David Fincher è uno che ha idee e intuizioni, come ha già dimostrato in molti dei suoi film precedenti tra cui i miei preferiti restano Seven, Fight club e The social network. Ma ha anche molto mestiere e dunque è capace di trasformare le idee in puro spettacolo cinematografico, capace di avvincere lo spettatore (anche quando la visione - come nel mio caso - avviene alle 22,15 dopo una lunga giornata di lavoro e il film dura 2 ore e un quarto).
Nel caso di Gone girl (per il quale il regista ha riadattato per il grande schermo il romanzo di Gillian Flynn) di idee dentro ce ne sono molte, nonché di spunti cui il regista non vuole rinunciare. E probabilmente - alla fine - è proprio questo il limite del nuovo lavoro di Fincher.
Gone girl è principalmente la storia di due persone, quella di Nick (Ben Affleck) ed Amy (Rosamund Pike), che si sono innamorati, sposati e poi trasferiti da New York al Missouri per stare vicini alla madre morente di lui. Il racconto inizia quando Amy scompare nel giorno dell'anniversario del loro matrimonio. Quando si capisce che la sparizione è l'esito di un evento traumatico i sospetti cominciano a concentrarsi sul marito Nick, man mano che viene fuori l'immagine di un matrimonio ormai all'ultimo stadio. Ma non tutto è come appare.
Nel film di Fincher c'è sicuramente un'amara riflessione sul matrimonio e su certe sue inevitabili conseguenze. C'è anche una "straordinaria" protagonista femminile che è il vero motore dell'intero ordito narrativo, "the amazing Amy" (e chi vedrà il film capirà il riferimento), una donna brillante, simpatica e intelligente, capace di manipolare le persone e confezionare verità e soprattutto percezioni della verità.
Dal mio punto di vista, però, il cuore del film sta nella contrapposizione e nel confronto tra la realtà e la sua rappresentazione. L'estremizzazione del personaggio di Amy (decisamente sopra le righe e verso la fine del film non del tutto realistico) serve a rendere palese che la narrazione di sé è un'arma potentissima che può addomesticare la realtà agli occhi del mondo esterno. Fincher sembra volerci comunicare che la possibilità di ricostruire la realtà come ci piacerebbe - cosa che l'uomo ha sempre fatto attraverso la parola scritta e orale (e che nel film è in qualche modo rappresentata dai racconti per bambini scritti dalla madre di Amy ispirandosi alla figlia) - è stata potentemente amplificata dai media, quelli tradizionali ovviamente (la televisione, la radio ecc.), ma ancora di più quelli di nuova generazione che la rete ci mette a disposizione. Un uso sapiente e spietato di questi strumenti è in grado di manipolare le coscienze, di suscitare reazioni, di produrre convincimenti in buona parte determinati da suggestioni emotive.
Nessuno può sottrarsi alla spettacolarizzazione delle esistenze e alla loro riscrittura ad uso e consumo di un pubblico che è affamato di storie. Non a caso - e sempre più spesso - non è alla nostra coscienza e al nostro privato che dobbiamo rendere conto, bensì a un intorno sempre più ampio, a quei veri e propri fan e seguaci delle nostre vite cui noi stessi ci siamo volontariamente dati in pasto.
Il confine tra i personaggi pubblici e le persone "comuni" si fa sempre più labile, così come il confine tra la sfera pubblica e quella privata. La costruzione della propria immagine pubblica - molto spesso a scapito della verità - è ormai uno sport mondiale.
Mi è tornato in mente l'esperimento di una ragazza che quest'estate ha costruito attraverso Facebook una finta vacanza in Thailandia, Cambogia e Laos, ma in realtà non si è mai mossa da casa, ingannando praticamente tutti.
C'è molto da riflettere.
Voto: 4/5
mercoledì 29 ottobre 2014
lunedì 27 ottobre 2014
I milionari
Alessandro Piva mi ha conquistata fin dai tempi de LaCapaGira. Sarà perché è un mio conterraneo (di adozione), sarà perché LaCapaGira è un bel film, sarà perché ho avuto modo di conoscerlo anni fa quando abbiamo girato un piccolo documentario sulla biblioteca e lui ci ha fatto da regista. Sta di fatto che il mio sguardo nei suoi confronti è molto benevolo.
E devo dire che lo aspettavo con un nuovo lavoro, visto che dopo LaCapaGira e Mio cognato, ha avuto un lungo periodo di assenza dal grande schermo e il suo ritorno con Henry l'avevo perso.
Così mi sono fiondata al Festival del film di Roma a vedere il suo nuovo lavoro cinematografico, la cui sceneggiatura è tratta dal libro omonimo, ispirato alla storia del boss di camorra Paolo Di Lauro.
Ne I milionari Piva racconta trent'anni della malavita napoletana attraverso l'angolo di visuale di Marcello Cavani (Francesco Scianna), la cui famiglia - dopo la morte improvvisa del padre e grazie all'intraprendenza del fratello Antonio - per evitare di perdere la casa ipotecata entra nel giro di un boss locale della camorra.
Antonio sembra nato per fare la vita da camorrista. Marcello, detto Alendelòn, ci si adatta malvolentieri, ma considera la camorra la strada più veloce per raggiungere i propri obiettivi, ossia quello di conquistare Rosaria (Valentina Lodovini), l'amore della sua vita, e poi di offrire alla sua famiglia e a se stesso una vita borghese e agiata.
Marcello finirà così per trovarsi invischiato sempre più a doppio filo nel meccanismo stritolante della malavita che lo porterà più volte in carcere e lo vedrà perdere i suoi fratelli per un regolamento di conti.
Nel film di Piva non c'è un approccio particolarmente innovativo e certamente il regista non esce dai binari del genere, che tra l'altro negli ultimi tempi è diventato particolarmente di moda. Però la bravura di Scianna e il marchio inconfondibile del regista - rappresentato da alcuni inserti ironici ed elementi un po' macchiettistici - conferiscono al prodotto una leggerezza e gradevolezza di insieme che si fanno apprezzare.
E - seppure in modo se vogliamo tangente - anche il racconto delle sorti di una città, nei suoi esterni non convenzionali e negli interni delle case di questi uomini troppo ricchi, ma anche troppo ignoranti, è un valore da non trascurare.
Insomma, I milionari non cambierà la storia del cinema, ma per quanto mi riguarda si può considerare promosso.
Voto: 3/5
E devo dire che lo aspettavo con un nuovo lavoro, visto che dopo LaCapaGira e Mio cognato, ha avuto un lungo periodo di assenza dal grande schermo e il suo ritorno con Henry l'avevo perso.
Così mi sono fiondata al Festival del film di Roma a vedere il suo nuovo lavoro cinematografico, la cui sceneggiatura è tratta dal libro omonimo, ispirato alla storia del boss di camorra Paolo Di Lauro.
Ne I milionari Piva racconta trent'anni della malavita napoletana attraverso l'angolo di visuale di Marcello Cavani (Francesco Scianna), la cui famiglia - dopo la morte improvvisa del padre e grazie all'intraprendenza del fratello Antonio - per evitare di perdere la casa ipotecata entra nel giro di un boss locale della camorra.
Antonio sembra nato per fare la vita da camorrista. Marcello, detto Alendelòn, ci si adatta malvolentieri, ma considera la camorra la strada più veloce per raggiungere i propri obiettivi, ossia quello di conquistare Rosaria (Valentina Lodovini), l'amore della sua vita, e poi di offrire alla sua famiglia e a se stesso una vita borghese e agiata.
