Yeti / Alessandro Tota. Bologna: Coconino Press, 2010.
Alessandro Tota è un giovane fumettista barese. E già solo per questo mi è simpatico.
Ha dovuto lasciare la sua terra per seguire i suoi sogni ed è finito a Parigi, dove ha pensato che il suo lavoro potesse essere apprezzato. E tanto più per questo mi è caro.
Ha in programma una serie di volumi a fumetti ambientati a Bari. E con questo ha fatto definitivamente breccia nel mio cuore.
Ma... prima ancora di sapere tutto questo ho letto la sua bella graphic novel, che - dopo essere stata pubblicata in Francia - ci ha raggiunto finalmente anche qui in Italia.
Protagonista è Yeti, un grosso e tenerissimo essere morbido e rosa, che prima ha lasciato le montagne per sfuggire alla solitudine, poi ha dovuto lasciare la valle dove viveva in armonia con gli altri abitanti perché trasformata in una discarica. Finisce a Parigi.
Peccato che Yeti - pur capendo il francese - sia in grado di dire solo "gnu".
Troverà lavoro in un call-center (ma a lavare i bagni), vicino di casa e innamorato della giovane Caterina che cerca di sbarcare il lunario in attesa di trovare un editore per la storia a fumetti che non ha ancora scritto, amico di Volker e Alessandro, la piccola comunità di giovani di varia provenienza che si è ritrovata a Parigi coltivando la speranza di un futuro migliore e che intanto passa le giornate tra feste, chiacchierate, sbronze, innamoramenti, allontanamenti, paure e speranze.
Tutti un po' stranieri, tutti un po' in difficoltà a trovare la propria dimensione in una grande città che non è neppure la loro, in un mondo che sembra non avere pensato a uno spazio e un ruolo da affidargli.
Ma Yeti è un diverso, è ingombrante, non si sa esprimere, sebbene - come tutti - abbia dei sentimenti positivi e negativi, dei comportamenti leali ed altri discutibili.
Yeti è un inquieto alla ricerca di qualcosa che non riuscirà a trovare in un mondo a cui non appartiene.
Sogna felicità e trova meschinità, cerca amicizia e incontra ostilità, ricorda bellezza ma incontra brutture.
Indifeso, senza voce, senza pelo, senza filtri, dovrà fare i conti con se stesso e con il mondo circostante.
I colori piatti, il disegno semplice e realistico, il prologo e l'epilogo quasi cinematografici, gli zoom sui singoli personaggi, le scene riquadrate nei sogni sono tutti segni distintivi di un autore che possiede un'originalità difficile da dimenticare.
Malinconico, tenero, commovente, profondo. Una lettura solo apparentemente leggera.
Nella testa ci rimangono l'espressività di Yeti e i suoi "GNU" che dicono più di mille parole.
Richiamo di attenzione in un mondo che tende ad azzerare i significati delle esistenze.
Sintesi di una comunicazione che persino nel fluire delle parole appare sfilacciata e inconcludente.
Bravo, bravo, Alessandro.
Voto: 4/5
lunedì 28 marzo 2011
domenica 27 marzo 2011
Tamara de Lempicka. La regina del moderno. Mostra
Periodo intenso. Intensissimo. Anche positivamente. Ma il tempo per il cinema, il teatro, la musica, la lettura si è inevitabilmente e notevolmente assottigliato. Da qui il mio silenzio.
Ma finalmente... approfittando di un weekend in compagnia cerco di godermi un po' questa città bella, ma difficile, e tutto quello che offre. E così, dopo un venerdì sera al Pigneto, una puntatina a mangiare il tiramisu di Pompi e un sabato casalingo a cucinare indiano, la domenica si passeggia per il centro, direzione Vittoriano, e poi si va a prendere un the da Namastey.
Al complesso del Vittoriano dall'11 marzo (e fino al 10 luglio) c'è Tamara de Lempicka, artista dalle opere inconfondibili e dalla personalità affascinante. Vale proprio la pena farci un salto.
