mercoledì 26 ottobre 2011

ITIS Galileo / Marco Paolini

C’è ancora qualcuno che è in grado di parlare ai giovani con sincerità e profondità, ma anche assicurando loro quell’approccio ludico che tanto gli appartiene. Questo qualcuno è Marco Paolini, grande affabulatore che viene dal Nord-Est e che riesce a portare al Teatro Argentina di Roma un numero di giovani (ragazzi di scuola superiore e di università) che era forse dai tempi della mia di scuola (ormai più di 20 anni fa) che non vedevo in così grande numero a uno spettacolo teatrale.

E alla fine di due (e dico due!) ore di monologo sono questi stessi giovani i più convinti nel battere le mani a questo trascinatore che ha saputo divertirli, incantarli, affascinarli raccontandogli nient’altro se non la storia di Galileo Galilei.

Che dire di nuovo su Galileo? Non ci hanno forse già raccontato tutto? Forse sì. Eppure Paolini sembra parlarci di qualcosa di nuovo e lo fa in un modo che è tutto suo e che è assolutamente originale.

Paolini ci racconta la vicenda umana di Galilei, la sua grandezza intellettuale e le sue piccinerie, lo esalta e lo ridicolizza, e attraverso di lui ci descrive un intero contesto culturale, italiano e non solo, richiamando grandi figure di suoi contemporanei, da Keplero a William Shakespeare.

Parlare di Galileo Galilei non è solo uno sguardo gettato su un mondo lontano dal nostro, di cui Paolini ci fornisce dovizia di informazioni e di dati storici, bensì anche un’occasione di riflessione sul mondo presente, cui non mancano i riferimenti sempre sul confine sottile tra il serio e il faceto.

In un certo senso, la vicenda di Galilei non è altro che l’occasione per raccontare vizi e virtù di un’Italia che in alcune sue caratteristiche non è affatto cambiata in 500 anni di storia.

Tutti avremmo voluto avere a scuola un professore come Marco Paolini, uno che recita l’Amleto nella sua lingua madre, il veneto, uno che è capace di rileggere Il dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo come una rappresentazione da commedia dell’arte, uno che racconta la storia della scienza con una passione che è a metà strada tra quella del neofita e del cultore della materia.

Oggi - come e più di ieri – abbiamo bisogno dell’arte del racconto, della narrazione. L’antichità aveva gli aedi, i cantastorie che nei poemi tramandati di generazione in generazione racchiudevano e consegnavano al futuro realtà, fantasia, mito, insegnamenti morali, letture sociali, convinzioni religiose.

In fondo Paolini non è altro che un moderno aedo che dà nuova vita alle storie del nostro passato prossimo e remoto arricchendole di significati ulteriori e portando alla luce quelli nascosti tra le pieghe delle pagine della storia ufficiale.

È per questo che giovani e meno giovani finiscono conquistati da questo flusso di parole come tutte le volte in cui da bambini qualcuno li ha presi tra le braccia o fatti sedere sulle ginocchia e gli ha sussurrato all’orecchio: “Ora ti racconto una storia”.

Voto: 4/5

martedì 25 ottobre 2011

Arrietty

Piccoli Miyazaki crescono. E così, da un progetto e una sceneggiatura di Hayao Miyazaki, Hiromasa Yonebayashi ha realizzato un film che è perfettamente congruente con la poetica e lo stile del grande maestro nipponico.

Protagonista è Arrietty, una apparentemente normalissima adolescente che vive con padre e madre in una casetta dove non manca nulla, e che si rifugia nella sua stanzetta che sembra un pezzo di bosco. In realtà Arrietty non è un’adolescente qualunque, bensì appartiene al popolo dei "prendinprestito", creature alte come un palmo di mano che costruiscono le loro case con i materiali di scarto degli umani, attenti a non farsi mai vedere da loro per evitare di suscitarne la morbosa curiosità e gli eventuali rischi per la propria sopravvivenza.

E infatti i problemi per Arrietty cominciano quando nella casa sotto il cui pavimento vive la sua famiglia arriva Sho, un ragazzino umano, nipote della proprietaria, malato di cuore, che ne avverte immediatamente la presenza e cerca di interagire con lei.

Le peripezie non mancheranno quando la governante della casa, un po’ stupida e ignorante, si metterà in testa di catturare questi gnomi-ladri, andando a sconvolgere il sereno equilibrio della famiglia di Arrietty.

Grazie all’aiuto di Sho e di un altro rappresentante del popolo dei “prendinprestito” tutto finirà per il meglio, sebbene Arrietty e la sua famiglia saranno destinati a cercare una nuova casa.