Marcello finirà così per trovarsi invischiato sempre più a doppio filo nel meccanismo stritolante della malavita che lo porterà più volte in carcere e lo vedrà perdere i suoi fratelli per un regolamento di conti.
Nel film di Piva non c'è un approccio particolarmente innovativo e certamente il regista non esce dai binari del genere, che tra l'altro negli ultimi tempi è diventato particolarmente di moda. Però la bravura di Scianna e il marchio inconfondibile del regista - rappresentato da alcuni inserti ironici ed elementi un po' macchiettistici - conferiscono al prodotto una leggerezza e gradevolezza di insieme che si fanno apprezzare.
E - seppure in modo se vogliamo tangente - anche il racconto delle sorti di una città, nei suoi esterni non convenzionali e negli interni delle case di questi uomini troppo ricchi, ma anche troppo ignoranti, è un valore da non trascurare.
Insomma, I milionari non cambierà la storia del cinema, ma per quanto mi riguarda si può considerare promosso.
Voto: 3/5
sabato 25 ottobre 2014
Dolares de arena
Cose che succedono soltanto a Roma.
La proiezione del film Dolares de arena, in concorso al Festival internazionale del film di Roma, è prevista per le 19,30 in sala Petrassi. La sala si va riempiendo lentamente e alla 19,30 ancora arrivano persone alla spicciolata. Intanto il tempo passa e - come spesso accade in questi casi - il pubblico rumoreggia per incitare l'inizio del film. Ma sono le 20 e ancora non accade nulla. Un messaggio in altoparlante si scusa per il ritardo. La gente comincia a innervosirsi, qualcuno si alza in piedi e suggerisce di chiedere il rimborso del biglietto, qualcun altro propone di uscire in massa dalla sala. Una delle persone addette alla sala discute con un signore seduto accanto a me e dice: "Stiamo aspettando la delegazione del film. Voi non sapete cosa è successo!". Al che un po' di gente comincia a chiedere: "Ma cosa è successo?". E l'omino: "C'è la partita della Roma!".
La vicenda diventa quasi surreale...
Alla fine la delegazione - che ho immaginato bloccata nel traffico romano a causa della partita - arriva più o meno alle 20,20. Il pubblico fischia e fa "buuu" mentre attori e registi vengono presentati. E io penso che 'sti poveracci non stanno capendo in che mondo si ritrovano, costretti a subire la rabbia - anche giusta - delle persone per un'organizzazione che certamente non eccelle.
Insomma, mi viene da pensare, noi italiani (e i romani in particolare) non ce la possiamo fare.
Fine della storiella. Passiamo al film.
Il film è interessante. Siamo ai Caraibi. Cieli drammatici e spettacolari, mare onnipresente e dai mille umori, foreste verdissime, piccoli paesi in cui la povertà e l'assenza di prospettive sembra affogata in nottate di balli e canti caraibici, alberghi extralusso per ricchi occidentali che cercano ai Caraibi una seconda possibilità di vita dopo la pensione.
Questa è la storia di Noeli (Yanet Mojica), giovanissima dominicana che vive facendo da accompagnatrice a questi ricchi occidentali e finge che il suo ragazzo sia in realtà suo fratello. In particolare la ragazza frequenta da circa tre anni Anne, una donna anziana (Geraldine Chaplin), che è innamorata di lei e vorrebbe portarla con sé in Europa.
I registi, Laura Amelia Guzman Conde e Israel Cardenas, sembrano portare sullo schermo l'irriducibilità di questi due mondi e la loro sostanziale incomunicabilità, che solo in particolari circostanze viene superata dall'umana e universale propensione ad affezionarsi a chi in qualche modo si prende cura di noi. Perché in fondo Noeli si prende cura di Anne almeno tanto quanto (seppure in modo diverso) Anne si prende cura di Noeli.
Di Anne non sappiamo molto e tante cose restano senza risposta: il perché suo figlio non le voglia parlare, il motivo per cui ha deciso di lasciare la Francia, i rapporti con gli occidentali che frequenta sull'isola. Sappiamo solo che Anne crede veramente - o forse vuole credere - nell'amore di Noeli e a questa giovane donna si aggrappa per trovare ancora una gioia forse perduta da tempo.
Noeli è anch'esso un personaggio sfuggente. Evidentemente mossa prima di tutto dai bisogni materiali che prendono il sopravvento sui sentimenti di affetto e di lealtà verso il mondo circostante. Anche lei però un personaggio dolente, divisa tra un fidanzato che accetta che lei si prostituisca e che - pur forse amandola - la sfrutta e una donna che sembra disposta a darle qualunque cosa in cambio del suo amore.
Anne e Noeli rappresentano due mondi che non si incontreranno mai, ciascuno costretto a fare i conti con i propri limiti, quello occidentale con la sua ricchezza decadente e triste, quello caraibico con i suoi suoni e i suoi colori che nascondono l'assenza della speranza.
Voto: 3/5
La proiezione del film Dolares de arena, in concorso al Festival internazionale del film di Roma, è prevista per le 19,30 in sala Petrassi. La sala si va riempiendo lentamente e alla 19,30 ancora arrivano persone alla spicciolata. Intanto il tempo passa e - come spesso accade in questi casi - il pubblico rumoreggia per incitare l'inizio del film. Ma sono le 20 e ancora non accade nulla. Un messaggio in altoparlante si scusa per il ritardo. La gente comincia a innervosirsi, qualcuno si alza in piedi e suggerisce di chiedere il rimborso del biglietto, qualcun altro propone di uscire in massa dalla sala. Una delle persone addette alla sala discute con un signore seduto accanto a me e dice: "Stiamo aspettando la delegazione del film. Voi non sapete cosa è successo!". Al che un po' di gente comincia a chiedere: "Ma cosa è successo?". E l'omino: "C'è la partita della Roma!".
La vicenda diventa quasi surreale...
Alla fine la delegazione - che ho immaginato bloccata nel traffico romano a causa della partita - arriva più o meno alle 20,20. Il pubblico fischia e fa "buuu" mentre attori e registi vengono presentati. E io penso che 'sti poveracci non stanno capendo in che mondo si ritrovano, costretti a subire la rabbia - anche giusta - delle persone per un'organizzazione che certamente non eccelle.
Insomma, mi viene da pensare, noi italiani (e i romani in particolare) non ce la possiamo fare.
Fine della storiella. Passiamo al film.
Il film è interessante. Siamo ai Caraibi. Cieli drammatici e spettacolari, mare onnipresente e dai mille umori, foreste verdissime, piccoli paesi in cui la povertà e l'assenza di prospettive sembra affogata in nottate di balli e canti caraibici, alberghi extralusso per ricchi occidentali che cercano ai Caraibi una seconda possibilità di vita dopo la pensione.
Questa è la storia di Noeli (Yanet Mojica), giovanissima dominicana che vive facendo da accompagnatrice a questi ricchi occidentali e finge che il suo ragazzo sia in realtà suo fratello. In particolare la ragazza frequenta da circa tre anni Anne, una donna anziana (Geraldine Chaplin), che è innamorata di lei e vorrebbe portarla con sé in Europa.