Il Vittoriano può essere un posto affascinante da un punto di vista architettonico, certo però non ci si può aspettare allestimenti originali e soluzioni espositive particolarmente innovative! E infatti, appena salite le scale, va a ciclo continuo un video con una buffa donna che legge e cerca di recitare un testo per introdurci alla mostra.
Seguono grandi pannelli che ci raccontano la vita di Tamara Rosalia Gurwik-Górska, nata in Polonia (o in Russia?) nel 1898, sposa a 18 anni di Tadeusz Łempicki, da cui ha la figlia più volte ritratta nei suoi quadri, Kizette.
Tra Parigi e gli Stati Uniti farà una vita da artista dissoluta e raffinata, sposandosi per una seconda volta, ma passando attraverso numerose storie d'amore.
Morta nel 1980, Tamara attraversa una fase storica intensa e la sua produzione artistica si sviluppa di pari passo con i grandi eventi del Novecento, dalla rivoluzione russa alla prima guerra mondiale, ai ruggenti anni Venti, alla crisi economica del '29, alla seconda guerra mondiale, al secondo dopoguerra.
Tamara è un personaggio profondamente storico, una diva, una Mata Hari, una sofisticata e decadente nobildonna, che ama farsi fotografare nelle pose tipiche dell'epoca, che adora indossare e ritrarre gli abiti di moda, che vediamo recitare in quelli che appaiono come veri e propri spot pubblicitari.
Bello anche vedere la sua corrispondenza con Gabriele D'Annunzio, segno del breve incontro tra due personalità entrambe sovrabbondanti e fortemente caratterizzate.
La mostra ci propone un percorso cronologico abbastanza convenzionale, ma ci permette di godere di un patrimonio artistico quasi interamente facente parte di collezioni private e dunque - in buona parte - sottratto alla fruizione pubblica.
Ci introduce così ai primi lavori della de Lempicka, ancora lontani da quello che sarà lo stile che la renderà famosa, più vicini alle tecniche e abitudini pittoriche sviluppate tra le fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento. Poi ci spiega l'unicità di questa artista, "regina del moderno" in quanto capace - attraverso la sua pittura - di fare proprio l'insegnamento della fotografia, dell'architettura, del cinema di quegli anni.
Il taglio fotografico dei suoi ritratti, i giochi di linee e rimandi tra i ritratti e gli sfondi, i contrasti tra i toni di grigio degli sfondi e i colori accesi delle labbra e dei vestiti, la nitidezza dei chiaroscuri, i blu profondissimi e lucidi, i verdi smeraldo, i grigi che sembrano acciaio e seta allo stesso tempo, le sproporzioni dei corpi nudi quasi ripresi da un obiettivo grandangolare, i chiaroscuri tagliati nettissimi rappresentano una firma praticamente inconfondibile dei suoi ritratti.
L'ultima parte della mostra ci fa vedere una de Lempicka affascinata dalle nature morte, dalle scene di interni, dai ritratti ispirati alla scuola fiamminga. Più convenzionale, meno ispirata ed esuberante, forse più ripiegata e conservatrice come spesso l'età che avanza porta ad essere.
Ci resta negli occhi la dirompente sensualità dei suoi ritratti. Non solo quella che esce dirompente dai famosissimi nudi (come quelli dedicati alla bella Rafaela), ma anche quella che si coglie nell'attenzione ai dettagli, quella delle sciarpe colorate e svolazzanti, delle vesti luminose (come nel Portrait de Madame M. o ne La tunica rosa), dei ritratti maschili, degli sguardi.
Tamara de Lempicka. Personaggio senza dubbio affascinante, controverso, quasi antipatico, ma dotato di una potenza espressiva magnetica. Da vedere.
Voto: 4/5
Ma finalmente... approfittando di un weekend in compagnia cerco di godermi un po' questa città bella, ma difficile, e tutto quello che offre. E così, dopo un venerdì sera al Pigneto, una puntatina a mangiare il tiramisu di Pompi e un sabato casalingo a cucinare indiano, la domenica si passeggia per il centro, direzione Vittoriano, e poi si va a prendere un the da Namastey.
