Il documentario di Francesco Cordio racconta i 27 mesi del governo di Ignazio Marino come sindaco di Roma e in particolare le vicende che hanno portato al suo esautoramento nell'ottobre del 2015.
Attraverso le interviste allo stesso Marino - che attualmente è tornato a fare il medico e vive a Philadelphia - nonché ad altri esponenti della sua Giunta, all'amico magistrato Caselli, a giornalisti, blogger e altre persone che hanno vissuto più o meno da vicino il suo mandato, Cordio racconta innanzitutto come questo outsider è riuscito prima a vincere le primarie contro avversari ben più quotati quali Paolo Gentiloni e David Sassoli e poi a sbaragliare gli avversari alle elezioni risultando eletto con oltre il 64% dei voti, in secondo luogo le azioni di governo portate avanti durante il suo mandato.
Proprio alle sue iniziative politiche Cordio fa risalire la frattura progressiva con varie parti dell'amministrazione locale nonché con il suo stesso partito. Da qui una feroce campagna mediatica che ha prima ridicolizzato e poi accusato Marino di diversi comportamenti scorretti o illegati (tra gli altri, il cosiddetto "pandagate", la famosa vicenda degli scontrini o ancora l'incidente diplomatico con il Vaticano). Sulla vicenda degli scontrini il sindaco ha attraversato tutti i gradi di giudizio fino alla definitiva assoluzione in Corte di Cassazione.
L'ipotesi proposta dal documentario di Cordio è che Ignazio Marino fosse realmente un "marziano" rispetto ai meccanismi della politica capitolina e che - in un mix di naiveté e visione politica precisa - abbia intaccato equilibri consolidati e privilegi di gruppi e lobby varie. Non a caso - sempre secondo il documentario - la spaccatura definitiva con il PD si è consumata sulla gestione del futuro villaggio olimpico da realizzare a Roma, città allora candidata per le Olimpiadi del 2024 (candidatura ritirata dopo la nomina a sindaco di Virginia Raggi).
È chiaro che qualunque ricostruzione di una vicenda - peraltro complessa come in questo caso - non è neutra e rappresenta un punto di vista. In questo caso è evidente fin dal titolo del documentario che il punto di vista sostenuto è dalla parte dell'ex sindaco della Capitale, che - nonostante qualche limite di strategia politica - avrebbe operato per il bene della città e in buona fede e sarebbe stato vittima di un complotto finalizzato al farlo fuori.
Diciamo che dall'esterno e senza conoscere i meccanismi che agiscono nelle stanze del potere non è facile sapere davvero come sono andate le cose, anche se i fatti dimostrano senza grandi dubbi che c'è stato un accanimento nei confronti di Marino e che a un certo punto la sua presenza non era più gradita.
Più difficile è poter esprimere un giudizio oggettivo sulla sua azione politica nella quale ci sono state certamente molte luci ma probabilmente anche qualche ombra - come del resto è normale che sia soprattutto in una città difficilissima com'è Roma - e comprendere quali siano i motivi effettivi che stanno dietro la volontà di esautorarlo.
Il documentario di Cordio - pur evidentemente schierato - aiuta a farsi un'idea delle complessità e sicuramente contribuisce a ristabilire un maggiore equilibrio delle informazioni che sono circolate attraverso i media sulla vicenda di Marino aiutando a chiarirsi i termini della questione, senza avere la pretesa di poter dire una parola definitiva.
Un film necessario che tutti i cittadini romani e non dovrebbero vedere.
Voto: 3,5/5
mercoledì 31 luglio 2019
lunedì 29 luglio 2019
L'ultima ora
In una fresca serata dell'estate romana decido di andare a vedere - in lingua originale - al cinema dei Piccoli, dentro Villa Borghese, questo film francese che mi aveva incuriosito fin da subito.
Il film di Sébastien Marnier è strutturato come un vero e proprio thriller quasi horror con tanto di suspence e di colpi di scena (che mi ha un po' ricordato a tratti il miglior cinema di Shyamalan), ma questa confezione classica è messa al servizio di una riflessione che va bel al di là dell'intreccio narrativo fino a toccare alcuni temi centrali della contemporaneità.
L'ultima ora ha un inizio shock: in una classe del prestigioso collegio privato Saint Joseph, il professore guarda il sole accecante dalla finestra e a un certo punto si butta di sotto.
Mentre il professor Capadis lotta tra la vita e la morte, a scuola viene mandato a sostituirlo Pierre (Laurent Lafitte), un giovane supplente che sta completando gli studi con la scrittura di una tesi su Kafka. Pur avendo una classe di eccellenza con ragazzi particolarmente dotati, Pierre si accorge fin da subito che c'è qualcosa di strano nelle dinamiche relazionali, in particolare osserva il forte legame che unisce sei componenti della classe, tra cui i due rappresentanti, Apolline (Luàna Bajrami) e Dimitri (Victor Bonnel).
A seguito di alcuni strani episodi, Pierre comincia a seguire i ragazzi e a poco a poco ne intuisce il malessere e i piani. Il suo coinvolgimento aumenta progressivamente in una escalation di tensione che non si scioglierà nemmeno nell'inquietante epilogo.
L'ultima ora adatta il romanzo omonimo di Christophe Dufossé mettendo insieme alcuni filoni molto forti della cinematografia francese: da un lato quello dei film di ambientazione scolastica (ce ne sono numerorissimi, l'ultimo dei quali Il professore cambia scuola), dall'altro quello dei film sugli adolescenti (che poi spesso si combinano con il primo filone, penso ad esempio a La schivata di Abdellatif Kechiche), infine quello di matrice ambientalista (penso ad esempio al film Domani). Quest'ultimo filone è molto cresciuto negli ultimi anni in Francia, non saprei dire se come conseguenza di una sensibilizzazione sempre più forte a livello politico e di opinione pubblica su questo tema, o invece come stimolo intellettuale a questa sensibilizzazione.
Il film di Marnier - anche attraverso qualche estremizzazione - mette in scena una generazione molto consapevole e fin troppo lucida, che ha tutti gli strumenti per analizzare criticamente il presente e farsi una propria opinione, ma che proprio per questo esita in un pessimismo e un nichilismo senza speranza alcuna. Questi ragazzi - rappresentati quasi come degli alieni - guardano con rassegnazione al suicidio collettivo di un mondo per il quale sentono di non poter fare più nulla né dare alcun contributo costruttivo.
L'ultima ora è dunque un film profondamente cupo e pessimista, che sembra non lasciare spiragli nemmeno a un personaggio come quello di Pierre che ancora coltiva la fiducia nell'umanità e in un mondo migliore, fino a fargli abbracciare le paure profonde dei sei ragazzi.
Sul piano narrativo, a parte qualche inserto un po' troppo didascalico, come gli scarafaggi che compaiono in casa di Pierre mentre sta scrivendo una tesi su Kafka, l'intreccio funziona bene integrando bene anche gli elementi onirici e gli indizi che in parte si sciolgono e in parte restano senza spiegazione. Il tutto ben supportato da una colonna sonora molto coerente, in cui spiccano anche le esecuzioni a cappella da parte dei ragazzi di due brani di Patti Smith, Pissing in a River e Free Money.
Voto: 3,5/5
Il film di Sébastien Marnier è strutturato come un vero e proprio thriller quasi horror con tanto di suspence e di colpi di scena (che mi ha un po' ricordato a tratti il miglior cinema di Shyamalan), ma questa confezione classica è messa al servizio di una riflessione che va bel al di là dell'intreccio narrativo fino a toccare alcuni temi centrali della contemporaneità.
L'ultima ora ha un inizio shock: in una classe del prestigioso collegio privato Saint Joseph, il professore guarda il sole accecante dalla finestra e a un certo punto si butta di sotto.
Mentre il professor Capadis lotta tra la vita e la morte, a scuola viene mandato a sostituirlo Pierre (Laurent Lafitte), un giovane supplente che sta completando gli studi con la scrittura di una tesi su Kafka. Pur avendo una classe di eccellenza con ragazzi particolarmente dotati, Pierre si accorge fin da subito che c'è qualcosa di strano nelle dinamiche relazionali, in particolare osserva il forte legame che unisce sei componenti della classe, tra cui i due rappresentanti, Apolline (Luàna Bajrami) e Dimitri (Victor Bonnel).
A seguito di alcuni strani episodi, Pierre comincia a seguire i ragazzi e a poco a poco ne intuisce il malessere e i piani. Il suo coinvolgimento aumenta progressivamente in una escalation di tensione che non si scioglierà nemmeno nell'inquietante epilogo.
L'ultima ora adatta il romanzo omonimo di Christophe Dufossé mettendo insieme alcuni filoni molto forti della cinematografia francese: da un lato quello dei film di ambientazione scolastica (ce ne sono numerorissimi, l'ultimo dei quali Il professore cambia scuola), dall'altro quello dei film sugli adolescenti (che poi spesso si combinano con il primo filone, penso ad esempio a La schivata di Abdellatif Kechiche), infine quello di matrice ambientalista (penso ad esempio al film Domani). Quest'ultimo filone è molto cresciuto negli ultimi anni in Francia, non saprei dire se come conseguenza di una sensibilizzazione sempre più forte a livello politico e di opinione pubblica su questo tema, o invece come stimolo intellettuale a questa sensibilizzazione.
