martedì 29 settembre 2020

Nowhere special

Personalmente trovo che Still life sia uno dei film più belli degli ultimi anni, e quindi quello che arriva da Uberto Pasolini lo considero imperdibile a prescindere.

Così, approfitto della tradizionale rassegna Da Venezia a Roma (che per fortuna anche quest’anno incredibilmente possiamo gustare in sala) per andare a vedere il suo ultimo film, Nowhere special, presentato appunto all’ultima mostra del cinema di Venezia.

La storia è quella di John (James Norton) e di suo figlio di quattro anni, Michael (lo straordinario Daniel Lamont). Siamo a Belfast: John fa il lavavetri, e fin dalla prima inquadratura del film - un vetro insaponato e poi risciacquato – queste superfici che riflettono la propria immagine o lasciano vedere ma non toccare quello che sta al di là sono assolute protagoniste della narrazione.

Possiamo dire che per John il figlio Michael è la sua immagine riflessa, quel sé stesso bambino che non ha avuto una madre e che ha dovuto affrontare l’abbandono del padre, e la sua vita da lavavetri è la metafora di un destino crudele che condannandolo a morte a 34 anni per un male incurabile lo costringerà dietro il “vetro” della morte.

La più grande missione di Michael diventa dunque quella di preparare il futuro migliore possibile per suo figlio, cercandogli una famiglia ed evitandogli gli orfanotrofi che hanno popolato la sua infanzia. Con l’aiuto degli assistenti sociali, si susseguono le visite a coppie o single che si sono resi disponibili per adottare un bambino, mentre le giornate procedono tra il lavoro di lavavetri e il tempo trascorso con il figlio: i pasti, i giochi, le letture a letto, il bagno, l’asilo, la spesa, le arrabbiature, i momenti di tenerezza.

Ancora una volta al centro delle riflessioni di Pasolini c’è il rapporto con la morte, sebbene in questo caso virato in chiave fortemente melò. Di fronte al rapporto tra un giovane padre e un figlio innamorati l’uno dell’altro e destinati a essere divisi da un destino atroce è difficile rimanere indifferenti e il regista non si sottrae al dramma sentimentale, anzi ci offre alcuni quadretti familiari indimenticabili che stringono il cuore per la loro tenerezza e bellezza. Si pensi alla scena del bagnetto, ovvero a quella del pigiama, o ancora a quella del divano letto e della coperta.

Pasolini però dimostra di non puntare al melodrammatico come fine ultimo della narrazione, bensì utilizza questo linguaggio per parlarci ancora una volta della complessità del nostro rapporto con la morte e ancora una volta ne cerca il senso nei ricordi di chi resta. John inizialmente vorrebbe trovare una famiglia per suo figlio senza lasciare traccia di sé cosicché Michael in futuro non debba neanche ricordare di aver avuto un padre che l’ha abbandonato troppo piccolo, né vuole spiegare al bambino cosa succederà. Il rapporto con Michael in questo ultimo scorcio della sua vita gli insegnerà che non si può risparmiare a nessuno la necessità di fare i conti con la morte e che questa necessità è l’unica condizione per poter imparare a vivere.

John e Michael cresceranno insieme in questo percorso di consapevolezza e di amore reciproco fino a scambiarsi idealmente il testimone durante il giorno gioiosamente trascorso insieme alle giostre, dove nella casa degli specchi deformanti potranno finalmente vedere il futuro: John piccolo e Michael cresciuto a dismisura. Bisogna dunque avere uno specchio deformante e guardare al di là della realtà riflessa e di quella che si mostra al di là dei vetri per cogliere il mistero del futuro dopo di noi, un mistero troppo grande e fuori portata rispetto agli esseri umani.

Un film stilisticamente lontanissimo da Still life, ma che comunque arriva al cuore per altre strade più dirette. Per una persona razionale come me che di fronte al melò non può fare a meno di sentirsi un po’ ingannata (o meglio tirata per la collottola) questa strada risulta meno convincente. Ma Pasolini è bravo e sarà dunque difficile dimenticare John e Michael, come lo era stato per l’altro John interpretato dal grande Eddie Marsan.

Voto: 3,5/5

venerdì 25 settembre 2020

Notturno

Come parlare dell'orrore della guerra senza mai mostrare scene di guerra, anzi andando a scovare la bellezza anche lì dove - dietro di essa - si nasconde una profonda disumanizzazione?

Ce lo mostra sul grande schermo Gianfranco Rosi che per tre anni ha girato con la sua telecamera nelle zone di confine tra Siria, Iraq, Iran, Kurdistan e Libano.