Quello di Miyazaki e dei suoi allievi è un mondo che ha sempre delle caratteristiche ben precise: una fortissima presenza dell’elemento naturalistico, anche quando – come in questo caso – la storia è sostanzialmente ambientata nella periferia di una grande città, una natura che quasi sempre è oltraggiata o dimenticata dall’uomo; il protagonismo assoluto di bambini e anziani, gli uni a rappresentare una sguardo ancora innocente e coraggioso sul mondo, gli altri una saggezza antica e un connubio col mondo naturale e soprannaturale, qualità che in entrambi i casi fanno difetto all’età adulta troppo legata alle necessità materiali e sottomessa al predominio assoluto della ragione; la cattiveria umana come conseguenza della stupidità e dell’ignoranza, ovvero del torto subito; il rapporto degli esseri umani con il diverso, il fantastico, il soprannaturale, di solito rifiutato e spesso minacciato nella sua stessa sopravvivenza.

Miyazaki sembra sempre richiamare una specie di età dell’oro, un’epoca mitica in cui l’umanità viveva in armonia con la natura e l’universo in tutte le sue manifestazioni ed aveva – proprio per questo – accesso ai mondi nascosti e soprannaturali che oggi gli sono preclusi.

Ma questo richiamo che all’inizio della sua carriera si tramutava in denuncia e in veri e propri manifesti sociali come in Nausicaa della Valle del vento, e che poi si è tradotto negli incubi tetri e angoscianti della Chihiro de La città incantata e nel pessimismo metafisico del Castello errante di Howl, negli ultimi film sembra essersi come diluito in una visione più rassegnata e pacificata, quasi ottimista del mondo e delle sue prospettive, una visione che era riconoscibile anche in alcuni film del passato come Il mio vicino Totoro.

Miyazaki sembra quasi dirci che c’è ancora speranza e che quella speranza sta nella capacità che i bambini hanno di ascoltare e di essere in comunione con l’universo circostante, nel loro entusiasmo e nella loro voglia di vivere e di ricominciare, come i protagonisti di questo film ma anche quelli di lavori precedenti come Ponyo sulla scogliera.

Non a caso in questi ultimi film sfornati dallo studio Ghibli tornano prepotenti l’umorismo e la caratterizzazione più tipici dei cartoni giapponesi (e che ci ricordano tanto la nostra infanzia anni ’80) e che, ad esempio, erano presenti in film come Porco rosso.

Forse è arrivato anche per Miyazaki il momento di ricomporre i turbamenti e la violenza emotiva del passato in un presente sospeso in una dimensione intermedia tra reale e onirico, dove in fondo tutto torna al suo posto.

Il pubblico dei più piccoli – schiacciato dalla complessità narrativa e di significati di film come La città incantata – in questo film ammutolisce catturato dalla storia dei “prendinprestito” che si muovono come antichi esploratori in un mondo in cui tutto è enorme e anche catturare una zolletta di zucchero è un’impresa che richiede coraggio e fantasia, e scoppia in fragorose risate di fronte alle “gag” di alcuni dei personaggi.

Certo, per me la visionarietà di film come La città incantata e Il castello errante di Howl, cui fanno eco alcune invenzioni contenute in Ponyo sulla scogliera, è un’inarrivabile vetta della filmografia del maestro nipponico, di fronte alla quale questa recente svolta dello studio Ghibli sa di più convenzionale.

Detto questo, non mi perderei uno di questi cartoni praticamente per nulla al mondo. Anche quando mi tocca in sorte di andare a vederli al Cinema dei piccoli (il più piccolo edificio del mondo adibito a cinema), dove in uno spazio tutto a misura di bambino (dalle sedioline ai bagni) sono attorniata da una quarantina di bimbi urlanti e sgranocchianti patatine e pop corn. Ma in fondo io lì mi sento molto a mio agio.

Se Miyazaki mi vedesse mi strizzerebbe certamente l’occhio.

Voto: 3,5/5

lunedì 24 ottobre 2011

Cassandra

Seguo Elisabetta Pozzi dal momento in cui più di 10 anni fa ho avuto occasione di vederle interpretare una straordinaria regina Elisabetta nell’opera teatrale Maria Stuarda, tratta da un testo di Dacia Maraini.
Da allora non ho perso occasione di andare ad ascoltarla a teatro o in qualunque altra circostanza mi sia stata data la possibilità di vederla recitare.

Nel tempo ho anche imparato ad apprezzarla come persona, per la modestia e per l’intelligenza, che – pur non conoscendola di persona – vengono fuori dal suo modo di essere in scena e fuori della scena.

Trovo di sorprendente sensibilità la sua capacità nel tempo di scegliere testi e personaggi che ne rispecchiano il trascorrere delle età della vita e il percorso emotivo che caratterizzano queste diverse fasi dell'esistenza. Ad esempio, oggi non la vedrei più nei panni dell’Elisabetta di Maria Stuarda, mentre l’ho trovata perfetta l’anno scorso in quelli della protagonista dell’adattamento teatrale di Tutto su mia madre, così come è certamente a suo agio nelle vesti sdrucite di Cassandra (in scena al Teatro Vascello dal 19 al 23 ottobre).

Sono dunque passati i tempi dei personaggi potenti e volitivi, vincenti e assertivi, quelli che si sposano perfettamente con le ampie prospettive di un’età adulta che si porta dietro tutto lo slancio della gioventù; al contrario, questa nuova fase della vita e della carriera artistica di Elisabetta trova voce in personaggi più dolenti e destinati a fare i conti con la sconfitta e il dolore.

