mercoledì 29 aprile 2020

Parlarne tra amici / Sally Rooney

Parlarne tra amici / Sally Rooney. Torino: Einaudi, 2018.

Avevo sentito tanto parlare di questa opera prima di Sally Rooney, uno dei tanti casi letterari del 2018 (direi che ormai il concetto di "caso letterario" è fortemente inflazionato e poco attendibile), e lo avevo prontamente comprato.

Due viaggi in aereo (ormai un lontano ricordo!!) mi hanno permesso di completarne la lettura.

La storia è quella di Frances, una giovane poetessa, che oltre a proseguire gli studi universitari si esibisce in spettacoli di spoken word (di cui lei scrive i testi) insieme alla sua amica ed ex compagna Bobbi, una donna brillante e radicale che Frances ammira molto per il suo carisma.

Insieme a Bobbi, Frances conosce e viene invitata a casa di Melissa, una fotografa e scrittrice sposata con Nick, un attore con problemi di depressione, entrambi trentenni.

Da qui si srotola la matassa degli eventi, perché Frances si innamora di Nick e inizia con lui una storia all'insaputa della moglie di lui, Melissa, e dell'amica Bobbi. Ben presto però la verità viene a galla e Frances dovrà fare i conti con le complicazioni e le sfumature dei sentimenti, nonché con le sue ansie di futuro, appesa com'è a una passione - com'è quella per la scrittura - poco remunerativa e all'instabilità di un padre alcolizzato che a un certo punto comincia a non passarle più l'assegno mensile.

Personalmente ho trovato il libro della Rooney gradevole e di scorrevole lettura, e certamente molto efficace nel rappresentare il punto di vista sulla vita e sul mondo della generazione dei trentenni. Se ne ricava la percezione di una generazione che se da un lato ha la possibilità di attingere a modelli e possibilità di scelta (sul piano sociale, sentimentale e personale) molto più ampie rispetto alle generazioni che l'hanno preceduta, dall'altro sconta una incertezza personale ed economica molto accentuata, e dunque spesso una sotterranea necessità di attingere a formule forse più limitanti, ma anche più rassicuranti. L'esito è una specie di schizofrenia interiore e un parziale malessere nella difficoltà di trovare una propria collocazione nel mondo ed essere a proprio agio con questa collocazione.

Le vite di questi giovani appaiono come una specie di laboratorio sociale e personale in cui si sperimentano nuove possibilità, senza sapere veramente dove andranno a parare e se saranno effettivamente gestibili, ma nella sostanziale certezza che nulla potrà essere definito e categorizzabile come lo era in passato. Cosa che - come si è detto - rappresenta una straordinaria libertà, ma anche una inesauribile fonte di inquietudine e incertezza.

A mio modesto parere, il libro della Rooney appartiene a quello che si sta configurando come un vero e proprio nuovo filone della letteratura internazionale, cui ascriverei almeno altri due libri da me letti recentemente, Da grande di Jami Attenberg e Asimmetria di Lisa Halliday. Pur con le dovute differenze - di provenienza e anche in parte di età - tutti questi libri convogliano attraverso le loro pagine le paure, l'atteggiamento mentale, l'approccio al mondo e gli stati d'animo di una generazione che io percepisco significativamente diversa dalla mia, e non per la differenza di età, bensì proprio per il momento storico diverso in cui si è vissuta o si vive una certa fase della vita.

A me ormai quasi quarantasettenne, l'apparente scarso radicamento nella realtà e lo spaesamento delle protagoniste di questi romanzi un po' destabilizza e un po' irrita, anche se nel loro atteggiamento ci vedo anche la speranza di un futuro più libero e meno castrante per le generazioni che verranno. Ovviamente la strada è lunga ed è necessario superare questa fase di transizione e di profondo cambiamento, sperando che i nuovi equilibri - sociali e personali - che si verranno a definire avranno maglie molto più ampie, più flessibili e personalizzabili del sistema nel quale attualmente viviamo, e che l'esito non sia un nuovo determinismo e conservatorismo.

Voto: 3/5

lunedì 27 aprile 2020

Summer

Siamo a Leningrado nei primi anni Ottanta. Mike è un musicista rock russo piuttosto affermato, che per potersi esibire deve fare i conti con la stretta vigilanza del partito e le regole piuttosto rigide imposte alla musica rock, considerata espressione della decadenza del nemico americano.

Mike è però un autentico cultore dei grandi del rock angloamericano, da Iggy Pop a Lou Reed, da Blondie a David Bowie, le cui canzoni studia con attenzione e scrupolo.

Un giorno d'estate Mike - che è al mare con la sua compagna Natasha e i suoi amici - conosce Viktor, un giovane musicista di cui comprende immediatamente il talento.

A partire da questo momento Mike se ne fa mentore, deciso a far conoscere al pubblico sovietico la musica di Viktor che rappresenta una vera novità nel panorama di quegli anni.

Viktor Coj e la sua band, i Kino, saranno destinati a essere una delle band new wave più amate e conosciute nell'Unione Sovietica degli anni Ottanta, sebbene praticamente ignote fuori dai suoi confini.

Il film di Kirill Serebrennikov non solo ricostruisce la storia dell'ascesa di Viktor Coj e dei Kino, ma racconta anche il triangolo amoroso determinato dall'innamoramento di Natasha per Viktor e i sentimenti contraddittori di Mike.

Il tutto in un bianco e nero molto luminoso che fa un po' Jules e Jim, e dentro una confezione quasi da musical, dal momento che la narrazione è di tanto in tanto interrotta da coreografie corali che eseguono grandi successi degli anni Settanta. Bella la coreografia di The Passenger nell'autobus, o quella di Psycokiller nel treno, ma anche A perfect day sotto la pioggia. Tutte le sequenze musical vedono la sovrapposizione all'immagine girata di parole e segni scritti a mano come con un pennarello fluo.