Il film di Marnier - anche attraverso qualche estremizzazione - mette in scena una generazione molto consapevole e fin troppo lucida, che ha tutti gli strumenti per analizzare criticamente il presente e farsi una propria opinione, ma che proprio per questo esita in un pessimismo e un nichilismo senza speranza alcuna. Questi ragazzi - rappresentati quasi come degli alieni - guardano con rassegnazione al suicidio collettivo di un mondo per il quale sentono di non poter fare più nulla né dare alcun contributo costruttivo.
L'ultima ora è dunque un film profondamente cupo e pessimista, che sembra non lasciare spiragli nemmeno a un personaggio come quello di Pierre che ancora coltiva la fiducia nell'umanità e in un mondo migliore, fino a fargli abbracciare le paure profonde dei sei ragazzi.
Sul piano narrativo, a parte qualche inserto un po' troppo didascalico, come gli scarafaggi che compaiono in casa di Pierre mentre sta scrivendo una tesi su Kafka, l'intreccio funziona bene integrando bene anche gli elementi onirici e gli indizi che in parte si sciolgono e in parte restano senza spiegazione. Il tutto ben supportato da una colonna sonora molto coerente, in cui spiccano anche le esecuzioni a cappella da parte dei ragazzi di due brani di Patti Smith, Pissing in a River e Free Money.
Voto: 3,5/5
venerdì 26 luglio 2019
Magari ci fosse una parola per dirlo / Stefano Massini. Lunga Vita Festival, Accademia Nazionale di Danza, 18 luglio 2019
Lo spettacolo di Stefano Massini, Magari ci fosse una parola per dirlo, fa parte del Lunga Vita Festival, uno degli appuntamenti dell'estate romana (che sebbene si svolga da tre anni è pressoché sconosciuto e solo il fiuto di F. poteva scovarlo!). Il festival - oltre ad avere un programma parecchio interessante - ha il valore aggiunto di una location molto suggestiva, l'Accademia nazionale di danza sull'Aventino, un posto magico immerso nel verde.
Dopo lo spostamento di data da lunedì a causa della prevista pioggia (che poi in realtà non c'è stata), finalmente possiamo goderci la magia creata da quello straordinario affabulatore e raccontastorie che è Stefano Massini.
Con questo spettacolo siamo dalle parti del suo libro Dizionario inesistente, la cui premessa è che ogni lingua è il riflesso di una cultura e proprio per questo le parole che esistono e che non esistono sono lo specchio della sua storia e dei suoi valori. Di fronte alla frustrazione di non avere parole sintetiche e adatte a parlare di alcuni stati d'animo e di dover ricorrere a perifrasi, Massini decide che le parole si possono anche inventare a partire da specifici personaggi e narrazioni.
E così, a partire dalla storia del condottiero veneziano Francesco Morosini che, mandato a difendere Candia, la capitale di Creta, dall'assedio degli ottomani, resistette per 23 anni e poi decise di mollare e tornare a Venezia, ci parla dei neologismi "bastitudine" o "morosinità", che indicano quello stato d'animo per cui a un certo punto della vita si decide di abbandonare un'impresa perché non si vede più un senso in essa.
Da qui prende l'avvio una lunga e affascinante cavalcata al galoppo di storie piccole e grandi, vere o parzialmente leggendarie, che sono l'occasione per parlare di sentimenti e di condizione umana, di un mondo che non c'è più ma anche di situazioni che sono sempre attuali.
Massini - cui va riconosciuta una straordinaria padronanza del racconto e una memoria che sinceramente mi fa molta invidia - ci parla così del grande interesse dell'uomo per il volo raccontandoci le storie di Kanellos Kanellopoulos, dei fratelli Montgolfier e dei fratelli Wright, la incredibile vicenda della battaglia di Karánsebes e del fuoco amico che sterminò un intero esercito di austro-ungarici, la penosa storia del signor Mordake e della malformazione fisica che lo aveva fatto nasce con una seconda faccia sulla nuca, l'ossessione per il lavoro del conte di Olivares, i motivi del fallimento della missione dell'Apollo 1, la ricerca impossibile di una comunicazione con l'aldilà di Bess, la moglie del mago Houdini, e molto altro...
In questo bel monologo Massini dimostra - se ancora ce ne fosse bisogno - due straordinarie capacità: innanzitutto quella di condurci alla scoperta di storie incredibili di varia umanità, più o meno famosa, ch'egli non si si sa bene come faccia a scovare, in secondo luogo quella di raccontarcele con uno stile di narrazione che cattura ed emoziona. E così durante quest'ora di spettacolo proviamo la sensazione che forse dovevano provare in altre epoche tutti coloro che - in società più fondate sulla tradizione orale - si riunivano intorno all'aedo, al menestrello, al cantastorie per ascoltare i suoi racconti ed essere trascinati in un mondo altro.
La cosa bella - che Massini chiarisce fin dal principio - è che, in un'epoca di narrazioni messe al servizio del marketing e della propaganda, l'autore fiorentino predilige la narrazione utile, ossia pur attingendo agli espedienti narrativi più moderni (ma in fondo anche tradizionali e forse solo riscoperti dalla modernità), li mette al servizio di un discorso intimo e al contempo civile, in un costruttivo stimolo alla riflessione individuale e di gruppo che non si può che apprezzare e salutare con favore.
Avevo visto diversi spettacoli a teatro basati su suoi testi; a questo punto mi è venuta anche voglia di leggere qualche suo libro.
Voto: 4/5
Dopo lo spostamento di data da lunedì a causa della prevista pioggia (che poi in realtà non c'è stata), finalmente possiamo goderci la magia creata da quello straordinario affabulatore e raccontastorie che è Stefano Massini.
Con questo spettacolo siamo dalle parti del suo libro Dizionario inesistente, la cui premessa è che ogni lingua è il riflesso di una cultura e proprio per questo le parole che esistono e che non esistono sono lo specchio della sua storia e dei suoi valori. Di fronte alla frustrazione di non avere parole sintetiche e adatte a parlare di alcuni stati d'animo e di dover ricorrere a perifrasi, Massini decide che le parole si possono anche inventare a partire da specifici personaggi e narrazioni.
E così, a partire dalla storia del condottiero veneziano Francesco Morosini che, mandato a difendere Candia, la capitale di Creta, dall'assedio degli ottomani, resistette per 23 anni e poi decise di mollare e tornare a Venezia, ci parla dei neologismi "bastitudine" o "morosinità", che indicano quello stato d'animo per cui a un certo punto della vita si decide di abbandonare un'impresa perché non si vede più un senso in essa.
Da qui prende l'avvio una lunga e affascinante cavalcata al galoppo di storie piccole e grandi, vere o parzialmente leggendarie, che sono l'occasione per parlare di sentimenti e di condizione umana, di un mondo che non c'è più ma anche di situazioni che sono sempre attuali.
Massini - cui va riconosciuta una straordinaria padronanza del racconto e una memoria che sinceramente mi fa molta invidia - ci parla così del grande interesse dell'uomo per il volo raccontandoci le storie di Kanellos Kanellopoulos, dei fratelli Montgolfier e dei fratelli Wright, la incredibile vicenda della battaglia di Karánsebes e del fuoco amico che sterminò un intero esercito di austro-ungarici, la penosa storia del signor Mordake e della malformazione fisica che lo aveva fatto nasce con una seconda faccia sulla nuca, l'ossessione per il lavoro del conte di Olivares, i motivi del fallimento della missione dell'Apollo 1, la ricerca impossibile di una comunicazione con l'aldilà di Bess, la moglie del mago Houdini, e molto altro...
In questo bel monologo Massini dimostra - se ancora ce ne fosse bisogno - due straordinarie capacità: innanzitutto quella di condurci alla scoperta di storie incredibili di varia umanità, più o meno famosa, ch'egli non si si sa bene come faccia a scovare, in secondo luogo quella di raccontarcele con uno stile di narrazione che cattura ed emoziona. E così durante quest'ora di spettacolo proviamo la sensazione che forse dovevano provare in altre epoche tutti coloro che - in società più fondate sulla tradizione orale - si riunivano intorno all'aedo, al menestrello, al cantastorie per ascoltare i suoi racconti ed essere trascinati in un mondo altro.
La cosa bella - che Massini chiarisce fin dal principio - è che, in un'epoca di narrazioni messe al servizio del marketing e della propaganda, l'autore fiorentino predilige la narrazione utile, ossia pur attingendo agli espedienti narrativi più moderni (ma in fondo anche tradizionali e forse solo riscoperti dalla modernità), li mette al servizio di un discorso intimo e al contempo civile, in un costruttivo stimolo alla riflessione individuale e di gruppo che non si può che apprezzare e salutare con favore.
Avevo visto diversi spettacoli a teatro basati su suoi testi; a questo punto mi è venuta anche voglia di leggere qualche suo libro.
