Riassunto delle puntate precedenti: per chi non è romano o non vive a Roma, è giusto ricordare che Piazza Vittorio è stata il primo simbolo della Roma multietnica (ora un po' meno visto che è stata colonizzata dai cinesi, mentre le altre etnie si sono progressivamente spostate verso la Casilina), una piazza dall'aspetto molto elegante e sabaudo che - fors'anche in virtù della sua vicinanza alla stazione - è diventata luogo di transito, di incontro e di scontro tra persone appartenenti a mondi e culture differenti. Una specie di laboratorio open air.
Il suo valore simbolico si è consolidato nel tempo, tanto che - anche quando la sua composizione demografica è cambiata - tutto l'universo culturale che ruota intorno a questa piazza ha continuato a puntare sui temi dell'integrazione, dell'ibridazione, della convivenza tra culture, sulla sua natura di luogo privilegiato di accoglienza verso chiunque sia percepito come diverso o estraneo al corpo sociale diciamo così "standard".
Non posso non ricordare in questa sede il romanzo Scontro di civiltà per un ascensore a Piazza Vittorio di Amara Lakhous (che colpevolmente non ho ancora letto), che è uno dei tanti prodotti della vivacità culturale di questo quartiere.
Ma il prodotto secondo me più straordinario è proprio l'Orchestra di Piazza Vittorio. A chi non ne conosce la storia consiglio la visione del documentario di Agostino Ferrente, intitolato appunto L'orchestra di Piazza Vittorio. Da lì veniamo a sapere che l'idea arriva da Mario Tronco, un componente della Piccola Orchestra Avion Travel, che si mette in testa di creare un'orchestra musicale formata da persone e strumenti musicali provenienti da tutto il mondo. E lo fa andando in giro per il quartiere e per Roma a scovare musicisti che abbiamo voglia di partecipare a questo progetto.
L'avventura della formazione di questa orchestra è affascinante e coinvolgente. Ed è forse anche per questo che ritrovarla a distanza di quasi 10 anni al Teatro Olimpico a Roma con uno spettacolo musicale tutto loro, ispirato nientepopodimeno che a Il flauto magico di W. A. Mozart è a dir poco commovente.
Se non li avete mai sentiti suonare, è difficile spiegarvi cosa vi aspetta. Diciamo che è un po' come andare a sentire Toquinho, i Buena Vista Social Club, Youssou n'Dour, Khaled, Loreena McKennitt, Bob Marley, Jay-z, i Radiodervish, un gruppo di tamburi africani, un gruppo jazz e un concerto di musica da camera per archi e fiati. Sì, però, tutti insieme, in una mescolanza che produce - insieme a sonorità che ci portano in giro nel tempo e nello spazio - qualcosa di completamente nuovo, un insieme armonioso che è qualcosa di più e di diverso rispetto alla somma delle parti.
Il flauto magico è però un passo ulteriore rispetto alla loro attività tradizionale. Qui, infatti, ci troviamo di fronte a un vero e proprio spettacolo in musica, in cui la storia narrata nel celebre lavoro di Mozart e i suoi personaggi, Tamino, Pamina, la regina della notte (una cantante straordinaria!), Sarastro, Monostato e Papageno, sono fedeli all'originale e al contempo del tutto nuovi per dare vita a un racconto multiculturale sorprendente e pieno di idee e invenzioni. Guardate qui e ditemi se non è vero!
Il narratore (il trombettista cubano Omar Lopez Valle) tiene le fila della storia, mentre il palco è ingombro di musicisti e cantanti che utilizzano la loro lingua natia e i loro strumenti musicali come voci della narrazione, mentre sullo sfondo scorrono dei coloratissimi ed evocativi acquerelli.
Il trio d'archi ogni tanto ci ricorda che tutto inizia da Mozart, ma sulle note del grande musicista si innestano poi le sonorità più varie e i più diversi stili di canto. I nostri dimostrano anche delle buone doti da attori. E soprattutto si divertono e fanno divertire suonando e diffondendo intorno a sé un messaggio incoraggiante: "si può fare, perché ci capiamo, anche se parliamo lingue diverse".
Era tanto che non vedevo uscire da un teatro un pubblico così soddisfatto, allegro, canticchiante e quasi danzante.
Sì. Forse si può proprio fare.
Voto: 4,5/5
giovedì 29 settembre 2011
Il flauto magico secondo l'Orchestra di Piazza Vittorio
domenica 25 settembre 2011
Carnage
Dopo aver letto una serie di recensioni entusiastiche di questo film, devo dire che provo un po' di imbarazzo nel dire che l'ho trovato un po' deludente.
Posso almeno provare a spiegare - almeno a me stessa - il perché (anche se forse, in realtà, semplicemente non ero nella giusta disposizione d'animo). Circa un anno e mezzo fa ero andata a vedere a teatro la messa in scena dello stesso testo, Il dio della carneficina, recitato da Silvio Orlando, Alessio Boni, Anna Bonaiuto e Michela Cescon.
A quel tempo non conoscevo l'opera teatrale di Yasmina Reza e ne sono rimasta colpita per la capacità di mettere a nudo la nostra ipocrisia sociale, dietro la cui fragile maschera si nascondono aggressività, frustrazioni, cinismo, ossessività.
Avevo trovato la messa in scena di Roberto Andò a teatro efficace e la recitazione dei quattro attori molto convincente.
Così sono andata al cinema per vedere che cosa avrebbe fatto di questa ottima materia prima un regista d'eccezione come Roman Polanski e cosa dei quattro protagonisti un vero e proprio poker d'assi di attori, ossia Kate Winslet, Jodie Foster, John C. Reilly e Christoph Waltz.
Ebbene, per quanto mi riguarda, è rimasto un ottimo testo, ne riconosco una regia appropriata e di qualità, una grande recitazione (con una menzione particolare per Christoph Waltz, davvero superlativo), ma con la sensazione che in fondo sarebbe bastato molto meno di Roman Polanski per ottenere lo stesso risultato. E che si tratti di Brooklyn o della periferia di una città italiana resta una lettura universale dei rapporti sociali in una società occidentale satura di perbenismo e di una conflittualità sotterranea, che aspetta solo di essere portata alla superficie.
Per gli attori - che pure offrono una straordinaria prova (e per questo direi che sarebbe stato meglio andarlo a vedere in lingua originale) - mi pare che ormai questo testo stia diventando un moderno classico con cui confrontarsi per dimostrare la propria bravura, un po' come un tempo poteva essere recitare Macbeth.
È vero però che un classico è tale se - visto anche un elevato numero di volte - continua a conquistare lo spettatore rinnovandosi ad ogni visione. In questo caso invece io personalmente ne ho avvertito di più la ripetizione.
Dunque, se non l'avete visto a teatro, andatelo a vedere e sono sicura che vi piacerà. Se l'avete visto a teatro e decidete di andarlo a rivedere fatemi sapere cosa ne pensate.
Voto: 3/5
Posso almeno provare a spiegare - almeno a me stessa - il perché (anche se forse, in realtà, semplicemente non ero nella giusta disposizione d'animo). Circa un anno e mezzo fa ero andata a vedere a teatro la messa in scena dello stesso testo, Il dio della carneficina, recitato da Silvio Orlando, Alessio Boni, Anna Bonaiuto e Michela Cescon.
A quel tempo non conoscevo l'opera teatrale di Yasmina Reza e ne sono rimasta colpita per la capacità di mettere a nudo la nostra ipocrisia sociale, dietro la cui fragile maschera si nascondono aggressività, frustrazioni, cinismo, ossessività.
Avevo trovato la messa in scena di Roberto Andò a teatro efficace e la recitazione dei quattro attori molto convincente.
Così sono andata al cinema per vedere che cosa avrebbe fatto di questa ottima materia prima un regista d'eccezione come Roman Polanski e cosa dei quattro protagonisti un vero e proprio poker d'assi di attori, ossia Kate Winslet, Jodie Foster, John C. Reilly e Christoph Waltz.
Ebbene, per quanto mi riguarda, è rimasto un ottimo testo, ne riconosco una regia appropriata e di qualità, una grande recitazione (con una menzione particolare per Christoph Waltz, davvero superlativo), ma con la sensazione che in fondo sarebbe bastato molto meno di Roman Polanski per ottenere lo stesso risultato. E che si tratti di Brooklyn o della periferia di una città italiana resta una lettura universale dei rapporti sociali in una società occidentale satura di perbenismo e di una conflittualità sotterranea, che aspetta solo di essere portata alla superficie.
Per gli attori - che pure offrono una straordinaria prova (e per questo direi che sarebbe stato meglio andarlo a vedere in lingua originale) - mi pare che ormai questo testo stia diventando un moderno classico con cui confrontarsi per dimostrare la propria bravura, un po' come un tempo poteva essere recitare Macbeth.
È vero però che un classico è tale se - visto anche un elevato numero di volte - continua a conquistare lo spettatore rinnovandosi ad ogni visione. In questo caso invece io personalmente ne ho avvertito di più la ripetizione.
Dunque, se non l'avete visto a teatro, andatelo a vedere e sono sicura che vi piacerà. Se l'avete visto a teatro e decidete di andarlo a rivedere fatemi sapere cosa ne pensate.
Voto: 3/5
mercoledì 21 settembre 2011
Terraferma
La terraferma è una costruzione mentale, un’aspirazione di stabilità, un concetto relativo che niente ha a che vedere con il significato geografico del termine.
La terraferma è un bisogno di cui soltanto l’uomo di mare, ossia colui che il mare ha scelto come sua patria e il cui mondo è la propria barca, può fare a meno. Per costui la terraferma è quasi una minaccia che va a sconvolgere i delicati equilibri costruiti tra la propria vita e il mare. Così è per Ernesto (Mimmo Cuticchio), l’anziano capofamiglia e pescatore, che nonostante abbia perso un figlio in mare, continua a seguirne imperterrito e fiero le leggi.
Al di fuori del mondo ancestrale rappresentato da Ernesto, tutti sono (forse tutti siamo) alla ricerca della propria terraferma.
Per i migranti provenienti dall’Africa, la terraferma è quello scoglio in mezzo al mare che rappresenta per loro il primo passo di una vita diversa, l’inizio di un sogno a lungo coltivato e per il quale hanno sopportato molte traversie e sofferenze.
Per Nino (Giuseppe Fiorello), il figlio di Ernesto, quel medesimo scoglio è la terraferma da cui trarre ricchezza grazie al fatto che la bellezza di quest'isola ne fa la meta turistica per molti altri.
Per Giulietta (Donatella Finocchiaro), rimasta vedova dopo la scomparsa del marito in mare, la terraferma è la Sicilia, uno spazio di libertà e di indipendenza che la sottragga alla povertà e ai chiusi orizzonti della piccola isola dove vive.
Per Filippo (Filippo Pucillo, l'attore feticcio di Crialese), il nipote di Ernesto, la terraferma è un’idea ancora da costruire, come le proprie scelte di vita e i propri punti di vista. La sua faccia "tra il tordo e l’ingenuo" (una faccia quasi da attore degli anni 50-60, che sarebbe stata benissimo in un film della serie Poveri ma belli) si guarda intorno ancora un po’ spersa, affascinata dal mondo del nonno fatto di regole chiare e dirittura morale, divertita dal mondo dello zio Nino, dai balli di gruppo sulle navi, dalle belle turiste del nord, dalla possibilità di fare soldi più facilmente, commossa dalla sofferenza amorosa di sua madre.
In questo microcosmo si combatte una quotidiana lotta per la sopravvivenza, in cui le regole antiche non bastano più a dare delle risposte alla complessità del mondo moderno, in cui non ci sono vincitori né vinti, ma solo sopravvissuti che disperatamente si aggrappano alla vita.
