Il male non dimentica / Roberto Costantini. Venezia: Marsilio, 2014.
Ed eccoci anche all'ultimo capitolo della cosiddetta Trilogia del male, quella scritta da Roberto Costantini e con protagonista il commissario Michele Balistreri.
Come in tutte le trilogie che si rispettino l'ultimo capitolo è quello in cui i fili si riannodano e tutte le domande aperte nel corso del tempo trovano risposta. Che è poi il motivo per cui di solito le ultime puntate, pur soddisfacendo la mia curiosità e in qualche modo dando un senso alle letture precedenti, non sono mai le mie preferite, in quanto si caratterizzano per una maggiore frammentarietà da un punto di vista narrativo.
In particolare nel caso della trilogia di Costantini, in virtù di una struttura narrativa tutta giocata sul rapporto tra presente e passato, anzi tra presente e diversi momenti del passato, lo scrittore quasi ci costringe a prendere in mano i due volumi precedenti per ricordare alcuni passaggi che qui trovano il loro definitivo scioglimento.
In pratica, Costantini ci mette nella stessa condizione di Mike Balistreri, quella di ricordare e di fare i conti con un passato che evidentemente era rimasto aperto e dunque sospeso.
In questo terzo capitolo ritroviamo il gioco di rimandi tra Roma e la Libia, quest'ultima colta nel momento della guerra della NATO contro Gheddafi finalizzata al rovesciamento del regime, che fa da pendant agli eventi di quel 1969 in cui il colpo di stato portò al potere il generale.
Mike Balistreri è ormai privo di qualunque motivazione a mettersi in gioco, ma l'intraprendenza di Linda Nardi finirà per riaprire le ferite aperte e lo costringerà a confrontarsi con il suo passato, in particolare con la morte della madre Italia, e di conseguenza anche con il suo futuro.
Tutti i personaggi che abbiamo conosciuto nei due volumi precedenti tornano in questo terzo con ruoli più o meno significativi e ad alcuni di essi viene addirittura data la parola per raccontare il proprio punto di vista soggettivo sugli eventi dell'agosto 1969, in particolare su quel giorno alla Moneta in cui perse la vita Italia.
In definitiva la lettura è gradevole e - come già nei romanzi precedenti - avvince fino all'ultima pagina. Ne Il male non dimentica risulta però più attenuato quell'intreccio tra vicenda personale e vicenda politica e sociale dell'Italia (a sua volta intrecciata con la storia degli italiani in Libia e della Libia stessa) che dal mio punto di vista era il punto di forza degli altri e l'aspetto in qualche modo più interessante della lettura.
Dunque, come già accennato in apertura, forse è proprio questo il volume che mi è piaciuto di meno, per quanto del tutto necessario all'economia narrativa dell'insieme.
Se posso darvi un consiglio, qualora non abbiate già letto i precedenti, leggeteli tutti e tre senza far passare troppo tempo tra l'uno e l'altro. Questo vi permetterà di seguire il filo dell'intreccio più agevolmente e di apprezzarne alcuni passaggi. Soprattutto vi permetterà di cogliere la distanza tra il primo e il secondo e in qualche modo la sintesi attuata nel terzo.
Cosa ci riserverà per il futuro il bravo Costantini? Intanto si parla di un film. Staremo a vedere.
Voto: 3,5/5
sabato 24 gennaio 2015
martedì 20 gennaio 2015
Questioni di cuore / Bastien Vivès
Questioni di cuore / Bastien Vivès. Milano: Bao Publishing, 2014.
Questioni di cuore è una raccolta di brevi racconti a fumetti che hanno come minimo comun denominatore i sentimenti e la sessualità.
Da un punto di vista grafico si tratta di un lavoro a costo minimo, dal momento che in molte delle brevi storie raccontate da Vivès la stessa vignetta si ripete identica più e più volte mentre cambiano i contenuti delle nuvole, dunque il dialogo tra i personaggi, salvo subire modifiche minime ma di grande espressività quando il dialogo lo richieda.
Pur in questa scelta molto minimale Vivès conferma le sue eccellenti doti nel tratteggiare i corpi e la loro gestualità, anche senza utilizzare un gran numero di dettagli.
In questo caso, però, il fumettista francese dedica particolare attenzione al contenuto delle nuvole.
I brevi racconti, identificati ciascuno da un titolo composto da un’unica parola, si caratterizzano per uno straordinario mix di ironia e cinismo, a rivelare le nostre piccolezze, le nostre paure e le nostre idiosincrasie, tanto più accentuate e per certi versi ridicole quando riguardano i sentimenti e la sessualità.