I registi, Laura Amelia Guzman Conde e Israel Cardenas, sembrano portare sullo schermo l'irriducibilità di questi due mondi e la loro sostanziale incomunicabilità, che solo in particolari circostanze viene superata dall'umana e universale propensione ad affezionarsi a chi in qualche modo si prende cura di noi. Perché in fondo Noeli si prende cura di Anne almeno tanto quanto (seppure in modo diverso) Anne si prende cura di Noeli.
Di Anne non sappiamo molto e tante cose restano senza risposta: il perché suo figlio non le voglia parlare, il motivo per cui ha deciso di lasciare la Francia, i rapporti con gli occidentali che frequenta sull'isola. Sappiamo solo che Anne crede veramente - o forse vuole credere - nell'amore di Noeli e a questa giovane donna si aggrappa per trovare ancora una gioia forse perduta da tempo.
Noeli è anch'esso un personaggio sfuggente. Evidentemente mossa prima di tutto dai bisogni materiali che prendono il sopravvento sui sentimenti di affetto e di lealtà verso il mondo circostante. Anche lei però un personaggio dolente, divisa tra un fidanzato che accetta che lei si prostituisca e che - pur forse amandola - la sfrutta e una donna che sembra disposta a darle qualunque cosa in cambio del suo amore.
Anne e Noeli rappresentano due mondi che non si incontreranno mai, ciascuno costretto a fare i conti con i propri limiti, quello occidentale con la sua ricchezza decadente e triste, quello caraibico con i suoi suoni e i suoi colori che nascondono l'assenza della speranza.
Voto: 3/5
giovedì 23 ottobre 2014
Henri Cartier Bresson, Roma, Museo dell'Ara Pacis, 26 settembre 2014 - 25 gennaio 2015
Devo confessarlo: non avevo mai visto una mostra dedicata interamente ad Henri Cartier Bresson. Ovviamente, conoscevo il grande fotografo francese, ma la mia conoscenza della sua fotografia era sostanzialmente riferita all'aspetto più noto, quello che l'ha reso un fotografo famoso in tutto il mondo, ossia la capacità di cogliere l'attimo, quello che lui chiamava "il momento decisivo".
Ma - mea culpa - non avevo idea della vastità, varietà e complessità della sua produzione fotografica, e non solo fotografica, visto che la mostra fa emergere anche la sua vena di pittore e disegnatore e le sue esperienze nel mondo del cinema, in particolare accanto a Jean Renoir.
Del resto, un fotografo che con le sue fotografie ha attraversato quasi sessant'anni della storia culturale, politica e sociale del mondo sarebbe del tutto riduttivo associarlo a quelle dieci foto che tutti conosciamo, e che - tra l'altro - si illuminano, grazie a questa grande retrospettiva (oltre 400 foto), di nuovi significati e valori.
Così veniamo a sapere che il primo Cartier Bresson è molto influenzato dalla corrente del surrealismo e dai lavori di Atget, e lavora moltissimo sulla composizione e sulla modalità di ripresa fotografica. Solo successivamente sviluppa la sua poetica relativa alla dinamicità dell'immagine fotografica e alla ricerca da parte del fotografo della casualità come risultato della perseveranza e dell'accumulo di esperienze. Verranno poi l'impegno politico e sociale, il lavoro di reportage per le grandi riviste, la partecipazione alla nascita della Magnum, gli studi antropologici e l'intimismo dell'ultimo periodo.
La cosa straordinaria che una retrospettiva di queste dimensioni consente è quella di seguire il processo di arricchimento dell'universo artistico e visivo del fotografo, che evolve e in parte rinnega il passato, ma si porta dietro la vastità e la complessità del bagaglio costruito.
È dunque sorprendente riconoscere, nella sua vastissima produzione, la ricorrenza di alcuni elementi, sia dal punto di vista dei soggetti, sia dal punto di vista della composizione e delle inquadrature. L'occhio di un fotografo di questa qualità si arricchisce nel tempo diventando sempre più denso e moltiplicando le possibilità.
Persino le sue fotografie a colori (presentate come slide show su uno schermo), che Bresson dice di aver fatto solo per motivi commerciali e contrattuali in quanto non amava il colore, acquistano significato e valore all'interno di una mostra così ampia.
Il dato negativo della mostra è la location e la sua gestione. Gli spazi espositivi dell'Ara Pacis sono infatti piuttosto labirintici e in alcuni passaggi stretti e inadatti soprattutto ai flussi di gente che una mostra del genere richiama. A questo proposito, personalmente credo non sia pensabile che si possa fare entrare contemporaneamente tutta la gente che acquista il biglietto. Forse una scansione degli ingressi consentirebbe allo spettatore una visione più rilassata e in alcuni casi semplicemente possibile.
Voto: 4/5
Ma - mea culpa - non avevo idea della vastità, varietà e complessità della sua produzione fotografica, e non solo fotografica, visto che la mostra fa emergere anche la sua vena di pittore e disegnatore e le sue esperienze nel mondo del cinema, in particolare accanto a Jean Renoir.
Del resto, un fotografo che con le sue fotografie ha attraversato quasi sessant'anni della storia culturale, politica e sociale del mondo sarebbe del tutto riduttivo associarlo a quelle dieci foto che tutti conosciamo, e che - tra l'altro - si illuminano, grazie a questa grande retrospettiva (oltre 400 foto), di nuovi significati e valori.
Così veniamo a sapere che il primo Cartier Bresson è molto influenzato dalla corrente del surrealismo e dai lavori di Atget, e lavora moltissimo sulla composizione e sulla modalità di ripresa fotografica. Solo successivamente sviluppa la sua poetica relativa alla dinamicità dell'immagine fotografica e alla ricerca da parte del fotografo della casualità come risultato della perseveranza e dell'accumulo di esperienze. Verranno poi l'impegno politico e sociale, il lavoro di reportage per le grandi riviste, la partecipazione alla nascita della Magnum, gli studi antropologici e l'intimismo dell'ultimo periodo.
La cosa straordinaria che una retrospettiva di queste dimensioni consente è quella di seguire il processo di arricchimento dell'universo artistico e visivo del fotografo, che evolve e in parte rinnega il passato, ma si porta dietro la vastità e la complessità del bagaglio costruito.
È dunque sorprendente riconoscere, nella sua vastissima produzione, la ricorrenza di alcuni elementi, sia dal punto di vista dei soggetti, sia dal punto di vista della composizione e delle inquadrature. L'occhio di un fotografo di questa qualità si arricchisce nel tempo diventando sempre più denso e moltiplicando le possibilità.
Persino le sue fotografie a colori (presentate come slide show su uno schermo), che Bresson dice di aver fatto solo per motivi commerciali e contrattuali in quanto non amava il colore, acquistano significato e valore all'interno di una mostra così ampia.
Il dato negativo della mostra è la location e la sua gestione. Gli spazi espositivi dell'Ara Pacis sono infatti piuttosto labirintici e in alcuni passaggi stretti e inadatti soprattutto ai flussi di gente che una mostra del genere richiama. A questo proposito, personalmente credo non sia pensabile che si possa fare entrare contemporaneamente tutta la gente che acquista il biglietto. Forse una scansione degli ingressi consentirebbe allo spettatore una visione più rilassata e in alcuni casi semplicemente possibile.