Notturno è poesia per immagini, i cui frammenti sono mirabilmente composti in un insieme coerente. L'attenzione per la composizione visiva, il montaggio e le scelte sul sonoro creano un effetto ipnotizzante e spiazzante per lo spettatore, in quanto accade spesso che la forma - compositivamente e visivamente magnifica - crei un effetto straniante rispetto a ciò che rappresenta: penso ad esempio al cacciatore in barca che si muove silenzioso sotto questo cielo arancio carico che però non è prodotto da un tramonto ma dai pozzi di petrolio che bruciano; ovvero al rumore delle mitragliatrici che spesso sentiamo in sottofondo a scene di un'apparente normalità e che attraversano gli spezzoni di girato confondendosi con suoni simili, come quello dei gruppi elettrogeni.

Il modo di raccontare di Rosi mi ha ricordato quello di un altro documentarista che amo molto, Roberto Minervini, in particolare nella scelta di un approccio che non prende di petto l'oggetto della narrazione, bensì gli si muove attorno fino a raggiungere la stessa lunghezza d'onda facendosi parte dell'oggetto.

Mentre Minervini sta quasi sempre incollato ai suoi personaggi, li osserva da vicino in maniera più o meno discreta trasformando la telecamera in uno dei protagonisti, Rosi ci dà la sensazione non solo di guardare la realtà in modi diversi, da lontano fino ad arrivare al molto vicino, enfatizzando in questo modo il ruolo stesso del cinema come sguardo, bensì anche di comporre la realtà perché assomigli di più al proprio sguardo (lo si nota fin da subito nella sequenza delle donne con il burqa nero che fanno una specie di processione in una prigione ormai abbandonata dove è morto il figlio di una di loro, che è certamente una "messa in scena" voluta dal regista).

E così, a sequenze quasi surreali (si pensi ad esempio a quella che insiste sullo sguardo del cavallo "parcheggiato") si alternano altre strazianti (il bambino in orfanotrofio che commenta i disegni degli altri bambini in cui quasi sempre sono raffigurate le violenze dei combattenti dell’ISIS, Daesh come dicono loro) o intrise di pietas umana (vedi la sequenza nel carcere in cui sono rinchiusi gli stessi combattenti ISIS catturati).

Situazioni molto diverse e più o meno tangenti con la guerra vengono tutte messe sullo stesso piano lasciando allo spettatore – anche grazie alla prevalenza dell’immagine sulle parole – la libertà di individuare il proprio personale fil rouge e di sviluppare la propria interpretazione di quello che vede.

Rosi non preme l’acceleratore sul melodramma a tutti i costi per suscitare l’empatia dello spettatore, anzi – con la bellezza delle immagini e delle inquadrature – in un certo senso ci sottrae all’inganno della lacrima facile e ci costringe invece a trovare attivamente un senso a quello che vediamo.

Un film che rimane a lungo negli occhi.

Voto: 4/5

mercoledì 23 settembre 2020

Le sorelle Macaluso

Emma Dante è nota soprattutto per le sue opere teatrali, alcune delle quali ho avuto modo di apprezzare a teatro nel corso degli ultimi anni.

La regista non disdegna però di tanto in tanto qualche incursione cinematografica, che di solito ha comunque un'ascendenza o un impianto teatrale.

Nel caso de Le sorelle Macaluso l'opera teatrale è una di quelle di maggiore successo della regista (sebbene io non l'abbia vista) e l'approdo al cinema punta a darle una risonanza ancora più ampia.

L'adattamento cinematografico ha ovviamente richiesto qualche modifica, prima tra tutte la riduzione del numero delle sorelle che a teatro sono dodici e qui invece sono cinque.

[ATTENZIONE: Proseguendo nella lettura sono presenti SPOILER!] 

La sostanza però rimane la stessa: la storia delle sorelle Macaluso che vivono da sole in una casa di Palermo, e delle quali ci viene raccontata una giornata che segnerà per sempre la vita di tutte.

Il film si articola in tre momenti: la prima è la fatidica giornata, quella in cui le cinque ragazze al risveglio si preparano per andare al mare ai bagni Charleston. È la giornata in cui facciamo la conoscenza con ognuna di loro, scopriamo i loro sogni e desideri, nonché i loro rapporti, la gioia e l'ottimismo con cui ancora guardano alla vita.

Il secondo momento le vede ormai pienamente adulte e ridotte a quattro perché comprendiamo che quella giornata di festa è finita male. Tutt'e quattro hanno perso la leggerezza dell'infanzia e della giovinezza, e vivono rimpianti e recriminazioni reciproche, mentre una di loro sta per fare alle altre una dolorosa rivelazione.

Il terzo momento le vede anziane, ormai ridotte a tre, la casa ormai decadente, mentre la sorella che ci è rimasta a vivere prepara la sua morte.

Ogni momento è separato dall'altro da un volo di colombe e gabbiani, quelli che da quando sono piccole popolano la soffitta della loro casa e dalla cui vendita o "prestito" le ragazze vivono.

Il film nel complesso è interessante, e queste vite intrecciate e spezzate da una giornata su cui si sono infranti i sogni di tutte e su cui sono fioriti i sensi di colpa, i conflitti e le follie sono uno spettacolo emotivamente potente.