Vivès ci fa ridere e sorridere, a volte amaramente; talvolta ci fa anche riflettere per effetto dell’inevitabile identificazione con persone e situazioni rappresentate.
Ed è ammirevole come gli bastino strumenti molto semplici ed utilizzati in maniera quasi minimale per ottenere tutto questo. Vivès è sempre Vivès.
Voto: 3,5/5
Questioni di cuore è una raccolta di brevi racconti a fumetti che hanno come minimo comun denominatore i sentimenti e la sessualità.
Da un punto di vista grafico si tratta di un lavoro a costo minimo, dal momento che in molte delle brevi storie raccontate da Vivès la stessa vignetta si ripete identica più e più volte mentre cambiano i contenuti delle nuvole, dunque il dialogo tra i personaggi, salvo subire modifiche minime ma di grande espressività quando il dialogo lo richieda.
Pur in questa scelta molto minimale Vivès conferma le sue eccellenti doti nel tratteggiare i corpi e la loro gestualità, anche senza utilizzare un gran numero di dettagli.
In questo caso, però, il fumettista francese dedica particolare attenzione al contenuto delle nuvole.
I brevi racconti, identificati ciascuno da un titolo composto da un’unica parola, si caratterizzano per uno straordinario mix di ironia e cinismo, a rivelare le nostre piccolezze, le nostre paure e le nostre idiosincrasie, tanto più accentuate e per certi versi ridicole quando riguardano i sentimenti e la sessualità.
Vivès ci fa ridere e sorridere, a volte amaramente; talvolta ci fa anche riflettere per effetto dell’inevitabile identificazione con persone e situazioni rappresentate.
Ed è ammirevole come gli bastino strumenti molto semplici ed utilizzati in maniera quasi minimale per ottenere tutto questo. Vivès è sempre Vivès.
Voto: 3,5/5
domenica 18 gennaio 2015
Su e giù per il Monte Amiata e la Val d’Orcia
Eccoci pronte per la nostra gita post-natalizia, quest’anno breve e particolarmente alternativa perché viaggiamo con la Panda del car sharing di Roma. Partiamo mercoledì 31 dicembre, quando in tutta Italia c’è l’allerta meteo e per fortuna siamo state previdenti e ci siamo fatte fornire di catene per la macchina che troviamo regolarmente a bordo.
Per evitare di incappare in zone con troppa neve, facciamo l’autostrada fino a Orte e poi svoltiamo verso Viterbo. Sulla strada statale poco prima di Viterbo – dopo un improvviso cambio di cielo – arriva la neve che ha già coperto il manto stradale, ma grazie al camion che ci precede riusciamo a superare tranquillamente Viterbo e ad arrivare sul lago di Bolsena, dove ecco di nuovo il sole. Qui ci fermiamo per fare uno spuntino e un giro nel centro storico di Bolsena, fino al castello con la sua splendida vista sul lago.
Dopo un altro po’ di strada, eccoci al Podere dei Venti, il nostro agriturismo, che si trova qualche chilometro prima di Piancastagnaio per chi arriva da sud. Il posto è molto carino e capiamo presto perché si chiama così: è battuto dal vento in modo particolare, e oggi il vento è talmente gelido che non si riesce neppure a stare fuori di casa.
Per la sera non abbiamo organizzato niente; così la nostra padrona di casa si prende l’incarico di fare qualche telefonata ai ristoranti di Piancastagnaio e di Abbadia San Salvatore (i due paesi più vicini) per capire se c’è un posto dove possiamo andare ad un prezzo accettabile. L’unica opzione possibile è ad Abbadia alla Bocca di Bacco.
Abbiamo però tutto il pomeriggio davanti a noi, così cominciamo a esplorare i dintorni. Eccoci a Castiglione d’Orcia, con il suo centro storico dominato dalla rocca, e poi a Bagno Vignoni, il paese di trenta anime con la vasca termale al centro. Qui ci fermiamo per un buonissimo spuntino (vino e piatto di sottoli) alla Bottega di Cacio, dove purtroppo ci fanno il conto sbagliato e non ce ne accorgiamo (la cosa ci mette di cattivo umore). A quel punto ci muoviamo verso Abbadia, facciamo una passeggiata in centro, visitiamo il monastero e camminiamo nel gelo in attesa dell’orario del nostro cenone.