La natura può essere – come quest’isola - di una bellezza tale da lasciare senza fiato, e al contempo così ruvida e inospitale da risultare indomabile. Eppure uomo e natura hanno costruito nel tempo un equilibrio fragile e dinamico.
Invece, agli squilibri della società contemporanea, ai bisogni indotti che il nostro modello economico ci impone, alle disuguaglianze sempre più marcate che determina, alla infinita lotta tra poveri che innesca, ognuno cerca di rispondere come può e crede, ed è evidente che nessuno stato né legge umana sono in grado, con le loro semplificazioni, di dare delle risposte. Così il dramma diventa inevitabile. Basti pensare a ciò che accade a Lampedusa in questi giorni.
Emanuele Crialese ci invita a guardare e a guardarci - tutti – con compassione. Tutti.
Sara (Timnit T.) e i suoi figli che inseguono il loro sogno. I migranti che sono mossi dalla disperazione. Gli anziani pescatori che vogliono tener fede alle leggi del mare. I giovani che cercano altre strade nei labirinti di una modernità in parte incomprensibile. E Filippo che deve ancora diventare uomo e che tutte queste contraddizioni le sperimenterà drammaticamente sulla propria pelle.
Certo, un Crialese meno poetico che in Nuovomondo. Il risultato però è altrettanto potente dal punto di vista emotivo, sebbene perseguito, più che attraverso immagini evocative, attraverso un denso impianto narrativo che fa incontrare e deflagrare questi mondi. Non si tratta di un linguaggio diverso, né si tratta dello stesso linguaggio dei suoi film precedenti.
Forse Terraferma è "semplicemente" la terza puntata di una trilogia, (di cui Respiro e Nuovomondo costituivano le prime due), un’opera circolare in tre atti, che – come accade quando facciamo il giro completo attorno a un’isola - ci fa tornare al punto di partenza ma dopo aver potuto allargare lo sguardo a 360° in tutte le direzioni.
E dunque, eccoci, siamo di nuovo qua. Chissà se abbiamo imparato qualcosa.
Voto: 4/5
La terraferma è un bisogno di cui soltanto l’uomo di mare, ossia colui che il mare ha scelto come sua patria e il cui mondo è la propria barca, può fare a meno. Per costui la terraferma è quasi una minaccia che va a sconvolgere i delicati equilibri costruiti tra la propria vita e il mare. Così è per Ernesto (Mimmo Cuticchio), l’anziano capofamiglia e pescatore, che nonostante abbia perso un figlio in mare, continua a seguirne imperterrito e fiero le leggi.
Al di fuori del mondo ancestrale rappresentato da Ernesto, tutti sono (forse tutti siamo) alla ricerca della propria terraferma.
Per i migranti provenienti dall’Africa, la terraferma è quello scoglio in mezzo al mare che rappresenta per loro il primo passo di una vita diversa, l’inizio di un sogno a lungo coltivato e per il quale hanno sopportato molte traversie e sofferenze.
Per Nino (Giuseppe Fiorello), il figlio di Ernesto, quel medesimo scoglio è la terraferma da cui trarre ricchezza grazie al fatto che la bellezza di quest'isola ne fa la meta turistica per molti altri.
Per Giulietta (Donatella Finocchiaro), rimasta vedova dopo la scomparsa del marito in mare, la terraferma è la Sicilia, uno spazio di libertà e di indipendenza che la sottragga alla povertà e ai chiusi orizzonti della piccola isola dove vive.
Per Filippo (Filippo Pucillo, l'attore feticcio di Crialese), il nipote di Ernesto, la terraferma è un’idea ancora da costruire, come le proprie scelte di vita e i propri punti di vista. La sua faccia "tra il tordo e l’ingenuo" (una faccia quasi da attore degli anni 50-60, che sarebbe stata benissimo in un film della serie Poveri ma belli) si guarda intorno ancora un po’ spersa, affascinata dal mondo del nonno fatto di regole chiare e dirittura morale, divertita dal mondo dello zio Nino, dai balli di gruppo sulle navi, dalle belle turiste del nord, dalla possibilità di fare soldi più facilmente, commossa dalla sofferenza amorosa di sua madre.
In questo microcosmo si combatte una quotidiana lotta per la sopravvivenza, in cui le regole antiche non bastano più a dare delle risposte alla complessità del mondo moderno, in cui non ci sono vincitori né vinti, ma solo sopravvissuti che disperatamente si aggrappano alla vita.
La natura può essere – come quest’isola - di una bellezza tale da lasciare senza fiato, e al contempo così ruvida e inospitale da risultare indomabile. Eppure uomo e natura hanno costruito nel tempo un equilibrio fragile e dinamico.
Invece, agli squilibri della società contemporanea, ai bisogni indotti che il nostro modello economico ci impone, alle disuguaglianze sempre più marcate che determina, alla infinita lotta tra poveri che innesca, ognuno cerca di rispondere come può e crede, ed è evidente che nessuno stato né legge umana sono in grado, con le loro semplificazioni, di dare delle risposte. Così il dramma diventa inevitabile. Basti pensare a ciò che accade a Lampedusa in questi giorni.
Emanuele Crialese ci invita a guardare e a guardarci - tutti – con compassione. Tutti.
Sara (Timnit T.) e i suoi figli che inseguono il loro sogno. I migranti che sono mossi dalla disperazione. Gli anziani pescatori che vogliono tener fede alle leggi del mare. I giovani che cercano altre strade nei labirinti di una modernità in parte incomprensibile. E Filippo che deve ancora diventare uomo e che tutte queste contraddizioni le sperimenterà drammaticamente sulla propria pelle.
Certo, un Crialese meno poetico che in Nuovomondo. Il risultato però è altrettanto potente dal punto di vista emotivo, sebbene perseguito, più che attraverso immagini evocative, attraverso un denso impianto narrativo che fa incontrare e deflagrare questi mondi. Non si tratta di un linguaggio diverso, né si tratta dello stesso linguaggio dei suoi film precedenti.
Forse Terraferma è "semplicemente" la terza puntata di una trilogia, (di cui Respiro e Nuovomondo costituivano le prime due), un’opera circolare in tre atti, che – come accade quando facciamo il giro completo attorno a un’isola - ci fa tornare al punto di partenza ma dopo aver potuto allargare lo sguardo a 360° in tutte le direzioni.
E dunque, eccoci, siamo di nuovo qua. Chissà se abbiamo imparato qualcosa.
Voto: 4/5
domenica 18 settembre 2011
Polvere e sangue / Brian Freeman
Polvere e sangue / Brian Freeman; trad. di A. Colitto. Milano: Piemme, 2010.
Avete presente la serie americana Cold case, quella ambientata a Filadelfia in cui una poliziotta bionda e i suoi colleghi si occupano di casi irrisolti a seguito dell'emergere di nuovi elementi per la riapertura delle indagini?
Ebbene, il libro di Brian Freeman (letto dopo aver fatto un sacrilego scambio di libri in un albergo di Vatera) è proprio come una mega-puntatona di Cold case, in cui il responsabile delle indagini è un uomo, Jonathan Stride, nel cui passato c'è la morte della moglie Cindy e il ricordo doloroso del sanguinoso assassinio di Laura, la sorella di Cindy. Assassinio compiuto con una mazza da baseball e avvenuto nel parco affacciato sul lago, quando Laura aveva solo 17 anni.
L'arrivo di Tish, che ha abbandonato il paese prima della morte di Laura, e la sua intenzione di scrivere un libro su questo assassinio riporterà a galla ricordi, segreti ed emozioni da tempo sommersi.
Più che un romanzo una vera e propria sceneggiatura, scritta con un gusto visivo e un tenore emotivo molto americano.
Avvincente, si legge tutto d'un fiato con il desiderio pulsante di arrivare all'ultima riga. Un giallo ben scritto che però evoca un'atmosfera culturale e naturalistica profondamente diversa dai due gialli che avevo letto immediatamente prima, quello di Fred Vargas e quello di Anne Holt. E l'americanità - non so perché - finisce per essere quasi sempre un disvalore.
Però, peccato non avere un quarto giallo da leggere in volo e durante l'attesa all'aeroporto di Atene!
P.S. Non mi chiedete in prestito il libro di Freeman, perché preso a Vatera e dopo aver fatto con me il giro dell'isola ho deciso di lasciarlo nell'albergo di Agios Isidoros per il prossimo lettore italiano di gialli che, passando da quelle parti, si trovi senza neppure un libro da leggere.
Voto: 3/5
Avete presente la serie americana Cold case, quella ambientata a Filadelfia in cui una poliziotta bionda e i suoi colleghi si occupano di casi irrisolti a seguito dell'emergere di nuovi elementi per la riapertura delle indagini?
Ebbene, il libro di Brian Freeman (letto dopo aver fatto un sacrilego scambio di libri in un albergo di Vatera) è proprio come una mega-puntatona di Cold case, in cui il responsabile delle indagini è un uomo, Jonathan Stride, nel cui passato c'è la morte della moglie Cindy e il ricordo doloroso del sanguinoso assassinio di Laura, la sorella di Cindy. Assassinio compiuto con una mazza da baseball e avvenuto nel parco affacciato sul lago, quando Laura aveva solo 17 anni.
L'arrivo di Tish, che ha abbandonato il paese prima della morte di Laura, e la sua intenzione di scrivere un libro su questo assassinio riporterà a galla ricordi, segreti ed emozioni da tempo sommersi.
Più che un romanzo una vera e propria sceneggiatura, scritta con un gusto visivo e un tenore emotivo molto americano.
Avvincente, si legge tutto d'un fiato con il desiderio pulsante di arrivare all'ultima riga. Un giallo ben scritto che però evoca un'atmosfera culturale e naturalistica profondamente diversa dai due gialli che avevo letto immediatamente prima, quello di Fred Vargas e quello di Anne Holt. E l'americanità - non so perché - finisce per essere quasi sempre un disvalore.
Però, peccato non avere un quarto giallo da leggere in volo e durante l'attesa all'aeroporto di Atene!
P.S. Non mi chiedete in prestito il libro di Freeman, perché preso a Vatera e dopo aver fatto con me il giro dell'isola ho deciso di lasciarlo nell'albergo di Agios Isidoros per il prossimo lettore italiano di gialli che, passando da quelle parti, si trovi senza neppure un libro da leggere.
Voto: 3/5
venerdì 16 settembre 2011
Un assaggio di Turchia
Durante la nostra permanenza a Lesvos, approfittiamo della vicinanza con la Turchia (siamo a un'ora e mezza di traghetto) per fare un salto sulla costa di fronte a noi. Ci spiegano che, per motivi di frontiera e di accordi tra Grecia e Turchia, l'unico porto da cui è garantito questo collegamento è quello di Mytilene, sebbene Molyvos sia in realtà addirittura più vicina alla Turchia (secondo qualcuno dal Molyvos in alcune giornate di vento favorevole si sentirebbe il rumore delle motorette e dei clacson delle auto turche).
E così facciamo il biglietto del traghetto e il giovedì prima di partire si va in Turchia, ad Ayvalik (l'alternativa sarebbe stata Dikili), dove c'è il bazar settimanale.
Vedere Mytilene e poi tutta la costa est dell'isola dal mare è molto suggestivo e ci permette di apprezzare ancora una volta la bellezza del posto che abbiamo scelto per le nostre vacanze. Dopo un'oretta si vede terra e pensiamo di essere arrivate, ma in realtà è solo la prima di una miriade di isole che si sviluppano davanti a questo tratto di costa turca (il cosiddetto ecatonneso, le cento isole).
