Per il secondo anno consecutivo il Teatro Argentina porta in scena Copenhagen, l'opera teatrale di Michael Frayn (lo stesso autore della celebre commedia Rumori fuori scena), dedicata all'incontro che avvenne nel 1941 tra i due fisici Niels Bohr, danese di origine ebrea, e Werner Heisenberg, tedesco, nella capitale danese occupata dai nazisti.
Se dell'incontro si è storicamente certi, non se ne conosce invece la motivazione e il contenuto. Il testo di Frayn ruota appunto intorno a questa domanda: perché Heisenberg raggiunse Bohr a Copenhagen e per dirgli cosa?
In scena, all'interno di un allestimento nero con pareti che sembrano - e sono - lavagne per scrivere, completamente ricoperte di formule matematiche, ci sono tre personaggi: Bohr (Umberto Orsini), Heisenberg (Massimo Popolizio) e Margrethe, la moglie di Bohr (Giuliana Lojodice). I tre personaggi parlano tra di loro di quanto accaduto quando erano ancora vivi, in particolare dagli anni Venti, quando Bohr e Heisenberg si incontrarono la prima volta (come insegnante e allievo) fino alla metà degli anni Quaranta e precisamente fino allo scoppio della bomba atomica in Giappone.
Il testo di Frayn si sviluppa quasi come un thriller, andando a indagare - attraverso le voci dei protagonisti - sul percorso che condusse gli studi e le ricerche sulla fisica atomica all'esito devastante che tutti conosciamo.
Mediante un dialogo dal ritmo serrato e intenso, via via scopriamo come Bohr e Heisenberg si incontrarono e - prima come maestro e allievo, poi come colleghi - costruirono un'amicizia e un sodalizio scientifico grazie al quale furono elaborati principi importanti della fisica, come quello di Indeterminazione e della Complementarietà. Lo scoppio della guerra pose fine a questo sodalizio e anche probabilmente all'amicizia, appartenendo i due ai fronti opposti e Bohr, in quanto ebreo, perseguitato sulla base delle leggi razziali.
Sul palco, dei due uomini ci vengono mostrate differenze nei caratteri e nei tratti psicologici (più esuberante Heisenberg, più pacato Bohr), ma anche la comune passione per la scienza e per la ricerca, e in fondo la comune ambizione, cose che da un lato contribuirono a rafforzare il legame tra i due, e dall'altro rappresentarono un motivo di spiccata competizione. A osservarli, facendo quasi da arbitro e da testimone, la moglie di Bohr, Margrethe, che riconduce i due uomini alla realtà lì dove i due uomini ricostruiscono il ricordo in modo soggettivo e poco rispondente al vero.
Ne viene fuori il ritratto di un'epoca e un effetto immersivo nel dibattito scientifico del tempo, reso accessibile anche allo spettatore digiuno di fisica grazie a una scrittura molto esemplificativa e divulgativa, ma non per questo sciatta. La pièce non dà risposte alla domanda che si pone, bensì avanza ipotesi e interpretazioni, lasciando a ciascuno spettatore il compito di fare le proprie deduzioni e ragionamenti, nella consapevolezza condivisa che la verità non è necessariamente unica e oggettiva, ma fortemente condizionata dal punto di vista.
Interessante anche la riflessione sul complesso rapporto tra scienza e politica e sui dilemmi etici relativi al possibile utilizzo in chiave bellica e distruttiva degli esiti delle ricerche scientifiche.
Pur riconoscendo la qualità del testo e della messa in scena di Mauro Avogadro e nonostante l'alto livello attoriale (sebbene abbia trovato Popolizio un po' eccessivo ed enfatico), personalmente non sono riuscita a entrare in sintonia con lo spettacolo: nel primo atto ho fatto persino fatica a seguire, qualche curiosità in più me l'ha suscitata il secondo atto, ma nell'insieme non sono riuscita a superare un senso di estraneità.
Uno spettacolo che sono dunque contenta di aver visto, ma che temo non resterà scolpito nella mia memoria perché non mi ha catturato sul piano emotivo e intellettivo.
Voto: 3/5
giovedì 27 dicembre 2018
lunedì 24 dicembre 2018
Micah P. Hinson. Largo Venue, 11 dicembre 2018
Micah P. Hinson è un habitué dei palchi romani che negli ultimi due anni ha calcato regolarmente almeno una volta l'anno. Io lo seguo ormai dal 2015 e in questi anni non mi sono mai persa un suo concerto, perché Micah è un musicista vero e, come tutti i musicisti veri, ogni concerto fa storia a sé.
Questo non solo perché il suo repertorio si arricchisce anno dopo anno di nuovi brani (Micah è un musicista prolifico che riesce a sfornare quasi un album all'anno, anche grazie alle numerose collaborazioni che è in grado di mettere in piedi), ma anche perché ogni volta si presenta con una formazione e un equipaggiamento diversi: talvolta è da solo sul palco con la sua chitarra (a volte l'acustica, altre volte l'elettrica, come ieri sera), in altre circostanze è supportato da una band che talvolta viene assoldata in loco e che - come ad aprile 2017 al Monk - può comprendere anche un ensemble di fiati.
Inoltre, per Micah - come per tutti noi - ogni serata è diversa, e il suo umore condiziona profondamente il modo in cui suona e canta, sebbene le sue qualità restino indiscusse e l'essenza del suo personaggio non cambi.
Come ci dice lui stesso con una certa cattiveria, dopo aver declinato l'invito di qualcuno del pubblico a suonare alcuni dei suoi pezzi più famosi, ci sono due tipi di musicisti: quelli che riproducono la musica e quelli che la fanno, e lui appartiene a questa seconda categoria. E non gli si può dare torto.
Sul palco del Largo Venue (la nuova location romana della musica dal vivo di qualità) Micah sale da solo, come sempre con un berretto in testa (verde con la scritta Creature) e per il resto vestito perfettamente da texano: camicia a quadri, laccetto texano piuttosto vistoso al collo, cinta con fibbia enorme (che secondo me e F. riproduce l'Ultima cena, ma magari non è così), numerosi anelli alle dita e braccialetti ai polsi.
Ci sorprende subito intonando con la chitarra elettrica Oh holy night e riportandoci tutti al clima natalizio, poi comincia a suonare la sua musica senza dire una parola. Ma il silenzio - come immagino, conoscendolo - non durerà a lungo.
Ben presto Micah comincerà a interloquire con il suo pubblico, prima per presentarsi (il suo nome e da dove viene), poi per commentare, raccontare la sua storia (il suo incidente, la sua dipendenza dalle droghe, il rapporto con suo padre), spiegare i suoi vezzi (come quello di fumare sul palco). Il tutto condito da una quantità esagerata di "fuck" e "shit", come gli è proprio. Arriva presto il momento in cui si toglie il cappellino e scopriamo che Micah ha un nuovo taglio di capelli, rasati sui lati e lunghi al centro.
Ci dice che ha un nuovo album, fatto insieme ai Musicians of the Apocalypse, che si chiama When I shoot at you with arrows, I will shoot to destroy you. Nel concerto ci proporrà alcuni brani da questo nuovo lavoro, tra cui Small spaces, I am looking for the truth, not a knife in the back, Fuck your wisdom, ma ci dice che per ovvi motivi non potrà proporci i brani strumentali suonati insieme agli altri musicisti.
Nella scaletta trovano posto moltissimi altri brani che pescano dai tanti album del cantautore, il quale ci delizia con le sue esecuzioni per oltre un'ora, inframmezzando le esecuzioni con gli scambi di battute con il pubblico e le sue stranezze che fanno sorridere qualcuno in platea.
Quando, dopo l'ultima canzone, lascia il palco salutandoci, il pubblico lo richiama insistentemente e Micah non si tira indietro e, da musicista generoso qual è, trasforma questo bis in un vero e proprio altro concerto, tra l'altro riservando a questa seconda parte l'esecuzione di alcuni dei suoi successi, come Beneath the rose e Take off that dress for me.
In queste quasi due ore di musica, ci suona anche una canzone degli esordi di John Denver, una canzone americana della metà dell'Ottocento e una sua precoce composizione scritta a undici anni.
Alla fine - come fa sempre nei suoi concerti - ci ringrazia di essere venuti ad ascoltarlo perché - ci dice - siamo noi, il suo pubblico, quello che va ai suoi concerti, che gli consente di vivere e di far vivere la sua famiglia.
Micah P. Hinson si conferma non solo un grande musicista, ma anche un uomo dal cuore grande, che - come dice F. - sotto una scorza da duro mostra una sostanza tenerissima.
Voto: 3,5/5
Questo non solo perché il suo repertorio si arricchisce anno dopo anno di nuovi brani (Micah è un musicista prolifico che riesce a sfornare quasi un album all'anno, anche grazie alle numerose collaborazioni che è in grado di mettere in piedi), ma anche perché ogni volta si presenta con una formazione e un equipaggiamento diversi: talvolta è da solo sul palco con la sua chitarra (a volte l'acustica, altre volte l'elettrica, come ieri sera), in altre circostanze è supportato da una band che talvolta viene assoldata in loco e che - come ad aprile 2017 al Monk - può comprendere anche un ensemble di fiati.