L’esperienza alla Bocca di Bacco è di quelle che resteranno negli annali e che potremo raccontare ai nipoti e ai pronipoti, e soprattutto ci fa ricordare perché non avevamo mai fatto un cenone di Capodanno al ristorante. Innanzitutto il ristorante, molto semplice e associato a un albergo, è gestito da gente dell’Est. E fin qui niente da ridire. I commensali sono per un terzo gente dell’Est (con facce tristissime!), per un terzo vecchietti (alcuni dei quali vanno via prima di mezzanotte), un terzo (un’intera tavolata) laziali o romani burini che fanno una caciara assurda.
Nelle due sale due schermi sintonizzati sul programma di fine anno animato da Gigi D’Alessio. La cena mi ricorda certi matrimoni pugliesi degli anni Ottanta (mancavano solo le pennette alla vodka!). Il nostro tavolo sta esattamente dove arriva la bufera di vento e freddo ogni volta che si apre la porta. Ah, dimenticavo. Prima di cominciare, nel tentativo di stare più vicine al termosifone sposto il tavolo e casca la bottiglietta dell’olio frantumandosi in mille pezzi. Forse lì dovevamo capire tutto. A me allo scoccare della mezzanotte mi sta cadendo la lacrimuccia della tristezza, perché non sono riuscita a prendere la cosa a ridere, anche se a distanza di 12 ore ne rideremo come pazze. A quel punto scappiamo verso il nostro agriturismo.
Il giorno dopo decidiamo di fare una piccola passeggiata nel bosco (in realtà C. vorrebbe fare una lunga passeggiata, ma io faccio resistenza!) e così andiamo a Vivo d’Orcia, dove prima di prendere il sentiero verso il borgo antico e l’eremo incrociamo una trattoria che ci conquista a prima vista e che prenotiamo per la sera, la Taverna del Pian delle Mura.
Il borgo medievale è bellissimo, illuminato da una luce meravigliosa; da qui cominciamo a salire nei boschi, mentre le nubi si addensano sul Monte Amiata, facendoci temere l’acquazzone. Arrivate alla strada asfaltata ci diciamo soddisfatte della passeggiata e torniamo alla macchina. La nostra gita prosegue verso Pienza dove arriviamo tardissimo, perché la strada attraversa il versante più scenografico della Val d’Orcia, quello delle colline con le curve morbide, dei casali sui poggi preceduti dai sentieri bianchi affiancati da cipressi, dei colori intensi del cielo, dell’erba e della terra. La giornata tra l’altro è spettacolare; fa un freddo cane con un vento fortissimo che fa viaggiare le nubi velocissime e cambia continuamente la luce. Difficile pensare di aver mai visto qualcosa di esteticamente più bello nella sua perfezione.
A Pienza arriviamo quasi all’ora del tramonto. Facciamo un giro per il bellissimo centro storico e ci affacciamo sulla valle dalle mura della città. Dopo una sosta cioccolata calda per riscaldarci e una spesa di prodotti tipici al locale Consorzio agrario andiamo verso San Quirico d’Orcia, mentre il cielo diventa scuro e all’orizzonte si spegne il rosso fuoco del sole che tramonta.
San Quirico è un gioiellino e nonostante il sole sia già tramontato ci godiamo la passeggiata, anche perché – a differenza che a Pienza – le strade sono quasi deserte. Visitiamo palazzo Chigi e alcune delle chiese del paese, e poi riprendiamo la macchina per tornare a Vivo d’Orcia.
La cena ci riconcilia definitivamente con la gastronomia del territorio e ci fa dimenticare la serata precedente. Mangiamo divinamente: pici al sugo bugiardo (un ragu bianco), gnocchetti con tartufo bianco, faraona al forno con melagrana, cosciotto di cinta con uva e ginepro, dolci natalizi, caffè in forchetta con zabaione, il tutto innaffiato di Rosso di Montalcino, giulebbe, liquore di verbena, grappa e amaro. I tre gestori della trattoria – che sono tre colleghi di lavoro – ci raccontano che hanno avviato quest’attività circa 9 anni fa mettendo in comune la loro passione per la cucina e la loro terra. Complimenti davvero! E chi passasse di qui non si faccia sfuggire la Trattoria del Pian delle Mura, Osteria d’Italia slow food che utilizza prodotti in buona parte biologici.
Il giorno dopo, una volta preparate e caricate le valigie, ci mettiamo di nuovo in marcia per approfittare di quest’ultima giornata. La nostra prima tappa è Radicofani con la sua torre che svetta altissima sulla collina e domina l’intera Val d’Orcia, passaggio obbligato sull’antica via Francigena.