Dopo un'altra mezz'oretta di slalom tra le isole, ecco Ayvalik, collegata da un ponte alla vicinissima isola di Cunda, coperta di case vacanze.
Messo piede nel porto, la ressa al controllo passaporti è nella migliore tradizione dei paesi con una gestione un po' familiare e dei popoli incapaci di fare le file. Comunque sopravviviamo e ci avviamo a piedi verso il bazar, che capiamo essere a circa 1 km (ena kilometre), seguendo tutto il resto dei passeggeri della nave che evidentemente ha la nostra stessa meta.
Quando arriviamo in zona mercato (dopo aver visto un tot di moschee lungo il cammino) il delirio è assoluto e noi abbiamo la reazione tipica di chi arriva in un posto sconosciuto e che in qualche modo avverte come un po' pericoloso. Ci teniamo strette le nostre borse e giriamo nelle aree periferiche del mercato, perché non abbiamo il coraggio di buttarci nella mischia. Al di fuori del mercato il panorama cittadino è un po' degradato, ma qua e là si apre una porta su un forno da cui escono garzoni con enormi teglie di dolci. E questo ci mette di buonumore.
Tanto che finalmente decidiamo di infilarci in una strada del mercato e dopo pochissimi minuti siamo in un negozio di stoffe e biancheria, dove adocchiamo dei bellissimi teli da bagno, esattamente ciò che cercavamo dopo che io avevo perso il mio bellissimo telo in cotone comprato in Francia all'Ile d'Yeu. Usciamo dal negozio almeno un'ora più tardi, dopo che ci hanno offerto un'aranciata e abbiamo comprato 4 teli e una enorme tovaglia ricamata per la cifra di 30 euro!
Ora siamo definitivamente di buonumore. Entriamo in un negozio di valigie, perché il nostro bagaglio per il rientro in Italia si è fatto ingestibile e così compriamo una borsa cinese espandibile con le ruote. Facciamo conoscenza con il commesso che parla l'inglese perfettamente e ci dà una serie di suggerimenti, tipo: forse dobbiamo cambiare un po' di euro perché difficilmente potremo comprare un dolce con gli euro, ma in tutta Ayvalik non c'è un'agenzia di cambio e quindi ci conviene andare dal gioielliere; ci mostra un paio di posti buoni se vogliamo mangiare le polpette e del buon cibo turco; ci accompagna alle due migliori (secondo lui) pasticcerie di Ayvalik.
Improvvisamente Ayvalik è diventato un posto da scoprire e questi turchi cominciano ad esserci simpatici. Decidiamo che forse possiamo provare a fare un bagno sulla costa turca dell'Egeo e ci incamminiamo a piedi, ma dopo un paio di km non vediamo spiagge. Per fortuna c'è un punto informazioni turistiche, dove una ragazza gentilissima ci dà una cartina e ci dice qual è la spiaggia più bella dove andare. Basta prendere un autobus dall'altra parte della strada.
Ringraziamo e usciamo, ma di fronte non c'è alcuna fermata. Facciamo qualche metro avanti e indietro, ma non c'è alcuna fermata. Abbiamo capito. Proviamo ad alzare un braccio quando passa l'autobus. Ne passa uno, alziamo il braccio un po' in ritardo e... si fermaaaa!
A bordo ci sono due ragazzetti che controllano salite e discese e che stanno in piedi sulle porte aperte. Il biglietto costa due lire (turche ovviamente!). Non abbiamo spiccioli sufficienti, un ragazzo ci offre quello che ci manca (ma noi non capiamo e rifiutiamo un po' sdegnate) e quindi cambiamo la nostra cartamoneta.
Attraversiamo quartieri residenziali e zone periferiche, dove delle case che a noi sembrano popolari ci colpiscono perché hanno tutte il caminetto sul balcone e l'immancabile parabola.
Dove scendere? Boh! Abbiamo provato a chiedere ai controllori, ma chissà se ci siamo capiti... A un certo punto ci dicono che è la nostra fermata. In lontananza si vede qualcosa che assomiglia a una spiaggia! Sì, è la spiaggiona di Sarimsakli, proprio quella che avevamo puntato. Il panorama dietro la spiaggia non è meraviglioso, ma la spiaggia è bellissima. C'è pochissima gente, l'acqua è verde in un modo diverso dalla Grecia e anche se ci sono zone attrezzate con gli ombrelloni, questi sono arretrati per lasciare spazio a chi si vuole mettere in spiaggia senza prendere ombrellone e sedie a noleggio.
Bagno nelle acque gelide dell'Egeo turco e si torna verso la non-fermata (è un po' come il non-compleanno!) dell'autobus. A un angolo fermiamo il primo che passa e che ci porta di nuovo verso la zona del bazar.
A questo punto abbiamo fame. Prima doppia porzione di polpette (kofta) con pilaf sedute al tavolino del posto che ci era stato segnalato dal venditore di valigie, che si trova nel patio coperto con i teli, poi dolce di semolino (revani, ma forse i turchi lo chiamano in un altro modo) ad una delle pasticcerie adocchiate in precedenza. Compriamo a portar via degli altri dolcini col miele e la frutta secca.
Nel frattempo individuiamo un omino che gira per le strade con un vassoio su cui ci sono dei bicchierini di thè. Lo seguiamo per capire da dove provenga. Viene da quella che sembra una casa privata (e forse lo è) dove si possono comprare cose da bere, ma in realtà nessuno va lì a ordinarle né a riportare i bicchieri. Tutti conoscono l'omino che dunque va in giro a consegnare e a ritirare. Guardandoci intorno notiamo che ci sono bicchieri nei posti più impensati e che quelli dell'omino hanno un piattino particolare e riconoscibile rispetto a quelli presumibilmente di altri omini!
Noi ovviamente andiamo lì ad ordinare il thè (e ci mettiamo un po' a farci capire) e poi riportiamo i bicchieri ad un esterrefatto ragazzino che non capisce perché li stiamo portando noi.
Il thè ci fa venire voglia di pasticceria secca e così proviamo anche l'altra pasticceria dove compriamo un po' di biscotti col sesamo (buonissimi!).
Le lire turche che abbiamo cambiato sono quasi finite. Ce ne avanzano a sufficienza per comprare una pietra pomice da uno dei tanti ambulanti. Non ci bastano invece per comprare una saponetta sulla strada verso il traghetto.
Nel viaggio di ritorno verso Mytilene ci portiamo dietro il ricordo dei vecchietti che vendono i fichi per strada, del lustrascarpe ambulante, delle donne con i loro vestiti colorati, dell'altoparlante che diffonde il canto del muezzin, del caos ordinato, dell'antico e del moderno, della vitalità che questa Turchia ci ha trasmesso.
Dopo questo assaggio, ci è venuta fame di Turchia. Ci torneremo. Presto. Molto presto.
E così facciamo il biglietto del traghetto e il giovedì prima di partire si va in Turchia, ad Ayvalik (l'alternativa sarebbe stata Dikili), dove c'è il bazar settimanale.
Vedere Mytilene e poi tutta la costa est dell'isola dal mare è molto suggestivo e ci permette di apprezzare ancora una volta la bellezza del posto che abbiamo scelto per le nostre vacanze. Dopo un'oretta si vede terra e pensiamo di essere arrivate, ma in realtà è solo la prima di una miriade di isole che si sviluppano davanti a questo tratto di costa turca (il cosiddetto ecatonneso, le cento isole).
Dopo un'altra mezz'oretta di slalom tra le isole, ecco Ayvalik, collegata da un ponte alla vicinissima isola di Cunda, coperta di case vacanze.
Messo piede nel porto, la ressa al controllo passaporti è nella migliore tradizione dei paesi con una gestione un po' familiare e dei popoli incapaci di fare le file. Comunque sopravviviamo e ci avviamo a piedi verso il bazar, che capiamo essere a circa 1 km (ena kilometre), seguendo tutto il resto dei passeggeri della nave che evidentemente ha la nostra stessa meta.
Quando arriviamo in zona mercato (dopo aver visto un tot di moschee lungo il cammino) il delirio è assoluto e noi abbiamo la reazione tipica di chi arriva in un posto sconosciuto e che in qualche modo avverte come un po' pericoloso. Ci teniamo strette le nostre borse e giriamo nelle aree periferiche del mercato, perché non abbiamo il coraggio di buttarci nella mischia. Al di fuori del mercato il panorama cittadino è un po' degradato, ma qua e là si apre una porta su un forno da cui escono garzoni con enormi teglie di dolci. E questo ci mette di buonumore.
Tanto che finalmente decidiamo di infilarci in una strada del mercato e dopo pochissimi minuti siamo in un negozio di stoffe e biancheria, dove adocchiamo dei bellissimi teli da bagno, esattamente ciò che cercavamo dopo che io avevo perso il mio bellissimo telo in cotone comprato in Francia all'Ile d'Yeu. Usciamo dal negozio almeno un'ora più tardi, dopo che ci hanno offerto un'aranciata e abbiamo comprato 4 teli e una enorme tovaglia ricamata per la cifra di 30 euro!
Ora siamo definitivamente di buonumore. Entriamo in un negozio di valigie, perché il nostro bagaglio per il rientro in Italia si è fatto ingestibile e così compriamo una borsa cinese espandibile con le ruote. Facciamo conoscenza con il commesso che parla l'inglese perfettamente e ci dà una serie di suggerimenti, tipo: forse dobbiamo cambiare un po' di euro perché difficilmente potremo comprare un dolce con gli euro, ma in tutta Ayvalik non c'è un'agenzia di cambio e quindi ci conviene andare dal gioielliere; ci mostra un paio di posti buoni se vogliamo mangiare le polpette e del buon cibo turco; ci accompagna alle due migliori (secondo lui) pasticcerie di Ayvalik.
Improvvisamente Ayvalik è diventato un posto da scoprire e questi turchi cominciano ad esserci simpatici. Decidiamo che forse possiamo provare a fare un bagno sulla costa turca dell'Egeo e ci incamminiamo a piedi, ma dopo un paio di km non vediamo spiagge. Per fortuna c'è un punto informazioni turistiche, dove una ragazza gentilissima ci dà una cartina e ci dice qual è la spiaggia più bella dove andare. Basta prendere un autobus dall'altra parte della strada.
Ringraziamo e usciamo, ma di fronte non c'è alcuna fermata. Facciamo qualche metro avanti e indietro, ma non c'è alcuna fermata. Abbiamo capito. Proviamo ad alzare un braccio quando passa l'autobus. Ne passa uno, alziamo il braccio un po' in ritardo e... si fermaaaa!
A bordo ci sono due ragazzetti che controllano salite e discese e che stanno in piedi sulle porte aperte. Il biglietto costa due lire (turche ovviamente!). Non abbiamo spiccioli sufficienti, un ragazzo ci offre quello che ci manca (ma noi non capiamo e rifiutiamo un po' sdegnate) e quindi cambiamo la nostra cartamoneta.
Attraversiamo quartieri residenziali e zone periferiche, dove delle case che a noi sembrano popolari ci colpiscono perché hanno tutte il caminetto sul balcone e l'immancabile parabola.
Dove scendere? Boh! Abbiamo provato a chiedere ai controllori, ma chissà se ci siamo capiti... A un certo punto ci dicono che è la nostra fermata. In lontananza si vede qualcosa che assomiglia a una spiaggia! Sì, è la spiaggiona di Sarimsakli, proprio quella che avevamo puntato. Il panorama dietro la spiaggia non è meraviglioso, ma la spiaggia è bellissima. C'è pochissima gente, l'acqua è verde in un modo diverso dalla Grecia e anche se ci sono zone attrezzate con gli ombrelloni, questi sono arretrati per lasciare spazio a chi si vuole mettere in spiaggia senza prendere ombrellone e sedie a noleggio.