Il testo è certamente il punto di forza del racconto. A livello cinematografico invece il film appare troppo insistito sulle metafore (una casa dove ciò che è rotto non viene mai riparato, l'abbuffata della sorella che sta per morire, la simbologia delle colombe) e alfine troppo didascalico e meccanico nella sua struttura (penso ad esempio alle frequenti comparse della bimba morta che le sorelle continuano a vedere in momenti salienti della giornata maledetta).

Il risultato è dunque a tratti un pochino stucchevole, sebbene la storia di queste donne e il loro destino non possano lasciare lo spettatore indifferente.

Una seconda prova cinematografica riuscita secondo me a metà.

Voto: 3/5


lunedì 21 settembre 2020

Volevo nascondermi

Il film di Giorgio Diritti dedicato alla vita del pittore (e scultore) Antonio Ligabue (in realtà il vero cognome del padre da lui disconosciuto e disprezzato era Laccabue) era uscito già a fine febbraio, poco prima che il Covid-19 e il lockdown intervenissero a cambiare radicalmente le nostre vite.

Ora che stiamo imparando a convivere con questo rischio e che speriamo di non dover di nuovo rinunciare a tutte le cose che riempiono le nostre giornate e che spesso diamo per scontate, il film esce di nuovo al cinema e, in un weekend in cui vedo tre film in tre giorni, riesco a recuperarlo anche io. 

Il dato certamente incontrovertibile è la straordinaria interpretazione di Elio Germano che non teme il confronto con l'altra magistrale interpretazione offerta da Flavio Bucci nel celeberrimo sceneggiato della fine degli anni Settanta.

Mi ricordo quando mia madre, di fronte al desiderio di mia sorella di fare il liceo artistico, le diceva: finirai senza un centesimo come Ligabue e si accorgeranno di te solo dopo la tua morte! ;-)

Nel film di Diritti Elio Germano interpreta l'Antonio Ligabue adulto, mentre altri attori prestano il volto durante le brevi sequenze in cui Antonio bambino vive con i suoi genitori affidatari e il giovane Antonio viene ricoverato in un centro per malattie mentali.

La narrazione infatti, pur essendo incentrata sul periodo della vita che va dal trasferimento a Gualtieri alla morte - che è anche la fase in cui la sua vena artistica si sviluppa maggiormente e arriva in parte anche il riconoscimento dal mondo artistico del tempo -, si muove avanti e indietro nel tempo per cercare nel passato le radici della solitudine di Antonio, dell'affettività negata, del rapporto con gli animali, della malattia mentale.

La scelta di Diritti, nel conferire al film maggiore movimento, non aiuta invece in termini di chiarezza e di linearità, creando qualche cortocircuito di troppo.

Bello e sfaccettato invece il ritratto dell'artista, non trasformato in una vittima della famiglia o del sistema, né in un santino da venerare, ma restituito nella sua complessità e nelle sue contraddizioni di uomo dalla vita non certo facile e con un equilibrio psichico precario.

Bellissima la fotografia, in particolare quella che immortala le sponde del Po, la campagna emiliana e la vita rurale dei suoi abitanti.

Voto: 3/5

venerdì 18 settembre 2020

Non conosci Papicha

Mounia Meddour è una regista franco-algerina che con il film Non conosci Papicha fa per la prima volta il salto dal documentario alla fiction.

Questa sua opera prima nell'ambito della fiction è ambientata negli anni Novanta ed è la storia di Nedjma (interpretata dalla splendente Lyna Khoudri), una giovane che studia all’università e sogna di fare la stilista.

Nella prima, bellissima sequenza del film, vediamo Nedjma che, insieme alla sua amica Wassila (Shirine Boutella), scappa di notte dal campus universitario nel quale vive per prendere un taxi illegale che le porterà in discoteca. Nel taxi le due ragazze si cambiano per essere consone alla serata e – nonostante il posto di blocco – riescono ad arrivare nel locale dove Nedjma vende i vestiti che cuce.

Fin qui – a parte il posto di blocco – sembrerebbe la storia di una qualunque studentessa universitaria che coltiva i propri sogni e ambizioni e nel frattempo desidera divertirsi insieme alle proprie amiche.

Questo esordio è però il termine di paragone che ci rimarrà negli occhi man mano che il film, proseguendo nella narrazione, ci mostrerà un’Algeria che sta rapidamente trasformandosi in un paese in cui il conflitto sociale è sempre più forte, l’integralismo sempre più pervasivo e la vita delle donne sempre più difficile e meno libera.

Documentandomi dopo la fine della visione, leggo che gli anni Novanta sono stati un momento decisivo per la storia recente dell’Algeria: prima l’ascesa al potere del fronte islamico, poi il colpo di stato dei militari trascinarono il paese in una sanguinosa guerra civile di cui sono state vittima decine di migliaia di civili. Contemporaneamente si è assistito alla diffusione del fondamentalismo islamico che ha lasciato sempre meno libertà a modi differenti di vivere, costringendo moltissime persone a fuggire o a convertirsi, per evitare la morte e gli attentati.

