Ed eccomi per la quinta (o sesta?) volta a un concerto di Joan as Police Woman, tra l'altro a soli sei mesi di distanza dall'ultimo live che la cantante americana ci aveva regalato sempre al Monk in un Solo tour.
Questa volta invece Joan si presenta all'entusiasta pubblico romano in band per farci conoscere il suo ultimo lavoro, Let it be you, firmato insieme al musicista polistrumentista (ma soprattutto bassista) Benjamin Lazar Davis, che già l'aveva accompagnata in un tour italiano qualche anno fa, un buffo ragazzo con i riccioloni che suona e accompagna la musica con degli strani movimenti della testa e della bocca.
Il concerto di Joan viene aperto da un duo, gli italiani Fil Bo, che cantano in inglese accompagnati dalle loro chitarre. Due ragazzi giovani, con le giacche leopardate, e per me sconosciuti, ma in realtà molto apprezzati dal pubblico che addirittura canta insieme a loro. Al mio orecchio non propriamente originali, però gradevoli. E del resto pare che l'ignoranza sia tutta mia visto che il cantante Filippo Riva è già parecchio noto all'estero, in particolare a Berlino, ed è invece trascurato in Italia.
Ma ecco finalmente proiettata sul fondo del palco la copertina dell'album di Joan e, dopo un po' di preparazioni di fili e di strumenti musicali, Joan e Benjamin compaiono sul proscenio con le tute da meccanico che indossano anche sulla copertina. Quella di Benjamin - come ci spiegherà più avanti lui stesso - gli è stata data da una persona cui lui aveva regalato i suoi vestiti in Africa.
Insieme a Joan e Benjamin sul palco salgono due altri straordinari musicisti: un incredibile batterista, Ian Chang, che conquisterà l'intero pubblico con il modo robotico e al contempo appassionato con cui suona la sua batteria, e un chitarrista dagli occhi magnetici e dal tocco sopraffino, Ryan Dugre.
Inizia così subito il concerto con cui Joan e Benjamin ci fanno conoscere il nuovo album, che io già avevo ascoltato un po' di volte per arrivare preparata. Il disco è molto bello perché mette insieme le due anime di questi musicisti, in alcuni casi mescolandole e in altri rendendole riconoscibili, e alterna canzoni dalla sonorità più elettronica e ritmata ad altre più intimiste.
Il concerto - anche grazie alla notevole performance di tutti i musicisti - rende merito all'album, anzi se possibile ne esalta le qualità, come qualunque live dovrebbe riuscire a fare. Che Joan ami l'Italia e in particolare la location del Monk si sa, ma evidentemente la sua buona disposizione d'animo contagia tutti e contribuisce a regalare una performance di altissimo livello, che cancella qualche piccola distrazione e peccato veniale registrati nell'ultimo live.
Così al termine del concerto, dopo aver suonato parte del nuovo album e anche alcuni classici del suo repertorio (tra cui The magic e Flash), però riarrangiati in un modo perfettamente omogeneo alle sonorità complessive del nuovo lavoro, il pubblico non è sazio della presenza vitale di Joan sul palco e la richiama a gran voce. Così Joan torna a suonare e cantare e poi con lei anche Benjamin Lazar Davis e tutti gli altri musicisti. Alla fine dell'ultima canzone ci dà appuntamento al banchetto del merchandising per incontrarci.
Io non me lo faccio ripetere due volte e mi fiondo lì con il mio CD, cosicché sono in prima fila quando arriva. Le dico che è la quinta volta che la vedo dal vivo a Roma, lei mi guarda con faccia stranita, e io ho solo la forza di dirle che è una grande e di comunicarle il mio nome per la firma sulla copertina. Alla sua firma seguiranno quelle di tutti gli altri, cosicché mi porto a casa il CD come fosse un trofeo. E se ero arrivata stanca e stressata a questo venerdì sera vi assicuro che dopo il concerto mi sono incredibilmente riconciliata con il mondo.
Voto: 4,5/5
mercoledì 30 novembre 2016
lunedì 28 novembre 2016
Il suono del mondo a memoria / Giacomo Bevilacqua
Il suono del mondo a memoria / Giacomo Bevilacqua. Milano: Bao Publishing, 2016.
Questo nuovo graphic novel pubblicato da Bao Publishing in edizione “di lusso” (grandi dimensioni, cartonato, a colori) è il primo albo realizzato da Giacomo Bevilacqua, già fumettista famoso grazie soprattutto al personaggio da lui creato nel 2008, A Panda piace.
Con questo lavoro, Bevilacqua si confronta però con una storia molto più intimista e con una realizzazione grafica ben più complessa.