Arriviamo alla fortezza per il sentiero delle scalette, che - come dice il nome - è una sequenza infinita di scale fatte di pietre sul fianco della collina che salgono fino alla vetta. Una volta in cima alla torre la vista è davvero spettacolare. Il cielo è azzurro e l’aria è tersa, cosicché vediamo non solo perfettamente il Monte Amiata e il Monte Cetona, ma anche gli Appenini innevati, il lago di Bolsena e il mare che riflette la luce del sole.
Tornate giù, riprendiamo la strada e ci dirigiamo verso Contignano lungo la via che segue il crinale e che apre bellissime vedute sul verde della valle. Contignano è carina ma non c’è neppure un bar aperto e noi abbiamo fame. Così ci dirigiamo di gran carriera verso Montalcino, riattraversando le colline, i casali con i filari di cipressi, le distese di verde, di giallo e di marrone. A Montalcino mangiamo due buone zuppe e ottimi salumi e formaggi locali da Bacchus, un’enoteca in centro. Non mancano ovviamente un bicchiere di Brunello di Montalcino del 2009 e un Rosso di Montalcino del 2012. A questo punto possiamo affrontare il giro del centro storico con la luce bellissima del tramonto. Montalcino è la più senese delle cittadine da noi visitate; il suo centro storico è piccolo e in ogni strada il vino la fa da padrone. Le campagne circostanti con la luce rosata del tramonto sono incredibili, quasi finte.
Purtroppo però la nostra carrozza (la Pandina del car sharing) sta per scadere e così prima che si trasformi in zucca dobbiamo rientrare a Roma! La Val d’Orcia però ci rimarrà nel cuore a lungo.
Per evitare di incappare in zone con troppa neve, facciamo l’autostrada fino a Orte e poi svoltiamo verso Viterbo. Sulla strada statale poco prima di Viterbo – dopo un improvviso cambio di cielo – arriva la neve che ha già coperto il manto stradale, ma grazie al camion che ci precede riusciamo a superare tranquillamente Viterbo e ad arrivare sul lago di Bolsena, dove ecco di nuovo il sole. Qui ci fermiamo per fare uno spuntino e un giro nel centro storico di Bolsena, fino al castello con la sua splendida vista sul lago.
Dopo un altro po’ di strada, eccoci al Podere dei Venti, il nostro agriturismo, che si trova qualche chilometro prima di Piancastagnaio per chi arriva da sud. Il posto è molto carino e capiamo presto perché si chiama così: è battuto dal vento in modo particolare, e oggi il vento è talmente gelido che non si riesce neppure a stare fuori di casa.
Per la sera non abbiamo organizzato niente; così la nostra padrona di casa si prende l’incarico di fare qualche telefonata ai ristoranti di Piancastagnaio e di Abbadia San Salvatore (i due paesi più vicini) per capire se c’è un posto dove possiamo andare ad un prezzo accettabile. L’unica opzione possibile è ad Abbadia alla Bocca di Bacco.
Abbiamo però tutto il pomeriggio davanti a noi, così cominciamo a esplorare i dintorni. Eccoci a Castiglione d’Orcia, con il suo centro storico dominato dalla rocca, e poi a Bagno Vignoni, il paese di trenta anime con la vasca termale al centro. Qui ci fermiamo per un buonissimo spuntino (vino e piatto di sottoli) alla Bottega di Cacio, dove purtroppo ci fanno il conto sbagliato e non ce ne accorgiamo (la cosa ci mette di cattivo umore). A quel punto ci muoviamo verso Abbadia, facciamo una passeggiata in centro, visitiamo il monastero e camminiamo nel gelo in attesa dell’orario del nostro cenone.
L’esperienza alla Bocca di Bacco è di quelle che resteranno negli annali e che potremo raccontare ai nipoti e ai pronipoti, e soprattutto ci fa ricordare perché non avevamo mai fatto un cenone di Capodanno al ristorante. Innanzitutto il ristorante, molto semplice e associato a un albergo, è gestito da gente dell’Est. E fin qui niente da ridire. I commensali sono per un terzo gente dell’Est (con facce tristissime!), per un terzo vecchietti (alcuni dei quali vanno via prima di mezzanotte), un terzo (un’intera tavolata) laziali o romani burini che fanno una caciara assurda.
Nelle due sale due schermi sintonizzati sul programma di fine anno animato da Gigi D’Alessio. La cena mi ricorda certi matrimoni pugliesi degli anni Ottanta (mancavano solo le pennette alla vodka!). Il nostro tavolo sta esattamente dove arriva la bufera di vento e freddo ogni volta che si apre la porta. Ah, dimenticavo. Prima di cominciare, nel tentativo di stare più vicine al termosifone sposto il tavolo e casca la bottiglietta dell’olio frantumandosi in mille pezzi. Forse lì dovevamo capire tutto. A me allo scoccare della mezzanotte mi sta cadendo la lacrimuccia della tristezza, perché non sono riuscita a prendere la cosa a ridere, anche se a distanza di 12 ore ne rideremo come pazze. A quel punto scappiamo verso il nostro agriturismo.