La Cassandra interpretata da Elisabetta Pozzi porta su di sé i segni degli errori del popolo troiano e, attraverso di esso, quelli dell’umanità intera accecata dal mito di un progresso senza fine e senza battute d’arresto, dall’utopia della sconfitta del male in ogni sua forma, dal senso di invincibilità contro tutti i profeti di sventure, dall'inseguimento di un futuro inghiottito a ritmi sempre più frenetici.

La preveggenza di Cassandra non è altro che la capacità di leggere i segni del presente, una specie di sensibilità acuita ed esasperata che rende inevitabilmente questa donna sola e sempre in bilico sul baratro della follia.

Questa Cassandra, o del tempo divorato è un progetto ambizioso ma forse non perfettamente riuscito.

Ambizioso perché tenta di amalgamare testi antichi (Eschilo, Seneca, Euripide) e moderni (Christa Wolf, Jean Baudrillard, nonché testi di Massimo Fini), linguaggi e registri differenti (la parola, la musica, la danza). La recitazione intensa di Elisabetta si intreccia con il tessuto musicale curato da Daniele D'Angelo e il tessuto corporeo rappresentato dal movimento in scena di tre corpi, quelli del mimo giapponese Hal Yamanouchi e di Carlotta Bruni e Rosa Merlino, sulle coreografie di Aurelio Gatti.

La scena è del tutto spoglia; solo un giaciglio inclinato e scivoloso, coperto da un lungo drappo. Ma Elisabetta/Cassandra ci aiuta a immaginare le rovine di Troia, i morti troiani, il dolore delle donne, il senso di disperazione e il ritorno di Agamennone vittorioso a Micene. Elisabetta/Cassandra parla con inesistenti personaggi in scena infondendogli vita.

Questo spettacolo è stato finora rappresentato in ambientazioni suggestive e coerenti con il testo, teatri romani e aree archeologiche presenti in varie parti del nostro paese. Il Teatro Vascello, pur riproducendo la forma del teatro classico (area di scena in basso e pubblico tutt'intorno su gradinate ascendenti), offre invece uno spazio nero, plasmato dalle luci e dai movimenti in scena di Cassandra e dei tre ballerini, e anche per questo il compito di Elisabetta risulta ancora più arduo e la sfida ancora più interessante.

Dico che Cassandra è in parte un progetto incompiuto perché il linguaggio della tragedia greca ha una forza di per se stesso e nel suo essere antico trasmette una potenza che la recitazione di Elisabetta accompagna ed esalta, mentre i testi contemporanei che, nella prima parte squarciano il linguaggio aulico dell'antichità sorprendendo piacevolmente l'uditorio, nella seconda parte - lasciati soli - non reggono il confronto, si trasformano in astratto contenuto didascalico che richiede il necessario sostegno di un climax recitativo e musicale.

Nelle mani di un'altra attrice questa Cassandra sarebbe forse diventata puramente strumentale ad una riflessione senza sfaccettature sul presente; grazie ad Elisabetta Pozzi invece acquista spessore umano, identità, individualità, ambiguità, insomma quella complessità che è la forza dei personaggi delle tragedie greche e che può diventare la forza di un teatro contemporaneo capace di parlare alle nostre menti e ai nostri cuori senza cedere al richiamo della semplificazione.

Voto: 3,5/5

venerdì 21 ottobre 2011

Un giorno / David Nicholls

Un giorno / David Nicholls; trad. di Marco Rossari e Lucio Trevisan. Milano: Neri Pozza, 2010.

Durante tutta la lettura del libro non ho mai smesso di pensare: "Sarebbe una fantastica sceneggiatura!". E con questa considerazione probabilmente ho già detto tutto della mia opinione su di esso, sia in positivo (libro leggibile e godibile, facilmente traducibile in immagini mentali), sia in negativo (storia interessante, ma gestita in modo un po’ semplicistico sia dal punto di vista narrativo che dal punto di vista linguistico).

Scopro ora, a libro terminato, che effettivamente sta per uscire – anche in Italia – un film tratto da questo romanzo che avrà come protagonisti Jim Sturgess nella parte di Dexter e Anne Hathaway in quella di Emma.

Come ha detto giustamente qualcun altro, la storia dell’amicizia/amore tra Emma e Dexter ricorda un po’ quella famosissima di Harry, ti presento Sally, interpretata dagli splendidi Billy Crystal e Meg Ryan.
Anche in questo caso infatti Nicholls ci racconta l’evolversi del rapporto tra un uomo e una donna durante un lungo periodo di tempo, quello che va dal 1989 (l’anno della loro laurea) ai primi anni duemila.

Il dato affascinante è che di tutti questi anni ci viene raccontato sempre e soltanto un giorno, il 15 luglio (San Swithin), il giorno in cui la storia di Em e Dex è cominciata nel 1989 e che li ha visti nel corso degli anni in certi casi lontanissimi (sia geograficamente sia nelle esperienze), in altri vicinissimi, in altri casi ancora sfiorarsi e mancarsi per un soffio.