Al complesso del Vittoriano dall'11 marzo (e fino al 10 luglio) c'è Tamara de Lempicka, artista dalle opere inconfondibili e dalla personalità affascinante. Vale proprio la pena farci un salto.
Il Vittoriano può essere un posto affascinante da un punto di vista architettonico, certo però non ci si può aspettare allestimenti originali e soluzioni espositive particolarmente innovative! E infatti, appena salite le scale, va a ciclo continuo un video con una buffa donna che legge e cerca di recitare un testo per introdurci alla mostra.
Seguono grandi pannelli che ci raccontano la vita di Tamara Rosalia Gurwik-Górska, nata in Polonia (o in Russia?) nel 1898, sposa a 18 anni di Tadeusz Łempicki, da cui ha la figlia più volte ritratta nei suoi quadri, Kizette.
Tra Parigi e gli Stati Uniti farà una vita da artista dissoluta e raffinata, sposandosi per una seconda volta, ma passando attraverso numerose storie d'amore.
Morta nel 1980, Tamara attraversa una fase storica intensa e la sua produzione artistica si sviluppa di pari passo con i grandi eventi del Novecento, dalla rivoluzione russa alla prima guerra mondiale, ai ruggenti anni Venti, alla crisi economica del '29, alla seconda guerra mondiale, al secondo dopoguerra.
Tamara è un personaggio profondamente storico, una diva, una Mata Hari, una sofisticata e decadente nobildonna, che ama farsi fotografare nelle pose tipiche dell'epoca, che adora indossare e ritrarre gli abiti di moda, che vediamo recitare in quelli che appaiono come veri e propri spot pubblicitari.
Bello anche vedere la sua corrispondenza con Gabriele D'Annunzio, segno del breve incontro tra due personalità entrambe sovrabbondanti e fortemente caratterizzate.
La mostra ci propone un percorso cronologico abbastanza convenzionale, ma ci permette di godere di un patrimonio artistico quasi interamente facente parte di collezioni private e dunque - in buona parte - sottratto alla fruizione pubblica.
Ci introduce così ai primi lavori della de Lempicka, ancora lontani da quello che sarà lo stile che la renderà famosa, più vicini alle tecniche e abitudini pittoriche sviluppate tra le fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento. Poi ci spiega l'unicità di questa artista, "regina del moderno" in quanto capace - attraverso la sua pittura - di fare proprio l'insegnamento della fotografia, dell'architettura, del cinema di quegli anni.
Il taglio fotografico dei suoi ritratti, i giochi di linee e rimandi tra i ritratti e gli sfondi, i contrasti tra i toni di grigio degli sfondi e i colori accesi delle labbra e dei vestiti, la nitidezza dei chiaroscuri, i blu profondissimi e lucidi, i verdi smeraldo, i grigi che sembrano acciaio e seta allo stesso tempo, le sproporzioni dei corpi nudi quasi ripresi da un obiettivo grandangolare, i chiaroscuri tagliati nettissimi rappresentano una firma praticamente inconfondibile dei suoi ritratti.
L'ultima parte della mostra ci fa vedere una de Lempicka affascinata dalle nature morte, dalle scene di interni, dai ritratti ispirati alla scuola fiamminga. Più convenzionale, meno ispirata ed esuberante, forse più ripiegata e conservatrice come spesso l'età che avanza porta ad essere.
Ci resta negli occhi la dirompente sensualità dei suoi ritratti. Non solo quella che esce dirompente dai famosissimi nudi (come quelli dedicati alla bella Rafaela), ma anche quella che si coglie nell'attenzione ai dettagli, quella delle sciarpe colorate e svolazzanti, delle vesti luminose (come nel Portrait de Madame M. o ne La tunica rosa), dei ritratti maschili, degli sguardi.
Tamara de Lempicka. Personaggio senza dubbio affascinante, controverso, quasi antipatico, ma dotato di una potenza espressiva magnetica. Da vedere.
Voto: 4/5
domenica 13 marzo 2011
I ragazzi stanno bene
Com'è San Francisco-centered il film di Lisa Chodolenko!