Bagno nelle acque gelide dell'Egeo turco e si torna verso la non-fermata (è un po' come il non-compleanno!) dell'autobus. A un angolo fermiamo il primo che passa e che ci porta di nuovo verso la zona del bazar.
A questo punto abbiamo fame. Prima doppia porzione di polpette (kofta) con pilaf sedute al tavolino del posto che ci era stato segnalato dal venditore di valigie, che si trova nel patio coperto con i teli, poi dolce di semolino (revani, ma forse i turchi lo chiamano in un altro modo) ad una delle pasticcerie adocchiate in precedenza. Compriamo a portar via degli altri dolcini col miele e la frutta secca.
Nel frattempo individuiamo un omino che gira per le strade con un vassoio su cui ci sono dei bicchierini di thè. Lo seguiamo per capire da dove provenga. Viene da quella che sembra una casa privata (e forse lo è) dove si possono comprare cose da bere, ma in realtà nessuno va lì a ordinarle né a riportare i bicchieri. Tutti conoscono l'omino che dunque va in giro a consegnare e a ritirare. Guardandoci intorno notiamo che ci sono bicchieri nei posti più impensati e che quelli dell'omino hanno un piattino particolare e riconoscibile rispetto a quelli presumibilmente di altri omini!
Noi ovviamente andiamo lì ad ordinare il thè (e ci mettiamo un po' a farci capire) e poi riportiamo i bicchieri ad un esterrefatto ragazzino che non capisce perché li stiamo portando noi.
Il thè ci fa venire voglia di pasticceria secca e così proviamo anche l'altra pasticceria dove compriamo un po' di biscotti col sesamo (buonissimi!).
Le lire turche che abbiamo cambiato sono quasi finite. Ce ne avanzano a sufficienza per comprare una pietra pomice da uno dei tanti ambulanti. Non ci bastano invece per comprare una saponetta sulla strada verso il traghetto.
Nel viaggio di ritorno verso Mytilene ci portiamo dietro il ricordo dei vecchietti che vendono i fichi per strada, del lustrascarpe ambulante, delle donne con i loro vestiti colorati, dell'altoparlante che diffonde il canto del muezzin, del caos ordinato, dell'antico e del moderno, della vitalità che questa Turchia ci ha trasmesso.
Dopo questo assaggio, ci è venuta fame di Turchia. Ci torneremo. Presto. Molto presto.
mercoledì 14 settembre 2011
Cose dell'altro mondo
Evidentemente è un periodo in cui gli italiani - o quantomeno la loro coscienza mediatica - sono ossessionati dal tema dell'immigrazione, visto che sono in sala o stanno uscendo diversi film che affrontano questa tematica da diverse angolature.
Uno di questi è Cose dell'altro mondo che ha suscitato la solita polemica pseudo-politica nostrana durata dalla sera alla mattina. Eh sì, perché protagonista del film è un imprenditore veneto (siamo tra Treviso e Bassano del Grappa), Golfetto (interpretato da un Diego Abatantuono che non riesce a non risultare milanese), il quale fa un discorso sulla tv locale contro gli immigrati, utilizzando tutti i luoghi comuni che potete immaginare e che fanno certamente parte degli schemi mentali di molta più gente di quanta pensiamo. La conclusione del discorso è l'auspicio che questi immigrati tornino tutti a casa.
Detto. Fatto.
Dopo una notte di temporale ci si sveglia e improvvisamente tutti gli immigrati sono spariti, inghiottiti nel nulla. Le conseguenze sono catastrofiche. Anziani abbandonati per strada, fabbriche semivuote destinate a chiudere, immondizia non raccolta ovunque, trasporti bloccati, razionamento del cibo. Un vero e proprio incubo a cui non c'è soluzione se non far tornare gli immigrati.
Per Ariele (un simpatico poliziotto mascalzone interpretato da Valerio Mastandrea) è in realtà l'occasione per riconquistare la ragazza che lo ha lasciato, Laura (Valentina Lodovini) che è incinta di un ragazzo di colore.
La storia deve moltissimo a quella che sta alla base del film Un giorno senza messicani, di Sergio Arau (il figlio del più famoso Alfonso), in cui la stessa situazione si verifica in California con riferimento agli immigrati messicani.
La vicenda è evidentemente l'occasione per mettere a nudo le piccolezze e le ipocrisie di un mondo occidentale ed in particolare di una certa Italietta che si limita a ripetere le frasi ascoltate al bar e in tv, senza rendersi conto che il nostro sistema economico e la nostra società civile si sono ormai profondamente modellate sulla presenza degli immigrati, anche al di là della volontà dei singoli, e che le nostre vite - dalle banalità di tutti i giorni agli aspetti più importanti - sono legate a doppio filo a quelle di chi è venuto ad abitare nel nostro paese.
Il tutto è costruito con la struttura un po' semplice e schematica di una favoletta, in cui gli sviluppi narrativi non sempre sono convincenti (a volte sono inesistenti) e le vicende dei singoli non sempre si inseriscono coerentemente e compiutamente nel quadro d'insieme.
Dunque, un apprezzabile film a tema, un po' didascalico, che strappa qualche risata (soprattutto grazie a Valerio Mastandrea), ma fa anche molta paura, visto che - come dice Golfetto - le nostre vite da arricchiti si basano sullo sfruttamento del lavoro di altri.
Del resto, l'aspetto più angosciante - dal mio punto di vista - è proprio l'idea che la prospettiva di una società senza immigrati ci può fare paura perché sono loro a fare tutto quello che noi non vogliamo più fare, in poche parole l'idea utilitaristica che nella migliore delle ipotesi abbiamo degli immigrati. Li accettiamo e tolleriamo perché ci servono.
Non sarà che siamo a una nuova forma di colonialismo occidentale? Non sarà che la nostra economia è costruita per una società che contempli sempre e comunque degli schiavi e che quando gli schiavi si emancipano ne trova sempre di nuovi?
Voto: 3/5
Uno di questi è Cose dell'altro mondo che ha suscitato la solita polemica pseudo-politica nostrana durata dalla sera alla mattina. Eh sì, perché protagonista del film è un imprenditore veneto (siamo tra Treviso e Bassano del Grappa), Golfetto (interpretato da un Diego Abatantuono che non riesce a non risultare milanese), il quale fa un discorso sulla tv locale contro gli immigrati, utilizzando tutti i luoghi comuni che potete immaginare e che fanno certamente parte degli schemi mentali di molta più gente di quanta pensiamo. La conclusione del discorso è l'auspicio che questi immigrati tornino tutti a casa.
Detto. Fatto.
Dopo una notte di temporale ci si sveglia e improvvisamente tutti gli immigrati sono spariti, inghiottiti nel nulla. Le conseguenze sono catastrofiche. Anziani abbandonati per strada, fabbriche semivuote destinate a chiudere, immondizia non raccolta ovunque, trasporti bloccati, razionamento del cibo. Un vero e proprio incubo a cui non c'è soluzione se non far tornare gli immigrati.
Per Ariele (un simpatico poliziotto mascalzone interpretato da Valerio Mastandrea) è in realtà l'occasione per riconquistare la ragazza che lo ha lasciato, Laura (Valentina Lodovini) che è incinta di un ragazzo di colore.
La storia deve moltissimo a quella che sta alla base del film Un giorno senza messicani, di Sergio Arau (il figlio del più famoso Alfonso), in cui la stessa situazione si verifica in California con riferimento agli immigrati messicani.
La vicenda è evidentemente l'occasione per mettere a nudo le piccolezze e le ipocrisie di un mondo occidentale ed in particolare di una certa Italietta che si limita a ripetere le frasi ascoltate al bar e in tv, senza rendersi conto che il nostro sistema economico e la nostra società civile si sono ormai profondamente modellate sulla presenza degli immigrati, anche al di là della volontà dei singoli, e che le nostre vite - dalle banalità di tutti i giorni agli aspetti più importanti - sono legate a doppio filo a quelle di chi è venuto ad abitare nel nostro paese.
Il tutto è costruito con la struttura un po' semplice e schematica di una favoletta, in cui gli sviluppi narrativi non sempre sono convincenti (a volte sono inesistenti) e le vicende dei singoli non sempre si inseriscono coerentemente e compiutamente nel quadro d'insieme.
Dunque, un apprezzabile film a tema, un po' didascalico, che strappa qualche risata (soprattutto grazie a Valerio Mastandrea), ma fa anche molta paura, visto che - come dice Golfetto - le nostre vite da arricchiti si basano sullo sfruttamento del lavoro di altri.
Del resto, l'aspetto più angosciante - dal mio punto di vista - è proprio l'idea che la prospettiva di una società senza immigrati ci può fare paura perché sono loro a fare tutto quello che noi non vogliamo più fare, in poche parole l'idea utilitaristica che nella migliore delle ipotesi abbiamo degli immigrati. Li accettiamo e tolleriamo perché ci servono.
Non sarà che siamo a una nuova forma di colonialismo occidentale? Non sarà che la nostra economia è costruita per una società che contempli sempre e comunque degli schiavi e che quando gli schiavi si emancipano ne trova sempre di nuovi?
Voto: 3/5
lunedì 12 settembre 2011
Tramonti e sardine, ovvero Del mare di Saffo - Seconda parte
Tempo di lasciare il nord dell’isola per muoversi verso sud-ovest. Ci aspetta una parte di isola che non è verde come quella orientale (coperta di pini e ulivi), bensì caratterizzata da una vegetazione simile a quella della tundra, con montagne alte e gole profonde, per attraversare le quali le strade sono - se possibile - ancora più impervie di quelle percorse nei giorni precedenti. È un paesaggio inquietante e affascinante allo stesso tempo, che solo dopo qualche giorno ci diverrà familiare.
Ma eccoci ad Eressos (oggi Skala Eressos, perché Eressos è il paese nell’interno), città natale di Saffo, nostra quarta tappa. Cerchiamo posto in un complesso fuori dal centro di proprietà di due simpatici americani (lui ci offre una birra e ci spiega la geografia fisica degli Stati Uniti, mentre lei sta tentando di fare dei barattoli di salsa di pomodoro!). Purtroppo non hanno posto e ci indirizzano da una loro amica che affitta delle stanze in una casa nel centro del paese.
La casetta con la sua scaletta bianca è una rivisitazione tedesca (un po’ Ikea) di una tipica abitazione greca, e, ad eccezione della prima notte, per il resto della permanenza ce l’abbiamo tutta per noi. Sarà difficile dimenticare le colazioni nella cucina con le pareti verde-acido, dove a volte bisognava fare i conti con api e gatti un po’ invadenti (a dire la verità i gatti e la loro invadenza sono una costante in tutta l’isola, soprattutto quando vi sedete al ristorante e ordinate delle sardine).
Peccato che la notte un po’ di casino della “movida” del lungomare si senta, che la domenica mattina alle 8 suonino le campane della vicina chiesa e che Skala Eressos sia piena di venditori ambulanti che girano per le strade pubblicizzando i loro prodotti con i megafoni!
Il lungomare di Skala Eressos è una scoperta continua: da una parte la scogliera, la chiesetta, il porticciolo, poi la lunga sequenza di bar, taverne, ristoranti con le loro verande in legno che si allungano come delle palafitte sulla spiaggia, poi gli ombrelloni, poi la lunghissima spiaggia libera (sabbiosa). Famiglie con bambini, coppie di donne, nonni e nipoti, gruppi di adolescenti convivono vivacemente e felicemente in questo microcosmo.