Dexter proviene da una famiglia ricca, ha una vita più facile e più avventurosa, ma anche più sregolata e inconcludente. Emma deve lottare strenuamente per ottenere quello che vuole, per far riconoscere le sue capacità e il suo talento, donna quadrata, determinata e ricca di sfumature. Certamente la parte migliore del libro, giacché tanto Dexter appare un po’ eccessivo e complessivamente antipatico (fino a risultare poco credibile la sua mutazione degli ultimi capitoli), quanto Emma è un personaggio affascinante, complesso, vero in tutte le sue sfaccettature.

Sarà perché gli anni Ottanta appartengono a un passato quasi remoto nella mia mente, o perché gli anni universitari e immediatamente successivi per me personalmente rappresentano una specie di era precedente della mia vita, ma ho fatto molta fatica a leggere la prima parte del libro. E sono stata più volte tentata di abbandonarne la lettura.

Poi sono finalmente arrivata ai trent’anni di Emma e Dex, alla maturità, alla scoperta di sé e improvvisamente il romanzo ha cominciato a risultarmi interessante e a ispirarmi emozioni e riflessioni che erano state fin lì praticamente assenti. Certo, mi sarei risparmiata il melò degli ultimi capitoli, ma a quel punto in qualche modo – per me sempre misterioso – il libro mi aveva conquistata.

Non un capolavoro, come il battage pubblicitario e l’uso di sponsor quali Nick Hornby e Jonathan Coe farebbero pensare, bensì un onesto prodotto letterario, certo migliore della media che invade le librerie. L’ispirazione è sincera, la ricostruzione interiore ed esteriore di questi ultimi trent’anni è giusta, la dimensione emotiva non è banale. Il tutto però appare complessivamente un po’ convenzionale, sa come di già letto, di già visto, di già sentito.

Manca insomma quel guizzo di originalità, quella irripetibile invenzione autoriale che fa di un bestseller un longseller destinato ad attraversare le generazioni.

Voto: 3/5

lunedì 17 ottobre 2011

Un giorno al museo: Padova

Una domenica di inizio autunno. Una Padova caratterizzata da un cielo terso e da un’aria che comincia a sapere di legno bruciato è lo scenario di una passeggiata artistica molto intensa.

Si doveva cominciare dalla Cappella degli Scrovegni, ma C. scopre solo all’ultimo che ha prenotato per il giorno sbagliato e l’orario sbagliato! Per fortuna un signore gentilissimo alla cassa ci riprenota per l’ingresso delle 18.45. Abbiamo così tutto il tempo per sfruttare appieno il nostro biglietto, visto che ci consente l’accesso anche ai Musei civici, che comprendono il Museo Archeologico e il Museo di Arte Medievale e Moderna, e a Palazzo Zuckerman.

Saltato a piè pari il Museo Archeologico, il percorso attraverso il Museo di Arte Medievale e Moderna, che comprende una ricchissima Pinacoteca ed è preceduta da uno spazio dedicata alla collezione privata di Emo Capodilista, lo facciamo in volata, soffermandoci giusto su qualche Giorgione e Tiziano. È inevitabile pensare che ci sono state epoche nella storia dell'umanità in cui l’insegnamento della pittura (e della musica) faceva parte dell’educazione dei bambini di buona società. Non c’è dubbio, infatti, che andando a visitare le numerose Pinacoteche che offre il nostro paese e quelle di altre parti dell’Europa si abbia l’impressione che nei secoli che vanno dal XVI al XIX il numero di quadri realizzati sia stato esorbitante rispetto alla popolazione che poteva dedicarsi alle arti.

E così è inevitabile il pensiero che in mezzo a quella lunga teoria di tele e sculture ci sia anche tanta produzione un po’ mediocre e che però ha contribuito a fare la storia dei luoghi e delle persone. Allora come oggi di geni superdotati non ne nascono tutti i giorni. E quindi tra i numerosi prodotti di bravi “artigiani” della pittura ogni tanto spicca qualcosa che per l’originalità o la qualità del tratto testimonia della grandezza del suo autore.

Usciti dalla Pinacoteca, ci dirigiamo verso Palazzo Zuckermann (che sta esattamente dall’altro lato della strada), dove in una splendida ambientazione si trova il Museo di Arti Applicate e Decorative e sono ospitate delle mostre temporanee più o meno interessanti.

Il Museo di Arti Applicate organizza in un percorso cronologico oggetti d’arredo, abbigliamento, porcellane, oreficeria portandoci all’interno della vita quotidiana e delle case della nobiltà dell’epoca. Si tratta di uno di quei musei che trovo piuttosto interessanti e che penso sempre potrebbero diventare ancora più affascinanti se fossero organizzati in modo meno convenzionale e più interattivo, ossia se dessero la possibilità ai visitatori di non essere soltanto spettatori inerti, ma in qualche modo protagonisti, se offrissero maggiori occasioni di contestualizzare i contenuti, anche grazie alle possibilità oggi offerte dalla tecnologia.