Il giorno dopo decidiamo di fare una piccola passeggiata nel bosco (in realtà C. vorrebbe fare una lunga passeggiata, ma io faccio resistenza!) e così andiamo a Vivo d’Orcia, dove prima di prendere il sentiero verso il borgo antico e l’eremo incrociamo una trattoria che ci conquista a prima vista e che prenotiamo per la sera, la Taverna del Pian delle Mura.
Il borgo medievale è bellissimo, illuminato da una luce meravigliosa; da qui cominciamo a salire nei boschi, mentre le nubi si addensano sul Monte Amiata, facendoci temere l’acquazzone. Arrivate alla strada asfaltata ci diciamo soddisfatte della passeggiata e torniamo alla macchina. La nostra gita prosegue verso Pienza dove arriviamo tardissimo, perché la strada attraversa il versante più scenografico della Val d’Orcia, quello delle colline con le curve morbide, dei casali sui poggi preceduti dai sentieri bianchi affiancati da cipressi, dei colori intensi del cielo, dell’erba e della terra. La giornata tra l’altro è spettacolare; fa un freddo cane con un vento fortissimo che fa viaggiare le nubi velocissime e cambia continuamente la luce. Difficile pensare di aver mai visto qualcosa di esteticamente più bello nella sua perfezione.
A Pienza arriviamo quasi all’ora del tramonto. Facciamo un giro per il bellissimo centro storico e ci affacciamo sulla valle dalle mura della città. Dopo una sosta cioccolata calda per riscaldarci e una spesa di prodotti tipici al locale Consorzio agrario andiamo verso San Quirico d’Orcia, mentre il cielo diventa scuro e all’orizzonte si spegne il rosso fuoco del sole che tramonta.
San Quirico è un gioiellino e nonostante il sole sia già tramontato ci godiamo la passeggiata, anche perché – a differenza che a Pienza – le strade sono quasi deserte. Visitiamo palazzo Chigi e alcune delle chiese del paese, e poi riprendiamo la macchina per tornare a Vivo d’Orcia.
La cena ci riconcilia definitivamente con la gastronomia del territorio e ci fa dimenticare la serata precedente. Mangiamo divinamente: pici al sugo bugiardo (un ragu bianco), gnocchetti con tartufo bianco, faraona al forno con melagrana, cosciotto di cinta con uva e ginepro, dolci natalizi, caffè in forchetta con zabaione, il tutto innaffiato di Rosso di Montalcino, giulebbe, liquore di verbena, grappa e amaro. I tre gestori della trattoria – che sono tre colleghi di lavoro – ci raccontano che hanno avviato quest’attività circa 9 anni fa mettendo in comune la loro passione per la cucina e la loro terra. Complimenti davvero! E chi passasse di qui non si faccia sfuggire la Trattoria del Pian delle Mura, Osteria d’Italia slow food che utilizza prodotti in buona parte biologici.
Il giorno dopo, una volta preparate e caricate le valigie, ci mettiamo di nuovo in marcia per approfittare di quest’ultima giornata. La nostra prima tappa è Radicofani con la sua torre che svetta altissima sulla collina e domina l’intera Val d’Orcia, passaggio obbligato sull’antica via Francigena.
Arriviamo alla fortezza per il sentiero delle scalette, che - come dice il nome - è una sequenza infinita di scale fatte di pietre sul fianco della collina che salgono fino alla vetta. Una volta in cima alla torre la vista è davvero spettacolare. Il cielo è azzurro e l’aria è tersa, cosicché vediamo non solo perfettamente il Monte Amiata e il Monte Cetona, ma anche gli Appenini innevati, il lago di Bolsena e il mare che riflette la luce del sole.
Tornate giù, riprendiamo la strada e ci dirigiamo verso Contignano lungo la via che segue il crinale e che apre bellissime vedute sul verde della valle. Contignano è carina ma non c’è neppure un bar aperto e noi abbiamo fame. Così ci dirigiamo di gran carriera verso Montalcino, riattraversando le colline, i casali con i filari di cipressi, le distese di verde, di giallo e di marrone. A Montalcino mangiamo due buone zuppe e ottimi salumi e formaggi locali da Bacchus, un’enoteca in centro. Non mancano ovviamente un bicchiere di Brunello di Montalcino del 2009 e un Rosso di Montalcino del 2012. A questo punto possiamo affrontare il giro del centro storico con la luce bellissima del tramonto. Montalcino è la più senese delle cittadine da noi visitate; il suo centro storico è piccolo e in ogni strada il vino la fa da padrone. Le campagne circostanti con la luce rosata del tramonto sono incredibili, quasi finte.