Le ore centrali della giornata sono affrontabili solo in acqua o all’ombra della tettoia di una taverna. Molti arrivano in spiaggia verso le 18 quando l’acqua diventa come l’olio, il sole comincia a calare e ci si può godere un tramonto che illumina la roccia che si eleva di fronte alla baia di Eressos (la stessa che la sera è illuminata da un apposito faro, che si finge luna!). È a quell'ora che arriva una famigliola con catamarano giocattolo, fatto di bottiglie di plastica, bastoncini di bamboo e vele di stoffa riciclata, tenuta al guinzaglio come un aquilone dell'acqua. Ci incantiamo a guardare il bimbetto che nuota con il suo catamarano e guarda orgoglioso il suo papà che gliel'ha costruito!
Da Eressos è d’obbligo una visitina all’estremità occidentale dell’isola, Sigri, che raggiungiamo dalla strada sterrata di 12 km che passa in un paesaggio quasi lunare, in cui non c’è traccia umana, se non quelle che i pastori hanno utilizzato per delimitare i rispettivi territori. Ogni tanto lo sguardo si apre su una costa fatta di baie e insenature in molti casi raggiungibili solo a piedi.
Sigri ha una bella spiaggia, in cui gli alberi offrono refrigerio dal caldo agostano, ma il paese – gradevole – a tratti appare come una città fantasma. La vista è dominata dai resti del castello turco e – purtroppo – da una nave militare, il cui rumore spesso copre quello del mare. Del resto, di presenza militare a Lesvos se ne vede parecchia, segnale di una terra di confine che è stata a lungo contesa tra Grecia e Turchia.
Durante la nostra permanenza in questa parte dell’isola tenteremo di mangiare un giros pita, ma quando ci arriva una salsiccia di carne mista che la cameriera chiama kebab ci rendiamo definitivamente conto che in Grecia è molto difficile prevedere esattamente cosa si sta ordinando! (ma il saganaki cos’è? Qualcuno me lo sa spiegare esattamente?).
Delle taverne di Eressos vorrei menzionare solo Blue Sardine e il suo proprietario Kostas, che ci ha permesso di goderci alcuni dei migliori aperitivi della vacanza: olive, sardine o acciughe fritte, insalata greca e ouzo.
È ora di tornare verso Mytilene per restituire la macchina. Prima però vogliamo fare una puntatina alla foresta pietrificata vicino Sigri. Si tratta di un’area estesa per svariati ettari in mezzo alle montagne dove è stato realizzato una specie di museo all’aperto, dopo che prima casualmente e poi a seguito di specifici scavi sono venuti alla luce resti fossili di una foresta che copriva questa parte dell’isola milioni di anni fa e che a più riprese è stata completamente ricoperta dalle eruzioni vulcaniche. Questo ha fatto sì che i tronchi degli alberi si conservassero praticamente intatti per tutto questo tempo, in parte mantenendo la conformazione legnosa in parte trasformandosi in rocce che portano impressi i segni dei millenni trascorsi. Sotto il sole a picco dell’ora di pranzo, vi assicuro che si è trattato di un’esperienza assolutamente affascinante.
Seconda tappa lungo la strada verso Mytilene Xidera, un paesino nel mezzo dell’isola cui si arriva da una strada che finisce lì e dove nessuno parla inglese. Parcheggiamo nella piazza, dominata da un grande platano. Un gruppo di vecchietti chiacchiera di fronte a una (o più) bottiglie di ouzo, delle vecchiette vestite di nero attraversano la strada, una famigliola greca mangia ad un tavolo all’aperto.
Dobbiamo assolutamente fare l’esperienza di mangiare qui… Ci sediamo a un tavolo dove arriva a servirci un ragazzino. Non si sa come ci capiamo sul fatto che noi vogliamo mangiare ma loro non possono cucinare, possono solo darci qualcosa di preparato o di freddo. Un vecchietto alle nostre spalle fa eco al ragazzino e ci dice “feta”, “salada” e qualcosa del genere. Noi annuiamo.
Il ragazzino fa il giro della piazza per chiedere se qualcuno sa l’inglese, ma nessuno ne sa mezza. Comunque in qualche modo ci arrivano sul tavolo una fetta di feta, una bottiglia di ouzo, un’insalata greca e un piatto di okra nel sugo di pomodoro. Il pranzo più buono dei 15 giorni di vacanza!
Il conto è di 12 euro (!!!); dò al giovane cameriere 15 e quando mi porta 3 euro di resto gli dico di tenerli. Lui va con la mano aperta dal vecchietto che sta all’interno del locale (forse il nonno, quello che ci aveva assicurato che tra feta e salada qualcosa avremmo mangiato) per mostrarglieli e quello compiaciuto annuisce con la testa. Poi il vecchietto mi chiede se veniamo dalla Spagna, io dico “no, Italia” e lui immancabilmente aggiunge “Ah, Italiani, una faccia, una razza!”. E in greco mi dice che è stato a Venezia come turista molti anni fa. Bella! Come ho fatto a capirlo? Mah, forse perché “gondola” si dice uguale in tutto il mondo…
Ce ne andiamo felici, perché sappiamo di aver dato all’intero paese da parlare per settimane e settimane. E in fondo questo era esattamente il nostro scopo ;-)
Eccoci di ritorno a Mytilene. Il giovedì ci aspetta un’escursione nella vicina Turchia (ma di questo vi parlerò in separata sede) e gli ultimi due intensi giorni in isola prima della partenza. Dopo aver preso una sòla dal nostro autonoleggio (avevamo prenotato una macchina, ma gli dispiace, loro non ce l’hanno disponibile…), per fortuna ne troviamo un altro, Best (che C. pensa sia un autonoleggio internazionale e invece esiste solo in quest’isola), che alla fine si rivela il più economico e con il servizio migliore. Eccoci di nuovo con una Hyundai Getz, questa volta azzurra.
Ci hanno detto che non possiamo perdere la spiaggia di Agios Isidoros, vicino Plomari. Del resto, in questi giorni abbiamo acquisito una vera esperienza di ouzo e possiamo dire che a parte il Kefi di Mitilene, i migliori sono quelli di Plomari, in particolare secondo noi il Varvagianni verde (quello da 40°, di cui ci siamo portati una bottiglia da un litro in Italia), e quindi non possiamo esimerci da una visita alla capitale mondiale dell’ouzo.
Dopo un po’ di vicissitudini nella ricerca dell'alloggio, troviamo un alberghetto bellissimo che affaccia direttamente sulla spiaggia di Agios Isidoros. La notte ci accompagnano le infinite stelle del cielo estivo (e l’affascinante via lattea) e il rumore delle onde sui ciottoli. Il giorno ci godiamo l’ultimo sole greco e la meraviglia di un mare che non smette di sorprenderci.
Poi tornate nel capoluogo, scopriamo l’antico porto della città e la taverna “O Ermes”, e così finirà per piacerci anche Mytilene. Proprio qui riusciremo a vedere alla fine anche un’alba sul mare. Quella della mattina della partenza in aereo per l’Italia, dal nostro albergo sulla strada per l’aeroporto.
Le sei ore di scalo ad Atene ci consentono una breve escursione in città. La nostra meta è la zona di Gakzi (zona industriale riqualificata dominata da un grande gazometro, uno dei tanti della mia vita!), dove effettivamente i giovani alternativi ateniesi si danno appuntamento per un freddoccino di tarda mattinata o di primo pomeriggio e per la movida notturna.
Peccato che la strada per arrivarci ci mostra tutto lo squallore di una città brutta, che per molti versi sembra ferma agli aspetti deteriori degli anni ’80, ora forse acuiti dalla crisi economica. E capiamo perché i greci, per gran parte costretti ad abitare ad Atene per lavoro, non perdono occasione per tornare nelle loro amatissime e bellissime isole.
E così mentre l’aereo (zeppo di italiani urlanti provenienti da Mykonos e dintorni) decolla per riportarci in Italia, il nostro è un arrivederci alla Grecia più autentica.
Ma eccoci ad Eressos (oggi Skala Eressos, perché Eressos è il paese nell’interno), città natale di Saffo, nostra quarta tappa. Cerchiamo posto in un complesso fuori dal centro di proprietà di due simpatici americani (lui ci offre una birra e ci spiega la geografia fisica degli Stati Uniti, mentre lei sta tentando di fare dei barattoli di salsa di pomodoro!). Purtroppo non hanno posto e ci indirizzano da una loro amica che affitta delle stanze in una casa nel centro del paese.
La casetta con la sua scaletta bianca è una rivisitazione tedesca (un po’ Ikea) di una tipica abitazione greca, e, ad eccezione della prima notte, per il resto della permanenza ce l’abbiamo tutta per noi. Sarà difficile dimenticare le colazioni nella cucina con le pareti verde-acido, dove a volte bisognava fare i conti con api e gatti un po’ invadenti (a dire la verità i gatti e la loro invadenza sono una costante in tutta l’isola, soprattutto quando vi sedete al ristorante e ordinate delle sardine).
Peccato che la notte un po’ di casino della “movida” del lungomare si senta, che la domenica mattina alle 8 suonino le campane della vicina chiesa e che Skala Eressos sia piena di venditori ambulanti che girano per le strade pubblicizzando i loro prodotti con i megafoni!
Il lungomare di Skala Eressos è una scoperta continua: da una parte la scogliera, la chiesetta, il porticciolo, poi la lunga sequenza di bar, taverne, ristoranti con le loro verande in legno che si allungano come delle palafitte sulla spiaggia, poi gli ombrelloni, poi la lunghissima spiaggia libera (sabbiosa). Famiglie con bambini, coppie di donne, nonni e nipoti, gruppi di adolescenti convivono vivacemente e felicemente in questo microcosmo.
Le ore centrali della giornata sono affrontabili solo in acqua o all’ombra della tettoia di una taverna. Molti arrivano in spiaggia verso le 18 quando l’acqua diventa come l’olio, il sole comincia a calare e ci si può godere un tramonto che illumina la roccia che si eleva di fronte alla baia di Eressos (la stessa che la sera è illuminata da un apposito faro, che si finge luna!). È a quell'ora che arriva una famigliola con catamarano giocattolo, fatto di bottiglie di plastica, bastoncini di bamboo e vele di stoffa riciclata, tenuta al guinzaglio come un aquilone dell'acqua. Ci incantiamo a guardare il bimbetto che nuota con il suo catamarano e guarda orgoglioso il suo papà che gliel'ha costruito!
Da Eressos è d’obbligo una visitina all’estremità occidentale dell’isola, Sigri, che raggiungiamo dalla strada sterrata di 12 km che passa in un paesaggio quasi lunare, in cui non c’è traccia umana, se non quelle che i pastori hanno utilizzato per delimitare i rispettivi territori. Ogni tanto lo sguardo si apre su una costa fatta di baie e insenature in molti casi raggiungibili solo a piedi.
Sigri ha una bella spiaggia, in cui gli alberi offrono refrigerio dal caldo agostano, ma il paese – gradevole – a tratti appare come una città fantasma. La vista è dominata dai resti del castello turco e – purtroppo – da una nave militare, il cui rumore spesso copre quello del mare. Del resto, di presenza militare a Lesvos se ne vede parecchia, segnale di una terra di confine che è stata a lungo contesa tra Grecia e Turchia.
Durante la nostra permanenza in questa parte dell’isola tenteremo di mangiare un giros pita, ma quando ci arriva una salsiccia di carne mista che la cameriera chiama kebab ci rendiamo definitivamente conto che in Grecia è molto difficile prevedere esattamente cosa si sta ordinando! (ma il saganaki cos’è? Qualcuno me lo sa spiegare esattamente?).
Delle taverne di Eressos vorrei menzionare solo Blue Sardine e il suo proprietario Kostas, che ci ha permesso di goderci alcuni dei migliori aperitivi della vacanza: olive, sardine o acciughe fritte, insalata greca e ouzo.