Inoltre, per Micah - come per tutti noi - ogni serata è diversa, e il suo umore condiziona profondamente il modo in cui suona e canta, sebbene le sue qualità restino indiscusse e l'essenza del suo personaggio non cambi.
Come ci dice lui stesso con una certa cattiveria, dopo aver declinato l'invito di qualcuno del pubblico a suonare alcuni dei suoi pezzi più famosi, ci sono due tipi di musicisti: quelli che riproducono la musica e quelli che la fanno, e lui appartiene a questa seconda categoria. E non gli si può dare torto.
Sul palco del Largo Venue (la nuova location romana della musica dal vivo di qualità) Micah sale da solo, come sempre con un berretto in testa (verde con la scritta Creature) e per il resto vestito perfettamente da texano: camicia a quadri, laccetto texano piuttosto vistoso al collo, cinta con fibbia enorme (che secondo me e F. riproduce l'Ultima cena, ma magari non è così), numerosi anelli alle dita e braccialetti ai polsi.
Ci sorprende subito intonando con la chitarra elettrica Oh holy night e riportandoci tutti al clima natalizio, poi comincia a suonare la sua musica senza dire una parola. Ma il silenzio - come immagino, conoscendolo - non durerà a lungo.
Ben presto Micah comincerà a interloquire con il suo pubblico, prima per presentarsi (il suo nome e da dove viene), poi per commentare, raccontare la sua storia (il suo incidente, la sua dipendenza dalle droghe, il rapporto con suo padre), spiegare i suoi vezzi (come quello di fumare sul palco). Il tutto condito da una quantità esagerata di "fuck" e "shit", come gli è proprio. Arriva presto il momento in cui si toglie il cappellino e scopriamo che Micah ha un nuovo taglio di capelli, rasati sui lati e lunghi al centro.
Ci dice che ha un nuovo album, fatto insieme ai Musicians of the Apocalypse, che si chiama When I shoot at you with arrows, I will shoot to destroy you. Nel concerto ci proporrà alcuni brani da questo nuovo lavoro, tra cui Small spaces, I am looking for the truth, not a knife in the back, Fuck your wisdom, ma ci dice che per ovvi motivi non potrà proporci i brani strumentali suonati insieme agli altri musicisti.
Nella scaletta trovano posto moltissimi altri brani che pescano dai tanti album del cantautore, il quale ci delizia con le sue esecuzioni per oltre un'ora, inframmezzando le esecuzioni con gli scambi di battute con il pubblico e le sue stranezze che fanno sorridere qualcuno in platea.
Quando, dopo l'ultima canzone, lascia il palco salutandoci, il pubblico lo richiama insistentemente e Micah non si tira indietro e, da musicista generoso qual è, trasforma questo bis in un vero e proprio altro concerto, tra l'altro riservando a questa seconda parte l'esecuzione di alcuni dei suoi successi, come Beneath the rose e Take off that dress for me.
In queste quasi due ore di musica, ci suona anche una canzone degli esordi di John Denver, una canzone americana della metà dell'Ottocento e una sua precoce composizione scritta a undici anni.
Alla fine - come fa sempre nei suoi concerti - ci ringrazia di essere venuti ad ascoltarlo perché - ci dice - siamo noi, il suo pubblico, quello che va ai suoi concerti, che gli consente di vivere e di far vivere la sua famiglia.
Micah P. Hinson si conferma non solo un grande musicista, ma anche un uomo dal cuore grande, che - come dice F. - sotto una scorza da duro mostra una sostanza tenerissima.
Voto: 3,5/5
venerdì 21 dicembre 2018
Tramonti tardo-autunnali sulla laguna
Con la scusa di andare a vedere la mostra di Willy Ronis ai Tre Oci, io e S. ne approfittiamo per organizzare un weekend veneziano. Ci si trova sul treno verso Venezia, dove arriviamo quando già sta diventando buio. Il b&b che abbiamo prenotato sta all'isola della Giudecca (luogo che mi piace molto e a cui sono affettivamente legata), nella zona della fermata del Redentore. Così - arrivate in stazione - prendiamo il biglietto valido per 48 ore e saltiamo sul primo vaporetto utile che va in quella direzione.
Alla fermata c'è ad aspettarci J. che ci accompagna al nostro appartamento e ci spiega tutto nei particolari. La casetta si trova a fianco della chiesa del Redentore, in una corte interna molto silenziosa, è spaziosa e accogliente.
Il tempo di mollare i bagagli e ci dirigiamo - in un nebbione che si taglia con il coltello - prima verso la Coop per comprare qualche rinforzo per la colazione e poi verso il bar Palanca dove ci aspettano I. e A. con cui abbiamo appuntamento per un aperitivo che a poco a poco diventa una cena fatta di cicchetti e di spritz. Rimaniamo a chiacchierare fino alla chiusura del locale e poi torniamo verso il b&b.
Per il sabato abbiamo pensato di andare a fare una gita a Torcello e abbiamo già preso tutte le informazioni del caso. Quando ci svegliamo il cielo è un po' coperto, ma nel tempo della nostra lauta colazione le nuvole sono state spazzate via e nel cielo azzurro splende un bellissimo sole quasi invernale. Eccoci sul vaporetto che ci porta a Fondamenta Nove e da qui con un altro vaporetto raggiungiamo Torcello, un'isola diversa da tutte le altre, pochissimo costruita e abitata.
Le piccole folle di persone che vengono scaricate dal vaporetto percorrono l'unica strada presente sull'isola facendo tappa prima al cosiddetto Ponte del diavolo, un ponte in pietra senza parapetti - dove tutti ci fermiamo per le foto - e poi al centro dell'isola, dove svetta il campanile della Basilica di Santa Maria Assunta. Prima della visita a questa grande basilica medievale, facciamo un giro anche alla Chiesa di Santa Fosca, con il suo caratteristico porticato.
Dopo andiamo a visitare l'interno della Basilica dove possiamo ammirare gli splendidi mosaici presenti sia nell'abside (dove domina la figura di Maria Assunta in un mare di oro) sia nel retro della facciata, dove c'è una complessa rappresentazione del Giudizio universale, purtroppo non del tutto visibile a causa dei lavori di restauro. A seguire saliamo sul campanile della basilica, da cui si gode una splendida vista su tutta l'isola e anche sulle isole circostanti. Da qui si apprezza il carattere selvaggio dell'isola di Torcello, dove oltre alle poche case presenti, dominano canali, piccole coltivazioni e aree paludose abitate dagli uccelli. Diciamo che qui si respira davvero l'atmosfera della laguna.
Tornando indietro verso il vaporetto, ci fermiamo a mangiare un fritto misto di pesce e un dolce al chiosco all'ingresso dell'isola, dove approda la maggior parte della gente, essendo i ristoranti presenti piuttosto cari.
Poiché è ancora presto, decidiamo di prendere il vaporetto per andare a Burano. Ci siamo state entrambe, ma si va verso l'ora del tramonto e potrebbe essere interessante vedere l'isola delle case colorate con la luce radente. Ed effettivamente non abbiamo scelto male: facciamo una lunga passeggiata per le strade dell'isola attraversando ponti e canali e fotografando le case colorate in tutti i modi possibili. Ci fermiamo anche a parlare con un abitante dell'isola che ci spiega che le case che vediamo sull'isola accanto, quella di Mazzorbo, sono case popolari e sono state fatte colorate per analogia con quelle di Burano, e che in fondo a Torcello si vive bene.
Quando è ora di tornare verso il vaporetto ci accorgiamo che è proprio il momento in cui il sole sta per tuffarsi nell'acqua della laguna. E così ci fermiamo su una banchina a osservare il tramonto e a fotografare una coppia abbracciata che pure si è fermata a guardare il tramonto, mentre in laguna di tanto in tanto sfrecciano giovani con piccoli motoscafi che impennano impazziti sull'acqua.
Torniamo al vaporetto dove ci attende una lunga fila di persone in attesa di lasciare l'isola. Per fortuna l'Actv provvede a mandare un vaporetto molto grande che riesce a imbarcare tutti o quasi. Spiaccicati come sardine torniamo a Fondamenta Nove. Qui andiamo alla ricerca di un bar per trascorrere il tempo fino alla nostra cena e, dopo un po' di cammino, ci fermiamo nel primo posto un po' tranquillo che vediamo.
A questo punto abbiamo l'idea geniale di chiamare il ristorante dove abbiamo prenotato per le nove per verificare se hanno posto prima, e per fortuna così è. Dunque alle sette siamo all'Osteria Ai promessi sposi dove - mentre tutti all'ingresso fanno aperitivo coi cicchetti - noi ci sediamo per la nostra cena. Prendiamo due antipasti, un favoloso guazzetto di crostacei e un polpo alla griglia su insalata di finocchi, un piatto di bigoli al ragù di oca in due e un piatto di seppie in umido sempre a mezzi. Tutto ottimo, peccato solo per il vino bianco della casa, parecchio deludente.