Purtroppo però la nostra carrozza (la Pandina del car sharing) sta per scadere e così prima che si trasformi in zucca dobbiamo rientrare a Roma! La Val d’Orcia però ci rimarrà nel cuore a lungo.
martedì 13 gennaio 2015
The imitation game
Il film di Morten Tyldum è di quelli perfetti per trascorrere una domenica pomeriggio piacevole e senza pretese al cinema. La storia cattura, il protagonista è interessante, i co-protagonisti sono accattivanti, gli attori sono bravi. Per chi - come me - sa poco o niente della storia vera di Alan Turing, che in questo film è raccontata, la visione è anche decisamente istruttiva.
In questo senso, The imitation game mi ha ricordato certi film per la televisione realizzati dalla BBC, composti sul piano cinematografico, ben recitati, molto attenti ai contenuti conoscitivi da trasmettere, ma senza guizzi autoriali, senza invenzioni, cosa che - beninteso - non è necessariamente un dato negativo.
E dunque se avessi visto il film a casa in televisione o su DVD credo che l'avrei apprezzato enormemente, ma, messa lì in una sala cinematografica, sinceramente finisco per aspettarmi qualcosa di più. Un cambio di velocità, uno spunto, una sfida che mi ricordino che il cinema non è solo un piacevole esercizio educativo, ma anche un'arte affascinante.
La storia è presto detta. Alan Turing (Benedict Cumberbatch) è un genio della matematica, ma un inetto sul piano delle relazioni sociali. Diventato giovanissimo professore a Cambridge, negli anni della seconda guerra viene arruolato in una segretissima missione del Governo britannico per decifrare Enigma, una macchina in uso ai tedeschi per trasmettere messaggi e informazioni militari con un complesso codice crittato le cui impostazioni vengono cambiate ogni giorno. Turing riuscirà a decifrare il codice realizzando una macchina programmata per poter fare in tempi impossibili per un essere umano i calcoli e le verifiche necessarie per scoprire la chiave interpretativa, sostanzialmente una versione prototipale di quello che diventerà il computer.
Tutto il film è giocato sul rapporto tra contenuto e forma della comunicazione. In questi giorni ho finito di leggere un libro, The economics of attention di Richard A. Lanham, che parla appunto di questo, dell'oscillazione costante che nella comunicazione si realizza tra la sostanza e lo stile, i contenuti e la loro organizzazione, il messaggio e il portatore di messaggio. Ebbene Alan Turing viene presentato come un disadattato sociale perché non è in grado di muoversi su questo asse secondo le regole della comunicazione sociale, fatte spesso di sottintesi, di non detto o di espressioni che portano messaggi diversi da quelli apparenti. Per di più, costretto lui stesso a una vita di nascondimento da diversi punti di vista, e a sua volta costantemente teso a comprendere i travestimenti altrui. Ed è forse proprio per questo che tutta la sua vita è in qualche modo dedicata alla decrittazione, a trovare un modo razionale e programmabile per tradurre messaggi in codice, trovare il significato nascosto in comunicazioni apparentemente innocue.
Il tutto però appare alla fine un po' didascalico, direi quasi telecomandato, irrigidito come nei comportamenti un po' meccanici di Cumberbatch/Turing. Ed anche la struttura del film, caratterizzata da continui flashback e forward, non sempre funziona alla perfezione.
Sembra insomma di aver assistito a una bella lezione divulgativa, ma in cui buona parte dei contenuti non strettamente informativi appaiono sostanzialmente prevedibili.
Ciò detto, se metà dei film che escono al cinema e di quelli che passano nella nostra televisione potessero contare sul mestiere e la pulizia di questo probabilmente vivremmo comunque in un mondo migliore ;-)
Voto: 3/5
In questo senso, The imitation game mi ha ricordato certi film per la televisione realizzati dalla BBC, composti sul piano cinematografico, ben recitati, molto attenti ai contenuti conoscitivi da trasmettere, ma senza guizzi autoriali, senza invenzioni, cosa che - beninteso - non è necessariamente un dato negativo.