È in questo clima socio-politico che si muove Nedjma, una papicha, una giovane alla moda che si veste con i jeans, non porta l’hijab, ascolta musica americana e ha una visione libera del proprio futuro e per questo è stigmatizzata; dopo l’assassinio della sorella giornalista, Nedjma decide di organizzare una sfilata di moda nel campus, i cui abiti saranno tutti realizzati utilizzando gli haik, il tradizionale tessuto rettangolare di colore bianco che copre il corpo delle donne arabe, che Nedjma reinventerà in maniere del tutto originali e affascinanti per valorizzare il corpo femminile e non per mortificarlo.

Purtroppo questa iniziativa dovrà fare i conti con un contesto sempre più ostile, in cui gli uomini si fanno sempre più aggressivi e le donne si fanno manipolare.

Lo spirito fiero e determinato di Nedjma, che si regge sulla “quasi sorellanza” con il suo gruppo di amiche, le consentirà di raggiungere il suo obiettivo, ma il prezzo da pagare per chi, come lei, non intende né scappare né sottomettersi, sarà troppo alto.

Il film di Mounia Meddour, ispirato alla propria storia personale, si sviluppa in un crescendo di tensione in cui lo spettatore, insieme a Nedjma, si sente sempre più intrappolato e senza via di uscita. La regista però non si limita a mostrarci solo le brutture della repressione islamica, bensì si sofferma anche e soprattutto sulla bellezza delle mani di Nedjma che tracciano schizzi su un taccuino e trasformano stoffe “anonime” in vestiti dotati di personalità.

Le modalità narrative risentono delle specificità tipiche della cinematografia mediorientale, soprattutto nel compiaciuto indugiare sul dettaglio e nell'approccio all’intreccio narrativo (nel quale restano alcuni buchi che la regista non si preoccupa di colmare), ma l’impianto è perfettamente riconoscibile sia a livello strutturale che emotivo per un pubblico occidentale, suggerendo la condizione di una Algeria e della donna algerina come in bilico tra due mondi, che in Nedjma e nelle sue amiche potrebbero trovare una sintesi fautrice di nuova ricchezza e invece sono destinati a inaridirsi nel monopensiero di un integralismo miope e abietto.

Il fatto che il film sia stato censurato in Algeria la dice lunga sull’eredità che gli anni Novanta hanno lasciato nel paese e anche sulle contraddizioni che caratterizzano anche il momento storico che stiamo vivendo.

Voto: 3,5/5

martedì 15 settembre 2020

Dogtooth = Kynodontas

Il mio sacro fuoco per il cinema – che in questo periodo è particolarmente ravvivato dal fatto di averne dovuto fare a meno per parecchi mesi – mi spinge in sala a vedere questo film di Lanthimos senza prendere nessuna informazione preventiva.

Solo il giorno stesso della visione mi accorgo che si tratta di un film che ha più di dieci anni, l’opera seconda di Lanthimos, con cui il regista greco conquistò il premio Un certain regard del Festival di Cannes imponendosi all’attenzione della scena cinematografica. Solo dopo sarebbero arrivati i successi di The lobster e de La favorita, ma credo che in assenza della visione di questi primi film non si capisce adeguatamente la poetica di questo autore e del suo fedele sceneggiatore Efthymis Filippou (che lavora anche con Babis Makridis). Comincio infatti a pensare di andare a vedere anche Alps, che in questa operazione di recupero che alcuni distributori stanno facendo è anch’esso in sala in questo periodo.

Dogtooth – come abbiamo poi imparato meglio con The lobster – è un racconto dalle marcate caratteristiche grottesche e surreali, i cui sviluppi prendono una piega disturbante e violenta in termini psicologici, ma non solo.

Siamo in una campagna presumibilmente poco fuori una città greca (Atene?) negli anni Settanta: in una grande villa con giardino vive una famiglia composta di padre, madre e tre figli praticamente adulti, un ragazzo e due ragazze. L’unico componente della famiglia autorizzato a uscire dai confini della villa è il padre che fa il manager in una fabbrica; tutti gli altri componenti della famiglia vivono totalmente in questo mondo chiuso e autoreferenziale, in cui la madre appare parzialmente consapevole della scelta ma totalmente sottomessa al marito e i figli sono stati cresciuti nella totale ignoranza e paura del mondo esterno. A loro è stato raccontato che avventurarsi fuori dai confini del giardino prima che gli cada il canino (dente permanente per eccellenza) sarebbe fortemente rischioso, e nel frattempo in casa vengono istruiti e intrattenuti dai genitori con lezioni e giochi che contribuiscono alla loro visione distorta della realtà: a loro viene fatto pensare che gli aerei che volano sopra le loro teste sono giocattoli che ogni tanto cadono in giardino, che i gatti sono creature selvagge e pericolose, e molti oggetti comuni sono identificati con parole di significato non corrispondente (per esempio gli zombie sono dei fiori gialli che crescono in giardino).