Molto divertenti anche gli inserti formato quadrotto con piccoli frammenti video a colori, circondati dalle parole in russo di grandi canzoni rock. Particolarmente suggestivo quello in cui si ricostruiscono le copertine di famosi dischi di quegli anni.

Il film è forse un po' tirato per le lunghe e a tratti un po' involuto ed autocompiaciuto, ma la confezione è sicuramente originale, la colonna sonora decisamente strepitosa tra grandi successi internazionali e particolarissimo rock cantato in russo, e la storia è tutto sommato affascinante e del tutto inedita per noi "occidentali".

Insomma una interessante scoperta, resa possibile ancora una volta dall'iniziativa di mymovies #iorestoacasa che mi ha permesso di recuperare un film che avevo puntato a suo tempo al cinema e avevo perso.

Voto: 3,5/5

sabato 25 aprile 2020

Due o tre cose che so di sicuro / Dorothy Allison

Due o tre cose che so di sicuro / Dorothy Allison; trad. di Sara Bilotti. Roma: minimum fax, 2019.

Due o tre cose che so di sicuro è il testo teatrale che Dorothy Allison ha scritto dopo aver pubblicato il romanzo che l'ha resa famosa, La bastarda della Carolina.

Anche in questo caso la vicenda personale e la storia familiare, in particolare quella delle donne della famiglia Gibson, sono la principale ispirazione della sua scrittura, ma il testo si presenta come un monologo, che alterna il racconto di aneddoti e vicende del passato con una specie di flusso di coscienza su questo passato. Alla scrittura si affiancano delle fotografie familiari, le cui didascalie presenti in un elenco in fondo al libro consiglio di leggere man mano che prosegue la narrazione.

Nel volumetto sono ben presenti i temi caratterizzanti della scrittura della Allison, tra cui ad esempio la condizione di minorità delle donne, gli abusi perpetrati dagli uomini, l'emancipazione femminile, l'identità sessuale, nonché la possibilità - per tutti - di poter riscattare sé stessi.

In fondo è proprio questo che la Allison racconta in questo memoir: la forza grazie alla quale ciascuna donna, qualunque sia il passato e la condizione dalla quale proviene, può riscattarsi e conquistare la propria libertà di scelta, in un processo di consapevolezza di sé che è inevitabilmente lungo quanto la vita stessa.

Quelle "due o tre cose" che la Allison sa di sicuro sono le acquisizioni che - come pietre miliari - hanno scandito il suo processo di crescita e liberazione da qualunque tipo di sopraffazione, nella convinzione profonda che ogni cosa che si arriva a sapere è fatta apposta per essere rimessa in discussione e per dare un nuovo impulso al percorso mai concluso e in fondo sempre incerto di conoscenza di sé.

E forse l'unica cosa alla fine veramente sicura è che non esiste cambiamento che non parta dall'interno e che la nostra vita non è semplicisticamente l'esito delle azioni degli altri verso di noi, bensì anche e soprattutto delle scelte che noi facciamo rispetto a noi stessi e alle persone che ci circondano.

Voto: 3,5/5

giovedì 23 aprile 2020

Just Charlie - Diventa chi sei

Charlie (Harry Gilby) è un pre-adolescente come tanti altri. Ha una bella famiglia, molti amici e gli piace giocare a calcio, anzi ha un vero e proprio talento tanto che una squadra importante è interessata a lui.

Messo di fronte a questa scelta e alla pressione del padre che attraverso di lui vorrebbe realizzare un sogno della sua infanzia, Charlie va in crisi perché non riesce più a convivere con un corpo nel quale non si riconosce.

Quando il padre lo scopre in abiti femminili è il momento per Charlie di scegliere la propria strada. Nonostante la reazione fortemente negativa del padre, e sostenuto solo dalla madre, Charlie comincia il suo percorso per diventare quello che sente di essere ed esce allo scoperto anche al di fuori delle mura domestiche, andando incontro a rifiuti e difficoltà.

La mitezza e la determinazione di Charlie saranno però le sue armi vincenti per trasformare la sua vita e ricostruire la rete di affettività intorno alla sua nuova identità.

Il film di Rebekah Fortune ha il merito di portare al grande pubblico attraverso una confezione cinematografica adatta a tutti e riconoscibile da tutti un tema non solo importante ma anche delicato e poco praticato. E lo fa sicuramente con delicatezza (anche grazie all'interpretazione del suo protagonista) e commozione (trasferendo questo pathos a più riprese allo spettatore), ma resta fortemente convenzionale e prevedibile nello sviluppo, nonché a più riprese consolatorio nello scioglimento di nodi emotivi che forse avrebbero richiesto ben altra complessità. I ruoli del padre e della madre sono tagliati troppo nettamente e anche la loro evoluzione appare un po' meccanica.

Però, nonostante qualche semplificazione e anche qualche escamotage melodrammatico di troppo, Just Charlie resta un'occasione per far entrare nel dibattito collettivo un tema ancora poco digeribile - e per questo spesso negato e misconosciuto - ossia la disforia di genere nei bambini e negli adolescenti e l'impreparazione delle famiglie e della società tutta ad affrontare questa realtà e a non sottovalutarla condannando una persona a una sofferenza lunga una vita intera.

Voto: 3/5

lunedì 20 aprile 2020

Là dove finisce la terra. Cile 1948-1970 / Désirée e Alain Frappier

Là dove finisce la terra. Cile 1948-1970 / Désirée e Alain Frappier; prefaz. di Luis Sepúlveda; trad. dal francese di Silvia Manzio. Torino: add editore, 2019.