Voto: 4/5
mercoledì 24 luglio 2019
Dalla terra al mare e ritorno: la Poitou Charentes in bicicletta
Nella campagna francese sotto la canicola |
La Francia è una delle mete che io e S. più amiamo per i nostri viaggi in bicicletta, perché è un piacevolissimo compromesso tra molte esigenze: territorio non troppo impervio e dunque per noi affrontabile (almeno in certe regioni), varietà di paesaggi, eccellenza del cibo e dei prodotti locali, lingua comprensibile e in parte per noi parlabile. È per questo che in Francia abbiamo fatto moltissimi viaggi in bicicletta. Però la zona della Poitou-Charentes ci mancava e l'occasione ce l'hanno offerta quest'anno i nostri amici A. e D. che vivono proprio in questa regione della Francia, in un borghetto piccolissimo in campagna che si chiama Puy Doré dove loro hanno un casale (con i vari annessi, stalla, porcilaia, pollaio ecc.).
Il vagone letto a Puy Doré |
Si tratta di giorni di festa familiare: ci sono figli, nipoti, fratelli e relative famiglie, provenienti da ogni parte della Francia e dall'estero per festeggiare i compleanni di due dei bambini che compiono entrambi dieci anni. Ci aspettano mangiate e bevute come non ci fosse un domani.
Puy Doré |
1° tappa: Puy Doré - Parthenay (48 km)
La voie verte |
Chateau de Tenessus |
Stradine di Parthenay |
Stradine di Parthenay |
Lungo la via principale che sale dalla porta verso il centro si possono ammirare molte case medievali "a colombage", ossia con i tralicci in legno a vista. Per la cena a Parthenay fatichiamo un po' a trovare un ristorante aperto e alla fine optiamo per Les sentiers des saveurs, che - come ci dirà il proprietario del logis - è uno dei migliori della città.
2° tappa: Parthenay-Coulon (56 km)
Dopo le chiacchiere del gestore del Logis a colazione e un po' di spesa per il nostro pranzo, partiamo un po' tardi da Parthenay e andiamo a prendere la pista ciclabile che parte dall'Eglise Saint Pierre, La Francette, e per un po' la seguiamo anche se è un continuo saliscendi che, combinato con il caldo sempre più intenso, è piuttosto mortale. L'idea è di seguire la pista fino a Champdeniers, poi ci accorgiamo che allungheremmo parecchio e allora ci affidiamo a Google Maps.
Lungo la vélo Francette |
Coulon |
3° tappa: Coulon-La Rochelle (in realtà ci fermiamo a Marans) (42 km)
Marais Poitevin |
Fermandomi su un ponticello per fare una fotografia, il tappo dell'obiettivo si stacca e cade nello spazio tra due assi finendo in acqua. Tra tanti posti dove poteva capitare e dove sarebbe stato recuperabile, accade proprio nel posto peggiore! Ma l'episodio, poco importante, viene rapidamente dimenticato.
Marais Poitevin |
Verso Marans prima di forare |
Intanto noi abbiamo preso possesso della barca (piccolina ma confortevole) dove decidiamo di portare le biciclette per non rischiare il furto. Però subito dopo aver fatto una sudata clamorosa per caricarle a bordo, veniamo avvisate che le bici non si possono portare sulla barca e che eventuali segni di pneumatici determineranno una multa. E così eccoci di nuovo a tirare giù le bici e portarle fuori dal porto, e poi a pulire tutta la barca per non lasciar nemmeno un segno di pneumatico. Alla fine siamo distrutte. Doccia negli spazi comuni del porto e poi ci dirigiamo al centro storico di La Rochelle con il suo ingresso fortificato dal mare.
La Rochelle |
4° tappa: La Rochelle - La Flotte en Ré (21 km)
Plage de l'Arnérault, La Flotte en Ré
|
Nel pomeriggio c'è anche il tempo di un bagno alla spiaggia del paese, l'Arnerault, dove la marea si sta abbassando a vista d'occhio e ben presto la gente smetterà di fare bagni per raccogliere i frutti di mare che restano scoperti dall'acqua che si ritira. La sera abbiamo appuntamento con i nostri amici A. e D. insieme al loro ospite per un aperitivo nella piazzetta del paese e poi cena al ristorante di pesce del nostro albergo dove per la prima volta nella mia vita assaggio le ostriche (prima non ne avevo avuto il coraggio!) e.... mi piacciono!!!!
Il nebbione sull'Ile de Ré |
La mattina quando ci alziamo il cielo è azzurro e il sole splende, quindi temiamo che ci attenda un'altra giornata di "canicule". Però nel tempo che facciamo colazione e siamo pronte a partire, si è alzato dall'oceano un nebbione pazzesco e un vento fresco, quasi freddo, al punto che ci vuole la giacca a vento in bicicletta. La destinazione è il Phare des baleines; di percorsi ciclabili per arrivarci ce ne sono diversi (l'isola è totalmente ciclabile), noi decidiamo di fare quello che costeggia a ovest l'oceano, nonostante il vento contrario che sappiamo attenderci.
La scala a chiocciola del Phare des baleines |
La torre dietro il phare des baleines |
6° tappa: La Flotte en Ré- Puy du Fou-Mortagne sur Sevre (primo tratto in macchina, poi in bicicletta 17,5 km)
Le saline sull'Ile de Ré |
Dopo aver legato per bene le biciclette, aver fatto la fila per entrare e aver lasciato le borse al deposito, iniziamo il nostro giro sotto una calura inverosimile e in mezzo a una folla spaventosa che aumenta sempre di più di minuto in minuto. Praticamente Puy du Fou è un parco divertimenti in cui ci sono attrazioni e spettacoli ispirati alla storia francese e non solo. Alcune attrazioni sono visitabili sempre, altri spettacoli sono a orari fissi. Tentiamo inizialmente di andare a vedere quello sui vikinghi ma quando arriviamo è già al completo.
Per le strade dell'Ile de Ré |
Capiamo che di questi spettacoli riusciremo a vederne al massimo uno e scegliamo di andare a Le Bal des Oiseaux Fantômes: attesa sotto il sole in fila per entrare, attesa sotto il sole nel grande stadio dove si tiene lo spettacolo, ma alla fine riusciamo a vedere questa rappresentazione che, sulla base di una storia di cavalieri, è soprattutto un'esibizione di grandi uccelli (falchi, aquile, cicogne ecc.) e dei falconieri che ne governano i percorsi. Affascinante e anche un po' inquietante, perché questi grandi uccelli spesso passano radenti sulla folla.
Delle attrazioni visitabili a ciclo continuo vediamo Le Mystère de La Pérouse, ispirato alla storia di un esploratore e ai suoi viaggi in mare (molto bello!), Les amoureaux de Verdun (la storia di due innamorati, uno dei quali combatte in trincea durante la prima guerra mondiale), e Le Premier Royaume (che racconta la storia del primo re cattolico francese, Clovis). A questo punto però non ne possiamo veramente più, tra caldo e mandrie di persone sudate che sciamano da una parte all'altra del parco e invadono qualunque spazio. Cosicché cerchiamo un posto sul prato all'ombra e ci sdraiamo lì prima per riposarci e poi per vedere la partita della nazionale femminile di calcio (purtroppo sconfitta dall'Olanda!).
Pecore "nere" |
I diciassette chilometri che ci separano dal Logis sono impegnativi per i saliscendi e il caldo e quando arriviamo a quello che si presenta come un castelletto senza alcuna insegna non c'è nessuno a cui chiedere la chiave. Dovremo urlare da dietro un cancello oltre il quale si sentono voci di persone che giocano in piscina per attirare l'attenzione di qualcuno e finalmente farci aprire. Il posto è bello, ma è davvero sperduto nel nulla. Per la sera andiamo verso Mortagne a cercare un posto dove mangiare e alla fine ci fermiamo da A comme Alex, un ristorante con un bel patio esterno che alla fine si rivela come il migliore dell'intera vacanza: carpaccio di capesante, pesce spada alla griglia con salsa di melanzane e verdure, formaggi e un dolce di pasta sfoglia e crema al caramello e cioccolato. Tutto ottimo!!
Tornando a Puy Doré |
La mattina mi sveglio a causa di un prurito fortissimo sulla schiena e mi accorgo di essere piena di bollicine! Non riesco a capire di cosa si tratti, se punture di insetti oppure una reazione allergica, comunque a parte il prurito per il resto sto bene. Così dopo una bella e abbondante colazione ci mettiamo in sella per tornare verso Puy Doré. Visto che la tappa non è breve e non è in piano, decidiamo di evitare tutte le deviazioni e le stradine secondarie e scegliamo di fare la strada principale, anche perché è domenica e c'è pochissimo traffico. Dopo 3 ore e mezzo di pedalata siamo a Courlay, quindi a soli 3 km da Puy Doré. Qui ci fermiamo al laghetto artificiale per uno spuntino e un riposino, poi ripartiamo. Arriviamo a casa di A. e D. giusto in tempo per aperitivo e cena, entrambi come sempre da loro molto abbondanti. Poi prepariamo le valigie perché è arrivato il momento di partire.
A Puy Doré |
Ma intanto anche questa vacanza in bicicletta (in cui i nostri circa 320 km li abbiamo fatti!) è finita e - sono sicura - passerà pure questa agli annali.