L’unico elemento esterno con cui i figli vengono in contatto è Christina, la giovane guardia della sicurezza della fabbrica dove lavora il padre, che quest’ultimo paga per soddisfare le necessità sessuali del figlio e che dunque di tanto in tanto accompagna con gli occhi bendati a casa. E sarà proprio Christina a far saltare gli equilibri di questo mondo autoreferenziale innescando una catena di reazioni dagli esiti non scontati.

Perché tutto questo? Lanthimos e Filippou non ce lo spiegano mai veramente. Si accenna di sfuggita a un certo punto a un quarto figlio che si sarebbe avventurato fuori dai confini della villa, ma non sappiamo se le scelte familiari siano collegate a questo.

È evidente che l’intento del regista e dello sceneggiatore è quello di rappresentare una situazione limite per portare all’evidenza le storture che un mondo chiuso, autoreferenziale e fondato sulla paura e sull’ignoranza può portare con sé e gli effetti devastanti sul piano psicologico che determina sulle persone.

La famiglia è certamente il primo luogo nel quale si possono innescare queste dinamiche, ma in Dogtooth il bersaglio ultimo non è tanto la famiglia, quanto la comunità statuale lì dove essa assuma caratteri dittatoriali, manipolando gli individui e condizionando profondamente la loro capacità di autodeterminazione e di libero arbitrio.

In questo caso il finale è aperto e potrà essere interpretato differentemente da ottimisti e pessimisti, ma non è questa la cosa più importante. È quanto accade prima che merita la riflessione più attenta e Lanthimos ce la sbatte in faccia facendoci ridere nervosamente (vedi il ballo dionisiaco della figlia maggiore in cui riconosceremo la coreografia di Flashdance) ovvero disgustandoci di fronte all’assurdità degli esiti di questa scelta.

Seppur lontamente il film mi ha fatto pensare a Wolfpack, un documentario che raccontava la vicenda dei fratelli Angulo, anch’essi tenuti rinchiusi in casa dal padre con il cinema come unico intrattenimento e unico strumento di conoscenza del mondo esterno. Curiosamente, anche in Dogtooth proprio il cinema – nella forma di due videocassette introdotte in casa da Christina (Rocky e Lo squalo) – avrà un ruolo determinante nella ribellione della figlia maggiore.

Voto: 3,5/5

giovedì 10 settembre 2020

Esercizi d'amore / Alain De Botton

Esercizi d'amore
/ Alain De Botton; trad. di Paola Martinelli. Milano: Guanda, 1995.

Dopo aver letto Il corso dell'amore, l'ultimo libro pubblicato da Alain De Botton, ho deciso di andare ai suoi esordi e di leggere il suo primo romanzo, Esercizi d'amore.

Al termine della lettura riconosco una coerenza di fondo nell'approccio e al contempo un'evoluzione probabilmente dovuta al passare degli anni, in un processo che - se dovessi disegnarlo - rappresenterei con una spirale.

Anche qui al centro del romanzo c'è una coppia raccontata in prima persona dal protagonista che rievoca tutte le fasi della sua storia con Chloe iniziata e finita su un volo da Parigi a Londra. In questo racconto vengono passate in rassegna - senza lesinare in riflessioni a margine degli eventi - tutte le tappe dell'amore e l'istintiva coazione a ripetere che lo caratterizzano.

Alain De Botton dimostra fin da questo esordio la sua naturale tendenza a sottoporre anche l'amore - di solito considerato appartenente al reame delle emozioni in opposizione a quello della ragione - a un'analisi lucida e spietata, che probabilmente apparirà fin troppo razionale agli occhi di molti lettori.

A me il suo approccio - molto concreto e realistico - piace molto, anche perché De Botton non dimentica mai né sottovaluta la complessità umana, quella che fa sì che - anche quando sappiamo esattamente cosa sta succedendo e cosa dovremmo fare- non possiamo fare a meno di seguire la nostra natura.

La sua benevolenza verso gli esseri umani che disperatamente cercano di dare un senso e una direzione ai rapporti di coppia, ma non possono sottrarsi alle contraddizioni dei propri desideri e del proprio sentire, si esprime attraverso un linguaggio affettuoso e in buona misura ironico.

Contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, la visione di questo De Botton giovane è per certi versi ancora più disincantata di quella del De Botton attuale. I protagonisti di questa storia vivono il loro amore – con alti e bassi, momenti difficili e momenti entusiasmanti – senza poter fare veramente nulla rispetto alla parabola che inevitabilmente lo caratterizza. Si incontrano, si innamorano, costruiscono un mondo di intimità di coppia, si rafforzano vicendevolmente, poi qualcosa si spezza e l’amore finisce, non necessariamente con gli stessi tempi per le due persone coinvolte. Poi la vita va avanti e altri amori prendono il posto di quelli finiti.