Eh sì, perché protagonista è una coppia di donne gay, Jules (Julianne Moore) e Nic (Annette Bening), sposate con due figli adolescenti, tipica espressione di una realtà geografico-culturale in cui la comunità gay è sempre stata particolarmente presente e forte (vi ricordate il film Milk?).
Perché una delle due, Jules, fa trasparire un passato da hippie e figlia dei fiori, che ne caratterizza modo di vestire e comportamenti anche in un presente in cui ha ormai 50 anni. E certamente anche questa comunità è stata ed è fortemente rappresentata nella città californiana.
Ancora, perché Paul (un fascinosissimo Mark Ruffalo), il donatore di sperma che Joni (Mia Wasikowska, l'Alice di Tim Burton) e Laser (John Hutcherson) chiameranno in causa curiosi di conoscere il loro padre biologico, gestisce una piccola coltivazione e un ristorante biologici. E qui c'è tutta la passione che negli ultimi anni l'anima alternativa di certa parte della California esprime per i concetti di local e organic.
E infine perché vediamo Paul sfrecciare con la sua motocicletta BMW sulle ripide discese delle colline di San Francisco, che tanto caratterizzano questa città.
Il tutto descrive un preciso contesto culturale e trasmette l'idea di una normalità e di una perfetta integrazione sociale di questa famiglia non convenzionale, in cui nessuno sembra patire le conseguenze e soffrire del proprio essere non convenzionali, bensì solo dei problemi che è possibile riconoscere in ogni matrimonio che duri da più di 20 anni e che si confronti con due adolescenti di oggi.
L'adolescente non cresciuto, l'impenitente scapolo che porterà lo scompiglio negli equilibri di questa famiglia sarà Paul, ma sarà lui stesso l'unico ad accorgersi di non avere qualcosa, di essere fondamentalmente solo.
Nic, Jules, Joni e Laser confliggono, si alleano, si scontrano, si allontanano, ma li tiene insieme l'affetto che hanno saputo costruire come famiglia. I momenti in cui a turno - tranne il taciturno Laser - chiamano a raccolta gli altri per vere e proprie riunioni di famiglia sono tra i momenti più commoventi e - al contempo - più esilaranti del film.
Si capisce l'intento di Lisa Chodolenko, porre l'accento sulla normalità, e certamente ci riesce, facendoci pensare, sorridere, partecipare, senza costringere nessuno a prese di posizione ideologiche.
Si capisce la voglia di normalità e di integrazione della comunità gay che la regista descrive. Personalmente, però, ho trovato l'operazione un po' buonista - per quanto utilmente universalizzante e opportunamente leggibile dal mondo etero.
San Francisco è stata la città non solo delle battaglie per i diritti, ma anche della rivendicazione delle differenze e del loro essere parte integrante di una società realmente democratica.
Integrazione non è necessariamente sinonimo di uniformazione, come - tra le righe - sembra emergere da questo film. I modelli possibili sono infiniti e tutti devono poter trovare uno spazio in un mondo libero, fondato sul rispetto dell'altro e sulla convivenza pacifica. Quello di Nic e Jules è solo uno dei modelli possibili.
Voto: 3/5
P.S. Visto in lingua originale. Sempre un'esperienza con una marcia in più.
Eh sì, perché protagonista è una coppia di donne gay, Jules (Julianne Moore) e Nic (Annette Bening), sposate con due figli adolescenti, tipica espressione di una realtà geografico-culturale in cui la comunità gay è sempre stata particolarmente presente e forte (vi ricordate il film Milk?).
Perché una delle due, Jules, fa trasparire un passato da hippie e figlia dei fiori, che ne caratterizza modo di vestire e comportamenti anche in un presente in cui ha ormai 50 anni. E certamente anche questa comunità è stata ed è fortemente rappresentata nella città californiana.
