa.
Questa sera il palco è tutto neozelandese. Prima si esibisce Fraser Ross, un ragazzone che dice di essersi trasferito dalla Nuova Zelanda alla Scozia all'inseguimento di una donna, ma senza successo. Alla fine però la Scozia gli è piaciuta ed è rimasto lì :-)
Ci canta alcune canzoni d'amore con la sua chitarra e conclude con una buffa canzone per bambini su un'anatra, che per metà è fatta di parole incomprensibili pronunciate come Paperino. Il pubblico ride e si diverte, poi il ragazzone si siede tra il pubblico per lasciare spazio ai French for Rabbits.
Sono in quattro: sono Brooke Singer (nomen omen) e John Fitzgerald (i due sono in qualche modo l'anima del gruppo, l'una voce, nonché chitarra acustica e tastiere, l'altro chitarra elettrica), cui si aggiungono Ben Lemi (il bassista con i lunghi capelli rasta e lo strumento musicale ricoperto di una tela con i colori arcobaleno) e Hikurangi Schaverien-Kaa (che sembra quasi un maori, alle percussioni). Tutti quanti arrivano originariamente da Waikuku Beach, un luogo che già solo per il nome è tutto un programma (andatevi a guardare le immagini su Internet).
Stanno un po' strettini sul palco, ma vi assicuro che l'effetto è molto delicato e trascinante.
Cominciano con la bellissima Claimed by the sea, la canzone che li ha fatti conoscere prima in Nuova Zelanda, poi a livello internazionale. Poi proseguono alternando canzoni del primo CD e di quello appena uscito, Spirits (molto bello).
L'armonia tra la voce di Brooke e gli strumenti che la accompagnano è suggestiva e coinvolgente. Loro sono timidi e gentili, anche autoironici. Ci chiedono più volte cosa potrebbero fare il giorno dopo a Roma in un'ora. Il pubblico gli suggerisce di buttarsi sul cibo; io dopo il concerto - mentre mi faccio firmare da Brooke e John il sempre bellissimo poster di Mynameisbri - le dico che forse potrebbero andare sull'Aventino a guardare il panorama di Roma dal giardino degli aranci e a spiare dal buco della serratura del Palazzo dei Cavalieri di Malta.
Riguardo alla loro musica, devo dire che mentre li ascoltavo mi ricordavano molto le sonorità - anch'esse folk-pop - di una cantante che a me piace moltissimo, la scozzese (delle Highlands) Rachel Sermanni, che ho anche visto dal vivo qualche tempo fa. La cosa mi ha fatto venire in mente (anche ripensando alle parole di Fraser Ross) che ci deve essere un qualche collegamento ideale tra queste due terre lontane, forse una certa similarità dei paesaggi, una predominanza della natura sull'uomo che produce sensibilità e sonorità comuni. E siccome tutto si tiene, i French for Rabbits sono stati anche scelti da Agnes Obel (altra artista nordica che mi piace e ho ascoltato dal vivo) come opening act di un certo numero dei suoi concerti europei.
E forse io, che sono in qualche modo nordica dentro e soprattutto che amo moltissimo questo tipo di paesaggi, con queste sensibilità e sonorità ci vado a nozze. Tocca proprio organizzare un viaggio in Nuova Zelanda :-)
Voto: 4/5
E devo dire che l'aspettativa non è stata delusa.
Questa sera il palco è tutto neozelandese. Prima si esibisce Fraser Ross, un ragazzone che dice di essersi trasferito dalla Nuova Zelanda alla Scozia all'inseguimento di una donna, ma senza successo. Alla fine però la Scozia gli è piaciuta ed è rimasto lì :-)
Ci canta alcune canzoni d'amore con la sua chitarra e conclude con una buffa canzone per bambini su un'anatra, che per metà è fatta di parole incomprensibili pronunciate come Paperino. Il pubblico ride e si diverte, poi il ragazzone si siede tra il pubblico per lasciare spazio ai French for Rabbits.
Sono in quattro: sono Brooke Singer (nomen omen) e John Fitzgerald (i due sono in qualche modo l'anima del gruppo, l'una voce, nonché chitarra acustica e tastiere, l'altro chitarra elettrica), cui si aggiungono Ben Lemi (il bassista con i lunghi capelli rasta e lo strumento musicale ricoperto di una tela con i colori arcobaleno) e Hikurangi Schaverien-Kaa (che sembra quasi un maori, alle percussioni). Tutti quanti arrivano originariamente da Waikuku Beach, un luogo che già solo per il nome è tutto un programma (andatevi a guardare le immagini su Internet).
Stanno un po' strettini sul palco, ma vi assicuro che l'effetto è molto delicato e trascinante.
Cominciano con la bellissima Claimed by the sea, la canzone che li ha fatti conoscere prima in Nuova Zelanda, poi a livello internazionale. Poi proseguono alternando canzoni del primo CD e di quello appena uscito, Spirits (molto bello).