Il De Botton più maturo vuole credere nella possibilità di dare una prospettiva alla coppia, un futuro, anche di fronte a un andamento che inevitabilmente è ben lontano da quello prospettatoci dall’amore romantico o da quello cristiano o da qualsivoglia filosofia che inneggi alla connessione delle anime.

Se dunque dalla lettura de Il corso dell’amore ero uscita scossa ma fiduciosa, dalla lettura di questo primo romanzo sono riemersa un po’ triste e rassegnata, perché mi sono detta che allora i rapporti d’amore sono proprio come ho la percezione che siano. Difficili a durare, sempre, e che la storia dell’anima gemella è un’enorme fesseria.

Al contempo, ho pensato che un po’ di sano realismo - un realismo buono, non pessimista e distruttivo, bensì costruttivo e di prospettiva - ci possa aiutare a non idealizzare e a non illuderci da un lato, però anche a vivere la bellezza della definizione di quell’io condiviso che è la coppia come una fortuna e un’opportunità, e insieme a comprendere che la necessità di ritrovare sé stessi fuori dalla coppia alla fine di un amore non è una tragedia senza via d’uscita, ma una tappa naturale e inevitabile di esseri umani che sanno vivere in quel flusso inesauribile che è la nostra vita.

Voto: 3,5/5

martedì 8 settembre 2020

TuttInsieme

Il documentario di Marco Simon Puccioni è il secondo capitolo di un progetto cinematografico iniziato nel 2012 con Prima di tutto.

Si tratta di una serie di documentari nei quali il regista racconta la propria esperienza personale nella costruzione di una famiglia arcobaleno insieme al compagno Giampietro, a partire dalla nascita dei due figli Denis e David.

Mentre nel primo capitolo ci si concentrava sulla loro nascita in America grazie a due donatrici (una che ha donato gli ovuli e l’altra che ha portato avanti la gravidanza) e sui primissimi anni di vita dei bambini, in questa seconda puntata – come ci dice lo stesso regista presente in sala – l’intento è quello di mettere al centro della narrazione i bambini, ormai arrivati a un’età (circa 9-10 anni) in cui sono soggetti attivi di azione e di riflessione.

Puccioni ci dice che avrebbe voluto fare un film interamente ad altezza di bambino, raccordando pezzi di girato riguardante esclusivamente loro, o comunque tenendo genitori e adulti sullo sfondo, ma alla fine durante la realizzazione si è reso conto che poteva essere opportuno e significativo inserire la vita dei due bambini all’interno di un contesto più ampio, dando spazio anche ad eventi importanti come l’approvazione della legge sulle unioni civili.

Il film è la somma di un girato casalingo che documenta la quotidianità dei bambini e di un girato realizzato appositamente per il film, che - grazie al buon lavoro in fase di post produzione e montaggio - riescono a convivere in maniera coerente sia sul piano visivo che sul piano dei contenuti. La struttura narrativa è puramente cronologica ed è organizzata in momenti temporali successivi i cui stacchi sono immagini di fiori che sbocciano.

Puccioni non cerca virtuosismi e acrobazie, bensì costruisce un racconto in fondo semplice e senza pretese, che propone al pubblico il ritratto di una famiglia normale, o meglio di una famiglia che ricerca quotidianamente la propria normalità, e che lo fa in maniera consapevole e problematica anche nei confronti dei bambini.

Del film ho apprezzato proprio questo aspetto: di fronte a un tema certamente controverso e su cui l’opinione pubblica si divide – direi in modo particolare rispetto alla scelta di ricorrere alla gestazione per altri – Puccioni non punta al quadretto idilliaco e senza sfumature, cosa che in fondo avrebbe indebolito il suo punto di vista inevitabilmente interno. Sceglie invece di mostrare sullo schermo i propri dubbi, gli interrogativi, la ricerca quotidiana del miglior equilibrio possibile per i propri figli, che certamente non è scontata, com’è inevitabile che sia per tutto quello che cambia un istituto che per millenni ha sempre avuto le medesime caratteristiche.

Credo che questa problematicità insieme alla semplicità dell’amore che unisce questa famiglia e che ogni giorno si costruisce non solo tra genitori e figli ma anche con le figure “esterne” che hanno contribuito alla sua costituzione sia l’elemento di forza di questo racconto, per il quale va reso certamente merito a un regista umile, consapevole e capace.

Voto: 3/5

domenica 6 settembre 2020

Residenza Arcadia / Daniel Cuello

Residenza Arcadia / Daniel Cuello. Milano: Bao Publishing, 2017.

Dopo aver letto Mercedes avevo adocchiato l'opera prima di Daniel Cuello e già pianificavo di comprarla. Poi per il mio compleanno me l'hanno regalata i miei amici A. e I. e non ho resistito nemmeno una settimana prima di affrontarne la lettura.