Voto: 4/5
martedì 21 ottobre 2014
Woodpigeon + Stanley Brinks & Freschard, Black Market, Unplugged in Monti, 1 ottobre 2014
Ed eccoci alla ripresa della stagione dei concerti dal vivo al Black Market di via Panisperna, con la rassegna Unplugged in Monti.
Come si sa, si tratta di una delle mie location preferite sia per la posizione geografica all'interno della città (lo splendido rione Monti) sia per la scelta dei cantanti sia infine per l'atmosfera raccolta e molto radical chic che caratterizza questi eventi.
Sarà per questo che la via verso il Black Market appare sempre irta di ostacoli; questa volta un diluvio (o meglio una "bomba d'acqua" come è più di moda attualmente) che quasi mi impedisce di uscire dal lavoro e di recuperare il motorino.
Un po' avventurosamente arrivo al Black Market dove mi aspetta L. che ho convinto a venire con me. Trangugio un aperitivo non proprio sanissimo, visto che non ho mangiato nulla, e poi ci fiondiamo nella saletta del concerto, prendendo posto su quelle che pensavamo due comode sedie in posizione un po' esterna (ci accorgeremo poi, soprattutto L., che il posto è tale che il rischio che ti schiaccino i piedi, che ti si mettano davanti o che ti travolgano è elevato).
Il primo artista a salire sul piccolo palco è il canadese Woodpigeon che dei due artisti previsti per questa sera è quello a cui nei giorni precedenti avevo prestato minore attenzione, cosicché non ho alcuna aspettativa. E invece Mark Andrew Hamilton si dimostra una bella scoperta, capace di catturare con la sua simpatia nonché con la sua musica, sia quando propone canzoni dal tessuto sonoro minimale sia quando costruisce arabeschi sonori registrando sequenze musicali o cantate e componendoli con la performance dal vivo.
Alla fine mi incuriosisco alla sua musica e mi viene anche voglia di ascoltarne ancora, tanto che compro il suo ultimo album.
Nella seconda parte della serata salgono sul palco Stanley Brinks, un artista introverso, dal background culturale e musicale multiforme, attualmente berlinese di adozione, e Freschard (al secolo Clemence Freschard), anche lei una nomade della musica, proveniente dalla Francia e ora anche lei a Berlino.
Nelle prime canzoni Brinks si limita a costruire l'ordito musicale per la voce di Freschard, poi i due si fanno entrambi protagonisti della loro musica, infine Brinks ci offre una performance in solitaria durante la quale sempre più spesso abbandona il microfono per cantare in mezzo al pubblico senza amplificazione.
Il risultato è suggestivo, sebbene non tutto il repertorio presentato dai due artisti mi entusiasma. Fors'anche perché avevo comprato un loro album e mi è parzialmente mancato l'effetto sorpresa.
Recuperato il solito bellissimo poster di Mynameisbri (alias Sabrina Gabrielli) inforco la mia moto per tornare a casa, ora che finalmente ha smesso di piovere.
Voto: 3/5
Come si sa, si tratta di una delle mie location preferite sia per la posizione geografica all'interno della città (lo splendido rione Monti) sia per la scelta dei cantanti sia infine per l'atmosfera raccolta e molto radical chic che caratterizza questi eventi.
Sarà per questo che la via verso il Black Market appare sempre irta di ostacoli; questa volta un diluvio (o meglio una "bomba d'acqua" come è più di moda attualmente) che quasi mi impedisce di uscire dal lavoro e di recuperare il motorino.
Un po' avventurosamente arrivo al Black Market dove mi aspetta L. che ho convinto a venire con me. Trangugio un aperitivo non proprio sanissimo, visto che non ho mangiato nulla, e poi ci fiondiamo nella saletta del concerto, prendendo posto su quelle che pensavamo due comode sedie in posizione un po' esterna (ci accorgeremo poi, soprattutto L., che il posto è tale che il rischio che ti schiaccino i piedi, che ti si mettano davanti o che ti travolgano è elevato).
Il primo artista a salire sul piccolo palco è il canadese Woodpigeon che dei due artisti previsti per questa sera è quello a cui nei giorni precedenti avevo prestato minore attenzione, cosicché non ho alcuna aspettativa. E invece Mark Andrew Hamilton si dimostra una bella scoperta, capace di catturare con la sua simpatia nonché con la sua musica, sia quando propone canzoni dal tessuto sonoro minimale sia quando costruisce arabeschi sonori registrando sequenze musicali o cantate e componendoli con la performance dal vivo.
Alla fine mi incuriosisco alla sua musica e mi viene anche voglia di ascoltarne ancora, tanto che compro il suo ultimo album.
Nella seconda parte della serata salgono sul palco Stanley Brinks, un artista introverso, dal background culturale e musicale multiforme, attualmente berlinese di adozione, e Freschard (al secolo Clemence Freschard), anche lei una nomade della musica, proveniente dalla Francia e ora anche lei a Berlino.
Nelle prime canzoni Brinks si limita a costruire l'ordito musicale per la voce di Freschard, poi i due si fanno entrambi protagonisti della loro musica, infine Brinks ci offre una performance in solitaria durante la quale sempre più spesso abbandona il microfono per cantare in mezzo al pubblico senza amplificazione.
Il risultato è suggestivo, sebbene non tutto il repertorio presentato dai due artisti mi entusiasma. Fors'anche perché avevo comprato un loro album e mi è parzialmente mancato l'effetto sorpresa.
Recuperato il solito bellissimo poster di Mynameisbri (alias Sabrina Gabrielli) inforco la mia moto per tornare a casa, ora che finalmente ha smesso di piovere.
Voto: 3/5
giovedì 16 ottobre 2014
E la chiamano estate / Mariko Tamaki e Jillian Tamaki
E la chiamano estate / Mariko Tamaki e Jillian Tamaki. Milano: Bao Publishing, 2014.
Chissà perché i graphic novel amano moltissimo le età di transizione della vita, quelle in cui si passa dall’infanzia all’adolescenza e dall’adolescenza alla vita adulta!
In questo lavoro delle cugine Mariko e Jillian Tamaki la protagonista di questo processo è Rose, una ragazzina bionda con i capelli lunghi che ogni estate va con i suoi genitori in vacanza ad Awago Beach.
Quest’estate apparentemente identica a tutte le altre farà capire a Rose che in realtà niente è più come prima, innanzitutto perché è lei stessa a non essere più quella degli anni precedenti.
Glielo dice soprattutto il rapporto di amicizia con Windy, la sua storica amica di tutte le estati, un po’ più piccola di lei, e che in questa estate le appare infantile e incapace di comprendere i suoi stati d’animo. La crescente distanza tra di loro è palese nel modo diverso in cui lei e Windy guardano al mondo esterno; quest’ultima con un atteggiamento ancora genuinamente superficiale e leggero, Rose ormai catturata inevitabilmente dalle dinamiche che si muovono intorno a lei.
Rose vive intensamente e dolorosamente l’impossibilità di rimanere estranea e di guardare con fiducia alle difficoltà di relazione che i suoi genitori stanno attraversando, a causa di un trauma che ha turbato la loro serenità di coppia e i loro equilibri.
E il piccolo negozio di Awago Beach, dove vendono un po’ di tutto e noleggiano i DVD, non è più per Rose semplicemente il teatro delle scorribande con l’amica, ma anche il punto di osservazione delle vicende che interessano la gioventù locale. Dunc, il ragazzo che insieme a un amico gestisce il negozio, non è più per Rose lo “sfigato” - come lo chiama Windy -, ma un giovane interessante per cui ci si potrebbe anche prendere una cotta.