È ora di tornare verso Mytilene per restituire la macchina. Prima però vogliamo fare una puntatina alla foresta pietrificata vicino Sigri. Si tratta di un’area estesa per svariati ettari in mezzo alle montagne dove è stato realizzato una specie di museo all’aperto, dopo che prima casualmente e poi a seguito di specifici scavi sono venuti alla luce resti fossili di una foresta che copriva questa parte dell’isola milioni di anni fa e che a più riprese è stata completamente ricoperta dalle eruzioni vulcaniche. Questo ha fatto sì che i tronchi degli alberi si conservassero praticamente intatti per tutto questo tempo, in parte mantenendo la conformazione legnosa in parte trasformandosi in rocce che portano impressi i segni dei millenni trascorsi. Sotto il sole a picco dell’ora di pranzo, vi assicuro che si è trattato di un’esperienza assolutamente affascinante.
Seconda tappa lungo la strada verso Mytilene Xidera, un paesino nel mezzo dell’isola cui si arriva da una strada che finisce lì e dove nessuno parla inglese. Parcheggiamo nella piazza, dominata da un grande platano. Un gruppo di vecchietti chiacchiera di fronte a una (o più) bottiglie di ouzo, delle vecchiette vestite di nero attraversano la strada, una famigliola greca mangia ad un tavolo all’aperto.
Dobbiamo assolutamente fare l’esperienza di mangiare qui… Ci sediamo a un tavolo dove arriva a servirci un ragazzino. Non si sa come ci capiamo sul fatto che noi vogliamo mangiare ma loro non possono cucinare, possono solo darci qualcosa di preparato o di freddo. Un vecchietto alle nostre spalle fa eco al ragazzino e ci dice “feta”, “salada” e qualcosa del genere. Noi annuiamo.
Il ragazzino fa il giro della piazza per chiedere se qualcuno sa l’inglese, ma nessuno ne sa mezza. Comunque in qualche modo ci arrivano sul tavolo una fetta di feta, una bottiglia di ouzo, un’insalata greca e un piatto di okra nel sugo di pomodoro. Il pranzo più buono dei 15 giorni di vacanza!
Il conto è di 12 euro (!!!); dò al giovane cameriere 15 e quando mi porta 3 euro di resto gli dico di tenerli. Lui va con la mano aperta dal vecchietto che sta all’interno del locale (forse il nonno, quello che ci aveva assicurato che tra feta e salada qualcosa avremmo mangiato) per mostrarglieli e quello compiaciuto annuisce con la testa. Poi il vecchietto mi chiede se veniamo dalla Spagna, io dico “no, Italia” e lui immancabilmente aggiunge “Ah, Italiani, una faccia, una razza!”. E in greco mi dice che è stato a Venezia come turista molti anni fa. Bella! Come ho fatto a capirlo? Mah, forse perché “gondola” si dice uguale in tutto il mondo…
Ce ne andiamo felici, perché sappiamo di aver dato all’intero paese da parlare per settimane e settimane. E in fondo questo era esattamente il nostro scopo ;-)
Eccoci di ritorno a Mytilene. Il giovedì ci aspetta un’escursione nella vicina Turchia (ma di questo vi parlerò in separata sede) e gli ultimi due intensi giorni in isola prima della partenza. Dopo aver preso una sòla dal nostro autonoleggio (avevamo prenotato una macchina, ma gli dispiace, loro non ce l’hanno disponibile…), per fortuna ne troviamo un altro, Best (che C. pensa sia un autonoleggio internazionale e invece esiste solo in quest’isola), che alla fine si rivela il più economico e con il servizio migliore. Eccoci di nuovo con una Hyundai Getz, questa volta azzurra.
Ci hanno detto che non possiamo perdere la spiaggia di Agios Isidoros, vicino Plomari. Del resto, in questi giorni abbiamo acquisito una vera esperienza di ouzo e possiamo dire che a parte il Kefi di Mitilene, i migliori sono quelli di Plomari, in particolare secondo noi il Varvagianni verde (quello da 40°, di cui ci siamo portati una bottiglia da un litro in Italia), e quindi non possiamo esimerci da una visita alla capitale mondiale dell’ouzo.
Dopo un po’ di vicissitudini nella ricerca dell'alloggio, troviamo un alberghetto bellissimo che affaccia direttamente sulla spiaggia di Agios Isidoros. La notte ci accompagnano le infinite stelle del cielo estivo (e l’affascinante via lattea) e il rumore delle onde sui ciottoli. Il giorno ci godiamo l’ultimo sole greco e la meraviglia di un mare che non smette di sorprenderci.
Poi tornate nel capoluogo, scopriamo l’antico porto della città e la taverna “O Ermes”, e così finirà per piacerci anche Mytilene. Proprio qui riusciremo a vedere alla fine anche un’alba sul mare. Quella della mattina della partenza in aereo per l’Italia, dal nostro albergo sulla strada per l’aeroporto.
Le sei ore di scalo ad Atene ci consentono una breve escursione in città. La nostra meta è la zona di Gakzi (zona industriale riqualificata dominata da un grande gazometro, uno dei tanti della mia vita!), dove effettivamente i giovani alternativi ateniesi si danno appuntamento per un freddoccino di tarda mattinata o di primo pomeriggio e per la movida notturna.
Peccato che la strada per arrivarci ci mostra tutto lo squallore di una città brutta, che per molti versi sembra ferma agli aspetti deteriori degli anni ’80, ora forse acuiti dalla crisi economica. E capiamo perché i greci, per gran parte costretti ad abitare ad Atene per lavoro, non perdono occasione per tornare nelle loro amatissime e bellissime isole.
E così mentre l’aereo (zeppo di italiani urlanti provenienti da Mykonos e dintorni) decolla per riportarci in Italia, il nostro è un arrivederci alla Grecia più autentica.
Etichette:
Agios Isidoros,
Atene,
Eressos,
foresta pietrificata,
Gakzi,
Lesvos,
Mytilene,
ouzo,
Plomari,
Sigri,
Varvagianni,
viaggi,
Xidera
giovedì 8 settembre 2011
Quello che ti meriti / Anne Holt
Quello che ti meriti / Anne Holt; trad. di L. Lamberti. Torino: Einaudi, 2009.
Ci ho messo un po' a prendere in mano questo libro che stava sugli scaffali di casa ad accumulare polvere, ma la mia estate all'insegna del giallo mi ha spinto a metterlo in valigia. E così, durante i tre giorni di permanenza a Eressos, città natale di Saffo, ho letteralmente divorato questa storia magistralmente scritta da Anne Holt.
Storia raccontata senza soffermarsi sul dettaglio macabro, eppure di una violenza che ti entra sotto la pelle e non ti lascia tregua per buona parte del libro.
La sensazione di una tenaglia che non molla la presa sullo stomaco e si stringe progressivamente è fonte di inquietudine e di adrenalina allo stesso tempo.
Johanne Vik e Ingvar Stubo sono due investigatori umani e malinconici, un po' come questa Norvegia in cui non riesce mai davvero a diventare estate, in cui tutto scorre ordinato anche quando è necessario affrontare la tragedia e il dolore.
La compostezza e la coerenza con cui si sviluppano le storie parallele di Aksel Seier, presunto stupratore e assassino di una bambina negli anni sessanta, e del mostro che rapisce e uccide dei bambini senza lasciare traccia, sono mirabili. Almeno fino a quando un po' forzatamente e affrettatamente l'autrice conduce tutto ad una conclusione che personalmente mi ha lasciata un po' insoddisfatta.
Il che, però, non toglie nulla alle qualità del libro e della sua scrittrice.
Certo ora vorrei sapere come va a finire tra Johanne e Ingvar e sarei tentata di leggere il romanzo successivo della serie, anche se tutti mi dicono che non è minimamente all'altezza di questo. Vediamo...
Intanto inizio a leggere un pocket Piemme (un giallo di Brian Freeman, di cui non vi risparmierò la recensione) scambiato in un albergo di Vatera con un Saramago che non avevo voglia di leggere (sacrilegio!!!).
Voto: 4/5
Ci ho messo un po' a prendere in mano questo libro che stava sugli scaffali di casa ad accumulare polvere, ma la mia estate all'insegna del giallo mi ha spinto a metterlo in valigia. E così, durante i tre giorni di permanenza a Eressos, città natale di Saffo, ho letteralmente divorato questa storia magistralmente scritta da Anne Holt.
Storia raccontata senza soffermarsi sul dettaglio macabro, eppure di una violenza che ti entra sotto la pelle e non ti lascia tregua per buona parte del libro.
La sensazione di una tenaglia che non molla la presa sullo stomaco e si stringe progressivamente è fonte di inquietudine e di adrenalina allo stesso tempo.
Johanne Vik e Ingvar Stubo sono due investigatori umani e malinconici, un po' come questa Norvegia in cui non riesce mai davvero a diventare estate, in cui tutto scorre ordinato anche quando è necessario affrontare la tragedia e il dolore.
La compostezza e la coerenza con cui si sviluppano le storie parallele di Aksel Seier, presunto stupratore e assassino di una bambina negli anni sessanta, e del mostro che rapisce e uccide dei bambini senza lasciare traccia, sono mirabili. Almeno fino a quando un po' forzatamente e affrettatamente l'autrice conduce tutto ad una conclusione che personalmente mi ha lasciata un po' insoddisfatta.
Il che, però, non toglie nulla alle qualità del libro e della sua scrittrice.
Certo ora vorrei sapere come va a finire tra Johanne e Ingvar e sarei tentata di leggere il romanzo successivo della serie, anche se tutti mi dicono che non è minimamente all'altezza di questo. Vediamo...
Intanto inizio a leggere un pocket Piemme (un giallo di Brian Freeman, di cui non vi risparmierò la recensione) scambiato in un albergo di Vatera con un Saramago che non avevo voglia di leggere (sacrilegio!!!).
Voto: 4/5
domenica 4 settembre 2011
Tramonti e sardine, ovvero Del mare di Saffo - Prima parte
Nelle intenzioni iniziali questo post doveva intitolarsi semplicemente Il mare di Saffo. E invece dopo che C. - guardando le foto - ha chiosato "Tramonti e sardine", ho pensato che questo binomio sintetizzasse perfettamente la vacanza e i suoi contenuti.
Siamo a Lesvos, isola greca dell'Egeo settentrionale, praticamente sconosciuta (pfiu!) al turismo di massa italiano, ma meta privilegiata del turismo greco e degli emigrati greci di seconda generazione (figli di greci trasferitisi negli Stati Uniti, in Canada, in Australia) ovvero - in generale - dei numerosissimi greci che hanno sposato britannici, scandinavi e nordeuropei in generale.
Volevamo un posto di mare che non soffrisse del sovraffollamento agostano imperante. La scelta si è dimostrata azzeccata, visto che gli italiani a Lesvos non ci vanno (per fortuna!), i greci dopo la batosta della crisi economica si muovono molto meno che in passato anche in patria e i nordeuropei per buona parte erano rientrati a casa, visto che da loro scuola e lavoro ricominciano nella seconda metà di agosto.
È stato dunque bellissimo riscoprire la bellezza di una vacanza al mare in cui la presenza umana è una compagnia gradevole ma non fastidiosa, in cui è facile trovare il silenzio e la solitudine, così come la vita e il movimento.
Difficile raccontare 15 giorni in un'isola grande quasi quanto Rodi. Per questo dovrete accontentarvi di una serie di istantanee (il che comunque occuperà non meno di tre post!) che spero riescano a trasmettervi il senso di questa terra bellissima.