Ancora, perché Paul (un fascinosissimo Mark Ruffalo), il donatore di sperma che Joni (Mia Wasikowska, l'Alice di Tim Burton) e Laser (John Hutcherson) chiameranno in causa curiosi di conoscere il loro padre biologico, gestisce una piccola coltivazione e un ristorante biologici. E qui c'è tutta la passione che negli ultimi anni l'anima alternativa di certa parte della California esprime per i concetti di local e organic.
E infine perché vediamo Paul sfrecciare con la sua motocicletta BMW sulle ripide discese delle colline di San Francisco, che tanto caratterizzano questa città.
Il tutto descrive un preciso contesto culturale e trasmette l'idea di una normalità e di una perfetta integrazione sociale di questa famiglia non convenzionale, in cui nessuno sembra patire le conseguenze e soffrire del proprio essere non convenzionali, bensì solo dei problemi che è possibile riconoscere in ogni matrimonio che duri da più di 20 anni e che si confronti con due adolescenti di oggi.
L'adolescente non cresciuto, l'impenitente scapolo che porterà lo scompiglio negli equilibri di questa famiglia sarà Paul, ma sarà lui stesso l'unico ad accorgersi di non avere qualcosa, di essere fondamentalmente solo.
Nic, Jules, Joni e Laser confliggono, si alleano, si scontrano, si allontanano, ma li tiene insieme l'affetto che hanno saputo costruire come famiglia. I momenti in cui a turno - tranne il taciturno Laser - chiamano a raccolta gli altri per vere e proprie riunioni di famiglia sono tra i momenti più commoventi e - al contempo - più esilaranti del film.
Si capisce l'intento di Lisa Chodolenko, porre l'accento sulla normalità, e certamente ci riesce, facendoci pensare, sorridere, partecipare, senza costringere nessuno a prese di posizione ideologiche.
Si capisce la voglia di normalità e di integrazione della comunità gay che la regista descrive. Personalmente, però, ho trovato l'operazione un po' buonista - per quanto utilmente universalizzante e opportunamente leggibile dal mondo etero.
San Francisco è stata la città non solo delle battaglie per i diritti, ma anche della rivendicazione delle differenze e del loro essere parte integrante di una società realmente democratica.
Integrazione non è necessariamente sinonimo di uniformazione, come - tra le righe - sembra emergere da questo film. I modelli possibili sono infiniti e tutti devono poter trovare uno spazio in un mondo libero, fondato sul rispetto dell'altro e sulla convivenza pacifica. Quello di Nic e Jules è solo uno dei modelli possibili.
Voto: 3/5
P.S. Visto in lingua originale. Sempre un'esperienza con una marcia in più.
mercoledì 9 marzo 2011
Cinquemila chilometri al secondo / Manuele Fior
Cinquemila chilometri al secondo / Manuele Fior. Bologna: Coconino Press, 2010.
Siamo in estate, in un paesino pieno di sole e di luce, forse in Romagna, probabilmente alla fine degli anni '70. Una casa a ringhiera. Madre e figlia si sono appena trasferite in una nuova casa, forse a causa di una separazione. Due ragazzi, che hanno appena finito la scuola superiore, spiano dalla finestra.
Sarà l'inizio di un incontro che durerà una vita. Quello tra Piero, Nicola e Lucia, detta Lucy. L'inizio di un triangolo amoroso, di un intreccio inestricabile di amore, amicizia, lealtà, tradimento vero o immaginato, che a nessuno di loro riuscirà a dare una vera serenità.
Ritroveremo Lucy in Norvegia, in fuga da chissà cosa, circondata dalla neve, immersa nella penombra di un'eterna sera, a inseguire una felicità che sembra sempre sfuggire per una frazione di secondo.
Quel secondo che telefonicamente la separa - per un ritardo nella trasmissione della voce - da Piero, archeologo ad Aswan in Egitto. Cinquemila chilometri più a sud. Nei colori accesi dell'Africa. Impegnato in una alquanto burrascosa storia con Cinzia.
Si rincontreranno nel paesino da cui tutto è iniziato, ormai adulti, in una sera di pioggia, in una grigia pizzeria. Per la resa dei conti delle loro vite.
Nicola è la trama sottile che attraversa tutto.