Felici e satolle, possiamo riprendere il nostro vaporetto verso il b&b. Nel frattempo è di nuovo salito un gran nebbione, che dà l'impressione di viaggiare in un buco nero. A San Zaccaria tutti scendono, noi restiamo là pensando che il viaggio prosegua, ma arriva l'omino Actv a dirci che la corsa termina là e che dobbiamo prendere un altro vaporetto per andare alla Giudecca. Visto che siamo da quelle parti decidiamo di andare a fare un giro a piazza San Marco avvolta nella nebbia e non ci pentiamo. Non c'è moltissima gente e soprattutto l'atmosfera è ovattata e irreale. Ora davvero siamo pronte per andare a dormire.
Il giorno dopo - che è purtroppo già il giorno della nostra partenza - decidiamo di dedicarlo interamente alla Giudecca. Dopo una lauta colazione e dopo aver lasciato le valigie al b&b ci dirigiamo - ancora una volta in un clima freddo ma con il cielo azzurro e il sole - verso i Tre Oci per andare a vedere la mostra di Willy Ronis (di cui parlo qui). Quando usciamo ci incamminiamo verso Palanca per cercare un posto dove mangiare qualcosa. Ci fermiamo all'Osteria Ae Botti, dove prendiamo un po' di cicchetti e beviamo due spritz (io nel frattempo mi sono appassionata allo spritz Cynar).
In attesa di incontrare I. per un caffè di saluto e grazie ai suoi suggerimenti, ci dirigiamo verso l'area Junghans della Giudecca, quella che lei definisce l'area "dechirichiana" dell'isola. Effettivamente si tratta di un'area con un'architettura moderna, completamente diversa da quella presente sul resto dell'isola, che a tratti fa quasi pensare di essere in un paese nordeuropeo.
Nel frattempo è ora del nostro caffè da Majer, accompagnato da un ottimo dolcino e da un po' di chiacchiere. Quando siamo di nuovo in fondamenta, ci allunghiamo verso il Molino Stucky, oggi sede dell'Hotel Hilton e poi ci dirigiamo prima verso Sacca Fisola, poi verso il carcere femminile, infine di nuovo nella zona Junghans da dove assistiamo a un altro spettacolare tramonto, insieme a pochi altri fortunati.
Purtroppo anche questa piccola gita è finita ed è ora di riprendere le valigie e tornare a casa. Ma questa Venezia fuori dai percorsi soliti e con questa meravigliosa luce di fine autunno e quest'aria frizzante ci ha regalato tanta bellezza che speriamo di portarci dietro per le prossime settimane.
(Qui una più ampia selezione di foto su Behance)
Alla fermata c'è ad aspettarci J. che ci accompagna al nostro appartamento e ci spiega tutto nei particolari. La casetta si trova a fianco della chiesa del Redentore, in una corte interna molto silenziosa, è spaziosa e accogliente.
Il tempo di mollare i bagagli e ci dirigiamo - in un nebbione che si taglia con il coltello - prima verso la Coop per comprare qualche rinforzo per la colazione e poi verso il bar Palanca dove ci aspettano I. e A. con cui abbiamo appuntamento per un aperitivo che a poco a poco diventa una cena fatta di cicchetti e di spritz. Rimaniamo a chiacchierare fino alla chiusura del locale e poi torniamo verso il b&b.
Per il sabato abbiamo pensato di andare a fare una gita a Torcello e abbiamo già preso tutte le informazioni del caso. Quando ci svegliamo il cielo è un po' coperto, ma nel tempo della nostra lauta colazione le nuvole sono state spazzate via e nel cielo azzurro splende un bellissimo sole quasi invernale. Eccoci sul vaporetto che ci porta a Fondamenta Nove e da qui con un altro vaporetto raggiungiamo Torcello, un'isola diversa da tutte le altre, pochissimo costruita e abitata.
Le piccole folle di persone che vengono scaricate dal vaporetto percorrono l'unica strada presente sull'isola facendo tappa prima al cosiddetto Ponte del diavolo, un ponte in pietra senza parapetti - dove tutti ci fermiamo per le foto - e poi al centro dell'isola, dove svetta il campanile della Basilica di Santa Maria Assunta. Prima della visita a questa grande basilica medievale, facciamo un giro anche alla Chiesa di Santa Fosca, con il suo caratteristico porticato.
Dopo andiamo a visitare l'interno della Basilica dove possiamo ammirare gli splendidi mosaici presenti sia nell'abside (dove domina la figura di Maria Assunta in un mare di oro) sia nel retro della facciata, dove c'è una complessa rappresentazione del Giudizio universale, purtroppo non del tutto visibile a causa dei lavori di restauro. A seguire saliamo sul campanile della basilica, da cui si gode una splendida vista su tutta l'isola e anche sulle isole circostanti. Da qui si apprezza il carattere selvaggio dell'isola di Torcello, dove oltre alle poche case presenti, dominano canali, piccole coltivazioni e aree paludose abitate dagli uccelli. Diciamo che qui si respira davvero l'atmosfera della laguna.
Tornando indietro verso il vaporetto, ci fermiamo a mangiare un fritto misto di pesce e un dolce al chiosco all'ingresso dell'isola, dove approda la maggior parte della gente, essendo i ristoranti presenti piuttosto cari.
Poiché è ancora presto, decidiamo di prendere il vaporetto per andare a Burano. Ci siamo state entrambe, ma si va verso l'ora del tramonto e potrebbe essere interessante vedere l'isola delle case colorate con la luce radente. Ed effettivamente non abbiamo scelto male: facciamo una lunga passeggiata per le strade dell'isola attraversando ponti e canali e fotografando le case colorate in tutti i modi possibili. Ci fermiamo anche a parlare con un abitante dell'isola che ci spiega che le case che vediamo sull'isola accanto, quella di Mazzorbo, sono case popolari e sono state fatte colorate per analogia con quelle di Burano, e che in fondo a Torcello si vive bene.
Quando è ora di tornare verso il vaporetto ci accorgiamo che è proprio il momento in cui il sole sta per tuffarsi nell'acqua della laguna. E così ci fermiamo su una banchina a osservare il tramonto e a fotografare una coppia abbracciata che pure si è fermata a guardare il tramonto, mentre in laguna di tanto in tanto sfrecciano giovani con piccoli motoscafi che impennano impazziti sull'acqua.
Torniamo al vaporetto dove ci attende una lunga fila di persone in attesa di lasciare l'isola. Per fortuna l'Actv provvede a mandare un vaporetto molto grande che riesce a imbarcare tutti o quasi. Spiaccicati come sardine torniamo a Fondamenta Nove. Qui andiamo alla ricerca di un bar per trascorrere il tempo fino alla nostra cena e, dopo un po' di cammino, ci fermiamo nel primo posto un po' tranquillo che vediamo.
A questo punto abbiamo l'idea geniale di chiamare il ristorante dove abbiamo prenotato per le nove per verificare se hanno posto prima, e per fortuna così è. Dunque alle sette siamo all'Osteria Ai promessi sposi dove - mentre tutti all'ingresso fanno aperitivo coi cicchetti - noi ci sediamo per la nostra cena. Prendiamo due antipasti, un favoloso guazzetto di crostacei e un polpo alla griglia su insalata di finocchi, un piatto di bigoli al ragù di oca in due e un piatto di seppie in umido sempre a mezzi. Tutto ottimo, peccato solo per il vino bianco della casa, parecchio deludente.
Felici e satolle, possiamo riprendere il nostro vaporetto verso il b&b. Nel frattempo è di nuovo salito un gran nebbione, che dà l'impressione di viaggiare in un buco nero. A San Zaccaria tutti scendono, noi restiamo là pensando che il viaggio prosegua, ma arriva l'omino Actv a dirci che la corsa termina là e che dobbiamo prendere un altro vaporetto per andare alla Giudecca. Visto che siamo da quelle parti decidiamo di andare a fare un giro a piazza San Marco avvolta nella nebbia e non ci pentiamo. Non c'è moltissima gente e soprattutto l'atmosfera è ovattata e irreale. Ora davvero siamo pronte per andare a dormire.
Il giorno dopo - che è purtroppo già il giorno della nostra partenza - decidiamo di dedicarlo interamente alla Giudecca. Dopo una lauta colazione e dopo aver lasciato le valigie al b&b ci dirigiamo - ancora una volta in un clima freddo ma con il cielo azzurro e il sole - verso i Tre Oci per andare a vedere la mostra di Willy Ronis (di cui parlo qui). Quando usciamo ci incamminiamo verso Palanca per cercare un posto dove mangiare qualcosa. Ci fermiamo all'Osteria Ae Botti, dove prendiamo un po' di cicchetti e beviamo due spritz (io nel frattempo mi sono appassionata allo spritz Cynar).
In attesa di incontrare I. per un caffè di saluto e grazie ai suoi suggerimenti, ci dirigiamo verso l'area Junghans della Giudecca, quella che lei definisce l'area "dechirichiana" dell'isola. Effettivamente si tratta di un'area con un'architettura moderna, completamente diversa da quella presente sul resto dell'isola, che a tratti fa quasi pensare di essere in un paese nordeuropeo.
Nel frattempo è ora del nostro caffè da Majer, accompagnato da un ottimo dolcino e da un po' di chiacchiere. Quando siamo di nuovo in fondamenta, ci allunghiamo verso il Molino Stucky, oggi sede dell'Hotel Hilton e poi ci dirigiamo prima verso Sacca Fisola, poi verso il carcere femminile, infine di nuovo nella zona Junghans da dove assistiamo a un altro spettacolare tramonto, insieme a pochi altri fortunati.