Si atterra a Mytilene, il capoluogo. L'isola dall'alto è bellissima, verde e montuosa, con spiagge lunghe e piccole insenature nascoste. Mytilene è quello che chiamereste un vero e proprio porto di mare: gente che va e viene, baretti affollati sul lungomare, grandi traghetti che attraccano nel porto, stradine buie e un po' sporche, macchine e motorini (quei tremendi e rumorosissimi motorini che esistono solo in Grecia, perché forse sono gli unici a reggere le loro strade) un po' ovunque. Diciamo che non ci fa una bellissima impressione lì per lì, ma avremo tempo di recuperare.
Sarà anche perché il primo giorno lo passiamo a fare il giro di tutti gli autonoleggi dell'isola alla ricerca di una automobile disponibile, che sembra introvabile a Lesvos il 14 agosto! Finiremo per prenotare una macchina un po' cara (ma molto carina, una Suzuki Sx4, 4 ruote motrici) per tre giorni, rimandando il noleggio di una più economica Hyundai Getz alla settimana successiva.
Suggerimento: prenotate l'automobile via Internet! In loco non troverete prezzi più convenienti (come noi pensavamo!) e rischierete semplicemente di ritrovarvi a piedi...
Prima tappa: ci aspetta la spiaggia più grande dell'isola, quella di Vatera. Sulla strada facciamo tappa nel bel paesino di Agiassos, inerpicato sulle montagne, dove una vecchina che ci incontra mentre siamo un po' perse in una stradina ci dà delle indicazioni in greco (!) senza che neanche gliele chiedessimo... Compriamo la prima busta (di una serie di tre) di origano greco, nonché un'altra strana erbetta che capiamo essere una menta locale, ma che di tutto sa tranne che di menta.
Lungo la strada mi colpiscono intanto tre cose: la quantità di ulivi che ricopre l'isola (pare più di 11 milioni di piante), l'assordante fragore delle cicale e le chiesette in miniatura(monumenti funebri? cappelle votive?) che incontriamo numerose lungo il ciglio della strada.
Arrivo a Vatera: ci aspetta uno "studio" (ossia una stanza con angolo cottura) in un complesso che sta a 50 m dalla spiaggia, anzi come si usa da queste parti, ha la sua "taverna" su un patio in legno montato direttamente sulla spiaggia. Quest'ultima - davvero molto lunga - è per metà sabbiosa e per metà (quella più vicina al mare) fatta di ciottoli. Ho riscoperto così la bellezza del rumore del mare che si ritira sui ciottoli...
Acqua spettacolare. Una piscina dai colori cangianti, in cui ci si continua a vedere i piedi anche dove non si tocca. In giro pochissima gente: soprattutto greci e soprattutto famiglie (silenziose!). Il tutto ha un'aria molto "anni '50" che capiremo presto essere una caratteristica generale dell'isola, nonché la sua migliore qualità (sono semmai gli inserti moderni da turismo di massa a risultare un po' sopra le righe e fuori luogo).
Peccato per la fastidiosissima "tunza" che alle tre di notte proviene da qualche posto non lontano dall'albergo con annesso via vai di macchine e motorette!
Ma tanto il nostro angolo di paradiso per la cena l'abbiamo trovato (grazie a Matt Barrett!): si tratta della taverna Akrotiri, un ristorantino semplicissimo gestito da una famiglia di pescatori, affacciato sul porticciolo di Agios Fokas, all'ombra dei resti del tempio di Dioniso, su un lembo di terra da cui per la prima volta possiamo assistere a bocca aperta al tramonto del sole sul mare, come una pennellata di rossi e arancioni che si scioglie languida nell'acqua.
La taverna è all'altezza delle aspettative ed è il nostro primo - eccellente - contatto con la cucina greca, fatto di pesce alla griglia (a Lesvos soprattutto sardine e polpi), di aglio, di olio, di origano, di verdure cotte, di patate, il tutto innaffiato da litri e litri di ouzo e di buon vino.
Durante la permanenza a Vatera, decidiamo di fare un giro alla scoperta del Golfo di Kalloni. E così un giorno di mare lo passiamo tra Nifida (una spiaggia molto vicina allo sbocco del golfo sull'Egeo) e Skala Kalloni, dove il mare sembra in realtà un lago per le caratteristiche particolari della spiaggia e del fondale. Qui sarà divertente guardare le conchiglie trascinate dai loro abitanti camminarci tra i piedi nell'acqua. E fin qui tre spiagge, tre bandiere blu.
In questi primi giri per l'isola è subito evidente che ci sono due cose che contraddistinguono i greci dovunque siano: il backgammon (giocato su ogni tavolo disponibile) e la fissa per il "freddoccino", una specie di cappuccino/frappè gelato (un bicchierone gigante che non so come riescano a bere senza un conseguente attacco di colite, ma di cui non a caso alla fine lasciano sempre un fondino!).
Dopo il rientro a Mytilene per il cambio di macchina (e le tre ore a fare su e giù per la parallela del lungomare, senza neppure accorgersi che esiste un porto vecchio dall'altra parte del castello), ci avviamo verso la nostra seconda tappa: Molyvos, a nord dell'isola, dove - ci dicono tutte le fonti - ci aspettano tramonti ben più spettacolari.
Strategicamente scegliamo di stare a dormire a Petra, una località sulla costa a dieci minuti da Molyvos, presso un complesso di "studios" in una stradina interna che ha il grandissimo pregio del silenzio (e del piccolo terrazzino sui cui fare colazione) e il grandissimo fastidio degli insetti che - se non si sta attenti - si ritrovano nel letto (in particolare puzzolentissimi cimici).
Prima sera, primo tramonto da lasciarci senza fiato.
Per cena decidiamo di provare un altro posto suggerito da Matt Barrett, Avlaki, una taverna che si affaccia direttamente su una spiaggetta privata e da cui si vede il promontorio su cui sorge Molyvos e di fronte la costa turca.
Il giorno dopo, poiché a Petra il mare è un po’ agitato (il meltemi che spira su tutta l’isola qui a nord produce questo fastidioso effetto collaterale) esploriamo le spiagge intorno, innanzitutto quella di Anaxos (dove solo quando stiamo per andare via troviamo l’angolo con l’acqua cristallina e senza alghe), poi imbocchiamo un’assurda strada che si inerpica per le montagne (con curve senza guard rail a strapiombo sul mare o sulle valli sottostanti) alla ricerca di una spiaggia di cui abbiamo letto, ma che non troviamo. Così seguiamo il sentiero per la spiaggia di Kalo Limani (uno sterrato su cui la povera Hyundai Getz si difende come può) che ci porta a scoprire paesaggi bellissimi, ma ci conduce infine ad una spiaggia carina, ma invasa di alghe (dove però non manca la taverna!).
La sera cena a Molyvos, che al confronto con i posti fin qui visitati ci appare – a primo acchito – come una meta turistica molto gettonata, con negozi di souvenirs in ogni dove, ristoranti e taverne in sequenza quasi ininterrotta e fiumi di gente. Lì per lì restiamo un po' basite, sebbene il posto che abbiamo scelto per andare a mangiare, The captain’s table, dimostra di essere uno dei migliori fin qui provati per qualità del cibo e professionalità. Qui scopriamo che una componente fondamentale della cucina greca è l’aneto (che, un po’ come l’origano, i greci mettono dappertutto) e che la purea di fave non è solo famosa nella cucina pugliese (fave e cicoria), ma anche in quella greca (e ricordatevi: la cipolla cruda ci sta da dio!!).
Per fortuna a Molyvos ci torniamo anche di pomeriggio per una visita al castello e una passeggiata nel centro storico. Così capiamo che non è affatto una cittadina invasa da turisti (concentrati solo in alcune strade), ma è invece una tipica città greco-turca, con le sue stradine, le sue case arroccate, le sue ringhiere fiorite e una strepitosa vista dal castello che spazia dalla costa turca alla baia dove si trovano anche Petra e Anaxos. Inoltre, quasi per caso, ci accorgiamo che la spiaggia cittadina di Molyvos è praticamente la più bella della zona: ciottoli di tutte le tonalità del grigio, acqua limpidissima col fondale di sabbia, vista del castello dal mare, pontile dell’antica fabbrica trasformata in albergo, mare sempre calmo, docce, bagni, spogliatoi e aree coperte gratis per tutti. Ennesima bandiera blu.
A dire la verità, la disponibilità di servizi gratuiti di vario genere sulle spiagge dell’isola – come capiremo ben presto – è una caratteristica comune, così come la possibilità di fare un giro su un divano gonfiabile trascinato da un motoscafo sull’acqua ad elevata velocità!
Il nord dell’isola ci riserva ancora una gradita sorpresa: le terme di Eftalou. Proseguendo la strada dopo Molyvos si raggiunge un piccola spiaggia dove è stata realizzata una piscina in muratura sulle sorgenti di acqua termale a 40° all’interno di un ambiente in pietra con la volta a botte (secondo lo stile degli hammam mediorientali). L’esperienza è molto divertente, perché alterniamo immersioni nella piscina termale con bagni nel mare subito all’esterno. Da qui a piedi – attraverso un piccolo sentiero che costeggia il mare – si arriva alla Golden beach, una lunga spiaggia protetta da colline dorate (dove qualcuno azzarda il bagno senza costume!).
Alla prossima puntata per il racconto del sud-ovest dell'isola!!
Siamo a Lesvos, isola greca dell'Egeo settentrionale, praticamente sconosciuta (pfiu!) al turismo di massa italiano, ma meta privilegiata del turismo greco e degli emigrati greci di seconda generazione (figli di greci trasferitisi negli Stati Uniti, in Canada, in Australia) ovvero - in generale - dei numerosissimi greci che hanno sposato britannici, scandinavi e nordeuropei in generale.
Volevamo un posto di mare che non soffrisse del sovraffollamento agostano imperante. La scelta si è dimostrata azzeccata, visto che gli italiani a Lesvos non ci vanno (per fortuna!), i greci dopo la batosta della crisi economica si muovono molto meno che in passato anche in patria e i nordeuropei per buona parte erano rientrati a casa, visto che da loro scuola e lavoro ricominciano nella seconda metà di agosto.
È stato dunque bellissimo riscoprire la bellezza di una vacanza al mare in cui la presenza umana è una compagnia gradevole ma non fastidiosa, in cui è facile trovare il silenzio e la solitudine, così come la vita e il movimento.
Difficile raccontare 15 giorni in un'isola grande quasi quanto Rodi. Per questo dovrete accontentarvi di una serie di istantanee (il che comunque occuperà non meno di tre post!) che spero riescano a trasmettervi il senso di questa terra bellissima.
Si atterra a Mytilene, il capoluogo. L'isola dall'alto è bellissima, verde e montuosa, con spiagge lunghe e piccole insenature nascoste. Mytilene è quello che chiamereste un vero e proprio porto di mare: gente che va e viene, baretti affollati sul lungomare, grandi traghetti che attraccano nel porto, stradine buie e un po' sporche, macchine e motorini (quei tremendi e rumorosissimi motorini che esistono solo in Grecia, perché forse sono gli unici a reggere le loro strade) un po' ovunque. Diciamo che non ci fa una bellissima impressione lì per lì, ma avremo tempo di recuperare.
Sarà anche perché il primo giorno lo passiamo a fare il giro di tutti gli autonoleggi dell'isola alla ricerca di una automobile disponibile, che sembra introvabile a Lesvos il 14 agosto! Finiremo per prenotare una macchina un po' cara (ma molto carina, una Suzuki Sx4, 4 ruote motrici) per tre giorni, rimandando il noleggio di una più economica Hyundai Getz alla settimana successiva.
Suggerimento: prenotate l'automobile via Internet! In loco non troverete prezzi più convenienti (come noi pensavamo!) e rischierete semplicemente di ritrovarvi a piedi...