Quando si preparano le valigie e il cottage viene chiuso per tornare alla vita di sempre è chiaro a tutti - e a Rose per prima - che la attende una nuova fase della vita.
E la chiamano estate è un graphic novel in qualche modo sofisticato, sia dal punto di vista del disegno (attento al dettaglio ed evocativo al contempo) che della sceneggiatura, e forse proprio per questo richiede una seconda lettura per essere apprezzato a pieno.
Certamente, le due autrici dimostrano una grande capacità empatica rispetto al portato, financo doloroso, di questo momento di passaggio della vita che, in cambio della capacità di provare emozioni nuove, ci toglie quella dose di incoscienza, spensieratezza e sincerità dello sguardo che rendono speciale l’infanzia.
Personalmente, però, dopo la lettura mi è rimasta una sensazione di contrattura, dovuta probabilmente al fatto che in questo fumetto non tutto trova una spiegazione, non tutto ha una risposta, non tutto giunge allo scioglimento. D’altronde lo sguardo è quello di una bambina che non è più tale, ma non ha ancora gli strumenti per scendere a patti con la realtà.
Bello, ma non un amore a prima vista.
Voto: 3/5
Chissà perché i graphic novel amano moltissimo le età di transizione della vita, quelle in cui si passa dall’infanzia all’adolescenza e dall’adolescenza alla vita adulta!
In questo lavoro delle cugine Mariko e Jillian Tamaki la protagonista di questo processo è Rose, una ragazzina bionda con i capelli lunghi che ogni estate va con i suoi genitori in vacanza ad Awago Beach.
Quest’estate apparentemente identica a tutte le altre farà capire a Rose che in realtà niente è più come prima, innanzitutto perché è lei stessa a non essere più quella degli anni precedenti.
Glielo dice soprattutto il rapporto di amicizia con Windy, la sua storica amica di tutte le estati, un po’ più piccola di lei, e che in questa estate le appare infantile e incapace di comprendere i suoi stati d’animo. La crescente distanza tra di loro è palese nel modo diverso in cui lei e Windy guardano al mondo esterno; quest’ultima con un atteggiamento ancora genuinamente superficiale e leggero, Rose ormai catturata inevitabilmente dalle dinamiche che si muovono intorno a lei.
Rose vive intensamente e dolorosamente l’impossibilità di rimanere estranea e di guardare con fiducia alle difficoltà di relazione che i suoi genitori stanno attraversando, a causa di un trauma che ha turbato la loro serenità di coppia e i loro equilibri.
E il piccolo negozio di Awago Beach, dove vendono un po’ di tutto e noleggiano i DVD, non è più per Rose semplicemente il teatro delle scorribande con l’amica, ma anche il punto di osservazione delle vicende che interessano la gioventù locale. Dunc, il ragazzo che insieme a un amico gestisce il negozio, non è più per Rose lo “sfigato” - come lo chiama Windy -, ma un giovane interessante per cui ci si potrebbe anche prendere una cotta.
Quando si preparano le valigie e il cottage viene chiuso per tornare alla vita di sempre è chiaro a tutti - e a Rose per prima - che la attende una nuova fase della vita.
E la chiamano estate è un graphic novel in qualche modo sofisticato, sia dal punto di vista del disegno (attento al dettaglio ed evocativo al contempo) che della sceneggiatura, e forse proprio per questo richiede una seconda lettura per essere apprezzato a pieno.
Certamente, le due autrici dimostrano una grande capacità empatica rispetto al portato, financo doloroso, di questo momento di passaggio della vita che, in cambio della capacità di provare emozioni nuove, ci toglie quella dose di incoscienza, spensieratezza e sincerità dello sguardo che rendono speciale l’infanzia.
Personalmente, però, dopo la lettura mi è rimasta una sensazione di contrattura, dovuta probabilmente al fatto che in questo fumetto non tutto trova una spiegazione, non tutto ha una risposta, non tutto giunge allo scioglimento. D’altronde lo sguardo è quello di una bambina che non è più tale, ma non ha ancora gli strumenti per scendere a patti con la realtà.
Bello, ma non un amore a prima vista.
Voto: 3/5
martedì 14 ottobre 2014
Pasolini
Come si dice in questi casi, il film non mi è dispiaciuto.
Il dato più sorprendente è l'aderenza di Willem Dafoe al suo personaggio. La sovrapposizione dei tratti in alcuni momenti è sorprendente, sebbene l'inevitabilità del doppiaggio toglie un po' di realismo e di verità a questa interpretazione.
In generale, lo sguardo sull'Italia e gli italiani, in particolare su Roma e i romani, risente - non sempre positivamente - di un punto di vista sicuramente informato e attento, ma in qualche modo estraneo ad un certo ambiente culturale non facile da comprendere.
Il film ha una sua coerenza e compattezza apprezzabili: racconta infatti le ultime 24 ore della vita di Pier Paolo Pasolini, dalla sera precedente - durante la quale Pasolini si trovava a Stoccolma per un'intervista - alla sera maledetta dell'omicidio. Nel mentre emerge la vita quotidiana dello scrittore, i suoi rapporti familiari, i suoi progetti cinematografici e di scrittura, la sua personalità complessa.
Dal mio punto di vista ciò che resta debole nel film è la difficoltà di identificare un audience.
Per chi come me di Pasolini sa pochissimo il film non è d'aiuto per capire davvero di più dell'uomo e dell'intellettuale. Si resta in qualche modo estranei alla densità del suo lavoro, alla rete articolata delle sue riflessioni, ai significati della sua complessità.
Per chi di Pasolini sa già molto il film non aggiunge - credo - nulla di più, non apre prospettive nuove.
Forse Abel Ferrara si rivolge primariamente a un pubblico non italiano, portando in primo piano una figura che probabilmente fuori dall'Italia non è così fortemente radicata nell'immaginario collettivo, al fine di suscitare curiosità e farne apprezzare la modernità e un pensiero che va ben al di là delle vicende italiane di quegli anni.
Ciò detto, quella di Ferrara mi pare un'operazione non del tutto compiuta.
Voto: 3/5
Il dato più sorprendente è l'aderenza di Willem Dafoe al suo personaggio. La sovrapposizione dei tratti in alcuni momenti è sorprendente, sebbene l'inevitabilità del doppiaggio toglie un po' di realismo e di verità a questa interpretazione.
In generale, lo sguardo sull'Italia e gli italiani, in particolare su Roma e i romani, risente - non sempre positivamente - di un punto di vista sicuramente informato e attento, ma in qualche modo estraneo ad un certo ambiente culturale non facile da comprendere.
Il film ha una sua coerenza e compattezza apprezzabili: racconta infatti le ultime 24 ore della vita di Pier Paolo Pasolini, dalla sera precedente - durante la quale Pasolini si trovava a Stoccolma per un'intervista - alla sera maledetta dell'omicidio. Nel mentre emerge la vita quotidiana dello scrittore, i suoi rapporti familiari, i suoi progetti cinematografici e di scrittura, la sua personalità complessa.
Dal mio punto di vista ciò che resta debole nel film è la difficoltà di identificare un audience.