Mi viene in mente a questo proposito il Museo de Sao Roque di Lisbona, un museo di arte sacra dei proprietà dei Gesuiti, che riesce - proprio grazie a questa filosofia – a rendere interessante un patrimonio che di suo potrebbe apparire anche convenzionale e che ci permette di capire la storia di una congregazione attraverso la sua produzione artistica (e non solo), senza abbandonarci a noi stessi in un percorso esclusivamente temporale.

Dopo aver rifiutato la cortese proposta del vecchietto che sorveglia le sale che abbiamo appena visitato di farci accompagnare alla sezione di numismatica (il Museo Bottacin), torniamo per strada e ci diciamo che - visto che oggi è proprio giorno di immersione nell’arte - potremmo provare ad andare a vedere la mostra sul Simbolismo in Italia, da qualche giorno aperta a Palazzo Zabarella.

All’ingresso non c’è fila e così ci pare che sia proprio destino. Nello stesso luogo avevo già visto la mostra Da Canova a Modigliani. Il volto nell’Ottocento, che mi era piaciuta molto e dunque entro con grandi aspettative, ma conoscendo il tipo di spazi che ci accoglieranno. Purtroppo la prima sala – che in questo caso è dedicata a ritratti e autoritratti dei principali artisti protagonisti della mostra – ha davvero una struttura infelice con queste quattro colonne rivestite di verde intorno alle quali si collocano, un po’ nascoste, le prime tele e sculture. Chissà che per il futuro non si possa fare qualcosa per rendere questo primo impatto con le mostre di Palazzo Zabarella più fluido e attraente.


Per il resto si conferma ai miei occhi la qualità di questi allestimenti che offrono un’articolazione non solo cronologica, ma anche tematica, e che utilizzano cartelli esplicativi piuttosto efficaci, oltre che citazioni letterarie e sottolineature delle connessioni che un certo movimento o tema artistico può avere con le altre espressioni culturali del medesimo periodo storico, nonché con le suggestioni che provengono dalla contemporanea produzione d’oltralpe.

Il percorso si chiude sempre con un’opera di un maestro molto famoso e internazionalmente conosciuto, in questo caso si tratta della Giuditta II/Salome di Klimt, ma in realtà l'intento della mostra è farci conoscere i tratti specifici che il simbolismo assunse in Italia per mano dei suoi protagonisti, da Pellizza da Volpedo a Giulio Aristide Sartorio, da Giovanni Segantini a Gaetano Previati. Nel fare questo ci propone non solo dipinti, ma anche sculture e una divertente sezione di grafica in bianco e nero, che getta una luce particolare sul carattere specifico che questa corrente artistica ebbe in Italia.
E così, al di là dal giudizio estetico personale sulle opere in mostra, si esce da Palazzo Zabarella certamente sapendone qualcosa in più su pittori magari già conosciuti ed altri appena sentiti nominare.

È ora di tornare a casa a fare uno spuntino, prima di giungere all’appuntamento più atteso, la visita alla Cappella degli Scrovegni. Tacendo del fatto che stiamo per perdere l’ingresso del nostro turno, perché non abbiamo capito che dovevamo aspettare proprio davanti all’ingresso della cappella e pensiamo erroneamente che qualcuno ci chiamerà, ci ritroviamo in una prima saletta dove ci viene mostrato un video che ci illustra la storia della Cappella e il ciclo pittorico che in esso è contenuto.

Scopriamo così che la cappella fu fatta costruita da Enrico degli Scrovegni per garantire la salvezza ultraterrena per suo padre - che in vita si era macchiato del peccato dell’usura - e per se stesso, una forma di ipoteca sulla vita dopo la morte. Scrovegni affidò la realizzazione degli affreschi a Giotto, già famoso a quel tempo, e delle sculture a Giovanni Pisano. La cappella era collocata a ridosso del palazzo poi abbattuto e anche per questo gli affreschi subirono numerosi danni. Dopo un lungo restauro la cappella ha ritrovato il suo originario splendore.

E – devo ammettere – che sostare sotto il cielo stellato che ricopre l’intera volta, stando con il naso per aria a seguire questa striscia di vignette che racconta una vera e propria storia di famiglia, da quella di Gioacchino ed Anna, a quella della loro figlia Maria, infine a quella di Gesù fino alla sua morte, resurrezione, ascensione e alla discesa dello spirito santo sugli apostoli, è assolutamente emozionante.

Alcuni degli affreschi sono particolarmente famosi, per esempio il bacio di Giuda a Gesù, ovvero la scena della strage degli innocenti con la rappresentazione della disperazione delle donne a cui vengono sottratti i figli.
L’affresco sulla contro-facciata è una maestosa scena di giudizio universale, con Dio al centro nella sua gloria e ai suoi piedi da un lato l’umanità destinata alle pene dell’inferno, dall’altro quella destinata al paradiso, vicino la quale Scrovegni fa rappresentare anche se stesso in un atto di contrizione e remissione dei peccati.