Residenza Arcadia è un condominio abitato in prevalenza da anziani. Di per sé si tratta di un condominio come molti altri, i cui abitanti hanno ciascuno le proprie ossessioni e frustrazioni che sfogano, a seconda dei casi, nei confronti dell'amministratore o degli altri condomini. I dispetti tra condomini e le piccole meschinità sono all'ordine del giorno, ma tutti gli abitanti del condominio sono uniti nel loro rifiuto verso estranei o diversi che arrivino a turbare la folle quiete della loro casa.

Cuello ambienta la storia in uno spazio e un tempo indefiniti. Potrebbe trattarsi dell'Italia e potrebbe essere il presente (tutti dispongono di smartphone e altre tecnologie) ma del mondo esterno non sappiamo né vediamo quasi niente. Sappiamo solo che nel mondo di residenza Arcadia vige una sorta di totalitarismo che non tollera opposizioni e ha ridotto alcune libertà dei suoi cittadini, come quella di acquistare quanti libri si vogliono.

La storia degli abitanti del condominio procede quasi per sketch ciascuno dei quali getta luce sulle caratteristiche di ognuno portando all'evidenza la meschinità diffusa che sa fare fronte comune solo contro i diversi.

In realtà il prologo - definendo fin da subito il tono tra il grottesco e il drammatico che caratterizza l'intero albo - rivela immediatamente che anche all'interno dei singoli nuclei familiari e delle singole abitazioni le situazioni non sono meno tese e conflittuali, e a poco a poco si scopre che ognuno si porta dietro dal passato dolori e sofferenze con cui in molti casi non è riuscito a scendere a patti o che hanno condizionato l'intera sua esistenza.

Ne viene fuori un affresco sicuramente un po' parodistico e grottesco, come rivela anche lo stile dei disegni con cui Cuello rappresenta i personaggi, ma anche ricco di pietas e in fondo di comprensione umana verso queste persone che forse in un mondo diverso avrebbero potuto sviluppare la versione migliore di loro stessi e invece vivono nella solitudine e nella incomunicabilità e si alimentano solo della propria cattiveria, perpetuandola nel tempo.

Un albo di grande impatto.

Voto: 4/5

giovedì 3 settembre 2020

Tenet

Visto che Christopher Nolan è tra quei registi che suscitano o grandi amori o profondi disprezzi, devo premettere che io lo considero uno dei migliori della nostra epoca, di quelli che possono anche fare qualche film un po' meno riuscito ma sono capaci di pensare in grande e di costruire spettacoli cinematografici nuovi e originali, destinati a lasciare un segno nella storia del cinema.

E infatti, nell'esprimere il mio modesto giudizio sul suo ultimo lavoro, Tenet, su cui si sono già versati e si verseranno fiumi di inchiostro (o meglio si consumeranno centinaia di tastiere), il mio sguardo non si concentrerà tanto su di esso e sulla sua contortissima trama (di cui potremmo continuare a discutere per giorni) quanto su come questo film si inserisca all'interno del percorso cinematografico del regista inglese.

Mi affascina sommamente (suscitando in me sentimenti a volte controversi) che di film in film (ovviamente anche grazie al successo via via ottenuto), Nolan coltivi ambizioni sempre più grandi e aumenti la scala delle sue realizzazioni: da Memento a Insomnia a Inception a Interstellar a Dunkirk fino ad arrivare a Tenet il processo di blockbusterizzazione dei suoi film è stato inarrestabile, sebbene la sua interpretazione del concetto di "blockbuster" resti originale e persino Tenet - che è fin qui ciò che più assomiglia a un blockbuster, film di spionaggio con budget megagalattico - è comunque qualcosa che sfugge a una categorizzazione ben precisa.

I film da me citati non sono tutti quelli realizzati dal regista, ma la mia scelta non è casuale perché a me pare che questi si collochino su una linea di continuità sia realizzativa - nei termini che ho prima esplicitato - sia contenutistica. Su questo secondo fronte tutti questi film appartengono alla narrazione di un tema che per Nolan appare quasi un'ossessione, ossia il tempo, in tutte le sue sfaccettature: la memoria, l'alternarsi del giorno e della notte, i salti temporali del subconscio, la diversa misura del tempo nello spazio, la corsa contro il tempo, per arrivare infine all'inversione del tempo e alla sua non linearità.

Personalmente di temi come questi ci capisco poco, ma condivido con Nolan questa curiosità quasi morbosa nei confronti di una dimensione della nostra vita che è fondamentale e che segna l'inizio e la fine della nostra esistenza, ma che in buona parte ci sfugge nella sua complessità che va ben al di là di quanto segnano i nostri orologi e i nostri calendari.

In Tenet siamo all'apoteosi sia del tema sia dei mezzi utilizzati per raccontarlo.