Purtroppo anche questa piccola gita è finita ed è ora di riprendere le valigie e tornare a casa. Ma questa Venezia fuori dai percorsi soliti e con questa meravigliosa luce di fine autunno e quest'aria frizzante ci ha regalato tanta bellezza che speriamo di portarci dietro per le prossime settimane.
(Qui una più ampia selezione di foto su Behance)
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mercoledì 19 dicembre 2018
Willy Ronis. Fotografie 1934-1998. Venezia, Tre Oci, 9 dicembre 2018
La mostra antologica su Willy Ronis al Palazzo dei Tre Oci, il palazzo novecentesco della Giudecca ormai deputato alla fotografia, è stata l'occasione di un bel weekend veneziano, in cui abbiamo potuto godere di molte altre meraviglie. Devo dire però che la mostra da sola vale il viaggio.
Willy Ronis è un fotografo francese, figlio di immigrati dall'Est Europa, che nella sua lunga vita (è morto nel 2009 a 99 anni) è stato attivo sul fronte fotografico per oltre 75 anni e lo ha fatto senza mai tradire la sua vocazione per il filone della "fotografia umanista".
Ronis - pur avendo viaggiato molto e a lungo e avendo fatto fotografie in tutto il mondo (come testimonia una sezione della mostra che ospita anche le foto fatte a Venezia) - ha sempre mantenuto un rapporto privilegiato con la Francia, in particolare con la città di Parigi, e nello specifico con il quartiere di Belleville e Ménilmontant. Nelle sue foto - realizzate tutte in uno splendido bianco e nero - prevalgono le situazioni catturate per strada, ma i protagonisti non sono solo sconosciuti e passanti, bensì spesso anche familiari e amici. Due delle foto più famose di Ronis sono infatti quella della moglie Marie-Anne che si lava nuda a un lavabo della casa di campagna e quella di suo figlio Vincent che fa volare un aeroplanino.
Il suo lavoro però comprende anche numerosi reportage e fotografie realizzate su commissione, che raccontano alcuni momenti e aspetti significativi della recente storia francese, come ad esempio gli scioperi e la vita nelle fabbriche.
La mostra veneziana consente al visitatore di effettuare un percorso attraverso le oltre 120 fotografie selezionate, che sono organizzate per filoni di interessi, tematiche e chiavi di lettura significative. Tali sezioni sono introdotte da pannelli illustrativi brevi ed efficaci che arricchiscono la visita senza rallentarla né appesantirla. Le foto sono tutte corredate di didascalie, e alcune di queste riportano il commento dello stesso Ronis che offre dei dettagli sulle circostanze e i modi dello scatto, nonché - cosa piuttosto rara - sul lavoro effettuato in fase di stampa.
Il percorso attraverso i tre piani della mostra è reso ancora più interessante dalla possibilità di fermarsi per un approfondimento nelle due salette allestite con due video dedicati al fotografo: in uno vediamo lo stesso Ronis ultranovantenne ma lucidissimo che racconta la sua storia fotografica e personale, nell'altro ascoltiamo il direttore dei Tre Oci che ci racconta come è nata la mostra e ci offre il suo punto di vista sul fotografo e la sua produzione. Entrambi i video risultano interessanti e della giusta durata nell'economia della visita alla mostra.
Una nota di merito infine al fatto che, all'interno degli spazi della mostra, è possibile scattare fotografie, cosa che non sempre viene consentito.
All'uscita ci regalano una cartolina con la riproduzione di una fotografia di Ronis, quella famosa dei due innamorati che amoreggiano a una terrazza che si affaccia sullo splendido panorama parigino, ma peccato che non sia possibile acquistare le locandine della mostra, che pure sono state realizzate in diverse versioni. Io mi consolo comprando il libro Le regole del caso, nella serie "Lezioni di fotografia" che l'editrice Contrasto ha dedicato appunto a Ronis e alle sue fotografie.
Una mostra molto bella e suggestiva, in un ambiente altrettanto bello e con una vista magnifica sulla Chiesa della Salute, dall'altra parte del Canale della Giudecca.
Voto: 4/5
Willy Ronis è un fotografo francese, figlio di immigrati dall'Est Europa, che nella sua lunga vita (è morto nel 2009 a 99 anni) è stato attivo sul fronte fotografico per oltre 75 anni e lo ha fatto senza mai tradire la sua vocazione per il filone della "fotografia umanista".
Ronis - pur avendo viaggiato molto e a lungo e avendo fatto fotografie in tutto il mondo (come testimonia una sezione della mostra che ospita anche le foto fatte a Venezia) - ha sempre mantenuto un rapporto privilegiato con la Francia, in particolare con la città di Parigi, e nello specifico con il quartiere di Belleville e Ménilmontant. Nelle sue foto - realizzate tutte in uno splendido bianco e nero - prevalgono le situazioni catturate per strada, ma i protagonisti non sono solo sconosciuti e passanti, bensì spesso anche familiari e amici. Due delle foto più famose di Ronis sono infatti quella della moglie Marie-Anne che si lava nuda a un lavabo della casa di campagna e quella di suo figlio Vincent che fa volare un aeroplanino.
Il suo lavoro però comprende anche numerosi reportage e fotografie realizzate su commissione, che raccontano alcuni momenti e aspetti significativi della recente storia francese, come ad esempio gli scioperi e la vita nelle fabbriche.
La mostra veneziana consente al visitatore di effettuare un percorso attraverso le oltre 120 fotografie selezionate, che sono organizzate per filoni di interessi, tematiche e chiavi di lettura significative. Tali sezioni sono introdotte da pannelli illustrativi brevi ed efficaci che arricchiscono la visita senza rallentarla né appesantirla. Le foto sono tutte corredate di didascalie, e alcune di queste riportano il commento dello stesso Ronis che offre dei dettagli sulle circostanze e i modi dello scatto, nonché - cosa piuttosto rara - sul lavoro effettuato in fase di stampa.
Il percorso attraverso i tre piani della mostra è reso ancora più interessante dalla possibilità di fermarsi per un approfondimento nelle due salette allestite con due video dedicati al fotografo: in uno vediamo lo stesso Ronis ultranovantenne ma lucidissimo che racconta la sua storia fotografica e personale, nell'altro ascoltiamo il direttore dei Tre Oci che ci racconta come è nata la mostra e ci offre il suo punto di vista sul fotografo e la sua produzione. Entrambi i video risultano interessanti e della giusta durata nell'economia della visita alla mostra.
Una nota di merito infine al fatto che, all'interno degli spazi della mostra, è possibile scattare fotografie, cosa che non sempre viene consentito.
All'uscita ci regalano una cartolina con la riproduzione di una fotografia di Ronis, quella famosa dei due innamorati che amoreggiano a una terrazza che si affaccia sullo splendido panorama parigino, ma peccato che non sia possibile acquistare le locandine della mostra, che pure sono state realizzate in diverse versioni. Io mi consolo comprando il libro Le regole del caso, nella serie "Lezioni di fotografia" che l'editrice Contrasto ha dedicato appunto a Ronis e alle sue fotografie.
Una mostra molto bella e suggestiva, in un ambiente altrettanto bello e con una vista magnifica sulla Chiesa della Salute, dall'altra parte del Canale della Giudecca.
Voto: 4/5
lunedì 17 dicembre 2018
Bohemian Rhapsody
Bryan Singer, il regista che è diventato famoso per I soliti sospetti e che poi si è specializzato soprattutto in blockbuster movies dedicati ai supereroi, ci regala con Bohemian Rhapsody un biopic dedicato a uno dei personaggi più iconici degli anni Settanta-Ottanta, Freddie Mercury.
Il film di Singer non sembra cercare l'originalità a tutti i costi né vuole sorprendere con rivelazioni e guizzi inaspettati i fans di Freddie e dei Queen, bensì si mette al servizio di una vita che di per sé stessa ha dell'incredibile e del romanzesco: quella di Farrokh Bulsara, un ragazzo di origine parsi, nato a Zanzibar e poi emigrato insieme alla famiglia a Londra, nato per la musica e per il palcoscenico, e destinato a un successo mondiale e a una vita breve.
A interpretarlo è chiamato il semisconosciuto attore americano di origine egiziana, Rami Malek, che - nonostante l'ingombro della posticcia protesi dentale che indossa per assomigliare maggiormente a Mercury - fa secondo me bene un lavoro non certo facile, perché nessuno può uscire davvero vincente dal tentativo di assomigliare a una star inimitabile come Freddie Mercury.