La casa editrice add di Torino sta diventando un nuovo, interessante punto di riferimento nel settore dei graphic novel, soprattutto per quanto riguarda i racconti dal vero, ossia i racconti personali che gettano luce su una realtà, un tema, un luogo o un periodo storico. Non sono ancora tanti i titoli all'attivo della casa editrice su questo fronte, ma il catalogo contiene già diversi albi di qualità e che hanno avuto una certa risonanza. Penso in particolare a Io sono Una, albo che ho letto e apprezzato moltissimo, e all'opera in tre volumi Una vita cinese, che pure ho apprezzato tantissimo.

L'ultimo nato di questa accurata scelta è il graphic novel di Désirée e Alain Frappier Là dove finisce la terra, che racconta la storia di Pedro Atìas, il cui nonno era arrivato in Cile dal Libano agli inizi del Novecento. Attraverso la vicenda di Pedro a partire dalla sua infanzia e adolescenza fino all'età adulta, i due autori - che nell'Introduzione scrivono di aver incontrato Pedro una sera a cena a casa di amici e di aver capito in quel momento di aver trovato l'occasione per raccontare la storia di un paese che già da tempo era nei loro pensieri - ci offrono una emozionante ricostruzione della vita di una famiglia, nonché delle vicende di un paese dal 1948 al 1970.

Il racconto di questo albo termina nel 1970, con la vittoria di Salvador Allende alle elezioni cilene, ma attendiamo con ansia l'uscita della seconda parte del racconto che narra gli avvenimenti del governo Allende fino al colpo di stato del 1973 e alla successiva fuga di Pedro in Francia, fuga che viene già annunciata in questo primo volume.

Come già mi è accaduto leggendo Il nostro meglio, il graphic novel dedicato da Thi Bui alla storia della sua famiglia e alle vicende vietnamite che li hanno costretti a emigrare fortunosamente per sfuggire alle persecuzioni, mentre leggevo Là dove finisce la terra mi accorgevo di quanto poco sappiamo delle storie di questi paesi lontani da noi, ad eccezione di pochi fatti e vicende eclatanti che hanno travalicato i confini nazionali e che quasi sempre sono diventati oggetto di una narrazione ideologica e proprio per questo a volte distorta o non corrispondente alla realtà.

Per questo, ascoltare la storia di un paese dal punto di vista di una persona che quella storia l'ha vissuta, sebbene si tratti pur sempre di un'esperienza soggettiva, costituisce un'occasione da non perdere.

In questo caso, il racconto si avvale anche dell'attento lavoro di ricostruzione documentaria realizzato dai due autori e testimoniato dalla ricchissima bibliografia finale del volume; il rigore del racconto è testimoniato anche dalle scelte grafiche che riescono a trasmettere sia il lirismo dei rapporti individuali, attraverso immagini di vita familiare molto poetiche, sia la vividezza degli eventi pubblici, disegnati con un realismo, una precisione e un'evocatività davvero unici.

I disegni di Alain Frappier strappano più volte un'esclamazione di ammirazione, ma non distraggono bensì coadiuvano la comprensione di una storia nazionale complessa, che si inserisce in uno scacchiere difficile a livello geopolitico come quello sudamericano. Una realtà che ha vissuto - come e forse più di altre - sia lo sfruttamento delle risorse da parte dell'Europa prima e degli Stati Uniti poi, sia l'ingerenza nelle questioni interne giustificata dal clima di ossessiva paura del mondo occidentale di fronte all'espansione del comunismo.

Nella storia del Cile si intravedono dunque in filigrana le storie di altri paesi dell'America latina, nonché la lunga vicenda che ha contrapposto il gigante statunitense alla piccola Cuba di Fidel Castro. Ma nel racconto di Pedro Atías non c'è solo la storia dei grandi avvenimenti politici, ma anche la storia del campionato del mondo di calcio e quella della compagnia teatrale di cui Pedro fa parte.

Tutto però contribuisce a restituire un quadro vivido e ricco di dettagli per capire l'evoluzione degli eventi e farsi un'idea.

Mentre leggevo questo graphic novel - e lo stesso avevo pensato leggendo Il nostro meglio - riflettevo sul fatto che noi oggi riteniamo di vivere un periodo oscuro (e certamente per molti versi lo è), ma forse rischiamo di dimenticare quanto violenti - seppure in maniera sotterranea - sono stati il dopoguerra e il periodo della guerra fredda e quanto a questo periodo si possano ascrivere le premesse di molte vicende ed esiti politici che sono giunti a compimento più avanti nel tempo e quanto l'ombra lunga di quel periodo si estenda fino a noi.

A questo punto attendo con ansia il secondo volume.

Voto: 4/5

venerdì 17 aprile 2020

Tardo autunno

Dopo aver visto Viaggio a Tokyo sono rimasta letteralmente affascinata dal cinema di Ozu e mi sono di nuovo fiondata sul sito dell’iniziativa di Mymovies #iorestoacasa per capire se riuscivo a vedere qualcos’altro. Purtroppo la retrospettiva del grande regista giapponese era quasi finita, ma non mi sono lasciata sfuggire l’ultima occasione utile, ossia la proiezione di Tardo autunno, uno degli ultimi film del maestro (è del 1960 ed è un film a colori).

Tre amici si ritrovano insieme per commemorare la morte del comune amico Miwa; in questa occasione incontrano la vedova dell’amico, Akiko (Setsuko Hara, l’attrice già vista in Viaggio a Tokyo), e la figlia Ayako (Yoko Tsukasa), nonché il fratello di lui che viene dalla provincia, Shukichi, (Chishū Ryū, attore feticcio di Ozu, qui in un ruolo secondario).