Qui altre foto della vacanza su Behance.
lunedì 22 luglio 2019
Ride
Il ricco programma delle arene estive romane come ogni anno mi dà la possibilità di recuperare alcuni film che avrei voluto vedere e che invece avevo perso. Così accolgo volentieri l'invito di F. di andare a vedere all'Isola del cinema Ride, il primo lungometraggio di Valerio Mastandrea, per la cui proiezione saranno presenti il regista, la protagonista Chiara Martegiani, nonché Daniele Silvestri, autore della colonna sonora. In realtà la presenza di Daniele Silvestri si giustifica anche perché prima del film viene proiettato sul grande schermo il videoclip della sua canzone Scusate se non piango, la cui regia è ancora una volta di Mastandrea e a cui hanno partecipato molti amici, anche per sostenere la causa dell'Angelo Mai, il centro sociale più volte sgomberato negli ultimi mesi.
Il videoclip è molto divertente, così come lo scambio di battute sul palco tra gli ospiti e i presentatori della serata. Al già folto gruppo si unisce infine Lillo, che è protagonista della coreografia vista nel videoclip e di cui ci offre un saggio dal vivo.
Il film di Mastandrea ci riporta poi invece a un'atmosfera certamente meno allegra e spensierata, sebbene non rinunci a stemperare il dramma con una vena sottilmente ironica e surreale.
La protagonista, Carolina, ha appena perso il marito, Mauro, morto in un incidente sul luogo di lavoro. La attendono funerali pubblici, in cui è prevista anche la presenza della televisione, e si trova a fare i conti da un lato con la gestione interiore del lutto, dall'altro con l'aspettativa sociale in merito. Parallelamente anche il figlio Bruno (Arturo Marchetti) e il suocero (Renato Carpentieri) si confrontano con la perdita e con ciò ch'essa comporta. Ognuno di loro reagisce in maniera diversa e non scontata: Carolina è bloccata, incapace di piangere, assorbita nell'inerzia di una vita che comunque va avanti; Bruno si prepara insieme al compagno di giochi per l'intervista che sicuramente la televisione gli farà il giorno del funerale e ne vuole fare l'occasione per conquistare la ragazzina che gli piace; il padre di Mauro sente la responsabilità dell'eredità lasciata al figlio Mauro (che ne ha seguito le orme in fabbrica) e cerca di sfuggire al senso di colpa inevitabile, che gli sarà rinfacciato dall'altro figlio, quello scapestrato e con cui è in conflitto (Stefano Dionisi).
I tre assi narrativi proseguono parallelamente e in maniera quasi indipendente fino a quando ciascuno di essi giunge allo scioglimento in modo inaspettato, ovvero per effetto di decisioni individuali o fattori esterni.
Il film di Mastandrea è girato bene e può contare su un'idea di fondo molto buona: raccontare la soggettività del dolore e quanto c'è di surreale, assurdo e quasi ridicolo nella sua messinscena sociale e nei rituali collettivi che lo caratterizzano, nonché riconoscere il diritto che ognuno ha di vivere il dolore come si sente senza che questo comporti un giudizio. E da questo punto di vista il film di Mastandrea è sicuramente efficace, e non a caso dà il meglio di sé attraverso le figure di Carolina e di Bruno.
Quando invece la riflessione sul dolore punta ad allargarsi a temi più ampi, e a invadere il campo delle questioni sociali, come nella sottotrama che riguarda il padre di Bruno, la forza emotiva del film scema e i suoi linguaggi fanno fatica a fondersi, creando quasi la sensazione di assistere a film diversi.
La prima prova registica di Mastandrea è dunque certamente coraggiosa nell'affrontare un tema complesso e intimo ma si fa forse troppo ambiziosa e si sfilaccia nel tentativo di inquadrarlo all'interno di questioni più ampie di carattere sociale e relazionale.
Voto: 3/5
Il videoclip è molto divertente, così come lo scambio di battute sul palco tra gli ospiti e i presentatori della serata. Al già folto gruppo si unisce infine Lillo, che è protagonista della coreografia vista nel videoclip e di cui ci offre un saggio dal vivo.
Il film di Mastandrea ci riporta poi invece a un'atmosfera certamente meno allegra e spensierata, sebbene non rinunci a stemperare il dramma con una vena sottilmente ironica e surreale.
La protagonista, Carolina, ha appena perso il marito, Mauro, morto in un incidente sul luogo di lavoro. La attendono funerali pubblici, in cui è prevista anche la presenza della televisione, e si trova a fare i conti da un lato con la gestione interiore del lutto, dall'altro con l'aspettativa sociale in merito. Parallelamente anche il figlio Bruno (Arturo Marchetti) e il suocero (Renato Carpentieri) si confrontano con la perdita e con ciò ch'essa comporta. Ognuno di loro reagisce in maniera diversa e non scontata: Carolina è bloccata, incapace di piangere, assorbita nell'inerzia di una vita che comunque va avanti; Bruno si prepara insieme al compagno di giochi per l'intervista che sicuramente la televisione gli farà il giorno del funerale e ne vuole fare l'occasione per conquistare la ragazzina che gli piace; il padre di Mauro sente la responsabilità dell'eredità lasciata al figlio Mauro (che ne ha seguito le orme in fabbrica) e cerca di sfuggire al senso di colpa inevitabile, che gli sarà rinfacciato dall'altro figlio, quello scapestrato e con cui è in conflitto (Stefano Dionisi).
I tre assi narrativi proseguono parallelamente e in maniera quasi indipendente fino a quando ciascuno di essi giunge allo scioglimento in modo inaspettato, ovvero per effetto di decisioni individuali o fattori esterni.
Il film di Mastandrea è girato bene e può contare su un'idea di fondo molto buona: raccontare la soggettività del dolore e quanto c'è di surreale, assurdo e quasi ridicolo nella sua messinscena sociale e nei rituali collettivi che lo caratterizzano, nonché riconoscere il diritto che ognuno ha di vivere il dolore come si sente senza che questo comporti un giudizio. E da questo punto di vista il film di Mastandrea è sicuramente efficace, e non a caso dà il meglio di sé attraverso le figure di Carolina e di Bruno.
Quando invece la riflessione sul dolore punta ad allargarsi a temi più ampi, e a invadere il campo delle questioni sociali, come nella sottotrama che riguarda il padre di Bruno, la forza emotiva del film scema e i suoi linguaggi fanno fatica a fondersi, creando quasi la sensazione di assistere a film diversi.
La prima prova registica di Mastandrea è dunque certamente coraggiosa nell'affrontare un tema complesso e intimo ma si fa forse troppo ambiziosa e si sfilaccia nel tentativo di inquadrarlo all'interno di questioni più ampie di carattere sociale e relazionale.
Voto: 3/5
venerdì 19 luglio 2019
La linea verticale / Mattia Torre
La linea verticale / Mattia Torre. Milano: Baldini e Castoldi, 2017.
[La mia personale dedica a un autore che amo molto e che purtroppo il destino ha portato via oggi. Troppo presto].
Come si può facilmente verificare facendo una breve ricerca in questo blog, Mattia Torre è un autore che mi piace parecchio e che seguo ormai da diversi anni. Ne apprezzo la qualità della scrittura e l'acume con cui riesce a parlare di temi se vogliamo quotidiani o comunque che possono riguardare la vita di tutti in maniera leggera e profonda al contempo.
La sua scrittura secondo me esprime le sue massime potenzialità quando viene recitata, ma anche nella sua espressione letteraria funziona parecchio bene, come avevo avuto modo di appurare con la lettura di In mezzo al mare: cinque atti comici.
Con La linea verticale le intersezioni e gli scambi tra i vari linguaggi e mezzi divengono ancora più articolati, visto che quella che è nata come la sceneggiatura di una serie per la televisione è diventata successivamente un volumetto per i tipi di Baldini e Castoldi.
La lettura è molto scorrevole e il volumetto scivola via rapidamente tra qualche risata amara e non poche riflessioni, cosa che è poi una caratteristica precipua di Mattia Torre.
La scrittura è fortemente visiva e la sensazione che quelle che leggiamo siano situazioni destinate a una messa in scena resta piuttosto inevitabile.
Nonostante questo però il racconto di questa avventura ospedaliera che vede Luigi, sposato, padre di una bambina e in attesa di un secondo figlio, scoprire all'improvviso di avere un tumore al rene e trovarsi la vita rovesciata da un repentino ricovero, da un intervento delicato e da una faticosa degenza risulta commovente e ironico al contempo.
La buffa galleria di personaggi che compongono il micromondo ospedaliero, i medici - il mitico chirurgo Zamagna, l'oncologo Aliprandi, l'infettivologo Barbieri ecc. -, il personale dell'ospedale - caposala, infermieri, portantini con i loro caratteri e le loro abitudini - e i compagni di degenza - il somalo Ahmed che ha un negozio in via de' Coronari ma tutti lo considerano un migrante, Marcello che ne sa più dei medici, il prete Costa costretto anche lui all'intervento, Lellone ecc., è decisamente vivida e rimane a lungo impressa nella memoria.
Certo, quello di Mattia Torre è un testo che - pur gravato dall'incontro difficile e doloroso di un uomo con una malattia che avvicina pericolosamente il pensiero della morte - vuole rimanere leggero e non ci costringe a confrontarci con esiti tragici, almeno non nel tutto sommato breve arco di tempo che Luigi trascorre in ospedale. Certamente però fa riflettere sui meccanismi psicologici della malattia e in fondo sulla sua inevitabile ordinarietà acquisita e fa guardare all'ambiente ospedaliero con un occhio se vogliamo più affettuoso e buono di quanto non siamo usi fare di solito.