Prima tappa: ci aspetta la spiaggia più grande dell'isola, quella di Vatera. Sulla strada facciamo tappa nel bel paesino di Agiassos, inerpicato sulle montagne, dove una vecchina che ci incontra mentre siamo un po' perse in una stradina ci dà delle indicazioni in greco (!) senza che neanche gliele chiedessimo... Compriamo la prima busta (di una serie di tre) di origano greco, nonché un'altra strana erbetta che capiamo essere una menta locale, ma che di tutto sa tranne che di menta.
Lungo la strada mi colpiscono intanto tre cose: la quantità di ulivi che ricopre l'isola (pare più di 11 milioni di piante), l'assordante fragore delle cicale e le chiesette in miniatura(monumenti funebri? cappelle votive?) che incontriamo numerose lungo il ciglio della strada.
Arrivo a Vatera: ci aspetta uno "studio" (ossia una stanza con angolo cottura) in un complesso che sta a 50 m dalla spiaggia, anzi come si usa da queste parti, ha la sua "taverna" su un patio in legno montato direttamente sulla spiaggia. Quest'ultima - davvero molto lunga - è per metà sabbiosa e per metà (quella più vicina al mare) fatta di ciottoli. Ho riscoperto così la bellezza del rumore del mare che si ritira sui ciottoli...
Acqua spettacolare. Una piscina dai colori cangianti, in cui ci si continua a vedere i piedi anche dove non si tocca. In giro pochissima gente: soprattutto greci e soprattutto famiglie (silenziose!). Il tutto ha un'aria molto "anni '50" che capiremo presto essere una caratteristica generale dell'isola, nonché la sua migliore qualità (sono semmai gli inserti moderni da turismo di massa a risultare un po' sopra le righe e fuori luogo).
Peccato per la fastidiosissima "tunza" che alle tre di notte proviene da qualche posto non lontano dall'albergo con annesso via vai di macchine e motorette!
Ma tanto il nostro angolo di paradiso per la cena l'abbiamo trovato (grazie a Matt Barrett!): si tratta della taverna Akrotiri, un ristorantino semplicissimo gestito da una famiglia di pescatori, affacciato sul porticciolo di Agios Fokas, all'ombra dei resti del tempio di Dioniso, su un lembo di terra da cui per la prima volta possiamo assistere a bocca aperta al tramonto del sole sul mare, come una pennellata di rossi e arancioni che si scioglie languida nell'acqua.
La taverna è all'altezza delle aspettative ed è il nostro primo - eccellente - contatto con la cucina greca, fatto di pesce alla griglia (a Lesvos soprattutto sardine e polpi), di aglio, di olio, di origano, di verdure cotte, di patate, il tutto innaffiato da litri e litri di ouzo e di buon vino.
Durante la permanenza a Vatera, decidiamo di fare un giro alla scoperta del Golfo di Kalloni. E così un giorno di mare lo passiamo tra Nifida (una spiaggia molto vicina allo sbocco del golfo sull'Egeo) e Skala Kalloni, dove il mare sembra in realtà un lago per le caratteristiche particolari della spiaggia e del fondale. Qui sarà divertente guardare le conchiglie trascinate dai loro abitanti camminarci tra i piedi nell'acqua. E fin qui tre spiagge, tre bandiere blu.
In questi primi giri per l'isola è subito evidente che ci sono due cose che contraddistinguono i greci dovunque siano: il backgammon (giocato su ogni tavolo disponibile) e la fissa per il "freddoccino", una specie di cappuccino/frappè gelato (un bicchierone gigante che non so come riescano a bere senza un conseguente attacco di colite, ma di cui non a caso alla fine lasciano sempre un fondino!).
Dopo il rientro a Mytilene per il cambio di macchina (e le tre ore a fare su e giù per la parallela del lungomare, senza neppure accorgersi che esiste un porto vecchio dall'altra parte del castello), ci avviamo verso la nostra seconda tappa: Molyvos, a nord dell'isola, dove - ci dicono tutte le fonti - ci aspettano tramonti ben più spettacolari.
Strategicamente scegliamo di stare a dormire a Petra, una località sulla costa a dieci minuti da Molyvos, presso un complesso di "studios" in una stradina interna che ha il grandissimo pregio del silenzio (e del piccolo terrazzino sui cui fare colazione) e il grandissimo fastidio degli insetti che - se non si sta attenti - si ritrovano nel letto (in particolare puzzolentissimi cimici).
Prima sera, primo tramonto da lasciarci senza fiato.
Per cena decidiamo di provare un altro posto suggerito da Matt Barrett, Avlaki, una taverna che si affaccia direttamente su una spiaggetta privata e da cui si vede il promontorio su cui sorge Molyvos e di fronte la costa turca.
Il giorno dopo, poiché a Petra il mare è un po’ agitato (il meltemi che spira su tutta l’isola qui a nord produce questo fastidioso effetto collaterale) esploriamo le spiagge intorno, innanzitutto quella di Anaxos (dove solo quando stiamo per andare via troviamo l’angolo con l’acqua cristallina e senza alghe), poi imbocchiamo un’assurda strada che si inerpica per le montagne (con curve senza guard rail a strapiombo sul mare o sulle valli sottostanti) alla ricerca di una spiaggia di cui abbiamo letto, ma che non troviamo. Così seguiamo il sentiero per la spiaggia di Kalo Limani (uno sterrato su cui la povera Hyundai Getz si difende come può) che ci porta a scoprire paesaggi bellissimi, ma ci conduce infine ad una spiaggia carina, ma invasa di alghe (dove però non manca la taverna!).
La sera cena a Molyvos, che al confronto con i posti fin qui visitati ci appare – a primo acchito – come una meta turistica molto gettonata, con negozi di souvenirs in ogni dove, ristoranti e taverne in sequenza quasi ininterrotta e fiumi di gente. Lì per lì restiamo un po' basite, sebbene il posto che abbiamo scelto per andare a mangiare, The captain’s table, dimostra di essere uno dei migliori fin qui provati per qualità del cibo e professionalità. Qui scopriamo che una componente fondamentale della cucina greca è l’aneto (che, un po’ come l’origano, i greci mettono dappertutto) e che la purea di fave non è solo famosa nella cucina pugliese (fave e cicoria), ma anche in quella greca (e ricordatevi: la cipolla cruda ci sta da dio!!).
Per fortuna a Molyvos ci torniamo anche di pomeriggio per una visita al castello e una passeggiata nel centro storico. Così capiamo che non è affatto una cittadina invasa da turisti (concentrati solo in alcune strade), ma è invece una tipica città greco-turca, con le sue stradine, le sue case arroccate, le sue ringhiere fiorite e una strepitosa vista dal castello che spazia dalla costa turca alla baia dove si trovano anche Petra e Anaxos. Inoltre, quasi per caso, ci accorgiamo che la spiaggia cittadina di Molyvos è praticamente la più bella della zona: ciottoli di tutte le tonalità del grigio, acqua limpidissima col fondale di sabbia, vista del castello dal mare, pontile dell’antica fabbrica trasformata in albergo, mare sempre calmo, docce, bagni, spogliatoi e aree coperte gratis per tutti. Ennesima bandiera blu.
A dire la verità, la disponibilità di servizi gratuiti di vario genere sulle spiagge dell’isola – come capiremo ben presto – è una caratteristica comune, così come la possibilità di fare un giro su un divano gonfiabile trascinato da un motoscafo sull’acqua ad elevata velocità!
Il nord dell’isola ci riserva ancora una gradita sorpresa: le terme di Eftalou. Proseguendo la strada dopo Molyvos si raggiunge un piccola spiaggia dove è stata realizzata una piscina in muratura sulle sorgenti di acqua termale a 40° all’interno di un ambiente in pietra con la volta a botte (secondo lo stile degli hammam mediorientali). L’esperienza è molto divertente, perché alterniamo immersioni nella piscina termale con bagni nel mare subito all’esterno. Da qui a piedi – attraverso un piccolo sentiero che costeggia il mare – si arriva alla Golden beach, una lunga spiaggia protetta da colline dorate (dove qualcuno azzarda il bagno senza costume!).
Alla prossima puntata per il racconto del sud-ovest dell'isola!!
giovedì 1 settembre 2011
Il profumo della cannella / Samar Yazbek
Il profumo della cannella / Samar Yazbek; trad. di C. La Barbera. Roma: Castelvecchi, 2010.
Hanan è figlia di una ricca famiglia di Damasco.
Alia proviene da una poverissima famiglia del quartiere di Al-Raml, e ha alle spalle un'infanzia di brutture e violenze, fino al momento in cui viene venduta come serva presso il palazzo di Hanan e suo marito Anwar, un cugino molto più vecchio di lei che ha ripudiato la prima moglie.
In una società siriana in cui i rapporti tra uomini e donne sono caratterizzati dall'obbligo e dall'assenza di dolcezza e sentimento, le donne si costruiscono le proprie valvole di sfogo, l'intimità nella quale godere dei piaceri del corpo e della vita. E quasi sempre tutto ciò accade all'interno di consessi al femminile: Hanan, iniziata - fin dall'adolescenza - alla ricerca del piacere nella calda intimità degli hammam e poi sedotta dalla navigata e provocante Narek, sceglierà infine la serva Alia, ma lo sbilanciamento del loro rapporto sul piano sociale e fisico lo condannerà alla fine.
Attraverso una scrittura a mio avviso intensa, ma un po' semplificata, forse anche per effetto della difficile traduzione dall'arabo, la cui resa non sempre risulta adeguata, Samar Yazbek ci offre un ritratto interessante di un mondo i cui equilibri non sono certo facili da comprendere per chi non appartiene a quell'universo culturale.
Nel complesso un romanzo coraggioso, una finestra che quasi mai il mondo arabo è disponibile ad aprire su se stessa, che però, alla fine, resta un po' distante ed estraneo. Il profumo della cannella finisce per dissolversi rapidamente nell'aria, un po' come i vapori dell'hammam.
Voto: 2,5/5
Hanan è figlia di una ricca famiglia di Damasco.
Alia proviene da una poverissima famiglia del quartiere di Al-Raml, e ha alle spalle un'infanzia di brutture e violenze, fino al momento in cui viene venduta come serva presso il palazzo di Hanan e suo marito Anwar, un cugino molto più vecchio di lei che ha ripudiato la prima moglie.
In una società siriana in cui i rapporti tra uomini e donne sono caratterizzati dall'obbligo e dall'assenza di dolcezza e sentimento, le donne si costruiscono le proprie valvole di sfogo, l'intimità nella quale godere dei piaceri del corpo e della vita. E quasi sempre tutto ciò accade all'interno di consessi al femminile: Hanan, iniziata - fin dall'adolescenza - alla ricerca del piacere nella calda intimità degli hammam e poi sedotta dalla navigata e provocante Narek, sceglierà infine la serva Alia, ma lo sbilanciamento del loro rapporto sul piano sociale e fisico lo condannerà alla fine.
Attraverso una scrittura a mio avviso intensa, ma un po' semplificata, forse anche per effetto della difficile traduzione dall'arabo, la cui resa non sempre risulta adeguata, Samar Yazbek ci offre un ritratto interessante di un mondo i cui equilibri non sono certo facili da comprendere per chi non appartiene a quell'universo culturale.
Nel complesso un romanzo coraggioso, una finestra che quasi mai il mondo arabo è disponibile ad aprire su se stessa, che però, alla fine, resta un po' distante ed estraneo. Il profumo della cannella finisce per dissolversi rapidamente nell'aria, un po' come i vapori dell'hammam.
Voto: 2,5/5
Iscriviti a:
Post (Atom)