Da questo incontro prenderà l’avvio una specie di commedia degli equivoci, che a tratti vira verso il drammatico (ma quel drammatico “senza drammi” che è tipico dei giapponesi), che vede i tre uomini decisi a trovare un marito per la giovane Ayako, anche se quest’ultima sembra poco propensa a sposarsi anche perché è molto legata alla madre che non vuole lasciare sola.

Resisi consapevoli di questo, i tre uomini capiscono che l’unico modo per far convolare a nozze Ayako è convincere anche Akiko a risposarsi, e alla fine il candidato ideale è proprio uno dei tre, l’unico vedovo. I tre, però, con il loro fare un po’ codardo e un po’ imbranato, determinano una serie di equivoci che causa il litigio tra Ayako e sua madre, quest’ultima ignara delle trame dei tre buontemponi e l’altra convinta che la madre stia tradendo la memoria del padre e le abbia mentito in merito alle sue intenzioni.

Alla fine tutto si risolverà per il meglio: Ayako troverà la sua strada insieme al giovane Goto, mentre Akiko scegliere di rimanere da sola e votare la sua vita alla memoria del marito.

Dal punto di vista stilistico, il film ha un impianto molto teatrale e le varie ambientazioni (l’ufficio di Mamiya, la casa di Ayako e Akiko, l’ufficio dove lavora Ayako, le trattorie dove si incontrano per mangiare e discutere) corrispondono a scene concluse, inframmezzate da riprese di ambienti di passaggio vuoti, quasi occasioni per tirare il respiro e riflettere tra un dialogo e l’altro. Come già avevo notato in Viaggio a Tokyo, Ozu anche in questo caso riprende le scene stando sempre ad altezza tatami e dunque all’altezza delle persone sedute, a creare una condizione immersiva, rispetto alla quale gli stacchi sui paesaggi, urbani e naturali, sono quasi dei cambi di scena.

Le inquadrature sono sempre fisse (o quasi fisse) all’interno delle diverse ambientazioni e sono costruite con un rigore e una pulizia estetica e formale davvero sorprendente, che si fa ampiamente apprezzare ancora oggi dopo 70 anni.

A livello di contenuti, si conferma il tema del confronto tra le generazioni e del passaggio di testimone tra coloro che sono gli eredi del passato e i giovani che premono il piede sull’acceleratore dell’occidentalizzazione e del futuro. Questo mix di antico e moderno, di orientale e occidentale, attraversa tutto il film, e forse è ancora oggi una caratteristica propria della cultura giapponese. La cosa secondo me interessante è che, anche in questo film, come in Viaggio a Tokyo, Ozu non giudica i suoi personaggi; magari li prende in giro un po’ bonariamente o ne mette in evidenza difetti e limiti, ma lo fa con una comprensione e un’empatia per l’umana condizione che non può che suscitare affetto. I giovani sono più disinibiti e non vogliono sottostare alle regole del passato, ma sono talvolta confusi e velleitari, mentre adulti e anziani sembrano apparentemente avere più chiare le priorità, ma dimostrano a loro volta di essere altrettanto confusi di fronte ai cambiamenti, che poi forse è la confusione di un paese in un’epoca di transizione e dello stesso regista in un’età delicata della sua vita.

Voto: 4/5

mercoledì 15 aprile 2020

Non lasciarmi / Kazuo Ishiguro

Non lasciarmi / Kazuo Ishiguro; trad. di Paola Novarese. Torino: Einaudi, 2006.

Dopo aver visto il film sul cellulare di S, durante una lunga pausa in una tappa del viaggio in bicicletta dello scorso anno, distese su un prato davanti a un laghetto, mi era venuta la curiosità di leggere il libro di Ishiguro da cui il film è stato tratto.

E - pur avendolo letto in un periodo piuttosto pieno in cui avevo poco tempo per leggere - posso dire di averlo divorato. Ovviamente, mi sono mancati completamente l'atmosfera carica di ambiguità e l'effetto sorpresa che caratterizzano il romanzo e la storia in esso raccontata, perché già conoscevo l'arcano di fondo. Eppure, la piacevolezza e l'interesse nella lettura non ne hanno risentito, e una forza per certi versi oscura mi ha trascinato attraverso le pagine fino alla fine.

Della storia è d'obbligo non rivelare troppi particolari. Possiamo certamente dire che protagoniste di questa storia sono tre persone, Kathy, che è anche la voce narrante, Tommy e Ruth. Il libro si articola in tre parti corrispondenti a tre fasi ed età diverse della vita di questi personaggi: la prima è ambientata a Hailsham, una specie di collegio dove i tre vivono fino quasi alla maggiore età e dove ricevono la loro formazione; la seconda ambientata ai Cottages, delle case organizzate come un piccolo villaggio autonomo dove gli studenti di Hailsham e di altri collegi vanno a vivere quando diventano grandi e autonomi; infine, nell'ultima parte i tre hanno preso ciascuno la propria strada e queste strade si incroceranno, volontariamente e involontariamente, rivelando a poco a poco tutta la verità sulle loro vite.

Quella di Ishiguro è una storia sospesa in un tempo difficile da collocare, in un mondo che assomiglia molto a quello che conosciamo ma nel quale ci sono cose che non fanno parte della nostra esperienza e che sono perciò poco comprensibili. Solo man mano che si va avanti nella lettura questa realtà comincerà a prendere forma e a rivelarsi per quella che è, ossia una distopia che però è tanto più inquietante in quanto realistica e completamente plausibile rispetto alla direzione che sta prendendo la nostra società.