Voto: 3/5
[La mia personale dedica a un autore che amo molto e che purtroppo il destino ha portato via oggi. Troppo presto].
Come si può facilmente verificare facendo una breve ricerca in questo blog, Mattia Torre è un autore che mi piace parecchio e che seguo ormai da diversi anni. Ne apprezzo la qualità della scrittura e l'acume con cui riesce a parlare di temi se vogliamo quotidiani o comunque che possono riguardare la vita di tutti in maniera leggera e profonda al contempo.
La sua scrittura secondo me esprime le sue massime potenzialità quando viene recitata, ma anche nella sua espressione letteraria funziona parecchio bene, come avevo avuto modo di appurare con la lettura di In mezzo al mare: cinque atti comici.
Con La linea verticale le intersezioni e gli scambi tra i vari linguaggi e mezzi divengono ancora più articolati, visto che quella che è nata come la sceneggiatura di una serie per la televisione è diventata successivamente un volumetto per i tipi di Baldini e Castoldi.
La lettura è molto scorrevole e il volumetto scivola via rapidamente tra qualche risata amara e non poche riflessioni, cosa che è poi una caratteristica precipua di Mattia Torre.
La scrittura è fortemente visiva e la sensazione che quelle che leggiamo siano situazioni destinate a una messa in scena resta piuttosto inevitabile.
Nonostante questo però il racconto di questa avventura ospedaliera che vede Luigi, sposato, padre di una bambina e in attesa di un secondo figlio, scoprire all'improvviso di avere un tumore al rene e trovarsi la vita rovesciata da un repentino ricovero, da un intervento delicato e da una faticosa degenza risulta commovente e ironico al contempo.
La buffa galleria di personaggi che compongono il micromondo ospedaliero, i medici - il mitico chirurgo Zamagna, l'oncologo Aliprandi, l'infettivologo Barbieri ecc. -, il personale dell'ospedale - caposala, infermieri, portantini con i loro caratteri e le loro abitudini - e i compagni di degenza - il somalo Ahmed che ha un negozio in via de' Coronari ma tutti lo considerano un migrante, Marcello che ne sa più dei medici, il prete Costa costretto anche lui all'intervento, Lellone ecc., è decisamente vivida e rimane a lungo impressa nella memoria.
Certo, quello di Mattia Torre è un testo che - pur gravato dall'incontro difficile e doloroso di un uomo con una malattia che avvicina pericolosamente il pensiero della morte - vuole rimanere leggero e non ci costringe a confrontarci con esiti tragici, almeno non nel tutto sommato breve arco di tempo che Luigi trascorre in ospedale. Certamente però fa riflettere sui meccanismi psicologici della malattia e in fondo sulla sua inevitabile ordinarietà acquisita e fa guardare all'ambiente ospedaliero con un occhio se vogliamo più affettuoso e buono di quanto non siamo usi fare di solito.
Voto: 3/5
giovedì 18 luglio 2019
Bangla. In viaggio con Adele
Approfittando della consueta visita estiva di mio nipote e del fatto che durante l’anno lui al cinema ci va poco e con me ci viene tutto sommato volentieri, recupero insieme a lui qualche film che avevo perso durante l’inverno. In questo caso, per una serie di combinazioni, andiamo a vedere due opere prime italiane, Bangla, di Phaim Bhuiyan, e In viaggio con Adele, di Alessandro Capitani.
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Bangla
Phaim Bhuiyan scrive, dirige e interpreta questo film dal forte carattere autobiografico: il protagonista è infatti lui stesso, Phaim, che ha 22 anni, viene da una famiglia bengalese ma è nato in Italia e vive da sempre a Torpignattara, quindi - come dice lui - è 50% bangla, 50% italiano e 100% torpigna.
Il film inizia con Phaim che ci racconta la sua vita: la sua famiglia - con il padre che racconta sempre dei suoi viaggi fatti in passato, la madre che vuole trasferirsi a Londra, la sorella che sta per sposarsi ma non ne è così convinta -, gli amici – lo spacciatore di torpigna cui fa le sue confidenze, la sua band che fa musica bengalese e che suona ai matrimoni -, il suo lavoro come stewart in un museo, il suo rapporto complicato con la religione musulmana, in particolare per i divieti sull’alcol e il sesso prematrimoniale che rendono faticosa la sua vita sociale.
Un giorno Phaim incontra Asia (Carlotta Antonelli), e se ne innamora ricambiato. Mentre Asia viene da una famiglia italiana molto aperta e alternativa (i suoi genitori sono separati, sua madre ha una compagna, e ha un fratellastro più piccolo) che non vede nulla di strano nella frequentazione della figlia, Phaim – pur innamorato di lei – è molto combattuto, prima di tutto perché sa che i genitori si aspettano che sposi una brava ragazza bengalese e musulmana, e in secondo luogo perché la sua religione gli impone la castità.
Tra una passeggiata serale tra i murales di Torpignattara, un concerto a Montesacro e un giro in motorino, la storia di Phaim e Asia viene raccontata con tenerezza e autoironia, e diventa l’occasione per parlare con semplicità di una società che cambia e delle contraddizioni che la caratterizzano a tutti i livelli, una società che deve fare i conti da un lato con le differenze culturali e religiose, dall’altro con le quotidiane e universali incertezze in merito all’amore, all’amicizia e al futuro che caratterizzano i giovani qualunque provenienza essi abbiano.
Il giovane protagonista di Bangla sembra quasi il protagonista di un fumetto di Zerocalcare, con cui secondo me condivide uno sguardo al contempo spaurito e fiducioso sul mondo circostante e con cui è facile empatizzare, non solo se si è dei giovani bengalesi di religione musulmana.
Bangla appartiene a un filone cinematografico molto prolifico in altri paesi, per esempio in Gran Bretagna (dove il tema delle seconde generazioni è stato affrontato in tutte le salse e utilizzando tutti i generi e i linguaggi, dalla commedia al drammatico – tra tutti mi viene in mente Un bacio appassionato di Ken Loach), ma che è praticamente assente in Italia. Per questo l’uscita del film di Bhuiyan va salutata con grande favore, e ci si augura che possa essere il primo di una lunga serie di film capaci di raccontare quell’Italia già profondamente e in fondo felicemente multietnica che probabilmente rappresenta la più grande speranza di futuro che questo paese ha.
Quello di Phaim Bhuiyan non è però un film politico, bensì il racconto molto personale e pieno di ironia di un giovane come tanti altri, ma con un punto di vista particolare nel quale è divertente e interessante immergersi per comprendere meglio il mondo che ci circonda.
Voto: 3,5/5
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In viaggio con Adele
Mentre facciamo la fila per entrare all’Arena del Nuovo Sacher per vedere il film di Alessandro Capitani In viaggio con Adele nell’ambito della rassegna "Bimbi belli" (ossia i debutti registici dell’ultimo anno nel cinema italiano), dietro di noi in fila per comprare il biglietto c’è anche un viso conosciuto. Lo guardiamo meglio e riconosciamo nel ragazzo con la felpa e la scarpe da ginnastica Phaim Bhuiyan, il regista e protagonista del film che abbiamo visto solo la sera precedente. A conferma del fatto che – nonostante ci troviamo in una capitale di oltre 3.000.000 di abitanti – a Roma è molto più facile di quanto si pensi incontrarsi e “riconoscersi” quando si frequentano certi ambienti e contesti.
A differenza di Bangla, il film di questa sera – come ci spiega il regista alla fine della proiezione chiacchierando con Nanni Moretti – non è un film “personale”, perché a Capitani è stata messa in mano una sceneggiatura già scritta (scritta da Nicola Guaglianone) e un protagonista con le idee chiare come Alessandro Haber.
La storia è quella di Aldo (Alessandro Haber), un attore di teatro specializzato nel ruolo di Cyrano che, dopo molti anni di assenza dal grande schermo, ha ricevuto una proposta per un film sullo spadaccino francese girato da Patrice Leconte. Mentre si appresta a partire per Parigi con la sua agente e amante Carla (Isabella Ferrari), Aldo riceve la notizia che una sua ex di gioventù è morta a soli 52 anni. Aldo decide così di mettersi in macchina e di andare in Puglia per il funerale: qui conosce la figlia della donna, Adele (Sara Serraiocco), che è una ragazza psicologicamente e socialmente problematica, che veste con un pigiama rosa con le orecchie da coniglio e va in giro con una gabbietta da gatto vuota. Aldo scopre ben presto che la ragazza è sua figlia e, pur riluttante, accetta di accompagnarla prima dalla nonna e poi dalla zia, nel tentativo di trovarle una collocazione dove possa vivere. Le cose andranno però diversamente e il viaggio insieme riserverà molte sorprese, sconvolgendo la vita e i piani di Aldo e costringendolo a mettersi di fronte a sé stesso e alle proprie scelte.