Per chi come me di Pasolini sa pochissimo il film non è d'aiuto per capire davvero di più dell'uomo e dell'intellettuale. Si resta in qualche modo estranei alla densità del suo lavoro, alla rete articolata delle sue riflessioni, ai significati della sua complessità.
Per chi di Pasolini sa già molto il film non aggiunge - credo - nulla di più, non apre prospettive nuove.
Forse Abel Ferrara si rivolge primariamente a un pubblico non italiano, portando in primo piano una figura che probabilmente fuori dall'Italia non è così fortemente radicata nell'immaginario collettivo, al fine di suscitare curiosità e farne apprezzare la modernità e un pensiero che va ben al di là delle vicende italiane di quegli anni.
Ciò detto, quella di Ferrara mi pare un'operazione non del tutto compiuta.
Voto: 3/5
sabato 11 ottobre 2014
Frances Ha
Se - come me - fin da quando avete visto il trailer di questo film vi siete chiesti cosa significa Frances Ha (in particolare per cosa sta Ha), sappiate che la risposta arriverà - quasi commovente - solo alla fine della visione e non sarò certo io a darvela! ;-)
Frances Ha, con la sua scelta del bianco e nero e con il suo andamento discontinuo, è - secondo me - un film molto hipster: un po' anarchico, un po' radical chic, un po' adolescenziale, un po' bohèmienne, un po' intellettuale, ma in fin dei conti sostanzialmente tenero.
Frances (Greta Gerwig, compagna del regista Noah Baumbach) è una giovane donna che vive a New York, ha 27 anni e dunque è in quell'età della vita in cui comincia a diventare chiaro cosa vorremmo essere e cosa vorremmo fare, ma le condizioni ancora non consentono effettivamente di tradurre il desiderio in azione.
E così vediamo la nostra Frances passare da un appartamento all'altro per dividere le spese di alloggio, fare i conti con il fatto che Sophie (Mickey Sumner), la sua migliore amica, si innamora di Patch e va a vivere con lui, lavorare come cameriera per racimolare qualche soldo, trascorrere i Natali con i suoi genitori e il suo cane, fare un viaggio da sola a Parigi, cercare un'anima gemella che condivida il suo amore per la vita e la sua giocosità, gestire il suo essere imbranata e tentare di individuare la sua strada nel mondo della danza.
Frances è un personaggio bello e vero, a cui non si può fare a meno di affezionarsi. Una di noi, che si porta dentro una enorme gioia di vivere, ma che a volte si trova a gestire grandi delusioni. Una che deve fare i conti con la necessità di bastare a se stessa - perché solo così si cresce - e, al contempo, ha - come tutti - uno smisurato bisogno di condividere la vita.
Una figura di donna profondamente contemporanea, ma anche capace di travalicare i tempi e di portare in scena caratteristiche che vanno al di là del momento storico.
Peccato per qualche momento di stanchezza nell'andamento del film, che associati alla mia personale stanchezza, mi hanno un po' condizionato nella visione.
Credo che Frances Ha sia destinato a diventare il tipico piccolo film indipendente di culto, che magari non segnerà il percorso di una generazione, ma certamente rappresenterà - nel suo modo semplice e per certi versi minimale - lo stato d'animo di un'età e di un'epoca.
Voto: 3,5/5
Frances Ha, con la sua scelta del bianco e nero e con il suo andamento discontinuo, è - secondo me - un film molto hipster: un po' anarchico, un po' radical chic, un po' adolescenziale, un po' bohèmienne, un po' intellettuale, ma in fin dei conti sostanzialmente tenero.
Frances (Greta Gerwig, compagna del regista Noah Baumbach) è una giovane donna che vive a New York, ha 27 anni e dunque è in quell'età della vita in cui comincia a diventare chiaro cosa vorremmo essere e cosa vorremmo fare, ma le condizioni ancora non consentono effettivamente di tradurre il desiderio in azione.
E così vediamo la nostra Frances passare da un appartamento all'altro per dividere le spese di alloggio, fare i conti con il fatto che Sophie (Mickey Sumner), la sua migliore amica, si innamora di Patch e va a vivere con lui, lavorare come cameriera per racimolare qualche soldo, trascorrere i Natali con i suoi genitori e il suo cane, fare un viaggio da sola a Parigi, cercare un'anima gemella che condivida il suo amore per la vita e la sua giocosità, gestire il suo essere imbranata e tentare di individuare la sua strada nel mondo della danza.
Frances è un personaggio bello e vero, a cui non si può fare a meno di affezionarsi. Una di noi, che si porta dentro una enorme gioia di vivere, ma che a volte si trova a gestire grandi delusioni. Una che deve fare i conti con la necessità di bastare a se stessa - perché solo così si cresce - e, al contempo, ha - come tutti - uno smisurato bisogno di condividere la vita.
Una figura di donna profondamente contemporanea, ma anche capace di travalicare i tempi e di portare in scena caratteristiche che vanno al di là del momento storico.
Peccato per qualche momento di stanchezza nell'andamento del film, che associati alla mia personale stanchezza, mi hanno un po' condizionato nella visione.
Credo che Frances Ha sia destinato a diventare il tipico piccolo film indipendente di culto, che magari non segnerà il percorso di una generazione, ma certamente rappresenterà - nel suo modo semplice e per certi versi minimale - lo stato d'animo di un'età e di un'epoca.
Voto: 3,5/5
mercoledì 8 ottobre 2014
Libraries and public perception
È sempre piuttosto imbarazzante parlare di cose che ci riguardano in prima persona. Però, vista la fatica che mi è costato, credo che devo a me stessa un post sul mio ultimo libro: Libraries and public perception: a comparative analysis of the European press, uscito nell’agosto scorso per i tipi dell’editore inglese Chandos Publishing, del gruppo Elsevier.
Qual è il futuro delle biblioteche? Questa domanda viene spesso posta e negli ultimi anni ha stimolato un’ampia ricerca sull'impatto sociale ed economico delle biblioteche.
La percezione di essere a un punto di svolta nella storia delle biblioteche è diffusa nell'ambiente professionale e, scorrendo la letteratura specializzata sull'argomento, «è facile sviluppare una sensibilità e un apprezzamento per la complessità e la passione con cui questi argomenti sono dibattuti».
Sei anni dopo l'emergere della crisi economica e dopo che lo spostamento verso il Web partecipativo e sociale si può considerare sostanzialmente compiuto, potrebbe essere interessante verificare se il dibattito feroce tra bibliotecari sul futuro delle biblioteche ha avuto una qualche eco nella società generale, quali aspetti di questo dibattito hanno avuto maggiore attenzone e quale percezione del pubblico è veicolata dai mass media.
I quotidiani svolgono un ruolo importante nel formare la percezione pubblica, ma i giornali come presentano le biblioteche, il loro passato, presente e futuro? In questo libro ho provato a rispondere a queste domande verificando quanto e in che modo si parla nella stampa quotidiana delle biblioteche.
In particolare è stata condotta un'analisi testuale comparativa dei giornali in Europa, concentrandosi su Regno Unito, Francia, Italia e Spagna.
3.659 articoli pertinenti provenienti da The Times, The Guardian, Le Monde, Le Figaro, La Repubblica, Corriere della Sera, El Paìs e El Mundo sono stati analizzati e codificati secondo i seguenti parametri: tipo di biblioteca, tema principale dell’articolo, sezione di giornale in cui l'articolo è pubblicato, e - nel caso in cui articolo parla di biblioteche di altri paesi - il paese considerato.