L'armonia tra la voce di Brooke e gli strumenti che la accompagnano è suggestiva e coinvolgente. Loro sono timidi e gentili, anche autoironici. Ci chiedono più volte cosa potrebbero fare il giorno dopo a Roma in un'ora. Il pubblico gli suggerisce di buttarsi sul cibo; io dopo il concerto - mentre mi faccio firmare da Brooke e John il sempre bellissimo poster di Mynameisbri - le dico che forse potrebbero andare sull'Aventino a guardare il panorama di Roma dal giardino degli aranci e a spiare dal buco della serratura del Palazzo dei Cavalieri di Malta.
Riguardo alla loro musica, devo dire che mentre li ascoltavo mi ricordavano molto le sonorità - anch'esse folk-pop - di una cantante che a me piace moltissimo, la scozzese (delle Highlands) Rachel Sermanni, che ho anche visto dal vivo qualche tempo fa. La cosa mi ha fatto venire in mente (anche ripensando alle parole di Fraser Ross) che ci deve essere un qualche collegamento ideale tra queste due terre lontane, forse una certa similarità dei paesaggi, una predominanza della natura sull'uomo che produce sensibilità e sonorità comuni. E siccome tutto si tiene, i French for Rabbits sono stati anche scelti da Agnes Obel (altra artista nordica che mi piace e ho ascoltato dal vivo) come opening act di un certo numero dei suoi concerti europei.
E forse io, che sono in qualche modo nordica dentro e soprattutto che amo moltissimo questo tipo di paesaggi, con queste sensibilità e sonorità ci vado a nozze. Tocca proprio organizzare un viaggio in Nuova Zelanda :-)
Voto: 4/5
martedì 25 novembre 2014
Due giorni, una notte
Sandra (Marion Cotillard) è una giovane moglie e madre di famiglia con due figli. È da poco uscita da una depressione, di cui porta ancora i segni e gli strascichi addosso. È pronta a riprendere il lavoro, ma il capo del personale della sua azienda ha deciso che i componenti del suo reparto dovranno votare se ottenere un bonus di 1.000 euro oppure far rientrare Sandra al lavoro, perché l'azienda non può permettersi entrambe le cose. Manu, suo marito (Fabrizio Rongione), la spingerà a contattare nel weekend i suoi colleghi di reparto per convincerne almeno nove a votare per lei.
Questa la scarna storia.
I fratelli Dardenne mettono in scena uno straordinario "dilemma del prigioniero" in chiave contemporanea, in cui ciascuno è messo di fronte alla scelta tra un umano senso di solidarietà e le proprie necessità materiali, se non addirittura tra la sopravvivenza altrui e la propria.
Il dramma sociale prodotto dalla crisi economica costituisce uno scenario perfetto per questa storia, ma non è quello che rende il film così intenso.
La carica dirompente del film nasce dall'innestarsi su di esso di un dramma tutto personale. Sandra è una donna sensibile e fragile. Attraversa uno di quei momenti nella vita in cui ci si sente profondamente soli (anche quando intorno a sé ci sono numerose evidenze del contrario), in cui i brevi momenti di fiducia e di voglia di reagire sono intaccati e quasi annullati da ogni - anche piccolo - segnale negativo vero o presunto, in cui il sovraccarico emotivo produce spesso il pianto o il tentativo di fuga, dal desiderio di annullarsi nel sonno a quello di cancellare se stessi col suicidio.
Sandra incontra a uno a uno i suoi colleghi, ciascuno portatore di una storia pregressa o attuale che deflagra di fronte al dilemma morale e materiale determinato di volta in volta da sentimenti di amicizia, insoddisfazione personale, problemi familiari, aggressività individuale, paure, comportamenti sleali.
Il tutto in due giorni e una notte, durante i quali le cose non necessariamente si risolvono e alla fine dei quali la vita non sarà più facile, ma che innescano il processo di rinascita di Sandra, quel clic che scatta dentro di lei, facendole ritrovare se stessa e riscoprire il proprio valore. Quella condizione da cui guardare alla propria vita e al mondo intorno con rinnovate forza e fiducia, non perché sia cambiato qualcosa, ma perché è cambiato il nostro asse interiore riequilibrandosi.
Marion Cotillard è straordinariamente credibile. Ha quest'aria persa, sfatta, sempre come se si fosse appena svegliata - come dice M. -, eppure è tenera e piena di vita. La telecamera dei registi gli sta sempre addosso, per buona parte del film quasi appollaiata sulla spalla. Incombe su di lei e noi, insieme alla telecamera, ci sentiamo bloccati quando Sandra si scoraggia e al contempo vorremmo spingerla, quasi costringerla a buttarsi nella mischia, a provarci.
La ripetizione delle azioni, nonché delle parole, con cui Sandra si ritrova davanti a un campanello da suonare e a una persona cui chiedere di rinunciare a 1.000 euro per consentirle di riprendere a lavorare è come un concentrato di esperienze, una possibilità unica di sperimentarsi di nuovo e di nuovo nella relazione con gli altri, un'occasione di imparare - a poco a poco e nello stesso tempo in maniera accelerata - a reagire al rifiuto e alle malignità e ad apprezzare l'affetto e l'attenzione degli altri, senza che niente di tutto questo metta veramente in discussione il proprio essere.