In viaggio con Adele è un buon prodotto cinematografico: Capitani fa dignitosamente il proprio lavoro registico (tra l’altro – a quanto ci dice – in tempi piuttosto stretti, 4 settimane), Haber e la Serraiocco sono molto credibili e la loro dinamica relazionale funziona molto bene, la storia di Guaglianone si presta a diversi livelli di lettura, non solo quello del rapporto padre-figlia che c’è ed è emotivamente molto efficace, bensì anche quello del rapporto tra normalità e diversità in una società che normalizza le nostre idiosincrasie e le nostre paure e tende invece a ghettizzare le forme di emotività e irrazionalità che non sono riconducibili alle norme di cui sopra.
Non certo tematiche originali per gli schermi cinematografici e non solo, ma trattate in questa opera prima con grande delicatezza e scegliendo – come in Bangla – la strada dell’ironia anziché quella dei sofismi intellettualistici. E questo è certamente un merito e fa sì che i molti spunti contenuti in questa storia giungano direttamente al cuore degli spettatori.
Voto: 3/5
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Bangla
Phaim Bhuiyan scrive, dirige e interpreta questo film dal forte carattere autobiografico: il protagonista è infatti lui stesso, Phaim, che ha 22 anni, viene da una famiglia bengalese ma è nato in Italia e vive da sempre a Torpignattara, quindi - come dice lui - è 50% bangla, 50% italiano e 100% torpigna.
Il film inizia con Phaim che ci racconta la sua vita: la sua famiglia - con il padre che racconta sempre dei suoi viaggi fatti in passato, la madre che vuole trasferirsi a Londra, la sorella che sta per sposarsi ma non ne è così convinta -, gli amici – lo spacciatore di torpigna cui fa le sue confidenze, la sua band che fa musica bengalese e che suona ai matrimoni -, il suo lavoro come stewart in un museo, il suo rapporto complicato con la religione musulmana, in particolare per i divieti sull’alcol e il sesso prematrimoniale che rendono faticosa la sua vita sociale.
Un giorno Phaim incontra Asia (Carlotta Antonelli), e se ne innamora ricambiato. Mentre Asia viene da una famiglia italiana molto aperta e alternativa (i suoi genitori sono separati, sua madre ha una compagna, e ha un fratellastro più piccolo) che non vede nulla di strano nella frequentazione della figlia, Phaim – pur innamorato di lei – è molto combattuto, prima di tutto perché sa che i genitori si aspettano che sposi una brava ragazza bengalese e musulmana, e in secondo luogo perché la sua religione gli impone la castità.
Tra una passeggiata serale tra i murales di Torpignattara, un concerto a Montesacro e un giro in motorino, la storia di Phaim e Asia viene raccontata con tenerezza e autoironia, e diventa l’occasione per parlare con semplicità di una società che cambia e delle contraddizioni che la caratterizzano a tutti i livelli, una società che deve fare i conti da un lato con le differenze culturali e religiose, dall’altro con le quotidiane e universali incertezze in merito all’amore, all’amicizia e al futuro che caratterizzano i giovani qualunque provenienza essi abbiano.
Il giovane protagonista di Bangla sembra quasi il protagonista di un fumetto di Zerocalcare, con cui secondo me condivide uno sguardo al contempo spaurito e fiducioso sul mondo circostante e con cui è facile empatizzare, non solo se si è dei giovani bengalesi di religione musulmana.
Bangla appartiene a un filone cinematografico molto prolifico in altri paesi, per esempio in Gran Bretagna (dove il tema delle seconde generazioni è stato affrontato in tutte le salse e utilizzando tutti i generi e i linguaggi, dalla commedia al drammatico – tra tutti mi viene in mente Un bacio appassionato di Ken Loach), ma che è praticamente assente in Italia. Per questo l’uscita del film di Bhuiyan va salutata con grande favore, e ci si augura che possa essere il primo di una lunga serie di film capaci di raccontare quell’Italia già profondamente e in fondo felicemente multietnica che probabilmente rappresenta la più grande speranza di futuro che questo paese ha.
Quello di Phaim Bhuiyan non è però un film politico, bensì il racconto molto personale e pieno di ironia di un giovane come tanti altri, ma con un punto di vista particolare nel quale è divertente e interessante immergersi per comprendere meglio il mondo che ci circonda.
Voto: 3,5/5
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In viaggio con Adele
Mentre facciamo la fila per entrare all’Arena del Nuovo Sacher per vedere il film di Alessandro Capitani In viaggio con Adele nell’ambito della rassegna "Bimbi belli" (ossia i debutti registici dell’ultimo anno nel cinema italiano), dietro di noi in fila per comprare il biglietto c’è anche un viso conosciuto. Lo guardiamo meglio e riconosciamo nel ragazzo con la felpa e la scarpe da ginnastica Phaim Bhuiyan, il regista e protagonista del film che abbiamo visto solo la sera precedente. A conferma del fatto che – nonostante ci troviamo in una capitale di oltre 3.000.000 di abitanti – a Roma è molto più facile di quanto si pensi incontrarsi e “riconoscersi” quando si frequentano certi ambienti e contesti.
A differenza di Bangla, il film di questa sera – come ci spiega il regista alla fine della proiezione chiacchierando con Nanni Moretti – non è un film “personale”, perché a Capitani è stata messa in mano una sceneggiatura già scritta (scritta da Nicola Guaglianone) e un protagonista con le idee chiare come Alessandro Haber.
La storia è quella di Aldo (Alessandro Haber), un attore di teatro specializzato nel ruolo di Cyrano che, dopo molti anni di assenza dal grande schermo, ha ricevuto una proposta per un film sullo spadaccino francese girato da Patrice Leconte. Mentre si appresta a partire per Parigi con la sua agente e amante Carla (Isabella Ferrari), Aldo riceve la notizia che una sua ex di gioventù è morta a soli 52 anni. Aldo decide così di mettersi in macchina e di andare in Puglia per il funerale: qui conosce la figlia della donna, Adele (Sara Serraiocco), che è una ragazza psicologicamente e socialmente problematica, che veste con un pigiama rosa con le orecchie da coniglio e va in giro con una gabbietta da gatto vuota. Aldo scopre ben presto che la ragazza è sua figlia e, pur riluttante, accetta di accompagnarla prima dalla nonna e poi dalla zia, nel tentativo di trovarle una collocazione dove possa vivere. Le cose andranno però diversamente e il viaggio insieme riserverà molte sorprese, sconvolgendo la vita e i piani di Aldo e costringendolo a mettersi di fronte a sé stesso e alle proprie scelte.
In viaggio con Adele è un buon prodotto cinematografico: Capitani fa dignitosamente il proprio lavoro registico (tra l’altro – a quanto ci dice – in tempi piuttosto stretti, 4 settimane), Haber e la Serraiocco sono molto credibili e la loro dinamica relazionale funziona molto bene, la storia di Guaglianone si presta a diversi livelli di lettura, non solo quello del rapporto padre-figlia che c’è ed è emotivamente molto efficace, bensì anche quello del rapporto tra normalità e diversità in una società che normalizza le nostre idiosincrasie e le nostre paure e tende invece a ghettizzare le forme di emotività e irrazionalità che non sono riconducibili alle norme di cui sopra.
Non certo tematiche originali per gli schermi cinematografici e non solo, ma trattate in questa opera prima con grande delicatezza e scegliendo – come in Bangla – la strada dell’ironia anziché quella dei sofismi intellettualistici. E questo è certamente un merito e fa sì che i molti spunti contenuti in questa storia giungano direttamente al cuore degli spettatori.
Voto: 3/5
martedì 16 luglio 2019
Arti Vive Festival: Sharon Van Etten (+ Any Other, + Malihini). Soliera (MO), 7 luglio 2019
A conclusione di un bel weekend trascorso a inseguire un po' di fresco su per l'Appennino, il ritorno al caldo della bassa padana è quantomeno allietato dalla partecipazione a una bella serata di musica dal vivo.
Si tratta della serata finale di Arti Vive Festival (l'evento musicale che si tiene nella piazza del centro storico di Soliera, in provincia di Modena), la cui ospite d'onore è Sharon Van Etten, che ha scelto questa come una delle pochissime location del suo tour italiano.
Ma il live musicale prevede altre partecipazioni importanti che sarebbe riduttivo chiamare semplici opening. Su un palco affollatissimo di strumenti sale alle 20 Any Other, aka Adele Nigro, con la band che la sta accompagnando in questo lungo tour seguito alla pubblicazione del lavoro Two, Geography e che già avevo avuto modo di ascoltare a Roma allo Spazio Diamante. La band è formata dall'inseparabile Marco Giudici, dalla bravissima batterista Clara Romita e dal bassista Giacomo di Paolo.
Any Other ci offre una quarantina di minuti di galoppata attraverso le sue canzoni, cantandole con la solita grinta e determinazione, e manifestando il consueto affetto nei confronti di un pubblico ancora non folto, ma sicuramente attento. Ascoltiamo, tra le altre, Walkthrough, Mother goose, Something, Traveling hard, Capricorn No, e - nonostante qualche piccolo problema iniziale con i volumi degli strumenti - il breve live riesce perfettamente a trasmettere tutta la forza e la tenerezza che emana da questa ragazza, molto giovane per tanti versi, eppure incredibilmente matura per la sua età e il suo modo di stare sul palco.