E dunque se avessi visto il film a casa in televisione o su DVD credo che l'avrei apprezzato enormemente, ma, messa lì in una sala cinematografica, sinceramente finisco per aspettarmi qualcosa di più. Un cambio di velocità, uno spunto, una sfida che mi ricordino che il cinema non è solo un piacevole esercizio educativo, ma anche un'arte affascinante.
La storia è presto detta. Alan Turing (Benedict Cumberbatch) è un genio della matematica, ma un inetto sul piano delle relazioni sociali. Diventato giovanissimo professore a Cambridge, negli anni della seconda guerra viene arruolato in una segretissima missione del Governo britannico per decifrare Enigma, una macchina in uso ai tedeschi per trasmettere messaggi e informazioni militari con un complesso codice crittato le cui impostazioni vengono cambiate ogni giorno. Turing riuscirà a decifrare il codice realizzando una macchina programmata per poter fare in tempi impossibili per un essere umano i calcoli e le verifiche necessarie per scoprire la chiave interpretativa, sostanzialmente una versione prototipale di quello che diventerà il computer.
Tutto il film è giocato sul rapporto tra contenuto e forma della comunicazione. In questi giorni ho finito di leggere un libro, The economics of attention di Richard A. Lanham, che parla appunto di questo, dell'oscillazione costante che nella comunicazione si realizza tra la sostanza e lo stile, i contenuti e la loro organizzazione, il messaggio e il portatore di messaggio. Ebbene Alan Turing viene presentato come un disadattato sociale perché non è in grado di muoversi su questo asse secondo le regole della comunicazione sociale, fatte spesso di sottintesi, di non detto o di espressioni che portano messaggi diversi da quelli apparenti. Per di più, costretto lui stesso a una vita di nascondimento da diversi punti di vista, e a sua volta costantemente teso a comprendere i travestimenti altrui. Ed è forse proprio per questo che tutta la sua vita è in qualche modo dedicata alla decrittazione, a trovare un modo razionale e programmabile per tradurre messaggi in codice, trovare il significato nascosto in comunicazioni apparentemente innocue.
Il tutto però appare alla fine un po' didascalico, direi quasi telecomandato, irrigidito come nei comportamenti un po' meccanici di Cumberbatch/Turing. Ed anche la struttura del film, caratterizzata da continui flashback e forward, non sempre funziona alla perfezione.
Sembra insomma di aver assistito a una bella lezione divulgativa, ma in cui buona parte dei contenuti non strettamente informativi appaiono sostanzialmente prevedibili.
Ciò detto, se metà dei film che escono al cinema e di quelli che passano nella nostra televisione potessero contare sul mestiere e la pulizia di questo probabilmente vivremmo comunque in un mondo migliore ;-)
Voto: 3/5
sabato 10 gennaio 2015
Gianni Berengo Gardin – Elliott Erwitt. Un’amicizia ai sali d’argento. Fotografie 1950-2014. Roma, Auditorium Parco della Musica ,14 ottobre 2014-15 febbraio 2015
Ci tenevo particolarmente a vedere questa mostra attualmente in corso presso lo spazio espositivo dell’Auditorium Parco della Musica dedicata a due grandissimi fotografi, quasi coetanei nonché amici, che hanno riempito con le loro fotografie l’immaginario collettivo dagli anni Cinquanta ad oggi.
In qualche modo già li conoscevo entrambi. Di Elliott Erwitt avevo visto qualche anno fa, sempre a Roma, la mostra Fifty kids, mentre di Gianni Berengo Gardin avevo una conoscenza ancora più approfondita anche grazie alla visione del DVD a lui dedicato della serie “Fotografia italiana” pubblicata con il patrocinio della Cineteca di Bologna.
Ebbene, la mostra dell’Auditorium è una straordinaria occasione per fare un viaggio parallelo nell’universo visuale dei due fotografi e metterne a confronto la cifra stilistica sia nei punti di contatto (per esempio, la decisa preferenza per il bianco e nero) sia nelle differenze.
La mostra inizia con delle immagini degli studi dei due fotografi e una breve introduzione biografica. Seguono poi 120 fotografie, 60 per ciascun autore, collocate a destra quelle di Erwitt, a sinistra quelle di Berengo Gardin. In entrambi i casi ci sono alcune delle fotografie più famose, quelle diventate quasi iconografiche (ad esempio il bacio a Venezia, ovvero l’automobile di spalle davanti al mare per Berengo Gardin, il cane al guinzaglio che salta accanto al suo padrone, ovvero il famoso ritratto di Che Guevara per Erwitt), ma anche scatti meno famosi; ci sono gli scatti con cui i due hanno esordito e si sono fatti conoscere per arrivare ai lavori più recenti e persino ad alcune fotografie di progetti attualmente in corso (un reportage sulla Scozia per Erwitt, uno di denuncia sulle grandi navi a Venezia per Berengo Gardin).