Il suono del mondo a memoria racconta un mese nella vita di Sam, un fotografo che decide di fare un viaggio a New York, una città che ama e con cui si sente profondamente in sintonia, per fare fotografie (che è il suo lavoro) e produrre un articolo per la rivista che gestisce insieme a un suo amico.
A New York Sam esce ogni mattina con la sua macchina fotografica al collo, le cuffie alle orecchie e la curiosa decisione di non parlare con nessuno. In una città in cui milioni di persone si incontrano e scontrano ogni giorno, Sam è intenzionato a non intessere rapporti personali, bensì a mescolarsi nella folla in maniera del tutto anonima, la condizione ideale per sentire lo spirito della città e coglierlo attraverso le sue foto.
Sam guarda, scatta e poi chiude gli occhi per riguardare nella sua testa l’inquadratura appena catturata dalla sua macchina. Poi al termine del numero di scatti che si è fissato va con la sua schedina a farsele stampare. Tutto prosegue secondo questi rituali un po’ rigidi fino a quando Sam si accorge che nelle sue foto compare spesso una ragazza dai capelli rossi, che lui non ricorda assolutamente di aver visto e che nella memoria fotografica dei suoi scatti non c’è.
In un attimo gli equilibri che Sam ha costruito un po’ forzatamente si rompono e in un momento di distrazione qualcuno gli ruba la macchina fotografica. A questo punto il ragazzo non può più sottrarsi al confronto con il mondo che lo circonda e accetta di andare fino in fondo a quel piccolo mistero che ha infranto le regole della sua vita. E noi con lui impariamo che in questo mondo nessuno può rimanere spettatore non partecipante, e che in particolare in una città come New York l’interazione apparentemente anonima innesca meccanismi e combinazioni imprevedibili che conducono a esiti del tutto inaspettati.
La storia raccontata in questo albo da Giacomo Bevilacqua è – come spesso accade nei graphic novel – una storia piccola e molto personale, che però in questo caso riesce a espandersi grazie a due cose: il ruolo della città di New York e quello della fotografia.
È come se in questo albo ci fosse non solo il filtro dell’immagine disegnata, bensì anche quello dell’immagine fotografata. Molte pagine dell’albo contengono un’unica vignetta del formato classico di una fotografia stampata, che sono veri e propri sguardi sui protagonisti e sulla città, quella città che non è mai semplice sfondo, bensì a sua volta protagonista, se non addirittura deus ex machina degli eventi.
I disegni di Giacomo Bevilacqua sono al contempo iperrealistici e poetici, esattamente come le fotografie di un bravo fotografo che racconta la realtà, ma in un modo che è del tutto personale e irripetibile.
Voto: 3,5/5
Questo nuovo graphic novel pubblicato da Bao Publishing in edizione “di lusso” (grandi dimensioni, cartonato, a colori) è il primo albo realizzato da Giacomo Bevilacqua, già fumettista famoso grazie soprattutto al personaggio da lui creato nel 2008, A Panda piace.
Con questo lavoro, Bevilacqua si confronta però con una storia molto più intimista e con una realizzazione grafica ben più complessa.
Il suono del mondo a memoria racconta un mese nella vita di Sam, un fotografo che decide di fare un viaggio a New York, una città che ama e con cui si sente profondamente in sintonia, per fare fotografie (che è il suo lavoro) e produrre un articolo per la rivista che gestisce insieme a un suo amico.
A New York Sam esce ogni mattina con la sua macchina fotografica al collo, le cuffie alle orecchie e la curiosa decisione di non parlare con nessuno. In una città in cui milioni di persone si incontrano e scontrano ogni giorno, Sam è intenzionato a non intessere rapporti personali, bensì a mescolarsi nella folla in maniera del tutto anonima, la condizione ideale per sentire lo spirito della città e coglierlo attraverso le sue foto.
Sam guarda, scatta e poi chiude gli occhi per riguardare nella sua testa l’inquadratura appena catturata dalla sua macchina. Poi al termine del numero di scatti che si è fissato va con la sua schedina a farsele stampare. Tutto prosegue secondo questi rituali un po’ rigidi fino a quando Sam si accorge che nelle sue foto compare spesso una ragazza dai capelli rossi, che lui non ricorda assolutamente di aver visto e che nella memoria fotografica dei suoi scatti non c’è.
In un attimo gli equilibri che Sam ha costruito un po’ forzatamente si rompono e in un momento di distrazione qualcuno gli ruba la macchina fotografica. A questo punto il ragazzo non può più sottrarsi al confronto con il mondo che lo circonda e accetta di andare fino in fondo a quel piccolo mistero che ha infranto le regole della sua vita. E noi con lui impariamo che in questo mondo nessuno può rimanere spettatore non partecipante, e che in particolare in una città come New York l’interazione apparentemente anonima innesca meccanismi e combinazioni imprevedibili che conducono a esiti del tutto inaspettati.