Quella di Freddie Mercury è una parabola tipica di altri personaggi di umili origini e di grandi talenti: osteggiato dal padre, con cui si riconcilierà solo alla fine, Farrokh prima si propone come voce a un piccolo gruppo musicale che suona nei pub di Londra e di cui fanno parte Brian May e Roger Taylor, poi - dopo l'ingresso di John Deacon - sarà determinante, anche grazie alla sua spavalderia e alla sua capacità di pensare in grande e di rischiare, nella realizzazione del progetto Queen, di cui sceglie il nome e disegna il logo. Nel giro di pochi anni, il gruppo conquista un successo strepitoso che diventa in poco tempo mondiale. Mentre la loro musica cresce e sperimenta strade diverse - l'apice è rappresentato appunto da Bohemian Rhapsody, un brano della durata di 6 minuti che i Queen vogliono come singolo del loro album e che diventa il motivo di rottura con il loro primo manager - la vita personale di Freddie deraglia: il suo matrimonio con Mary (Lucy Boynton) - l'amore della sua vita, come lui stesso la definisce in una famosissima canzone - termina perché Freddie si rende conto di non poter mettere a tacere la sua omosessualità, inizia il suo sodalizio professionale e affettivo con Paul Prenter, un'anima nera che lo allontanerà dal gruppo e dagli amici e lo incoraggerà ad alimentare la sua smania di eccessi e il suo tentativo continuo di riempire vuoti, fino alla scoperta della malattia e la decisione di viverla nell'unico modo possibile, ossia dentro la musica. Da qui inizierà una nuova fase nella vita di Freddie, un ritorno agli affetti più veri, la riconciliazione con la famiglia, un nuovo compagno che gli starà vicino fino alla fine.
Raccontata così sembra l'ennesima storia edificante e fatta apposta per conquistare il pubblico sul piano emotivo, cosa che al film riesce perfettamente (e dunque preparate i fazzoletti!), ma la differenza la fa un personaggio come Freddie Mercury che con le sue performance, i suoi travestimenti, la sua voce strepitosa, i suoi eccessi, il suo anticonformismo ha cambiato il mondo della musica e ha lasciato un segno indelebile, che sembra agire ancora oggi a distanza di anni dalla sua morte, come dimostra la presenza di molti giovani in sala.
Il film di Singer evita di trasformare Mercury in un santino e ne mette in evidenza la personalità complessa e sfaccettata; nonostante questo il cliché tipico dei biopic è dietro l'angolo e resta forte la sensazione che le cose siano state più complesse di come appaiono sullo schermo, così come è molto probabile che alcuni personaggi siano meno monodimensionali di come sono stati rappresentati.
Però, il film resta emozionante, gli attori sono credibili, e le musiche intramontabili dei Queen fanno il resto. E dunque non si può non uscire col cuore stretto e continuando a cantare We are the champions con i brividi addosso di quello stadio di Wembley strapieno di fronte al quale Freddie Mercury ha fatto una delle sue performance più toccanti e divertenti della sua carriera.
Voto: 3/5
Il film di Singer non sembra cercare l'originalità a tutti i costi né vuole sorprendere con rivelazioni e guizzi inaspettati i fans di Freddie e dei Queen, bensì si mette al servizio di una vita che di per sé stessa ha dell'incredibile e del romanzesco: quella di Farrokh Bulsara, un ragazzo di origine parsi, nato a Zanzibar e poi emigrato insieme alla famiglia a Londra, nato per la musica e per il palcoscenico, e destinato a un successo mondiale e a una vita breve.
A interpretarlo è chiamato il semisconosciuto attore americano di origine egiziana, Rami Malek, che - nonostante l'ingombro della posticcia protesi dentale che indossa per assomigliare maggiormente a Mercury - fa secondo me bene un lavoro non certo facile, perché nessuno può uscire davvero vincente dal tentativo di assomigliare a una star inimitabile come Freddie Mercury.
Quella di Freddie Mercury è una parabola tipica di altri personaggi di umili origini e di grandi talenti: osteggiato dal padre, con cui si riconcilierà solo alla fine, Farrokh prima si propone come voce a un piccolo gruppo musicale che suona nei pub di Londra e di cui fanno parte Brian May e Roger Taylor, poi - dopo l'ingresso di John Deacon - sarà determinante, anche grazie alla sua spavalderia e alla sua capacità di pensare in grande e di rischiare, nella realizzazione del progetto Queen, di cui sceglie il nome e disegna il logo. Nel giro di pochi anni, il gruppo conquista un successo strepitoso che diventa in poco tempo mondiale. Mentre la loro musica cresce e sperimenta strade diverse - l'apice è rappresentato appunto da Bohemian Rhapsody, un brano della durata di 6 minuti che i Queen vogliono come singolo del loro album e che diventa il motivo di rottura con il loro primo manager - la vita personale di Freddie deraglia: il suo matrimonio con Mary (Lucy Boynton) - l'amore della sua vita, come lui stesso la definisce in una famosissima canzone - termina perché Freddie si rende conto di non poter mettere a tacere la sua omosessualità, inizia il suo sodalizio professionale e affettivo con Paul Prenter, un'anima nera che lo allontanerà dal gruppo e dagli amici e lo incoraggerà ad alimentare la sua smania di eccessi e il suo tentativo continuo di riempire vuoti, fino alla scoperta della malattia e la decisione di viverla nell'unico modo possibile, ossia dentro la musica. Da qui inizierà una nuova fase nella vita di Freddie, un ritorno agli affetti più veri, la riconciliazione con la famiglia, un nuovo compagno che gli starà vicino fino alla fine.
Raccontata così sembra l'ennesima storia edificante e fatta apposta per conquistare il pubblico sul piano emotivo, cosa che al film riesce perfettamente (e dunque preparate i fazzoletti!), ma la differenza la fa un personaggio come Freddie Mercury che con le sue performance, i suoi travestimenti, la sua voce strepitosa, i suoi eccessi, il suo anticonformismo ha cambiato il mondo della musica e ha lasciato un segno indelebile, che sembra agire ancora oggi a distanza di anni dalla sua morte, come dimostra la presenza di molti giovani in sala.
Il film di Singer evita di trasformare Mercury in un santino e ne mette in evidenza la personalità complessa e sfaccettata; nonostante questo il cliché tipico dei biopic è dietro l'angolo e resta forte la sensazione che le cose siano state più complesse di come appaiono sullo schermo, così come è molto probabile che alcuni personaggi siano meno monodimensionali di come sono stati rappresentati.
Però, il film resta emozionante, gli attori sono credibili, e le musiche intramontabili dei Queen fanno il resto. E dunque non si può non uscire col cuore stretto e continuando a cantare We are the champions con i brividi addosso di quello stadio di Wembley strapieno di fronte al quale Freddie Mercury ha fatto una delle sue performance più toccanti e divertenti della sua carriera.
Voto: 3/5
venerdì 14 dicembre 2018
Roma
Roma, quartiere della borghesia di Città del Messico, primissimi anni Settanta. Cleo (Yalitza Aparicio) è una delle due domestiche che lavorano per la signora Sofia (Marina de Tavira) e suo marito Antonio, e che si occupano della casa e dei quattro figli, Pepe, Sofi, Toño e Paco.
Pur in una convivenza rispettosa tra la famiglia e le domestiche, si tratta di due mondi paralleli e non comunicanti, in cui la vita delle due ragazze indie al di fuori del loro lavoro e degli impegni domestici rimane praticamente invisibile .
Accade però - quasi contemporaneamente - qualcosa di inaspettato e di dirompente per gli equilibri di questi due universi: il dottor Antonio lascia la moglie per un'altra donna e va via di casa, mentre Cleo resta incinta del ragazzo che frequenta e di cui è innamorata, Fermìn, che - appena apprende la notizia - sparisce senza lasciare traccia.
Le due donne si trovano così entrambe a fronteggiare la solitudine e l'intera responsabilità dei figli che ci sono e di quello che nascerà. Quando Cleo comunica alla signora Sofia che è incinta, temendo di essere licenziata, quest'ultima reagisce invece con compassione e utilizza le sue conoscenze e la sua condizione di benessere per aiutare la ragazza.
Nel frattempo le vite delle due donne dovranno individualmente fare i conti con la realtà: Cleo va al villaggio dove vive Fermìn per verificare se è disponibile a prendersi cura di lei e di suoi figlio; la signora Sofia cerca di capire le intenzioni del marito e intanto racconta bugie ai bambini per non destabilizzarli.
Di fronte alla insensibilità, alla durezza e alla superficialità dei loro compagni, le due donne saranno chiamate a reagire al dolore e al senso di colpa e dimostreranno una forza e una dignità straordinarie nel tirare fuori le proprie risorse e nel sapersi reinventare.
In un certo senso, queste due donne così distanti culturalmente e socialmente - e destinate comunque ad appartenere a mondi diversi - si salvano a vicenda, offrendosi reciprocamente l'occasione di un riscatto che dà a ciascuna l'opportunità di ritrovare il senso della propria esistenza.
Questa bellissima storia si muove all'interno di un paese caratterizzato da profonde disuguaglianze (i diseredati che vivono nelle baraccopoli da un lato e i latifondisti che si divertono a sparare e a imbalsamare gli animali dall'altro) e attraversato dai venti della rivoluzione e dalla richiesta di sovvertimento dell'ordine sociale, che il governo cerca di sedare anche reclutando i giovani nullatenenti che vivono nelle baracche e che sono cresciuti nel mito della forza e della fisicità. Allo stesso tempo si respira l'aspirazione alla modernità e la proiezione verso il futuro, come emerge dalla fascinazione collettiva verso la corsa spaziale [in particolare, nelle due scene parallele dei bambini, il ricco e il povero, che giocano a fare gli astronauti, e nella proiezione al cinema del film Marooned (Abbandonati nello spazio)]. Il cinema tra l'altro è fortemente presente e in qualche modo scandisce il tempo libero anche delle classi inferiori (l'altra scena al cinema vede la proiezione sullo schermo di La Grande vadrouille, in italiano Tre uomini in fuga).