La storia è quella di un agente della CIA, di cui non sapremo mai il nome ma che più volte si autoidentifica come il Protagonista (interpretato da John David Washington, già visto e apprezzato in BlacKkKlansman di Spike Lee), che - dopo aver partecipato a un'azione durante un'azione terroristica in Ucraina - viene reclutato per un progetto segreto, Tenet, finalizzato a salvare l'umanità da un attacco che il futuro sta muovendo contro il passato (o presente che dir si voglia). Tutto ciò è possibile perché in questo futuro è stata inventata una tecnologia che consente l'inversione del tempo, ossia permette di far viaggiare oggetti e persone indietro anziché in avanti sull'asse temporale. Il cattivo del presente cui il futuro ha consegnato la chiave per realizzare questo intento distruttivo è Sator (un trafficante di armi russo, magnificamente interpretato da Kenneth Branagh), il quale - poiché sta per morire - vede positivamente la possibilità di trascinare nella sua distruzione quella del mondo intero (idea megalomane, ma certamente affascinante).

Il nostro Protagonista - per realizzare questa impresa - dovrà imparare a gestire i meccanismi dell'inversione temporale, anche con l'aiuto del suo collaboratore Neil (Robert Pattinson) e trascinato dall'affezione (perché si fa fatica a chiamarlo amore) verso Kat (Elizabeth Debicki), la moglie infelice di Sator.

Per chi ha già visto il film e non teme più spoiler, il Post offre uno straordinario spiegone su tanti aspetti e scioglie molti dei dubbi che la sua visione potrebbe suscitare. Del resto, i film di Nolan sono fatti così: pieni di dettagli di cui ti accorgi solo a una seconda e a una terza visione, e di robe contorte e cervellotiche su cui puoi continuare a interrogarti per giorni senza riuscire a venirne fuori o comunque senza riuscire a far emergere tutti i "tricks" di cui il regista dissemina il percorso.

Come molti hanno già detto, dentro il titolo TENET (termine palindromo che insieme ad altri riferimenti contenuti nel film rimanda al cosiddetto quadrato del Sator) c'è già molto del film e della sua costruzione temporalmente "a tenaglia", motivo per cui la "quasi conclusione" di fatto è il centro della tenaglia temporale.

Di per sé Tenet non è certamente il mio genere di film e complessivamente non penso che sia tra i più riusciti di Nolan, nonostante e forse anche a causa dell'enorme dispiegamento di mezzi economici, e però lo spettacolo cinematografico e la molteplicità di stimoli di cui è disseminato sono una combinazione che per me resta di grandissimo valore.

Voto: 3,5/5

martedì 1 settembre 2020

La strada di casa / Kent Haruf

La strada di casa / Kent Haruf; trad. di Fabio Cremonesi. Milano: Enne Enne Editore, 2020.

Ed eccoci di nuovo a Holt, purtroppo per l'ultima volta, anche se per Kent Haruf si è trattato in realtà del primo incontro con la cittadina che poi è diventata protagonista della sua epopea.

La strada di casa è infatti il primo romanzo dello scrittore americano, ma l'ultimo a essere tradotto in Italia.

Mi piace immaginare Kent Haruf che comincia a scrivere di questo paesino (da lui inventato) in Colorado e a delinearne la topografia e la composizione sociale che, romanzo dopo romanzo, si faranno sempre più ricche e dettagliate. Si potrebbe costruire un plastico della cittadina di Holt e identificare le abitazioni dei protagonisti dei suoi romanzi nonché l'ubicazione degli spazi della vita aggregativa e pubblica.

In questo libro - come accade anche in Vincoli - la storia è raccontata in prima persona da Pat Arbuckle, un cittadino di Holt nonché uno dei protagonisti.

Pat conosce dall'infanzia Jack Burdette, l'uomo che, dopo essere sparito da Holt con la cassa della locale cooperativa agricola, torna molti anni dopo, portando scompiglio nella vita della cittadina e soprattutto - come scopriremo - in quella di Pat.

Non intendo rivelare di più di una trama che - rispetto ad altri lavori di Haruf - contiene certamente maggiori punti di svolta e risulta piuttosto avvincente anche sul piano puramente narrativo.

Come sa chi ha letto gli altri suoi romanzi, Kent Haruf non racconta l'eccezionalità ma la normalità della vita con tutto quello che porta con sé, gioie semplici e dolori inevitabili, nel compiersi del destino che ognuno di noi ha avuto in sorte.

La comunità di Holt, pur con tutte le sue specificità e l'aura dolente di cui Haruf l'ammanta, è in realtà un vero e proprio micromondo in cui tutti i sentimenti che caratterizzano l'umanità albergano. E Haruf ancora una volta ci dimostra che nessuna vita è veramente semplice o così banale da non poter essere raccontata, e al contempo che nessun dramma è tale da non poter essere riassorbito nel flusso degli eventi.

Per me la lettura dei romanzi di Kent Haruf - con la sempre ottima traduzione di Fabio Cremonesi che ormai conosce Haruf meglio di tutti - è ancora una volta l'occasione per un'immersione totale in un mondo lontano, polveroso e senza tempo, ma anche nelle virtù e nei vizi universali dell'essere umano a qualsiasi latitudine.

Una lettura che consiglio sempre con grande piacere.

Voto: 3,5/5