Meno credibile la figura di Manu, suo marito, una vera roccia, l'emblema stesso della stabilità, sempre misurato, sempre costruttivo, sempre profondamente fiducioso e innamorato. Forse un po' troppo, ma non ci lamentiamo, una volta tanto che i fratelli Dardenne riescono a farci intravedere uno spiraglio di luce nel buio della vita.
Marion Cotillard è bella e brava in misura indicibile, ma certo sono di parte. Però questa volta la devo davvero ringraziare perché non solo mi ha fatto tornare - solo per amore suo (!) - a vedere un film dei Dardenne, ma mi ha anche fatto riconciliare con il cinema dei due fratelli belgi.
Il mio amico olandese M. alla fine del film mi ha fatto riflettere su una cosa. Noi italiani diciamo spesso: "Eh, la vita è così. Purtroppo". Forse dovremmo cominciare a dire: "Eh, la vita è così. Per fortuna!". E forse anche i Dardenne cominciano a pensarla un po' in questo modo.
Voto: 4/5
Questa la scarna storia.
I fratelli Dardenne mettono in scena uno straordinario "dilemma del prigioniero" in chiave contemporanea, in cui ciascuno è messo di fronte alla scelta tra un umano senso di solidarietà e le proprie necessità materiali, se non addirittura tra la sopravvivenza altrui e la propria.
Il dramma sociale prodotto dalla crisi economica costituisce uno scenario perfetto per questa storia, ma non è quello che rende il film così intenso.
La carica dirompente del film nasce dall'innestarsi su di esso di un dramma tutto personale. Sandra è una donna sensibile e fragile. Attraversa uno di quei momenti nella vita in cui ci si sente profondamente soli (anche quando intorno a sé ci sono numerose evidenze del contrario), in cui i brevi momenti di fiducia e di voglia di reagire sono intaccati e quasi annullati da ogni - anche piccolo - segnale negativo vero o presunto, in cui il sovraccarico emotivo produce spesso il pianto o il tentativo di fuga, dal desiderio di annullarsi nel sonno a quello di cancellare se stessi col suicidio.
Sandra incontra a uno a uno i suoi colleghi, ciascuno portatore di una storia pregressa o attuale che deflagra di fronte al dilemma morale e materiale determinato di volta in volta da sentimenti di amicizia, insoddisfazione personale, problemi familiari, aggressività individuale, paure, comportamenti sleali.
Il tutto in due giorni e una notte, durante i quali le cose non necessariamente si risolvono e alla fine dei quali la vita non sarà più facile, ma che innescano il processo di rinascita di Sandra, quel clic che scatta dentro di lei, facendole ritrovare se stessa e riscoprire il proprio valore. Quella condizione da cui guardare alla propria vita e al mondo intorno con rinnovate forza e fiducia, non perché sia cambiato qualcosa, ma perché è cambiato il nostro asse interiore riequilibrandosi.
Marion Cotillard è straordinariamente credibile. Ha quest'aria persa, sfatta, sempre come se si fosse appena svegliata - come dice M. -, eppure è tenera e piena di vita. La telecamera dei registi gli sta sempre addosso, per buona parte del film quasi appollaiata sulla spalla. Incombe su di lei e noi, insieme alla telecamera, ci sentiamo bloccati quando Sandra si scoraggia e al contempo vorremmo spingerla, quasi costringerla a buttarsi nella mischia, a provarci.
La ripetizione delle azioni, nonché delle parole, con cui Sandra si ritrova davanti a un campanello da suonare e a una persona cui chiedere di rinunciare a 1.000 euro per consentirle di riprendere a lavorare è come un concentrato di esperienze, una possibilità unica di sperimentarsi di nuovo e di nuovo nella relazione con gli altri, un'occasione di imparare - a poco a poco e nello stesso tempo in maniera accelerata - a reagire al rifiuto e alle malignità e ad apprezzare l'affetto e l'attenzione degli altri, senza che niente di tutto questo metta veramente in discussione il proprio essere.
Meno credibile la figura di Manu, suo marito, una vera roccia, l'emblema stesso della stabilità, sempre misurato, sempre costruttivo, sempre profondamente fiducioso e innamorato. Forse un po' troppo, ma non ci lamentiamo, una volta tanto che i fratelli Dardenne riescono a farci intravedere uno spiraglio di luce nel buio della vita.
Marion Cotillard è bella e brava in misura indicibile, ma certo sono di parte. Però questa volta la devo davvero ringraziare perché non solo mi ha fatto tornare - solo per amore suo (!) - a vedere un film dei Dardenne, ma mi ha anche fatto riconciliare con il cinema dei due fratelli belgi.
Il mio amico olandese M. alla fine del film mi ha fatto riflettere su una cosa. Noi italiani diciamo spesso: "Eh, la vita è così. Purtroppo". Forse dovremmo cominciare a dire: "Eh, la vita è così. Per fortuna!". E forse anche i Dardenne cominciano a pensarla un po' in questo modo.
Voto: 4/5
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