A inquadrare il tutto finti marmi e paesaggi che creano profondità e danno preziosità all’insieme. Il risultato è grandioso ed affascinante e credo non sia azzardato né eccessivo fare un parallelo con la Cappella Sistina, in cui il genio di Michelangelo in qualche modo rilegge in forma innovativa la stessa ispirazione artistica.

Mi fa impressione questa città che si inserisce in una zona dell’Italia ad altissima densità storico-artistica e che oggi si caratterizza soprattutto per un’urbanizzazione e un’industrializzazione quasi senza soluzione di continuità.

Il contrasto tra bellezza e bruttezza è spesso privo di giustificazioni. Per fortuna la riscoperta della bellezza semplice del passato riesce sempre a trovare una propria strada tra i manierismi un po’ forzati del presente.

domenica 16 ottobre 2011

La pelle che abito

Almodovar è fatto un po’ così. Gli piace cambiare genere e registro narrativo, pur mantenendo del tutto riconoscibile e inimitabile lo stile.

Così, dopo un film-omaggio e un po’ retro come Gli abbracci spezzati, il regista torna al cinema con La pelle che abito, un film destinato a non lasciare indifferenti e a cui solo una lenta metabolizzazione può conferire un significato che vada al di là della sensazione disturbante e contraddittoria che ci accompagna per tutta la visione.

Dal mio punto di vista il film va valutato al netto di Almodovar, cioè dopo aver identificato e in qualche modo fatto la tara a tutti gli eccessi che gli sono propri: la naiveté (ai limiti dell'involontariamente comico) di certi dialoghi, gli inserti kitsch, la ridondanza e la sovrabbondanza, il citazionismo esasperato, la componente meta-cinematografica, l’oscillazione continua tra splatter e asettico, tra surreale e grottesco, tra tragico e comico. Come accade spesso in Almodovar, alcune delle sue soluzioni suscitano il sorriso del paradosso del tutto gratuito.

Detto questo, il tema del film è stimolante e – pur contenendo alcuni degli elementi portanti della sua cinematografia, tra cui l’identità di genere, il rapporto tra forma ed essenza, il travestitismo, l’amore come pazzia – va decisamente al di là di essi.

Robert (un Antonio Banderas particolarmente magro ed invecchiato, ma pur sempre affascinante) è un medico chirurgo che sta sperimentando la possibilità di trapiantare sul corpo umano una pelle realizzata a partire da esperimenti eseguiti sui maiali. L’ossessione di Robert per la fisicità dei corpi e per la loro apparenza esteriore (testimoniata dalla pervasiva presenza in casa di immagini di corpi) sconfina in un delirante senso di onnipotenza in merito alla possibilità di ricostruire e preservare tale esteriorità e di condizionarne in qualche modo anche la vita interiore.

“Cosa non può fare l’amore di un pazzo!” dice Marilia (Marisa Paredes), raccontando la storia dolorosa di Robert la cui moglie è rimasta carbonizzata in un incidente stradale e si è suicidata dopo essersi casualmente vista allo specchio e la cui figlia con gravi disturbi psichici è stata violentata durante una festa di matrimonio a cui lui stesso partecipava.

La mancanza di controllo sul mondo circostante alimenta la follia di Robert e il suo tentativo di poter controllare – modellandone i corpi – anche la vita delle persone. Così, la sua vendetta nei confronti di Vicente (Jan Cornet), il violentatore della figlia, sarà quella di rapirlo e, attraverso una lunga e lenta opera di trasformazione del corpo, di farne una copia della moglie morta.

La scena in cui Robert discute con un suo collega mentre avvolge fili di ferro intorno ai rami dei suoi bonsai per fargli assumere la forma desiderata è in qualche modo la sintesi del tema del film, che secondo me va letto in senso più ampio rispetto al tema prettamente almodovariano del rapporto maschile/femminile.

Robert è la rappresentazione del demiurgo il cui amore per la sua creatura – come Vera (Elena Anaya) viene più volte definita – spinge a limitarne pesantemente la libertà confinandola in una stanza dove c’è tutto quello che le serve per vivere e per trascorrere il tempo, ma la televisione trasmette solo tre canali e le telecamere consentono al “padrone” di controllare e, al contempo, contemplare la sua creatura in ogni attimo della giornata.

Una stanza in cui manca il respiro, quello che Vera richiama ossessivamente nelle sue scritte sui muri.
Una stanza in cui la creatura crea a sua volta altre immagini imperfette di corpi con pezzi di stoffa e oggetti riciclati, altre illusorie parvenze di umanità senza vita.

In Vera si legge in controluce la lotta dell’umanità per spezzare le sue catene, che sono culturali prima che naturali.
Siamo destinati ad amare il creatore e ad essergli grati del suo amore o esiste un istinto che è nell’umanità (e forse in tutti gli esseri viventi) alla libertà delle scelte e delle azioni e che, sfruttando l’imprevedibilità degli eventi, ci porta comunque e sempre verso la nostra natura più vera, che è fatta essenzialmente di libertà?