Il ritratto di tre persone, ma anche di una generazione, o forse di un'umanità che, di fronte ai sentimenti, di certezze non ne ha mai veramente avute.
Mi fermerò qui. Com'è giusto che sia.
Non credo di aver mai raccontato tanto di una storia, ma in questo caso spero che il mio racconto sia stato anche solo lontanamente capace di trasmettere lo stile narrativo di Manuele Fior, fatto di colori, pennellate, interruzioni, connessioni. Poetico.
Gli acquerelli di Fior sono privi di matita o penna, solo pennelli che producono linee dai contorni indefiniti o chiazze di colore. Colori accesi, spenti, cupi, brillanti, sempre perfettamente rappresentativi della geografia fisica e dell'animo umano. Il mondo grafico di Fior è un mondo in cui tutto si amalgama, ma tutto è anche incredibilmente preciso e leggibile. Lo sguardo che da un dettaglio si allarga a una situazione, a un contesto, a uno stato d'animo è reso graficamente in modo efficace e originale.
Meritatissimo premio all'ultimo Festival International de la Bande Dessinée di Angoulême, il cosiddetto Fauve d'Or. Saremo anche un paese che ha messo il fumetto e le graphic novels in un angolo, ma per fortuna sforniamo ancora grandi fumettisti. Peccato che vivano a Parigi...
Voto: 5/5
Siamo in estate, in un paesino pieno di sole e di luce, forse in Romagna, probabilmente alla fine degli anni '70. Una casa a ringhiera. Madre e figlia si sono appena trasferite in una nuova casa, forse a causa di una separazione. Due ragazzi, che hanno appena finito la scuola superiore, spiano dalla finestra.
Sarà l'inizio di un incontro che durerà una vita. Quello tra Piero, Nicola e Lucia, detta Lucy. L'inizio di un triangolo amoroso, di un intreccio inestricabile di amore, amicizia, lealtà, tradimento vero o immaginato, che a nessuno di loro riuscirà a dare una vera serenità.
Ritroveremo Lucy in Norvegia, in fuga da chissà cosa, circondata dalla neve, immersa nella penombra di un'eterna sera, a inseguire una felicità che sembra sempre sfuggire per una frazione di secondo.
Quel secondo che telefonicamente la separa - per un ritardo nella trasmissione della voce - da Piero, archeologo ad Aswan in Egitto. Cinquemila chilometri più a sud. Nei colori accesi dell'Africa. Impegnato in una alquanto burrascosa storia con Cinzia.
Si rincontreranno nel paesino da cui tutto è iniziato, ormai adulti, in una sera di pioggia, in una grigia pizzeria. Per la resa dei conti delle loro vite.
Nicola è la trama sottile che attraversa tutto.
Il ritratto di tre persone, ma anche di una generazione, o forse di un'umanità che, di fronte ai sentimenti, di certezze non ne ha mai veramente avute.
Mi fermerò qui. Com'è giusto che sia.
Non credo di aver mai raccontato tanto di una storia, ma in questo caso spero che il mio racconto sia stato anche solo lontanamente capace di trasmettere lo stile narrativo di Manuele Fior, fatto di colori, pennellate, interruzioni, connessioni. Poetico.
Gli acquerelli di Fior sono privi di matita o penna, solo pennelli che producono linee dai contorni indefiniti o chiazze di colore. Colori accesi, spenti, cupi, brillanti, sempre perfettamente rappresentativi della geografia fisica e dell'animo umano. Il mondo grafico di Fior è un mondo in cui tutto si amalgama, ma tutto è anche incredibilmente preciso e leggibile. Lo sguardo che da un dettaglio si allarga a una situazione, a un contesto, a uno stato d'animo è reso graficamente in modo efficace e originale.
Meritatissimo premio all'ultimo Festival International de la Bande Dessinée di Angoulême, il cosiddetto Fauve d'Or. Saremo anche un paese che ha messo il fumetto e le graphic novels in un angolo, ma per fortuna sforniamo ancora grandi fumettisti. Peccato che vivano a Parigi...