La forza del romanzo di Ishiguro sta nel mettere il lettore sullo stesso piano di Kathy: in questo modo, se da un lato l'identificazione e l'empatia con la protagonista e i suoi amici è inevitabile, altrettanto inevitabile è il senso di spaesamento e talvolta di disallineamento emotivo che ci accompagna per buona parte del libro.

Kathy, Ruth e Tommy sono ragazzi normali e tra loro si innescano le comuni dinamiche proprie di alcune età della vita e che pertengono a sentimenti quali l'amicizia, l'amore, la rabbia, l'incomprensione, i tradimenti. Al contempo però loro - e anche i loro compagni - appaiono quasi degli alieni, totalmente decontestualizzati rispetto al mondo reale.

Quella di Ishiguro è una riflessione profonda sull'umanità e sui confini della nostra etica, e anche una metafora della tendenza umana a non farsi scrupoli o a non porsi troppe domande di fronte allo sfruttamento esercitato da un gruppo dominante su un gruppo dominato, fino all'estremo di non riconoscere ai componenti di quest'ultimo gli stessi sentimenti e dunque gli stessi diritti dell'altro.

Non lasciarmi è però anche una bellissima storia di amore e di amicizia, il racconto direi "classico" di un triangolo, che si arricchisce di sfumature nuove e originali, ma porta con sé tutta la tradizione letteraria sul tema. Grande libro.

Voto: 4/5

lunedì 13 aprile 2020

Corniche Kennedy

Qualche tempo fa, dopo essere rimasta abbacinata da Riparare i viventi, avevo deciso di leggere quest’altro romanzo di Maylis de Kerangal, e pur non trovandolo all’altezza dell’altro avevo avuto conferma delle qualità della sua scrittura.

Ora, grazie alla #solidarietàdigitale di Kitchen Film durante l’emergenza COVID-19, riesco a vedere in streaming gratuito il film che Dominique Cabrera ha tratto dal romanzo e la cui sceneggiatura è stata scritta con la stessa de Kerangal.

La storia è molto fedele a quella del romanzo: il gruppo di adolescenti che si incontra tutti i giorni lungo la Corniche Kennedy per sfidarsi in gare di tuffi sempre più spericolati, la ragazza di buona famiglia, Suzanne (Lola Créton), che è attirata da questi ragazzi e ben presto si unisce a loro per assaporare il gusto della trasgressione e della libertà, i due commissari di polizia che stanno seguendo il caso di un trafficante di droga, a cui uno dei ragazzi, Marco (Kamel Kadri), fa da autista e portaborse.

In questa fedeltà al romanzo, il film soffre alla fine degli stessi limiti, che anzi tendono a risultare particolarmente accentuati sullo schermo: in particolare la debolezza della trama parallela dell’indagine di polizia e in generale una non sufficiente attenzione all’approfondimento psicologico dei singoli personaggi, di cui a volte intuiamo le motivazioni profonde, ma che più spesso tendono a scivolare verso il cliché o lo stereotipo.

Sicuramente nel film, come nel libro, si respira quella sensazione inebriante che attraversa un’età della vita in cui tutto è possibile e si sfida il mondo intero per mordere la vita, quell’età in cui si è capaci di grandi slanci e grandi sentimenti, ma anche di altrettanto grandi egoismi e di sensazioni talmente confuse da ferire facilmente anche le persone a cui vogliamo bene.

Sul piano narrativo e cinematografico è dunque un film nella media, ma per me che prima di questa lunga quarantena ho potuto fare un bellissimo viaggio a Marsiglia (a Capodanno) il film è stato l’occasione per rivivere i luoghi e attraversarli virtualmente, riconoscendo posti e strade e angoli della città: il quartiere residenziale di Roucas Blanc, la Corniche Kennedy appunto, la Plage du Prophète, l'Anse de l'Oriol, l'Anse de la Fausse Monnaie, il Vallon des Auffes (con la Porte de l'Orient). E poi all’orizzonte le isole del Frioul, e nell’ultima parte del film Les Goudes e il parco nazionale dei calanchi, in particolare il promontorio aggettante sul mare dove si trova un vecchio rifugio di guerra e da dove si osserva il profilo dell'Ile Maïre. E tutto questo è stato molto emozionante al di là del film e del libro. E soprattutto mi ha fatto rivivere quella luce splendente e accecante che bacia la città di Marsiglia e che la rende una città a suo modo speciale.

Voto: 3/5

sabato 11 aprile 2020

La scuola di pizze in faccia del professor Calcare / Zerocalcare

La scuola di pizze in faccia del professor Calcare / Zerocalcare. Milano: Bao Publishing, 2019.

Da quando, con la lettura di Un polpo alla gola, ho cambiato idea in positivo su Zerocalcare e poi ne sono stata definitivamente conquistata con Kobane calling, compro praticamente tutti i suoi libri, anche quelli che raccolgono le sue strisce e le storie brevi.

A questa categoria appartiene l’ultimo albo, La scuola di pizze in faccia del professor Calcare, che contiene una selezione dei fumetti pubblicati sul suo blog, su Wired, su Bestmovie e su altre riviste cartacee o online negli ultimi anni, e si configura quindi come una specie di antologia o di best of.

Non a caso nel volume trovo qualcuna delle storie recenti che ho amato di più, da Quelli che si lasciano e si rimettono insieme (stupendo!) a Il bracciolo poggiagomito (con la mitica suora pescegatto), da Telavevodetto a Quando di notte c’hai freddo ma non vuoi alzarti a prendere la coperta, da Quando i vecchi salgono nella tua macchina a La città del decoro.

Scopro però nel libro strisce che non avevo letto e che ho modo di apprezzare come Lo spostamento dal divano al letto o i 7 contributi fondamentali dei Cavalieri dello Zodiaco.