La pelle che abito – come si usa dire in questi casi – non è un film risolto: pretenzioso per certi versi, didascalico per altri, carico di indizi che il regista dissemina lungo la narrazione, ma spesso disperde o banalizza nel suo svolgimento.
Tutto ciò detto, io l’ho trovato inquietantemente, ma freddamente capace di rievocare ancestrali paure e bisogni del nostro essere umani.

Voto: 3,5/5

mercoledì 12 ottobre 2011

Festival Internazionale della Fotografia di Roma

Uno dei vantaggi di vivere in una città dove la vita quotidiana è faticosa quasi quanto nella giungla malese e dove la lotta per la sopravvivenza ha tratti che neppure Darwin avrebbe potuto immaginare è la possibilità di fruire (chissà ancora per quanto!) di eventi culturali di grande interesse in scenari unici.

In questo caso, il piacere è raddoppiato dal fatto che parliamo di una delle mie grandi passioni (ossia la fotografia) e di uno dei luoghi di Roma che trovo in assoluto più magici e suggestivi, quella zona che va dal Monte dei Cocci al lungotevere Testaccio che ho già avuto modo di celebrare altrove.

Ebbene, parlo del Festival Internazionale della Fotografia in corso a Roma fino al 23 ottobre, con una serie di mostre ed eventi in diverse parti della città, ma il cui quartier generale (dove c’è anche la mostra più grande) è la sede del MACRO Testaccio, il Museo di Arte Contemporanea di Roma realizzato nell’area del vecchio mattatoio della città, oggetto di un grande progetto di recupero architettonico su cui ci sarebbe ancora molto da fare.

Era la mia prima volta in questi grandi capannoni con le volte a capriate, ed è stato bello entrarci per vedere una, anzi tante mostre di fotografia. Il tema del festival quest’anno è “Motherland”, ossia il rapporto tra l’artista e la propria terra d’origine, ovvero come il concetto di terra madre è cambiato nel tempo e il significato che ha acquisito nel mondo contemporaneo.

All’interno del festival, la fotografia è declinata nei modi più diversi e – come saggiamente ha scritto qualcuno – in un’epoca di convergenza al digitale e di superamento dei confini tra le tecniche, la fotografia può diventare tante cose diverse e forse non ha più senso neppure parlare di un festival della fotografia. Si va infatti da proposte fotografiche più tradizionali, a ricostruzioni documentarie caratterizzate dalla presenza di tipologie diverse di documenti, a installazioni che combinano visivo e sonoro, infine a veri e propri cortometraggi.

Ciò che accomuna un po’ tutti i lavori in mostra è l’abbandono di soluzioni puramente estetiche a vantaggio di una fotografia più strettamente concettuale (di denuncia, di introspezione psicologica o di analisi etno-antropologica), in cui molto spesso quello estetico è soltanto un elemento che attira l’occhio ma cela verità e contenuti spesso profondamente in contrasto con l’apparente bellezza delle immagini. Insomma, niente a che vedere con le foto del National Geographic, bensì una fotografia a volte disturbante o intellettualistica che mi ha molto ricordato quella in mostra a Londra presso lo spazio espositivo di Ambika P3, durante la mia ultima visita.

A volte si può rimanere perplessi di fronte a certi lavori e ad alcune soluzioni, ma certo non ne si può mettere in discussione la ricerca artistica e l’originalità.

Dal mio soggettivo punto di vista, una menzione particolare la riserverei ai lavori “L’isola” di Francesco Millefiori, rappresentazione non convenzionale della Sicilia, fatta di immagini bruciate dal sole e dalla luce che illuminano paesaggi martoriati dall’intervento dell’uomo o caratterizzati da un’umanità che si muove tra antichità e modernità, e a "L'inferno di Dante", bizzarra ricostruzione fotografica della cantica da parte di Valentina Vannicola. Altra chicca è il video costituito da una specie di brevi cortometraggi in cui un uomo si muove in mezzo alla natura e ai manufatti umani con un intento tra l’ironico e il didascalico, di cui purtroppo non ho segnato il nome dell'autore (non è che qualcuno ha voglia di suggerire?).

In tutto ciò, camminare per i capannoni ristrutturati dell’ex mattatoio, alzare lo sguardo sulle grandi volte, dominare lo spazio dall’alto dei ballatoi sono stati un’esperienza artistica a se stante. E per una volta è stato bello sentirsi dire da un amico nordeuropeo (l’olandese volante) che la mostra e l’ambientazione gli erano sembrati di qualità elevata, con un respiro culturale davvero europeo (e non provinciale come spesso accade in Italia)!

Voto: 3,5/5

lunedì 10 ottobre 2011

Tomboy

La storia raccontata in questo film è davvero molto semplice, direi quasi minimale. Ma niente affatto povera di contenuti.

Laure (Zoé Héran), una bambina di circa 10 anni, si trasferisce con la famiglia (i genitori e la sorella più piccola) in una nuova casa durante l’ultimo scorcio d’estate. Prima che la scuola ricominci fa amicizia con gli altri bambini del quartiere, e - un po’ per caso un po’ per gioco - si finge maschio e si presenta a tutti come Michael.