Questo straordinario affresco sociale mirabilmente raccontato dal piccolo angolo di visuale di Cleo e della famiglia per la quale lavora è ulteriormente valorizzato dalla meticolosità delle scelte registiche e cinematografiche: un bianco e nero di una bellezza struggente, una ricostruzione degli interni e degli esterni da lasciare a bocca aperta, un sonoro immersivo che ci fa arrivare, come dall'esterno della proiezione, voci e rumori di cose che non vediamo sullo schermo ma che intuiamo.
Alcune sequenze - tra cui per esempio quella che si svolge sulla terrazza dove Cleo sta lavando i vestiti, mentre tutto intorno decine di altre domestiche fanno lo stesso, e dove arriva il piccolo Pepe a giocare con il fratello - sono indimenticabili, così come emozionanti sono i momenti di tenerezza e di interazione tra Cleo e i bambini, quasi certamente un tributo che il regista Alfonso Cuarón fa a queste donne che hanno cresciuto per decenni la futura borghesia messicana.
Ero andata a vedere il film un po' prevenuta, forse condizionata dalle polemiche di Venezia e dai pregiudizi di queste nuove forme di distribuzione di Netflix (che sinceramente continuo a non gradire), ma il film è un grande film ed è - secondo me - un film assolutamente pensato per il grande schermo e la sala cinematografica, cosicché qualunque altra fruizione alternativa sarà in ogni caso un'esperienza in modalità ridotta.
Voto: 4/5
Pur in una convivenza rispettosa tra la famiglia e le domestiche, si tratta di due mondi paralleli e non comunicanti, in cui la vita delle due ragazze indie al di fuori del loro lavoro e degli impegni domestici rimane praticamente invisibile .
Accade però - quasi contemporaneamente - qualcosa di inaspettato e di dirompente per gli equilibri di questi due universi: il dottor Antonio lascia la moglie per un'altra donna e va via di casa, mentre Cleo resta incinta del ragazzo che frequenta e di cui è innamorata, Fermìn, che - appena apprende la notizia - sparisce senza lasciare traccia.
Le due donne si trovano così entrambe a fronteggiare la solitudine e l'intera responsabilità dei figli che ci sono e di quello che nascerà. Quando Cleo comunica alla signora Sofia che è incinta, temendo di essere licenziata, quest'ultima reagisce invece con compassione e utilizza le sue conoscenze e la sua condizione di benessere per aiutare la ragazza.
Nel frattempo le vite delle due donne dovranno individualmente fare i conti con la realtà: Cleo va al villaggio dove vive Fermìn per verificare se è disponibile a prendersi cura di lei e di suoi figlio; la signora Sofia cerca di capire le intenzioni del marito e intanto racconta bugie ai bambini per non destabilizzarli.
Di fronte alla insensibilità, alla durezza e alla superficialità dei loro compagni, le due donne saranno chiamate a reagire al dolore e al senso di colpa e dimostreranno una forza e una dignità straordinarie nel tirare fuori le proprie risorse e nel sapersi reinventare.
In un certo senso, queste due donne così distanti culturalmente e socialmente - e destinate comunque ad appartenere a mondi diversi - si salvano a vicenda, offrendosi reciprocamente l'occasione di un riscatto che dà a ciascuna l'opportunità di ritrovare il senso della propria esistenza.
Questa bellissima storia si muove all'interno di un paese caratterizzato da profonde disuguaglianze (i diseredati che vivono nelle baraccopoli da un lato e i latifondisti che si divertono a sparare e a imbalsamare gli animali dall'altro) e attraversato dai venti della rivoluzione e dalla richiesta di sovvertimento dell'ordine sociale, che il governo cerca di sedare anche reclutando i giovani nullatenenti che vivono nelle baracche e che sono cresciuti nel mito della forza e della fisicità. Allo stesso tempo si respira l'aspirazione alla modernità e la proiezione verso il futuro, come emerge dalla fascinazione collettiva verso la corsa spaziale [in particolare, nelle due scene parallele dei bambini, il ricco e il povero, che giocano a fare gli astronauti, e nella proiezione al cinema del film Marooned (Abbandonati nello spazio)]. Il cinema tra l'altro è fortemente presente e in qualche modo scandisce il tempo libero anche delle classi inferiori (l'altra scena al cinema vede la proiezione sullo schermo di La Grande vadrouille, in italiano Tre uomini in fuga).
Questo straordinario affresco sociale mirabilmente raccontato dal piccolo angolo di visuale di Cleo e della famiglia per la quale lavora è ulteriormente valorizzato dalla meticolosità delle scelte registiche e cinematografiche: un bianco e nero di una bellezza struggente, una ricostruzione degli interni e degli esterni da lasciare a bocca aperta, un sonoro immersivo che ci fa arrivare, come dall'esterno della proiezione, voci e rumori di cose che non vediamo sullo schermo ma che intuiamo.
Alcune sequenze - tra cui per esempio quella che si svolge sulla terrazza dove Cleo sta lavando i vestiti, mentre tutto intorno decine di altre domestiche fanno lo stesso, e dove arriva il piccolo Pepe a giocare con il fratello - sono indimenticabili, così come emozionanti sono i momenti di tenerezza e di interazione tra Cleo e i bambini, quasi certamente un tributo che il regista Alfonso Cuarón fa a queste donne che hanno cresciuto per decenni la futura borghesia messicana.
Ero andata a vedere il film un po' prevenuta, forse condizionata dalle polemiche di Venezia e dai pregiudizi di queste nuove forme di distribuzione di Netflix (che sinceramente continuo a non gradire), ma il film è un grande film ed è - secondo me - un film assolutamente pensato per il grande schermo e la sala cinematografica, cosicché qualunque altra fruizione alternativa sarà in ogni caso un'esperienza in modalità ridotta.
Voto: 4/5
mercoledì 12 dicembre 2018
Ovunque proteggimi
Siamo nel nord della Sardegna: Alessandro (Alessandro Gazale) è un cantante di musica folk che vive ancora con la madre e passa il tempo in cui non canta a bere e a giocare alle slot nei bar. Di fronte all’ennesima esplosione collerica, sua madre chiama la polizia e Alessandro viene portato in un reparto psichiatrico per essere disintossicato e rimesso in carreggiata.
Qui incontra Francesca (Francesca Niedda), una giovane donna altrettanta alienata e fuori posto nel mondo, probabilmente drogata e psicologicamente instabile, cui è stato tolto il figlio, Antonio (Antonio Angius), mandato in una comunità a Cagliari.
Francesca, con il suo modo non mediato di creare un contatto, conquista il cuore di Alessandro e fa scattare in lui il desiderio di aiutarla a ritrovare suo figlio. I due si mettono così in viaggio per le strade della Sardegna attraversandola da nord a sud, fino a Cagliari, dove però le viene negata la possibilità di vedere Antonio.
Quest’ultimo riesce a infilarsi di nascosto nella loro macchina e parte con loro, mentre prende corpo il folle tentativo di Francesca di inseguire un sogno e ricostruirsi una vita lontano dalla Sardegna. Alessandro gradualmente farà suo questo sogno, arrivando a sacrificare sé stesso per offrire una possibilità di riscatto alla donna che ama e a suo figlio.
Il film di Bonifacio Angius affronta un tema molto trattato nella cinematografia, quello dell’incontro tra due solitudini, il riconoscersi di due vite che non trovano posto nell’ordine del mondo, e che sono fatalmente e inevitabilmente destinate alla sconfitta, ma che nondimeno sono gonfie di sentimenti, di dolori, di piccole e grandi gioie, di desideri e di sogni come le vite di tutti. Questo legame si costruisce gradualmente sulle strade della Sardegna, una Sardegna di colline e vallate, molto diversa dalla Sardegna da cartolina cui siamo abituati, una terra aspra, difficile e che appare, agli occhi dei suoi personaggi, senza futuro.
Non c’è nulla di strettamente originale nel film di Angius, che – come lui stesso dice – si richiama ad alcuni grandi classici del passato che fanno parte della sua personale memoria cinematografica e utilizza i metodi già sperimentati da alcuni maestri (ad esempio la scelta di far recitare amici e parenti, come faceva John Cassavetes. Però certamente il film si illumina di una verità e di una umanità profonda e sentita che conferisce a questi personaggi spessore e significato, contribuendo – seppure per la breve durata di un lungometraggio – a far uscire dall’oscurità le vite di tutti quelli che con la vita non riescono a fare pace.
È per questo che – come dice la locandina – questo film è “tratto da mille storie vere”.
Voto: 3/5
Qui incontra Francesca (Francesca Niedda), una giovane donna altrettanta alienata e fuori posto nel mondo, probabilmente drogata e psicologicamente instabile, cui è stato tolto il figlio, Antonio (Antonio Angius), mandato in una comunità a Cagliari.