Il volume si articola in tre parti: la prima è quella che raccoglie le storie divertenti, la seconda è quella che potremmo definire più impegnata, la terza è dedicata alle passioni di Zerocalcare, da Star Wars a Game of Thrones per arrivare appunto alle recensioni dei film di Venezia.

Pur continuando a preferire lo Zerocalcare delle storie lunghe - l’ultima molto bella articolata in due parti, Macerie prime e Macerie prime: Sei mesi dopo - devo dire che leggere i suoi fumetti è sempre un piacere, un divertimento e un’occasione di riflessione, anche quando Zero parla di argomenti di cui a me non interessa assolutamente nulla, come ad esempio Game of Thrones o altre serie tv, ovvero quando fa riferimento a un immaginario che non mi appartiene, ad esempio nel caso dei Cavalieri dello Zodiaco.

Il modo in cui Zero è in grado di mettere a fuoco e tradurre in immagini e pensieri alcune situazioni o atteggiamenti che possono riguardare chiunque e in cui tutti si possono identificare continua a stupirmi e a impressionarmi favorevolmente a distanza di anni, e spero che nonostante tutte le pressioni e le fatiche Zero mantenga viva la sua divertente e brillante creatività ancora a lungo (e non si faccia conquistare dal cinismo diffuso).

Tra l’altro è una delle poche letture che riesco veramente a condividere con i miei nipoti e che, nonostante gli anni, anzi i decenni, che ci separano, entrambi troviamo non solo divertente, ma capace di parlare alle nostre differenti sensibilità ed esperienze di vita.

Dunque, lunga vita a Zerocalcare.

Voto: 3,5/5

giovedì 9 aprile 2020

Viaggio a Tokyo

Sempre grazie all’iniziativa di mymovies #iorestoacasa, ho potuto recuperare un film che da tempo avrei voluto vedere e per il quale la curiosità era cresciuta in maniera particolare dopo la lettura dell’ultimo albo pubblicato da Igort, Kokoro, che cita più volte il maestro Ozu e il suo film Viaggio a Tokyo.

La storia è quella di Shukichi (Chishū Ryū) e Tomi (Chieko Higashiyama), una coppia ormai settantenne che vive in un paese di provincia nel sud del Giappone, vicino Hiroshima. I due vivono con la figlia più piccola, Kyōko, mentre gli altri figli vivono uno a Osaka e gli altri due a Tokyo. Un terzo figlio è morto in guerra otto anni prima, ma la vedova, Noriko (Setsuko Hara), vive anche lei a Tokyo.

I due decidono dunque di andare a trovare i figli a Tokyo e passare qualche giorno con loro. Una volta in città, però, si renderanno conto che per i figli la loro presenza non rappresenta un momento speciale e anzi a tratti costituisce quasi un fastidio, perché sono molto impegnati col lavoro e non possono trascorrere del tempo con loro. Solo Noriko, che non ha con loro alcun legame di sangue, si rende disponibile a fargli compagnia e ad aiutarli durante il soggiorno, e sembra mossa da un affetto sincero e disinteressato, e non a caso sarà lei la persona a cui Tomi vorrà regalare il suo orologio quasi come un passaggio di testimone tra generazioni in funzione della preservazione di valori in grave crisi.

Il film di Ozu è una storia in fondo semplicissima, ma a mio modesto parere la sua straordinarietà sta nel fatto – niente affatto scontato – che un film ambientato in un contesto culturale molto lontano dal nostro, quello giapponese (che come sappiamo poggia le sue basi sul confucianesimo), e in un’epoca molto lontana (siamo nel 1953) è perfettamente comprensibile a qualunque latitudine e in qualunque contesto e mantiene intatta la sua modernità anche a distanza di quasi settant’anni.

Perché Ozu parla sì di specifiche persone, ma in realtà parla di esseri umani, di rapporti familiari, di legami di sangue, di dinamiche generazionali, di affettività, e lo fa senza giudicare nessuno, bensì ‘semplicemente’ mettendosi alla loro altezza (che è quella del tatami su cui spesso sono seduti) e osservando le azioni e soprattutto gli sguardi delle persone. Le espressioni di Shukichi sono più eloquenti di mille parole, anche quando le sue risposte sono monosillabiche, e l’empatia di Noriko traspare dal suo sorriso e dai suoi occhi e risulta profondamente credibile.

Penso che chiunque di noi possa immedesimarsi in modi diversi in questi personaggi, e rendersi conto della disumanità di cui si fa portatore ciascuno di noi, anche nei confronti delle persone cui dovremmo essere più legati. Per me il film di Ozu è un’ulteriore conferma di quello di cui mi sono andata profondamente convincendo negli ultimi anni: i legami di sangue non sono una garanzia di vicinanza, di comprensione e di aiuto reciproco. Soprattutto quando tutti i protagonisti sono ormai adulti, i rapporti tra consanguinei sono rapporti tra esseri umani indipendenti e con punti di vista non necessariamente convergenti, esattamente come tutti gli altri rapporti, semmai complicati ulteriormente dal peso che la costruzione sociale del concetto di famiglia porta con sé e da quell’obbligo di condivisione e di bene – dal mio punto di vista più sociale che naturale – che ci portiamo appresso e con cui dobbiamo fare i conti per tutta la vita.

“Maneggiare con cura” è l’approccio che dovremmo sempre cercare di seguire, così come dovremmo provare a mantenere lo sguardo verso gli altri affettuoso e comprensivo (così com’è lo sguardo di Shukichi e Tomi), ma anche autonomo e libero da pregiudizi.

Che meraviglia di film.