Il gioco tiene e Laure/Michael viene accolta nella comunità dei ragazzini del quartiere ed ammessa a giocare a calcio, a fare la lotta e a partecipare a tutti i giochi dei maschi.

La bugia, che di fatto corrisponde a un desiderio profondo della bambina, produce una serie di eventi concatenati: dall’amicizia speciale con Lisa (Jeanne Disson) al coinvolgimento della sorella (che a sua volta per caso scopre la finzione di Laure), alle soluzioni sempre più industriose adottate per non far emergere la verità, infine all’impossibilità di mantenere il segreto quando ormai la scuola sta per iniziare.

Il tema dell’identità (non solo sessuale) e della crescita, del condizionamento culturale sui rapporti di genere nella nostra società, delle dinamiche familiari sono trattati da Céline Sciamma con una delicatezza e una tenerezza che stringono il cuore e commuovono.

Non c’è violenza, non morbosità, solo una bambina come tante altre, con un rapporto tenerissimo con sua sorella (le scene in cui le due bambine sono insieme sono tra le più belle del film), con due genitori moderni, affettuosi e di buon senso, una bambina che si trova di fronte alla difficoltà di collocarsi naturalmente, ma in modo non convenzionale nel microcosmo sociale cui appartiene.

Il dramma della scoperta dell’inganno produce vergogna, lacerazioni e tristezza, ma di fatto non cambia i rapporti tra le persone, semmai fa prendere coscienza del fatto che gli affetti e i comportamenti sono fortemente condizionati – fin dall’infanzia - dalla valutazione razionale e da un’idea di identità che è prima di tutto sociale o culturale e che ci viene trasmessa fin da piccoli, ma che proprio i più piccoli nella loro ingenuità e superiorità pre-culturale sono in grado di superare con altrettanta facilità.

Céline Sciamma aveva già dimostrato – con la sua opera prima Water lilies (Naissance des pieuvres) - di saper parlare con profondità e delicatezza della formazione della propria identità nel momento difficile che va dall’infanzia all’adolescenza. Qui conferma il suo talento nel dirigere attori giovanissimi e nel rappresentarli con grande veridicità al centro di un mondo guardato con i loro occhi semplici, ma al contempo capaci di andare al di là di quella gabbia di norme sociali che il mondo adulto si è costruito attorno.


Voto: 4/5


domenica 2 ottobre 2011

Pollo alle prugne / Marjane Satrapi

Pollo alle prugne / Marjane Satrapi. Milano: Sperling & Kupfer, 2005.

In attesa dell'uscita in Italia del film che la stessa Satrapi ha sceneggiato e girato insieme al fidato Vincent Paronnaud (con cui aveva già realizzato Persepolis) utilizzando questa volta attori in carne e ossa piuttosto che l'animazione delle sue tavole, mi sono portata un po' avanti leggendo la graphic novel da cui questo film è tratto.

Io sono tra coloro che non avevano letto Persepolis, ma che - grazie alla versione cinematografica - si sono innamorate del tratto essenziale e potente della Satrapi e del suo modo di raccontare la storia e la società iraniana mescolandola con i suoi ricordi personali e le vicende della sua famiglia.

Nel caso di Pollo alle prugne l'idea di fondo è simile: siamo sempre nell'ambito dei ricordi familiari, si ruota sempre intorno a quel momento cruciale della storia dell'Iran in cui tutto è cambiato (il colpo di stato del 1953). In questo caso, però, il tono è del tutto intimista e il punto di vista è tutto interno al protagonista, Nasser Ali Khan, un musicista di tar che, dopo che la moglie gli ha rotto il suo prezioso strumento, non trova più piacere e significato nella sua esistenza e decide di lasciarsi morire.

Dal punto di vista narrativo, la struttura di Pollo alle prugne è molto interessante, sostanzialmente circolare in quanto le prime tavole saranno richiamate nelle ultime, consentendo al cerchio di chiudersi e a molte domande di trovare risposta. All'interno di questo cerchio, il racconto è solo apparentemente cronologico (dal momento che descrive gli ultimi 8 giorni del musicista) visto che la sequenza dei giorni è soltanto una scusa per aprire più o meno brevi flashback e flashforward, che gettano luce sulla vita di quest'uomo, sulla sua famiglia, sui suoi affetti, sul dolore delle scelte, sugli errori di valutazione.

Il minimalismo grafico della Satrapi, unito alla sua ironia pungente e alla sottotrama drammatica e quasi dolorosa del racconto, fa di Pollo alle prugne un romanzo non certo dirompente come Persepolis, ma che si insinua delicatamente sotto la pelle.

Forse più difficile da comprendere ed apprezzare fino in fondo per noi occidentali (a me per esempio il protagonista ha fatto - in qualche modo - antipatia, più che compassione), ma certamente una conferma - se mai ce ne fosse stato bisogno - del talento della Satrapi.

Voto: 3/5