Francesca, con il suo modo non mediato di creare un contatto, conquista il cuore di Alessandro e fa scattare in lui il desiderio di aiutarla a ritrovare suo figlio. I due si mettono così in viaggio per le strade della Sardegna attraversandola da nord a sud, fino a Cagliari, dove però le viene negata la possibilità di vedere Antonio.
Quest’ultimo riesce a infilarsi di nascosto nella loro macchina e parte con loro, mentre prende corpo il folle tentativo di Francesca di inseguire un sogno e ricostruirsi una vita lontano dalla Sardegna. Alessandro gradualmente farà suo questo sogno, arrivando a sacrificare sé stesso per offrire una possibilità di riscatto alla donna che ama e a suo figlio.
Il film di Bonifacio Angius affronta un tema molto trattato nella cinematografia, quello dell’incontro tra due solitudini, il riconoscersi di due vite che non trovano posto nell’ordine del mondo, e che sono fatalmente e inevitabilmente destinate alla sconfitta, ma che nondimeno sono gonfie di sentimenti, di dolori, di piccole e grandi gioie, di desideri e di sogni come le vite di tutti. Questo legame si costruisce gradualmente sulle strade della Sardegna, una Sardegna di colline e vallate, molto diversa dalla Sardegna da cartolina cui siamo abituati, una terra aspra, difficile e che appare, agli occhi dei suoi personaggi, senza futuro.
Non c’è nulla di strettamente originale nel film di Angius, che – come lui stesso dice – si richiama ad alcuni grandi classici del passato che fanno parte della sua personale memoria cinematografica e utilizza i metodi già sperimentati da alcuni maestri (ad esempio la scelta di far recitare amici e parenti, come faceva John Cassavetes. Però certamente il film si illumina di una verità e di una umanità profonda e sentita che conferisce a questi personaggi spessore e significato, contribuendo – seppure per la breve durata di un lungometraggio – a far uscire dall’oscurità le vite di tutti quelli che con la vita non riescono a fare pace.
È per questo che – come dice la locandina – questo film è “tratto da mille storie vere”.
Voto: 3/5
lunedì 10 dicembre 2018
Un cuore di vetro in inverno / di e con Filippo Timi. Teatro Ambra Jovinelli, 1 dicembre 2018
Dalla tenda che chiude il palco si affaccia una donna in abito da sposa; ah no, non è una donna, è lo stesso Timi, che si guarda intorno e poi scompare. Dopo poco, ricompare – sempre in abito da sposa – portando con sé una sedia e una chitarra, e comincia a suonare una canzone d’amore un po’ strampalata. Poi di nuovo scompare dietro la tenda.
Quando la tenda si apre, sulla scena, a sinistra la silhouette di cartone di una nuvola, a destra una casa sul cui ingresso campeggia la parola BAR fatta di lettere luminose. Lo spettacolo inizia raccontando dell’impresa che ha spinto l’uomo a esplorare la luna e poi a raggiungerla, il sogno tutto umano di superare i propri limiti, di sfidare continuamente sé stesso per raggiungere sempre nuovi obiettivi.
Poi sul palco c’è lui: Filippo Timi, scanzonato e picaresco, che parla con un curioso accento umbro, circondato da personaggi altrettanto buffi e stralunati: un menestrello triste che porta palloncini (Andrea Soffiantini), uno scudiero napoletano, ingenuo e malfidato (Michele Capuano), una prostituta sguaiata che parla con accento romagnolo (Elena Lietti), infine un angelo che vive su un trabiccolo che porta in giro una luna illuminata e che assomiglia e si atteggia un po’ come Marilyn Monroe (Marina Rocco).
In questo universo improbabile, il nostro antieroe si trova a un bivio della sua esistenza, quei momenti della vita in cui si fa un bilancio e ci si ritrova insicuri e in crisi, terrorizzati dal futuro, assaliti dai dubbi, paralizzati dalla paura. Che fare? Tocca partire per affrontare i propri mostri e sconfiggerli.
Ma quello di Timi è un viaggio donchisciottesco venato di follia e di nonsense, in cui ciascuno dei personaggi in scena incarna una sfaccettatura di un io multidimensionale, in cui convivono tante componenti, quella intellettuale, quella carnale, quella triviale, quella infantile, quella ridicola, quella seria, quella depressa, quella stupidamente allegra.
Ne viene fuori una narrazione che molte parentele ha col teatro dell’assurdo, sia per la totale destrutturazione della coerenza narrativa e spazio-temporale, sia per il modo in cui, in diversi momenti dello spettacolo, viene infranta la barriera invisibile tra gli attori e il pubblico, e quest’ultimo viene coinvolto e chiamato a partecipare ai pensieri del protagonista dello spettacolo, e persino alle difficoltà di chi sta dietro il personaggio, lo stesso Timi. Non è chiaro se, durante il momento di lungo silenzio in cui Timi dice di non ricordare la battuta, tutto ciò faccia parte dello spettacolo in una sofisticata operazione di destabilizzazione dello spettatore, ovvero stia accadendo nella realtà giustificando l’imbarazzo che si coglie nell’aria.
Lo spettacolo di Timi sembra fatto apposta per togliere all’uditorio qualunque certezza e aspettativa, costringendolo a lasciarsi andare a un nonsense in cui tutto si mescola: Lucio Battisti e Gigi D’Alessio, le barzellette e la poesia, i riferimenti colti e quelli popolari.
Lo spettacolo sembra dirci che, mentre noi tutti ci prendiamo sul serio in questi nostri percorsi di autoanalisi, la verità è che quello che possiamo fare è solo ridere di noi stessi, perché forse è la stessa vita umana a essere un pazzesco scherzo del destino, di cui accanto al lato profondo e tragico dovremmo cogliere anche quello ridicolo e leggero.
Non posso dire che lo spettacolo di Timi lì per lì abbia risuonato con il mio modo di essere. Sono uscita alquanto perplessa e ho cercato nelle ore successive di razionalizzare il senso di quello che ho visto, senza riuscirci mai del tutto.
Però in qualche modo qualcosa mi è rimasto dentro e ha agito su un piano che non è razionale e non è neanche emotivo, ma che ha lasciato qualche sedimento indecifrabile in angoli sconosciuti del mio cervello.
Voto: 3/5
Quando la tenda si apre, sulla scena, a sinistra la silhouette di cartone di una nuvola, a destra una casa sul cui ingresso campeggia la parola BAR fatta di lettere luminose. Lo spettacolo inizia raccontando dell’impresa che ha spinto l’uomo a esplorare la luna e poi a raggiungerla, il sogno tutto umano di superare i propri limiti, di sfidare continuamente sé stesso per raggiungere sempre nuovi obiettivi.
Poi sul palco c’è lui: Filippo Timi, scanzonato e picaresco, che parla con un curioso accento umbro, circondato da personaggi altrettanto buffi e stralunati: un menestrello triste che porta palloncini (Andrea Soffiantini), uno scudiero napoletano, ingenuo e malfidato (Michele Capuano), una prostituta sguaiata che parla con accento romagnolo (Elena Lietti), infine un angelo che vive su un trabiccolo che porta in giro una luna illuminata e che assomiglia e si atteggia un po’ come Marilyn Monroe (Marina Rocco).
In questo universo improbabile, il nostro antieroe si trova a un bivio della sua esistenza, quei momenti della vita in cui si fa un bilancio e ci si ritrova insicuri e in crisi, terrorizzati dal futuro, assaliti dai dubbi, paralizzati dalla paura. Che fare? Tocca partire per affrontare i propri mostri e sconfiggerli.
Ma quello di Timi è un viaggio donchisciottesco venato di follia e di nonsense, in cui ciascuno dei personaggi in scena incarna una sfaccettatura di un io multidimensionale, in cui convivono tante componenti, quella intellettuale, quella carnale, quella triviale, quella infantile, quella ridicola, quella seria, quella depressa, quella stupidamente allegra.
Ne viene fuori una narrazione che molte parentele ha col teatro dell’assurdo, sia per la totale destrutturazione della coerenza narrativa e spazio-temporale, sia per il modo in cui, in diversi momenti dello spettacolo, viene infranta la barriera invisibile tra gli attori e il pubblico, e quest’ultimo viene coinvolto e chiamato a partecipare ai pensieri del protagonista dello spettacolo, e persino alle difficoltà di chi sta dietro il personaggio, lo stesso Timi. Non è chiaro se, durante il momento di lungo silenzio in cui Timi dice di non ricordare la battuta, tutto ciò faccia parte dello spettacolo in una sofisticata operazione di destabilizzazione dello spettatore, ovvero stia accadendo nella realtà giustificando l’imbarazzo che si coglie nell’aria.
Lo spettacolo di Timi sembra fatto apposta per togliere all’uditorio qualunque certezza e aspettativa, costringendolo a lasciarsi andare a un nonsense in cui tutto si mescola: Lucio Battisti e Gigi D’Alessio, le barzellette e la poesia, i riferimenti colti e quelli popolari.
Lo spettacolo sembra dirci che, mentre noi tutti ci prendiamo sul serio in questi nostri percorsi di autoanalisi, la verità è che quello che possiamo fare è solo ridere di noi stessi, perché forse è la stessa vita umana a essere un pazzesco scherzo del destino, di cui accanto al lato profondo e tragico dovremmo cogliere anche quello ridicolo e leggero.