Il tempo di un breve cambio di palco ed ecco salire il duo Malihini, formato da Giampaolo Speziale e Thony (nome d'arte della musicista e attrice Federica Caiozzo). Thony la conosco da moltissimo tempo: l'avevo sentita cantare già nel 2010 nell'opening di Joan as Police Woman al Circolo degli artisti, quando ancora non aveva fatto alcun film e nessuno la conosceva. A quel tempo ne avevo intuito le qualità e non a caso il successo sarebbe arrivato di lì a poco con la colonna sonora e il ruolo da co-protagonista nel film di Virzì Tutti i santi giorni. Proprio nell'anno di uscita del film, l'avevo rivista dal vivo al Lanificio in una serata nel complesso non del tutto soddisfacente, ma in cui Thony aveva confermato le sue qualità di cantautrice e interprete.
Da allora l'avevo un po' persa di vista e in generale ho avuto l'impressione che la carriera di Thony non avesse preso una direzione chiara e oscillasse tra cinema e musica senza una precisa convinzione. Poi, non molto tempo fa, scopro che Thony - insieme a Giampaolo Speziale, conosciuto per caso e diventato suo partner di vita e musicale - ha avviato un nuovo progetto musicale che si chiama Malihini e che ho l'occasione di ascoltare dal vivo qui a Soliera.
I due (Speziale alla chitarra e Thony alle tastiere) sono accompagnati da un bassista e anche loro - come Any Other - ci propongono una quarantina di minuti di live durante il quale ci fanno ascoltare diverse canzoni di questo ultimo lavoro, tra cui Hopefully, again (che dà il titolo all'album), Michael e Drum Rock and Roll. Difficile classificare la loro musica che mescola pop ed elettronica, e in alcuni momenti ricorda persino sonorità anni Ottanta e Novanta (ma non so se sono influenzata in questo dai jeans a vita alta e dalla camicia a fiori di Giampaolo Speziale). Mentre Thony manifesta apertamente una certa qual timidezza, Speziale fa l'uomo della situazione ostentando sicurezza e parlando con il pubblico, ma è evidente che anche lui è un timido e che in fondo entrambi sono a loro agio solo quando suonano e cantano. Nel finale Speziale si avvicina alle tastiere e i due cantano in duetto guardandosi romanticamente negli occhi. Staremo a vedere se questo progetto musicale e di vita metterà le ali e dove porterà questi due musicisti e le loro esistenze.
Ma intanto si sono fatte quasi le dieci, ed è tempo di preparare il palco per Sharon Van Etten, che non si fa attendere e sale sul palco elegantissima con i suoi pantaloni attillati e la sua camicia di lamé. Intorno a lei, ognuno su un proprio palchetto sopraelevato, i suoi musicisti; innanzitutto la sua collaboratrice di lunga data, Heather Broderick Woods (che già avevo visto suonare con lei nel concerto di qualche anno fa al Circolo degli artisti), poi un batterista, un esperto bassista e un polistrumentista di grande livello.
Sharon inizia solo voce, per poi imbracciare la chitarra (anzi le chitarre, ne utilizza due diverse) e proporci anche un paio di brani al piano, tra cui una cover della canzone Black Boys on Mopeds di Sinéad O'Connor, che lei dice di aver scelto perché, da quando è diventata madre (di un bimbo di due anni), condivide le inevitabili preoccupazioni delle madri per la situazione in cui versa il mondo intero.
Il tour ovviamente punta a portare all'attenzione del pubblico l'ultimo album di Sharon, Remind me tomorrow, arrivato a oltre quattro anni di distanza dal precedente Are we there, che io avevo amato particolarmente. Nel frattempo tante cose sono successe nella sua vita e anche la sua musica è in parte cambiata; dagli esordi folk (in particolare in Tramp) e dalle atmosfere più intimistiche e drammatiche di Are we there si è passati a sonorità più variegate che spaziano dal rock all'elettronica, ma che complessivamente - a mio modesto parere - risultano meno personali e riuscite. Non a caso il pezzo che mi è piaciuto di più di questo nuovo lavoro è Seventeen in cui la Van Etten torna a uno stile per lei più classico com'è quello della ballata. Questa è appunto una delle canzoni del nuovo album che ci propone insieme ad altre tra cui No one's easy to love e Comeback kid. Ma - nonostante l'impianto rock del live - fanno capolino anche canzoni provenienti dai lavori precedenti come Tarifa, Every time the sun comes up, You shadow, One day.
Al termine di più di un'ora di musica Sharon e i suoi musicisti ci salutano, ma è evidente che il pubblico non ne ha ancora abbastanza cosicché i cinque tornano sul palco per proporci ancora alcuni pezzi tra cui I told you everything e Stay.
Personalmente, resto affezionata alla Sharon Van Etten ascoltata quattro anni fa, alla sua vena più drammatica e sofferente, e considero questo un momento di transizione che sicuramente porterà in un prossimo futuro a un recupero delle sonorità del passato in una forma più corrispondente alla fase attuale - e sicuramente più positiva - che Sharon sta vivendo. Detto ciò, dal vivo Sharon Van Etten resta una forza della natura capace di creare un'atmosfera speciale e di trascinare il pubblico nel suo mondo, qualunque esso sia.
Voto: 3,5/5
Si tratta della serata finale di Arti Vive Festival (l'evento musicale che si tiene nella piazza del centro storico di Soliera, in provincia di Modena), la cui ospite d'onore è Sharon Van Etten, che ha scelto questa come una delle pochissime location del suo tour italiano.
Ma il live musicale prevede altre partecipazioni importanti che sarebbe riduttivo chiamare semplici opening. Su un palco affollatissimo di strumenti sale alle 20 Any Other, aka Adele Nigro, con la band che la sta accompagnando in questo lungo tour seguito alla pubblicazione del lavoro Two, Geography e che già avevo avuto modo di ascoltare a Roma allo Spazio Diamante. La band è formata dall'inseparabile Marco Giudici, dalla bravissima batterista Clara Romita e dal bassista Giacomo di Paolo.
Any Other ci offre una quarantina di minuti di galoppata attraverso le sue canzoni, cantandole con la solita grinta e determinazione, e manifestando il consueto affetto nei confronti di un pubblico ancora non folto, ma sicuramente attento. Ascoltiamo, tra le altre, Walkthrough, Mother goose, Something, Traveling hard, Capricorn No, e - nonostante qualche piccolo problema iniziale con i volumi degli strumenti - il breve live riesce perfettamente a trasmettere tutta la forza e la tenerezza che emana da questa ragazza, molto giovane per tanti versi, eppure incredibilmente matura per la sua età e il suo modo di stare sul palco.
Il tempo di un breve cambio di palco ed ecco salire il duo Malihini, formato da Giampaolo Speziale e Thony (nome d'arte della musicista e attrice Federica Caiozzo). Thony la conosco da moltissimo tempo: l'avevo sentita cantare già nel 2010 nell'opening di Joan as Police Woman al Circolo degli artisti, quando ancora non aveva fatto alcun film e nessuno la conosceva. A quel tempo ne avevo intuito le qualità e non a caso il successo sarebbe arrivato di lì a poco con la colonna sonora e il ruolo da co-protagonista nel film di Virzì Tutti i santi giorni. Proprio nell'anno di uscita del film, l'avevo rivista dal vivo al Lanificio in una serata nel complesso non del tutto soddisfacente, ma in cui Thony aveva confermato le sue qualità di cantautrice e interprete.
Da allora l'avevo un po' persa di vista e in generale ho avuto l'impressione che la carriera di Thony non avesse preso una direzione chiara e oscillasse tra cinema e musica senza una precisa convinzione. Poi, non molto tempo fa, scopro che Thony - insieme a Giampaolo Speziale, conosciuto per caso e diventato suo partner di vita e musicale - ha avviato un nuovo progetto musicale che si chiama Malihini e che ho l'occasione di ascoltare dal vivo qui a Soliera.
I due (Speziale alla chitarra e Thony alle tastiere) sono accompagnati da un bassista e anche loro - come Any Other - ci propongono una quarantina di minuti di live durante il quale ci fanno ascoltare diverse canzoni di questo ultimo lavoro, tra cui Hopefully, again (che dà il titolo all'album), Michael e Drum Rock and Roll. Difficile classificare la loro musica che mescola pop ed elettronica, e in alcuni momenti ricorda persino sonorità anni Ottanta e Novanta (ma non so se sono influenzata in questo dai jeans a vita alta e dalla camicia a fiori di Giampaolo Speziale). Mentre Thony manifesta apertamente una certa qual timidezza, Speziale fa l'uomo della situazione ostentando sicurezza e parlando con il pubblico, ma è evidente che anche lui è un timido e che in fondo entrambi sono a loro agio solo quando suonano e cantano. Nel finale Speziale si avvicina alle tastiere e i due cantano in duetto guardandosi romanticamente negli occhi. Staremo a vedere se questo progetto musicale e di vita metterà le ali e dove porterà questi due musicisti e le loro esistenze.