La mostra si chiude con due video in sequenza dedicati ai provini a contatto dei due fotografi, visione interessantissima per comprendere il modo di lavorare di Erwitt e Gardin, ed anche fare un salto concettuale tra la lettura della fotografia stampata ed esibita e il processo di mediazione che viene esercitato dal fotografo tra lo scatto e la stampa.
Le fotografie sono bellissime. Berengo Gardin raggiunge un equilibrio quasi stupefacente tra la ricerca della perfezione estetica della fotografia e il suo valore documentario di testimonianza. Elliott Erwitt – cui certo non fa difetto la tecnica né la cura della composizione – ricerca maggiormente, attraverso la fotografia, la comunicazione esplicita del dato emozionale (commozione, ironia, condivisione, straniamento).
In entrambi i casi l’occhio fotografico è sopraffino, la loro capacità di guardare, di cogliere le situazioni, ma anche di ricostruire in maniera originale la realtà attraverso il loro sguardo lascia senza fiato, immagine dopo immagine.
In un mondo in cui tutti sono fotografi o si sentono tali vale la pena ogni tanto poter osservare da vicino le fotografie di artisti di questo calibro.
Peccato per i riflessi delle luci sui vetri delle fotografie e per la temperatura nello spazio espositivo dell'Auditorium. Si esce congelati.
Voto: 4/5
In qualche modo già li conoscevo entrambi. Di Elliott Erwitt avevo visto qualche anno fa, sempre a Roma, la mostra Fifty kids, mentre di Gianni Berengo Gardin avevo una conoscenza ancora più approfondita anche grazie alla visione del DVD a lui dedicato della serie “Fotografia italiana” pubblicata con il patrocinio della Cineteca di Bologna.
Ebbene, la mostra dell’Auditorium è una straordinaria occasione per fare un viaggio parallelo nell’universo visuale dei due fotografi e metterne a confronto la cifra stilistica sia nei punti di contatto (per esempio, la decisa preferenza per il bianco e nero) sia nelle differenze.
La mostra inizia con delle immagini degli studi dei due fotografi e una breve introduzione biografica. Seguono poi 120 fotografie, 60 per ciascun autore, collocate a destra quelle di Erwitt, a sinistra quelle di Berengo Gardin. In entrambi i casi ci sono alcune delle fotografie più famose, quelle diventate quasi iconografiche (ad esempio il bacio a Venezia, ovvero l’automobile di spalle davanti al mare per Berengo Gardin, il cane al guinzaglio che salta accanto al suo padrone, ovvero il famoso ritratto di Che Guevara per Erwitt), ma anche scatti meno famosi; ci sono gli scatti con cui i due hanno esordito e si sono fatti conoscere per arrivare ai lavori più recenti e persino ad alcune fotografie di progetti attualmente in corso (un reportage sulla Scozia per Erwitt, uno di denuncia sulle grandi navi a Venezia per Berengo Gardin).
La mostra si chiude con due video in sequenza dedicati ai provini a contatto dei due fotografi, visione interessantissima per comprendere il modo di lavorare di Erwitt e Gardin, ed anche fare un salto concettuale tra la lettura della fotografia stampata ed esibita e il processo di mediazione che viene esercitato dal fotografo tra lo scatto e la stampa.
Le fotografie sono bellissime. Berengo Gardin raggiunge un equilibrio quasi stupefacente tra la ricerca della perfezione estetica della fotografia e il suo valore documentario di testimonianza. Elliott Erwitt – cui certo non fa difetto la tecnica né la cura della composizione – ricerca maggiormente, attraverso la fotografia, la comunicazione esplicita del dato emozionale (commozione, ironia, condivisione, straniamento).
In entrambi i casi l’occhio fotografico è sopraffino, la loro capacità di guardare, di cogliere le situazioni, ma anche di ricostruire in maniera originale la realtà attraverso il loro sguardo lascia senza fiato, immagine dopo immagine.
In un mondo in cui tutti sono fotografi o si sentono tali vale la pena ogni tanto poter osservare da vicino le fotografie di artisti di questo calibro.
Peccato per i riflessi delle luci sui vetri delle fotografie e per la temperatura nello spazio espositivo dell'Auditorium. Si esce congelati.
Voto: 4/5
Iscriviti a:
Post (Atom)