Non posso dire che lo spettacolo di Timi lì per lì abbia risuonato con il mio modo di essere. Sono uscita alquanto perplessa e ho cercato nelle ore successive di razionalizzare il senso di quello che ho visto, senza riuscirci mai del tutto.
Però in qualche modo qualcosa mi è rimasto dentro e ha agito su un piano che non è razionale e non è neanche emotivo, ma che ha lasciato qualche sedimento indecifrabile in angoli sconosciuti del mio cervello.
Voto: 3/5
giovedì 6 dicembre 2018
Le brio – Quasi nemici
Avevo puntato questo film di Yvan Attal già da diverse settimane, senza riuscire a vederlo. Poi mi accorgo che è presente nel programma dei film in lingua originale dell’Institut Français Centre Saint Louis e finalmente ci vado. Tra l’altro, in un film come questo - tutto incentrato sulla parola e su come la diversa provenienza etnica, culturale e sociale incida profondamente anche sul suo utilizzo -, la visione in lingua originale non è solo un vezzo snobistico – come a volte potrebbe sembrare – bensì una condizione essenziale per comprenderne il senso (mi taccio del ruffianissimo e inappropriato titolo in italiano).
L’impianto del film è piuttosto classico. Al centro ci sono due personaggi: la giovane matricola di origine algerina della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Paris 2, Neila Salah (Camélia Jordana), e il professor Pierre Mazard (Daniel Auteuil), un provocatore indomito e cinico. I due si incontrano a una prima lezione di retorica in un’aula gremita di studenti e il leggero ritardo di Neila produce la reazione del professore che la attacca e la mette alla berlina di fronte a tutti gli altri studenti. Apparentemente si tratta di un attacco razzista che rapidamente finisce su YouTube e porta il professor Mazard di fronte al Consiglio di disciplina. Per potersi riscattare, prima che il Consiglio emani il suo verdetto, il preside della scuola spinge Mazard a preparare la giovane allieva per il concorso di retorica che ogni anno mette in competizione le università francesi e che la Paris 2 non vince da tempo.
Inizia così un rapporto difficile, e quasi contronatura, in cui sia Neila che il professore sono piuttosto reticenti. Ma nella migliore tradizione pigmalionesca, l’irritante professor Mazard riesce – attraverso una vera e propria pratica maieutica - a trasmettere a Neila la passione per la parola e il contenzioso verbale, trasformando una ragazza emotiva e con le insicurezze tipiche della giovane età in una donna capace di sfidare sé stessa e il mondo, per andare incontro al proprio destino.
Il fatto è che dietro questo rapporto alligna una bugia, ossia il motivo per cui il professor Mazard si è offerto di preparare una ragazza della banlieu per un concorso così importante, e prima o poi professore e allieva dovranno fare i conti con questa bugia e darle un posto e un significato nel loro rapporto.
L’arringa finale di Neila di fronte al Consiglio di disciplina che dovrà giudicare il professor Mazard è una dimostrazione piena non solo del fatto che l'operazione maieutica ha funzionato ma anche del fatto che il rapporto tra queste due persone è passato alla fase adulta; e la scena commuove quasi quanto quella degli studenti che salgono sui tavoli nell’Attimo fuggente.
Nel film di Attal però non c’è solo l’ennesima variante del rapporto tra insegnante e allievo, un topos classico della cinematografia (e non solo) mondiale; c’è anche una riflessione divertita (è pur sempre una commedia), ma profonda sul potere della parola. Non a caso il film comincia - sui titoli di testa - con dei brevi estratti da interviste a grandi intellettuali francesi che della parola hanno fatto un loro segno distintivo (Jacques Brel, Claude Lévi-Strauss, Serge Gainsbourg, Romain Gary) e prosegue andando a sviscerare cosa possono fare le parole e cosa si nasconde dietro di esse.
La tirata provocatoria del professor Mazard a partire dalla lettura de Les fleurs du mal di Baudelaire sulla parola “indignarsi”, ormai un passepartout utilizzato per esprimersi contro qualunque cosa, dal riscaldamento globale all’uso dei leggings, è in qualche modo un richiamo a recuperare e riflettere sul peso delle parole, a non utilizzarle in modo leggero e superficiale, come accade in quest’epoca di esternazioni collettive senza soluzione di continuità.
Il professor Mazard – che è un essere a suo modo abietto, cinico e insopportabile, e forse anche disadattato rispetto al tempo nel quale si trova a vivere – gioca con le parole, le usa come strumento di potere, ma ne conosce anche i significati nascosti, e ne governa il sottotesto. Cosicché la scena di Neila e del professor Mazard che camminano per strada insultandosi reciprocamente è una bellissima metafora del fatto che le parole sono uno strumento di comunicazione complesso le cui sfumature e i cui significati sono infiniti, soprattutto se utilizzate tra persone che hanno sviluppato un’intimità e una conoscenza profonda.
Più o meno tra le righe c’è anche in questo film una storia di riscatto sociale e una riflessione sulla contrapposizione tra città e banlieu e sul fatto che la cultura resta lo strumento più potente di superamento dei confini, strumento che però va utilizzato con consapevolezza per evitare nuove contrapposizioni.
Voto: 3,5/5
L’impianto del film è piuttosto classico. Al centro ci sono due personaggi: la giovane matricola di origine algerina della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Paris 2, Neila Salah (Camélia Jordana), e il professor Pierre Mazard (Daniel Auteuil), un provocatore indomito e cinico. I due si incontrano a una prima lezione di retorica in un’aula gremita di studenti e il leggero ritardo di Neila produce la reazione del professore che la attacca e la mette alla berlina di fronte a tutti gli altri studenti. Apparentemente si tratta di un attacco razzista che rapidamente finisce su YouTube e porta il professor Mazard di fronte al Consiglio di disciplina. Per potersi riscattare, prima che il Consiglio emani il suo verdetto, il preside della scuola spinge Mazard a preparare la giovane allieva per il concorso di retorica che ogni anno mette in competizione le università francesi e che la Paris 2 non vince da tempo.
Inizia così un rapporto difficile, e quasi contronatura, in cui sia Neila che il professore sono piuttosto reticenti. Ma nella migliore tradizione pigmalionesca, l’irritante professor Mazard riesce – attraverso una vera e propria pratica maieutica - a trasmettere a Neila la passione per la parola e il contenzioso verbale, trasformando una ragazza emotiva e con le insicurezze tipiche della giovane età in una donna capace di sfidare sé stessa e il mondo, per andare incontro al proprio destino.
Il fatto è che dietro questo rapporto alligna una bugia, ossia il motivo per cui il professor Mazard si è offerto di preparare una ragazza della banlieu per un concorso così importante, e prima o poi professore e allieva dovranno fare i conti con questa bugia e darle un posto e un significato nel loro rapporto.
L’arringa finale di Neila di fronte al Consiglio di disciplina che dovrà giudicare il professor Mazard è una dimostrazione piena non solo del fatto che l'operazione maieutica ha funzionato ma anche del fatto che il rapporto tra queste due persone è passato alla fase adulta; e la scena commuove quasi quanto quella degli studenti che salgono sui tavoli nell’Attimo fuggente.
Nel film di Attal però non c’è solo l’ennesima variante del rapporto tra insegnante e allievo, un topos classico della cinematografia (e non solo) mondiale; c’è anche una riflessione divertita (è pur sempre una commedia), ma profonda sul potere della parola. Non a caso il film comincia - sui titoli di testa - con dei brevi estratti da interviste a grandi intellettuali francesi che della parola hanno fatto un loro segno distintivo (Jacques Brel, Claude Lévi-Strauss, Serge Gainsbourg, Romain Gary) e prosegue andando a sviscerare cosa possono fare le parole e cosa si nasconde dietro di esse.
La tirata provocatoria del professor Mazard a partire dalla lettura de Les fleurs du mal di Baudelaire sulla parola “indignarsi”, ormai un passepartout utilizzato per esprimersi contro qualunque cosa, dal riscaldamento globale all’uso dei leggings, è in qualche modo un richiamo a recuperare e riflettere sul peso delle parole, a non utilizzarle in modo leggero e superficiale, come accade in quest’epoca di esternazioni collettive senza soluzione di continuità.
Il professor Mazard – che è un essere a suo modo abietto, cinico e insopportabile, e forse anche disadattato rispetto al tempo nel quale si trova a vivere – gioca con le parole, le usa come strumento di potere, ma ne conosce anche i significati nascosti, e ne governa il sottotesto. Cosicché la scena di Neila e del professor Mazard che camminano per strada insultandosi reciprocamente è una bellissima metafora del fatto che le parole sono uno strumento di comunicazione complesso le cui sfumature e i cui significati sono infiniti, soprattutto se utilizzate tra persone che hanno sviluppato un’intimità e una conoscenza profonda.
Più o meno tra le righe c’è anche in questo film una storia di riscatto sociale e una riflessione sulla contrapposizione tra città e banlieu e sul fatto che la cultura resta lo strumento più potente di superamento dei confini, strumento che però va utilizzato con consapevolezza per evitare nuove contrapposizioni.
Voto: 3,5/5
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