Voto: 4,5/5 

martedì 7 aprile 2020

Invito a nozze / Carson McCullers

Invito a nozze / Carson McCullers; trad. di Leo Longanesi e Gino Dallari. Torino: Einaudi, 2018.

Individuo questo libro per caso in una delle tante liste di suggerimenti di lettura che mi capitano sotto gli occhi e, solo dopo averlo comprato, scopro che Carson McCullers è considerata una delle più grandi scrittrici americane, una delle voci più vere e significative della letteratura del Sud degli Stati Uniti.

Nata in Georgia nel 1917 la McCullers non ebbe certo una vita facile: a trent’anni fu colpita da un ictus che le paralizzò il lato sinistro del corpo e che la spinse a tentare il suicidio; più avanti il marito, con cui ebbe un matrimonio travagliato, cercò di convincerla a un doppio suicidio, ma Carson rifiuto e lo lasciò. Morì dopo un coma prolungato nel 1967.

Invito a nozze è considerato uno dei suoi romanzi più maturi: racconta una estate nella vita di Frankie Addams, una ragazzina di dodici anni il cui corpo si è sviluppato troppo in fretta. Frankie non ha la madre, morta al momento del suo parto, ed è cresciuta con il padre che ha un negozio di gioielli nel centro del paese. Durante l’estate, la ragazzina trascorre il suo tempo bighellonando per il paese, chiacchierando con Berenice, la governante di colore, e giocando con John Henry, il cugino più piccolo.

Di fronte all’invito al matrimonio del fratello, Frankie intravede in questo viaggio l’occasione per realizzare il suo sogno di andare via dalla famiglia e dal suo paese e di cominciare una nuova vita. Su questa idea Frankie costruisce fantasie sempre più ardite cercando nelle conversazioni con gli altri, conoscenti ed estranei, quasi una conferma della loro realizzabilità. Solo Berenice, una vera figura materna sostitutiva, cerca di riportarla con i piedi per terra e di metterla in guardia dalla possibile delusione.

Ma quella di Frankie diventa una vera e propria ossessione, fino al punto che la ragazzina vorrebbe cambiare il proprio nome in Jasmine per avere un nome che comincia con le stesse lettere dei nomi del fratello e della futura moglie.

In questa estate così decisiva nella sua crescita, Frankie sarà chiamata a fare i conti con la realtà e a sottoporre le sue idee infantili sulle persone e sul mondo alla inevitabile verifica dei fatti, scoprendo che la vita umana è spesso una prigione nella quale ognuno si porta dietro i propri dolori e fallimenti.

Nonostante l’inevitabile delusione e il senso di sconfitta che ne consegue, resta intatto in questa ragazzina lo spirito indomito e il desiderio di poter sfuggire al destino che sembra essere già stato scritto per lei.

Il romanzo della McCullers può essere considerato un anomalo racconto di coming of age, in cui il passaggio alla vita adulta non comporta la rassegnazione e l’abbandono dei sogni d’infanzia, bensì la capacità di continuare a perseguirli nonostante le delusioni e i cambiamenti nel contesto.

Grazie anche alla scrittura sopraffina della McCullers, che è forse la vera forza di questo racconto, il personaggio di Frankie risulta vivido nell’immaginario del lettore, e si configura non solo come una originale e affettuosa rappresentazione dell’inquietudine tipicamente pre-adolescenziale, ma anche come l’emblema della condizione propria dell’essere umano, il cui destino è profondamente legato al luogo e alla situazione nei quali nasce e rispetto ai quali c'è bisogno di una vita intera prima per riconoscere quello che si vuole veramente e poi per trovare i modi per realizzarlo.

Voto: 3,5/5

sabato 4 aprile 2020

Father and son

In questo periodo di isolamento forzato e di lontananza dal grande schermo, dopo qualche giorno di disorientamento e successivo assestamento ho cominciato a sentire la mancanza del cinema. E così, quando Mymovies ha proposto una programmazione cinematografica in streaming gratuito sul suo sito, mi ci sono fiondata. Mi è subito caduto l'occhio su Father and son, un film di Kore-Eda Hirokazu che avevo perso a suo tempo quando era uscito al cinema.

Nonostante qualche problema di connessione, ho potuto pienamente apprezzare il film, visto tra l'altro in lingua originale con sottotitoli.

Il tema della famiglia e dei legami di sangue - come sappiamo - è assolutamente centrale nella poetica del regista giapponese e torna a più riprese nel suo film (io ho amato particolarmente Un affare di famiglia).

In Father and son la premessa è drammatica: Nonomiya Ryota, architetto affermato e benestante, e sua moglie Midori ricevono una telefonata dall'ospedale dove sei anni prima è nato il loro figlio Keita e scoprono nell'incontro successivo con il direttore che c'è stato uno scambio di neonati. Il loro figlio biologico è Ryusei, primogenito di una coppia modesta che abita in provincia.

Da questo momento le due famiglie cominciano a frequentarsi per conoscere i rispettivi figli e per arrivare a una decisione condivisa.

In realtà è Nonomiya che tiene le redini del processo e che tende a orientare le decisioni o a imporre il suo punto di vista a una moglie molto arrendevole da un lato e a una famiglia molto semplice come quella di Ryusei dall'altro.

La decisione però porta in superficie molte dinamiche e sentimenti apparentemente sepolti e/o tenuti sotto controllo e costringe Nonomiya a fare i conti con l'eredità che suo padre gli ha lasciato per continuità o antitesi.