L'analisi quantitativa ha messo in evidenza che:
• quasi la metà degli articoli totali sono dedicati alle biblioteche pubbliche;
• la Francia è il paese più attento verso notizie ed eventi relativi a biblioteche straniere, mentre gli altri paesi sembrano meno interessati a ciò che accade al di fuori dei loro confini;
• i giornali britannici sono i più interessati a dare voce ai lettori e commentatori;
• politica/strategie/gestione, tagli di budget/chiusure, biblioteca digitale/digitalizzazione, servizi/utenti, conservazione/patrimonio/catalogo sono gli argomenti più discussi,
• l'effetto della crisi economica sull'evoluzione del dibattito negli ultimi anni è evidente sia dalla presenza/assenza sia dall’ aumento/diminuzione di alcuni argomenti (ad esempio, "nuove biblioteche/nuovi edifici" è un tema in declino, mentre "chiusure/tagli di bilancio"è in ascesa).
Andando alla ricerca qualitativa, le tematiche sovranazionali che possono essere rintracciate nei giornali sono le seguenti: la biblioteca digitale, in particolare le vicende riguardanti Google Libri e Europeana, le conseguenze della crisi economica in termini di tagli alle biblioteche, privatizzazione e rischi di chiusura, il ruolo delle biblioteche nella società contemporanea e futura e la loro possibile trasformazione.
L'idea di biblioteche veicolata dai giornali è fondamentalmente tradizionale e gli stereotipi riguardanti la natura delle biblioteche e il lavoro dei bibliotecari sono lungi dall'essere superati. Tuttavia, varie e differenziate opinioni emergono dalla lettura degli articoli.
Spogliando i giornali ci si può dunque imbattere in opinioni come questa: «Let's wake up to today's situation, close libraries and use the limited public funds for things that cannot be replaced by technology, such as care for elderly people», o come questa: «Maintaining cultural spaces that help us grow as individuals is the only thing which will save us from this crisis».
Riguardo alla necessità che le biblioteche si rinnovino, c'è qualcuno che commenta sarcasticamente: «I visited my local library this morning where I could have joined the knitting group, used a computer, made photocopies, bought jewellery and a greetings card, rented a DVD, video or CD. What I could not do was borrow any of the books on the Booker shortlist. I could, of course, order them for a small fee», mentre altri suggeriscono che «A library should be at the heart of popular culture and that includes conversation about any aspect of it. Apart from dedicated reading rooms, there is no more reason for a library to be quiet than a shop. May I suggest that librarians should put up signs saying: "This is a library, not a Trappist monastery - feel free to talk"».
Vi è venuta un po' di curiosità? ;-)
I contenuti del libro sono organizzati in cinque capitoli così intitolati: Wondering about the future of libraries; Measuring the value of libraries; Libraries in the newspapers; Contemporary challenges and public perception; Which library model from the newspapers: a synthesis.
Per saperne di più leggi anche i due post pubblicati in SciTechConnet, la newsletter di Elsevier: What is the future of libraries?, con il primo capitolo del libro scaricabile liberamente, e What do people think about the future of libraries?
Qual è il futuro delle biblioteche? Questa domanda viene spesso posta e negli ultimi anni ha stimolato un’ampia ricerca sull'impatto sociale ed economico delle biblioteche.
La percezione di essere a un punto di svolta nella storia delle biblioteche è diffusa nell'ambiente professionale e, scorrendo la letteratura specializzata sull'argomento, «è facile sviluppare una sensibilità e un apprezzamento per la complessità e la passione con cui questi argomenti sono dibattuti».
Sei anni dopo l'emergere della crisi economica e dopo che lo spostamento verso il Web partecipativo e sociale si può considerare sostanzialmente compiuto, potrebbe essere interessante verificare se il dibattito feroce tra bibliotecari sul futuro delle biblioteche ha avuto una qualche eco nella società generale, quali aspetti di questo dibattito hanno avuto maggiore attenzone e quale percezione del pubblico è veicolata dai mass media.
I quotidiani svolgono un ruolo importante nel formare la percezione pubblica, ma i giornali come presentano le biblioteche, il loro passato, presente e futuro? In questo libro ho provato a rispondere a queste domande verificando quanto e in che modo si parla nella stampa quotidiana delle biblioteche.
In particolare è stata condotta un'analisi testuale comparativa dei giornali in Europa, concentrandosi su Regno Unito, Francia, Italia e Spagna.
3.659 articoli pertinenti provenienti da The Times, The Guardian, Le Monde, Le Figaro, La Repubblica, Corriere della Sera, El Paìs e El Mundo sono stati analizzati e codificati secondo i seguenti parametri: tipo di biblioteca, tema principale dell’articolo, sezione di giornale in cui l'articolo è pubblicato, e - nel caso in cui articolo parla di biblioteche di altri paesi - il paese considerato.
L'analisi quantitativa ha messo in evidenza che:
• quasi la metà degli articoli totali sono dedicati alle biblioteche pubbliche;
• la Francia è il paese più attento verso notizie ed eventi relativi a biblioteche straniere, mentre gli altri paesi sembrano meno interessati a ciò che accade al di fuori dei loro confini;
• i giornali britannici sono i più interessati a dare voce ai lettori e commentatori;
• politica/strategie/gestione, tagli di budget/chiusure, biblioteca digitale/digitalizzazione, servizi/utenti, conservazione/patrimonio/catalogo sono gli argomenti più discussi,
• l'effetto della crisi economica sull'evoluzione del dibattito negli ultimi anni è evidente sia dalla presenza/assenza sia dall’ aumento/diminuzione di alcuni argomenti (ad esempio, "nuove biblioteche/nuovi edifici" è un tema in declino, mentre "chiusure/tagli di bilancio"è in ascesa).
Andando alla ricerca qualitativa, le tematiche sovranazionali che possono essere rintracciate nei giornali sono le seguenti: la biblioteca digitale, in particolare le vicende riguardanti Google Libri e Europeana, le conseguenze della crisi economica in termini di tagli alle biblioteche, privatizzazione e rischi di chiusura, il ruolo delle biblioteche nella società contemporanea e futura e la loro possibile trasformazione.
L'idea di biblioteche veicolata dai giornali è fondamentalmente tradizionale e gli stereotipi riguardanti la natura delle biblioteche e il lavoro dei bibliotecari sono lungi dall'essere superati. Tuttavia, varie e differenziate opinioni emergono dalla lettura degli articoli.
Spogliando i giornali ci si può dunque imbattere in opinioni come questa: «Let's wake up to today's situation, close libraries and use the limited public funds for things that cannot be replaced by technology, such as care for elderly people», o come questa: «Maintaining cultural spaces that help us grow as individuals is the only thing which will save us from this crisis».
Riguardo alla necessità che le biblioteche si rinnovino, c'è qualcuno che commenta sarcasticamente: «I visited my local library this morning where I could have joined the knitting group, used a computer, made photocopies, bought jewellery and a greetings card, rented a DVD, video or CD. What I could not do was borrow any of the books on the Booker shortlist. I could, of course, order them for a small fee», mentre altri suggeriscono che «A library should be at the heart of popular culture and that includes conversation about any aspect of it. Apart from dedicated reading rooms, there is no more reason for a library to be quiet than a shop. May I suggest that librarians should put up signs saying: "This is a library, not a Trappist monastery - feel free to talk"».