Ma intanto si sono fatte quasi le dieci, ed è tempo di preparare il palco per Sharon Van Etten, che non si fa attendere e sale sul palco elegantissima con i suoi pantaloni attillati e la sua camicia di lamé. Intorno a lei, ognuno su un proprio palchetto sopraelevato, i suoi musicisti; innanzitutto la sua collaboratrice di lunga data, Heather Broderick Woods (che già avevo visto suonare con lei nel concerto di qualche anno fa al Circolo degli artisti), poi un batterista, un esperto bassista e un polistrumentista di grande livello.
Sharon inizia solo voce, per poi imbracciare la chitarra (anzi le chitarre, ne utilizza due diverse) e proporci anche un paio di brani al piano, tra cui una cover della canzone Black Boys on Mopeds di Sinéad O'Connor, che lei dice di aver scelto perché, da quando è diventata madre (di un bimbo di due anni), condivide le inevitabili preoccupazioni delle madri per la situazione in cui versa il mondo intero.
Il tour ovviamente punta a portare all'attenzione del pubblico l'ultimo album di Sharon, Remind me tomorrow, arrivato a oltre quattro anni di distanza dal precedente Are we there, che io avevo amato particolarmente. Nel frattempo tante cose sono successe nella sua vita e anche la sua musica è in parte cambiata; dagli esordi folk (in particolare in Tramp) e dalle atmosfere più intimistiche e drammatiche di Are we there si è passati a sonorità più variegate che spaziano dal rock all'elettronica, ma che complessivamente - a mio modesto parere - risultano meno personali e riuscite. Non a caso il pezzo che mi è piaciuto di più di questo nuovo lavoro è Seventeen in cui la Van Etten torna a uno stile per lei più classico com'è quello della ballata. Questa è appunto una delle canzoni del nuovo album che ci propone insieme ad altre tra cui No one's easy to love e Comeback kid. Ma - nonostante l'impianto rock del live - fanno capolino anche canzoni provenienti dai lavori precedenti come Tarifa, Every time the sun comes up, You shadow, One day.
Al termine di più di un'ora di musica Sharon e i suoi musicisti ci salutano, ma è evidente che il pubblico non ne ha ancora abbastanza cosicché i cinque tornano sul palco per proporci ancora alcuni pezzi tra cui I told you everything e Stay.
Personalmente, resto affezionata alla Sharon Van Etten ascoltata quattro anni fa, alla sua vena più drammatica e sofferente, e considero questo un momento di transizione che sicuramente porterà in un prossimo futuro a un recupero delle sonorità del passato in una forma più corrispondente alla fase attuale - e sicuramente più positiva - che Sharon sta vivendo. Detto ciò, dal vivo Sharon Van Etten resta una forza della natura capace di creare un'atmosfera speciale e di trascinare il pubblico nel suo mondo, qualunque esso sia.
Voto: 3,5/5
domenica 14 luglio 2019
La mia vita con John F. Donovan
La prima produzione hollywodiana di Xavier Dolan, regista ancora giovane ma già cult, di cui ho visto quasi tutti i film e che amo molto, ha alle spalle una realizzazione travagliata il cui risultato è probabilmente il compromesso migliore che il regista canadese è riuscito a trovare dopo i tagli (tra cui quello importante del ruolo di Jessica Chastain) e le ricuciture.
L'idea di fondo - come sempre nei film di Dolan - è molto personale: Rupert Turner (Jacob Tremblay) è un bambino di 11 anni che ha una passione smisurata per l'attore John F. Donovan (Kit Harington), all'apice del successo all'inizio degli anni Duemila quando il bambino decide di scrivergli una lettera da cui inaspettatamente inizierà una corrispondenza sorprendente e a certi occhi scandalosa.
Questa storia viene raccontata dieci anni dopo dallo stesso Rupert, ormai adulto e attore, dopo la pubblicazione di un libro che contiene le loro lettere, durante una intervista con una giornalista inizialmente scettica e disinteressata (Thandie Newton). Ne vengono fuori due vite per certi versi diversissime e lontane anni luce, ma incredibilmente accomunate - nonostante le differenze di età - da condizioni e sentimenti che permettono ai due di capirsi e di aprirsi.
Il film si apre sulla morte (forse il suicidio?) di John F. Donovan nel 2006 e il modo in cui il piccolo Rupert ne viene a conoscenza; poi si torna al presente e all'incontro tra Rupert adulto e la giornalista; quindi si prosegue per tutto il film in questo andirivieni temporale, spostandosi a seconda dei casi dalla vita di Donovan a quella di Turner.
Certamente il film vuole essere una riflessione sulla tossicità della fama (e della solitudine affettiva che spesso porta con sé), ma anche sull'importanza dei modelli, da quelli più vicini (mamme, fratelli e insegnanti) a quelli più lontani (come sono appunto i nostri idoli).
Nella confezione si riconosce lo stile dolaniano sia nel modo di girare (telecamere attaccate ai volti dei protagonisti, gioco di sfuocato e messa a fuoco ecc.), sia nell'apparato musicale (con un tripudio di canzoni pop, la cui scelta invero in questo caso mi è sembrata più banale del solito), sia nella narrazione (che alterna accelerazioni e rallentamenti, momenti sincopati ad altri più distesi, e che viaggia sempre un po' sopra le righe). Anche nei contenuti i temi cari a Dolan ci sono tutti: i rapporti madre-figlio, le figure di madri isteriche, l'assenza dei padri, l'omosessualità, l'adolescenzialità ecc..
Il fatto è che questo stile e questi temi che hanno reso i film di Dolan unici e riconoscibili qui appaiono quasi di maniera e il cast di stelle non serve a compensarne i difetti: come se qualcuno avesse fatto un film alla maniera di Dolan, utilizzando i suoi stilemi e le tematiche da lui preferite, ma senza ottenere lo stesso risultato di verità e sincerità che di solito traspare dai film del giovane regista.
Nel complesso dunque un film un po' rattoppato da ogni punto di vista, che finisce per risultare un po' legnoso e poco credibile, e dunque lascia l'amaro in bocca. Consideriamolo una tappa di crescita, un passaggio in qualche modo necessario che certamente non resterà alla storia come uno dei suoi migliori film ma che non costituirà un impedimento al percorso di crescita del regista che sono sicura ci sorprenderà ancora grazie alle molte frecce al suo arco.
Voto: 2,5/5
L'idea di fondo - come sempre nei film di Dolan - è molto personale: Rupert Turner (Jacob Tremblay) è un bambino di 11 anni che ha una passione smisurata per l'attore John F. Donovan (Kit Harington), all'apice del successo all'inizio degli anni Duemila quando il bambino decide di scrivergli una lettera da cui inaspettatamente inizierà una corrispondenza sorprendente e a certi occhi scandalosa.
Questa storia viene raccontata dieci anni dopo dallo stesso Rupert, ormai adulto e attore, dopo la pubblicazione di un libro che contiene le loro lettere, durante una intervista con una giornalista inizialmente scettica e disinteressata (Thandie Newton). Ne vengono fuori due vite per certi versi diversissime e lontane anni luce, ma incredibilmente accomunate - nonostante le differenze di età - da condizioni e sentimenti che permettono ai due di capirsi e di aprirsi.
Il film si apre sulla morte (forse il suicidio?) di John F. Donovan nel 2006 e il modo in cui il piccolo Rupert ne viene a conoscenza; poi si torna al presente e all'incontro tra Rupert adulto e la giornalista; quindi si prosegue per tutto il film in questo andirivieni temporale, spostandosi a seconda dei casi dalla vita di Donovan a quella di Turner.
Certamente il film vuole essere una riflessione sulla tossicità della fama (e della solitudine affettiva che spesso porta con sé), ma anche sull'importanza dei modelli, da quelli più vicini (mamme, fratelli e insegnanti) a quelli più lontani (come sono appunto i nostri idoli).
Nella confezione si riconosce lo stile dolaniano sia nel modo di girare (telecamere attaccate ai volti dei protagonisti, gioco di sfuocato e messa a fuoco ecc.), sia nell'apparato musicale (con un tripudio di canzoni pop, la cui scelta invero in questo caso mi è sembrata più banale del solito), sia nella narrazione (che alterna accelerazioni e rallentamenti, momenti sincopati ad altri più distesi, e che viaggia sempre un po' sopra le righe). Anche nei contenuti i temi cari a Dolan ci sono tutti: i rapporti madre-figlio, le figure di madri isteriche, l'assenza dei padri, l'omosessualità, l'adolescenzialità ecc..
Il fatto è che questo stile e questi temi che hanno reso i film di Dolan unici e riconoscibili qui appaiono quasi di maniera e il cast di stelle non serve a compensarne i difetti: come se qualcuno avesse fatto un film alla maniera di Dolan, utilizzando i suoi stilemi e le tematiche da lui preferite, ma senza ottenere lo stesso risultato di verità e sincerità che di solito traspare dai film del giovane regista.
Nel complesso dunque un film un po' rattoppato da ogni punto di vista, che finisce per risultare un po' legnoso e poco credibile, e dunque lascia l'amaro in bocca. Consideriamolo una tappa di crescita, un passaggio in qualche modo necessario che certamente non resterà alla storia come uno dei suoi migliori film ma che non costituirà un impedimento al percorso di crescita del regista che sono sicura ci sorprenderà ancora grazie alle molte frecce al suo arco.
Voto: 2,5/5
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