Di fronte alla domanda centrale del film "che cosa significa essere padre e di cosa si sostanzia il rapporto tra un padre e un figlio" il regista moltiplica i punti di vista, esplodendo il dissidio interiore di Nonomiya attraverso gli sguardi degli altri: quello generoso e accogliente delle due madri, quello spaesato dei bambini che oscillano tra fiducia e incomprensione, quello dell'altro padre, Yudai, che pur essendo avido, inaffidabile, scansafatiche e pure un po' squallido, ha un rapporto affettuoso e profondo con i suoi figli, quello dei nonni la cui esperienza di vita non riceve la giusta attenzione.

E alla fine il cuore del problema sta sempre nello stesso punto: le aspettative che i legami di sangue portano con sé, quelle che sono state proiettate su di noi e a cui abbiamo provato a sfuggire e quelle che proiettiamo su chi viene dopo di noi e che consideriamo la nostra eredità, quando invece accettare e accogliere sono l'essenza dell'amore, primo tra tutti quello tra padri e figli.

Tutto questo Kore-Eda lo racconta con quel tocco leggero che lo contraddistingue, senza mai cadere nel melodrammatico, bensì restituendoci nella sua complessità le mille sfaccettature della commedia della vita.

I bambini sono meravigliosi nella loro freschezza e spontaneità (Kore-Eda è un regista che riesce a filmare straordinariamente i bambini), ma sono circondati da un cast di grande livello nel quale oltre a Lily Franky (presente anche in Un affare di famiglia) non poteva mancare l'attrice feticcio di Kore Eda, Kirin Kiki, purtroppo da poco scomparsa.

Un film che è un massaggio per l'anima e che conferma le grandi doti del regista giapponese nel trasformare lo straordinario in ordinario abbassando il tono emotivo senza sminuirlo mai.

Voto: 4/5

mercoledì 1 aprile 2020

Kokoro. Il suono nascosto delle cose / Igort

Kokoro. Il suono nascosto delle cose / Igort. Quartu Sant’Elena: Oblomov Edizioni, 2019.

Quando Igort si mette al lavoro vale sempre la pena di seguirlo, in modo particolare quando l’oggetto del suo lavoro è l’amatissimo Giappone. Per questo motivo ero stata una dei sottoscrittori di questo albo quando ancora non era uscito e ho avuto il privilegio di riceverne una copia a casa personalizzata con un disegno dello stesso Igort.

Kokoro si può considerare una specie di fratello maggiore dei Quaderni giapponesi già pubblicati, il primo volume con Coconino press e il secondo con la casa editrice fondata dallo stesso Igort, Oblomov. Parlo di fratello maggiore perché da un lato questo albo si pone in continuità con i precedenti: anche in questo caso la narrazione riguarda infatti il Giappone e, com’è tipico del fumettista sardo, si tratta di un’originale “racconto di viaggio” in cui non si segue un ordine cronologico, bensì le suggestioni che l’autore fissa nei suoi disegni e accompagna con i suoi appunti. Dall’altro lato, però, in questo lavoro Igort sceglie una strada al contempo più rarefatta e ambiziosa: l’albo si presenta in un formato orizzontale con copertina rigida ed è impostato in modo da avere quasi sempre sulla pagina di destra disegni e acquerelli a piena pagina, mentre nella pagina di sinistra trovano spazio le note scritte a mano dall’autore accompagnate da disegni più piccoli e schizzi. La scelta del formato, come ci dice lo stesso Igort, è finalizzata a proporre i disegni nelle dimensioni originali, senza tagli e adattamenti.

Se l’ambizione dell’opera è chiara, non è invece ancora evidente in cosa consista quella che ho chiamato “rarefazione”. Se già negli albi precedenti dedicati al Giappone la narrazione non era quasi mai lineare, in questo caso l’autore segue un filo narrativo del tutto interiore, in cui disegni e scrittura sembrano inseguirsi, rendendo difficile stabilire cosa venga prima o dopo.

Potremmo dire che l’albo si strutturi intorno ad alcune rilevanti figure della cultura giapponese che hanno rivestito e rivestono per Igort un particolare significato e che spesso – più o meno casualmente – ne hanno incrociato il percorso. Si va dal regista Yasujiro Ozu (mi è venuta voglia di vedere il suo film Viaggio a Tokyo) al musicista Ryuichi Sakamoto, dal fumettista Tadao Tsuge, uno dei massimi rappresentanti insieme a suo fratello Yoshiharu del genere gekiga, allo scrittore Osamu Dazai, dalla regina del manga Rumiko Takahashi, creatrice di Ranma ½ e Lamu, al fumettista Katsuhiro Otomo.

Tra un ricordo e l’altro, Igort si sofferma a spiegare il suo incontro con alcuni fenomeni tipicamente giapponesi, come il kawaii e il ganguro, nonché il complesso mondo degli spiriti e dei mostri giapponesi, gli Yōkai.

Insieme all’autore, ci addentriamo in un universo culturale affascinante e contraddittorio, in cui è sempre in atto il conflitto tra matrice orientale e influenza occidentale, nonché tra rispetto delle regole e necessità di contravvenirle.

Nessuno come Igort è in grado di raccontarci il Giappone con tale passione e umile disponibilità a immergersi e a comprendere un sistema culturale così particolare e lontano dal nostro. Nessuno come Igort sa trasmetterci un interesse così puro e attento verso questa società e cultura, suscitando nel lettore una corrispondente curiosità e volontà di approfondire.

Difficile a volte seguire il percorso mentale dell’autore e i suoi voli pindarici, meglio abbandonarsi al flusso dei pensieri e dei ricordi e provare ad avvicinarsi per questa via meno razionale all’essenza nascosta delle cose, quella che i giapponesi chiamano appunto Kokoro e che lo scrittore irlandese Lafcadio Hearn, naturalizzato con il nome giapponese di Koizumi Yakumo, aveva tradotto come “ il cuore delle cose”.

Voto: 3,5/5