Vi è venuta un po' di curiosità? ;-)
I contenuti del libro sono organizzati in cinque capitoli così intitolati: Wondering about the future of libraries; Measuring the value of libraries; Libraries in the newspapers; Contemporary challenges and public perception; Which library model from the newspapers: a synthesis.
Per saperne di più leggi anche i due post pubblicati in SciTechConnet, la newsletter di Elsevier: What is the future of libraries?, con il primo capitolo del libro scaricabile liberamente, e What do people think about the future of libraries?
lunedì 6 ottobre 2014
Fish / Bianca Bagnarelli
Fish / Bianca Bagnarelli. London: Nobrow, 2014.
Fish è un racconto breve a fumetti con cui Bianca Bagnarelli ha voluto impreziosire la collana 17x23 della Nobrow Press.
Protagonista è Milo, un preadolescente costretto anzitempo a fare i conti con l’idea della morte. Milo infatti vive con i nonni dopo che i suoi genitori sono morti in un incidente stradale e i loro corpi sono stati riportati a riva dalla corrente del fiume nel quale sono finiti.
Da allora Milo non riesce a non vedere i segnali della morte e della decomposizione (presente o futura) nel mondo vivente circostante.
La scomparsa di una ragazza e il ritrovamento del suo cadavere – anch’esso restituito dall’acqua – metteranno Milo di fronte a quello da cui è attratto e imprigionato al contempo.
Questa sarà per lui l’occasione per voltare pagina, traghettandolo inevitabilmente e forse un po’ prematuramente all’età adulta, all’abbandono definitivo dell’incoscienza e della spensieratezza.
Un delicato racconto di coming of age che, con un disegno attento e una sceneggiatura minimale ma realistica, ci conduce nel cuore fragile e ancora tenero di un ragazzo costretto suo malgrado a farsi uomo.
Voto: 3,5/5
Fish è un racconto breve a fumetti con cui Bianca Bagnarelli ha voluto impreziosire la collana 17x23 della Nobrow Press.
Protagonista è Milo, un preadolescente costretto anzitempo a fare i conti con l’idea della morte. Milo infatti vive con i nonni dopo che i suoi genitori sono morti in un incidente stradale e i loro corpi sono stati riportati a riva dalla corrente del fiume nel quale sono finiti.
Da allora Milo non riesce a non vedere i segnali della morte e della decomposizione (presente o futura) nel mondo vivente circostante.
La scomparsa di una ragazza e il ritrovamento del suo cadavere – anch’esso restituito dall’acqua – metteranno Milo di fronte a quello da cui è attratto e imprigionato al contempo.
Questa sarà per lui l’occasione per voltare pagina, traghettandolo inevitabilmente e forse un po’ prematuramente all’età adulta, all’abbandono definitivo dell’incoscienza e della spensieratezza.
Un delicato racconto di coming of age che, con un disegno attento e una sceneggiatura minimale ma realistica, ci conduce nel cuore fragile e ancora tenero di un ragazzo costretto suo malgrado a farsi uomo.
Voto: 3,5/5
mercoledì 1 ottobre 2014
Dragon trainer 2
Non volevo assolutamente perdere questa seconda puntata della saga di Hiccup, l’addestratore di draghi, perché il primo film - abbastanza inaspettatamente - mi era piaciuto moltissimo. Avendo sentito amici magnificare questo secondo come addirittura superiore al primo, mi sono fiondata al Cinema dei piccoli di Roma cercando di non lasciarmi sfuggire una delle ultime possibilità di vederlo.
Dunque, il film mi è piaciuto e ci ho ritrovato molte delle cose che avevo apprezzato nel primo: il rapporto genitori/figli, il pacifismo, l’accoglienza della diversità, l’entusiasmo della gioventù, la ricerca della propria identità, il desiderio della scoperta, l’importanza dell’amicizia e del riconoscimento reciproco.
In questo secondo capitolo, Hiccup è ormai ventenne e abita in una comunità in cui draghi e umani convivono pacificamente e gioiosamente. Ma il ragazzo è animato dal sacro fuoco della ricerca e della scoperta e dunque insieme a “sdentato” (la furia buia) è sempre in esplorazione del mondo e - con i numerosi accessori “tecnologici” che ha inventato - sta provando a tracciare la mappa del mondo conosciuto. Hiccup è un giovane che in qualche modo sta ancora cercando il proprio posto nel mondo.
In uno di questi viaggi esplorativi Hiccup si imbatte in un gruppo di cacciatori di draghi, seguendo i quali arriverà prima un mondo popolato di draghi nel quale ritroverà sua madre (perduta durante i primissimi anni di vita), poi dovrà fare i conti con un malvagio che utilizzando la forza dei draghi vuole diventare il padrone del mondo.
Nella classica lotta del bene contro il male (di cui potete già immaginare l’esito), le cose più belle e più importanti stanno nel mezzo, ossia in quel passaggio delicato nella vita di un uomo nel quale questi deve assumersi le proprie responsabilità e per farlo deve prendere le distanze dalla propria famiglia di origine e dall’affetto dei propri genitori. Quel momento cruciale in cui è possibile riconoscere le proprie specificità solo dopo aver accettato il senso di continuità con le nostre radici e averlo fatto proprio.
Insomma, una bella favola ricca di avventura e di buoni sentimenti che piacerà a tutti coloro che non smettono mai di cercare se stessi.
Voto: 3/5
Dunque, il film mi è piaciuto e ci ho ritrovato molte delle cose che avevo apprezzato nel primo: il rapporto genitori/figli, il pacifismo, l’accoglienza della diversità, l’entusiasmo della gioventù, la ricerca della propria identità, il desiderio della scoperta, l’importanza dell’amicizia e del riconoscimento reciproco.
In questo secondo capitolo, Hiccup è ormai ventenne e abita in una comunità in cui draghi e umani convivono pacificamente e gioiosamente. Ma il ragazzo è animato dal sacro fuoco della ricerca e della scoperta e dunque insieme a “sdentato” (la furia buia) è sempre in esplorazione del mondo e - con i numerosi accessori “tecnologici” che ha inventato - sta provando a tracciare la mappa del mondo conosciuto. Hiccup è un giovane che in qualche modo sta ancora cercando il proprio posto nel mondo.
In uno di questi viaggi esplorativi Hiccup si imbatte in un gruppo di cacciatori di draghi, seguendo i quali arriverà prima un mondo popolato di draghi nel quale ritroverà sua madre (perduta durante i primissimi anni di vita), poi dovrà fare i conti con un malvagio che utilizzando la forza dei draghi vuole diventare il padrone del mondo.
Nella classica lotta del bene contro il male (di cui potete già immaginare l’esito), le cose più belle e più importanti stanno nel mezzo, ossia in quel passaggio delicato nella vita di un uomo nel quale questi deve assumersi le proprie responsabilità e per farlo deve prendere le distanze dalla propria famiglia di origine e dall’affetto dei propri genitori. Quel momento cruciale in cui è possibile riconoscere le proprie specificità solo dopo aver accettato il senso di continuità con le nostre radici e averlo fatto proprio.
Insomma, una bella favola ricca di avventura e di buoni sentimenti che piacerà a tutti coloro che non smettono mai di cercare se stessi.
Voto: 3/5
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