Voto: 5/5
mercoledì 2 marzo 2011
S. / Gipi
S. / Gipi. Bologna: Coconino Press, 2006.
A poco a poco il fumetto mi si rivela come una forma letteraria e artistica di grandissimo spessore e complessità, che ha in comune con la letteratura la parola scritta e la possibilità di dare voce ai pensieri, e con il cinema le immagini (quasi in movimento), a volte i colori, il montaggio, la sintesi.
E dopo aver letto questa graphic novel di Gipi ne sono definitivamente convinta e a convincermi è questo autore nostrano e pluripremiato (al secolo Gian Alfonso Pacinotti) che - in quest'opera - sembra avere un tocco magico, nei disegni, negli acquerelli, nelle parole, perfino nelle cancellature.
S. è Sergio, il padre di Gipi, segnato dalla memoria del bombardamento di Pisa del 31 agosto del 1943. Nella storia si intrecciano vari piani temporali: questo ingombrante episodio, altri ricordi di S., le memorie di Gipi stesso da bambino, ma anche percezioni, letture e reinterpretazioni della realtà che a volte stanno solo nelle menti dei protagonisti. Tutte confluiscono nel presente, quello in cui S. non c'è più.
Ne viene fuori un omaggio commosso e affettuoso a questa complessa e ferita figura paterna, in quel momento della vita in cui si vorrebbe riprendere e approfondire un dialogo interrotto o mai iniziato, ma ci si trova di fronte a un'urna piena di ceneri.
Un articolato impianto narrativo, le distorsioni grafiche (come se guardassimo la realtà attraverso la mente dei protagonisti), l'uso dei colori (scuri o estremamente tenui), la mise en page, l'evidente coinvolgimento emotivo ne fanno un'opera capace di catturare, commuovere, far riflettere e - anche - guardarsi dentro. Perché quella che viene raccontata è una storia del tutto personale e particolare (nessuno ha gli stessi ricordi), ma le sensazioni sono sicuramente universali.
S. è senza ombra di dubbio un piccolo capolavoro. Non solo del genere fumettistico.
Voto: 5/5
A poco a poco il fumetto mi si rivela come una forma letteraria e artistica di grandissimo spessore e complessità, che ha in comune con la letteratura la parola scritta e la possibilità di dare voce ai pensieri, e con il cinema le immagini (quasi in movimento), a volte i colori, il montaggio, la sintesi.
E dopo aver letto questa graphic novel di Gipi ne sono definitivamente convinta e a convincermi è questo autore nostrano e pluripremiato (al secolo Gian Alfonso Pacinotti) che - in quest'opera - sembra avere un tocco magico, nei disegni, negli acquerelli, nelle parole, perfino nelle cancellature.
S. è Sergio, il padre di Gipi, segnato dalla memoria del bombardamento di Pisa del 31 agosto del 1943. Nella storia si intrecciano vari piani temporali: questo ingombrante episodio, altri ricordi di S., le memorie di Gipi stesso da bambino, ma anche percezioni, letture e reinterpretazioni della realtà che a volte stanno solo nelle menti dei protagonisti. Tutte confluiscono nel presente, quello in cui S. non c'è più.
Ne viene fuori un omaggio commosso e affettuoso a questa complessa e ferita figura paterna, in quel momento della vita in cui si vorrebbe riprendere e approfondire un dialogo interrotto o mai iniziato, ma ci si trova di fronte a un'urna piena di ceneri.
Un articolato impianto narrativo, le distorsioni grafiche (come se guardassimo la realtà attraverso la mente dei protagonisti), l'uso dei colori (scuri o estremamente tenui), la mise en page, l'evidente coinvolgimento emotivo ne fanno un'opera capace di catturare, commuovere, far riflettere e - anche - guardarsi dentro. Perché quella che viene raccontata è una storia del tutto personale e particolare (nessuno ha gli stessi ricordi), ma le sensazioni sono sicuramente universali.
S. è senza ombra di dubbio un piccolo capolavoro. Non solo del genere fumettistico.
Voto: 5/5
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