La storia raccontata in questo albo da Giacomo Bevilacqua è – come spesso accade nei graphic novel – una storia piccola e molto personale, che però in questo caso riesce a espandersi grazie a due cose: il ruolo della città di New York e quello della fotografia.
È come se in questo albo ci fosse non solo il filtro dell’immagine disegnata, bensì anche quello dell’immagine fotografata. Molte pagine dell’albo contengono un’unica vignetta del formato classico di una fotografia stampata, che sono veri e propri sguardi sui protagonisti e sulla città, quella città che non è mai semplice sfondo, bensì a sua volta protagonista, se non addirittura deus ex machina degli eventi.
I disegni di Giacomo Bevilacqua sono al contempo iperrealistici e poetici, esattamente come le fotografie di un bravo fotografo che racconta la realtà, ma in un modo che è del tutto personale e irripetibile.
Voto: 3,5/5
martedì 22 novembre 2016
Animali notturni
Di Tom Ford avevo adorato il primo film, A single man, adattato dal romanzo di Isherwood. Per cui al suo secondo lavoro mi sono fiondata al cinema e ho scelto di andare a vederlo in lingua originale per potermelo godere fino in fondo.
Di Animali notturni Tom Ford è produttore, regista e sceneggiatore, per quanto di una sceneggiatura non originale ispirata al romanzo Tony and Susan di Austin Wright. Del resto, si sa, Tom Ford è un megalomane e un perfezionista, e forse i film non li farebbe se non se li potesse gestire in totale autonomia.
Con questo secondo film, il regista conferma tutte le qualità che già aveva messo in evidenza nel primo, ossia una confezione cinematografica un po’ retro (che strizza l’occhio a registi del calibro di Alfred Hitchcock), di una perfezione calligrafica e di una bellezza estetica da lasciare a bocca aperta.
Animali notturni parla fondamentalmente di un personaggio, Susan (Amy Adams), una ricchissima borghese che vive in una casa da sogno e che fa la curatrice di un museo di arte contemporanea, ma la cui vita sta andando in pezzi, complice l’allontanamento progressivo del secondo marito. Un giorno Susan riceve il manoscritto del libro che il suo primo marito, Edward (Jake Gyllenhaal), sta per pubblicare e che si intitola appunto Animali notturni. Da quel momento, Susan viene assorbita nella lettura di questa storia che rivanga episodi e sentimenti del passato e porta alla memoria alcuni momenti della storia con Edward e soprattutto il modo “brutale” in cui lei lo ha lasciato.
La lettura del romanzo, che scorre parallela ai giorni che Susan sta trascorrendo da sola in casa mentre suo marito è a New York e la sta sicuramente tradendo, diventa un viaggio negli abissi delle paure, del rimpianto e del rimorso della donna, materializzati nel racconto di un uomo cui tre balordi, in una desolata strada del Texas di notte, rapiscono moglie e figlia e le uccidono, e da cui lui si salva per miracolo e per cui cercherà vendetta grazie all’aiuto di un agente di polizia che non ha più niente da perdere.
Al mondo dalle linee essenziali e dai colori freddi in cui vive Susan si contrappongono i colori, la mutevolezza, la polvere e la brutalità dell’ambientazione texana e dei personaggi del romanzo. Due mondi che apparentemente non hanno alcun punto di contatto, se non che il mondo asettico e totalmente estetizzante in cui vive Susan la brutalità la mette in mostra in performance e opere d’arte, ma l’ha in un certo senso epurata dalla vita. Un mondo finto il cui equilibrio emotivo apparentemente inscalfibile può essere mandato in frantumi con una iniezione di pathos e di brutalità.
Tom Ford riesce a creare uno stato di fibrillazione e di ansia crescenti e una sensazione di pericolo e di morte imminenti che paradossalmente riguardano il presente e la realtà di Susan esattamente come il racconto di fantasia di Edward.
Un film stilisticamente e cinematograficamente da “wow”, che mi ha lasciata però un po’ delusa sul piano dei contenuti. A differenza di A single man, in cui oltre la confezione c’era una stratificazione di senso complesso, fors’anche grazie alla complessità del testo di partenza, in questo caso personalmente ci ho intravisto parecchi temi - le dinamiche di coppia, la vendetta, il conflitto tra le classi sociali, il rapporto madre-figlia, la creatività - ma nessuno di questi mi ha aperto orizzonti nuovi né trasmesso significati originali.
In ogni caso i film si possono enormemente apprezzare anche al di là dei significati più o meno profondi che trasmettono.
Voto: 3,5/5
Di Animali notturni Tom Ford è produttore, regista e sceneggiatore, per quanto di una sceneggiatura non originale ispirata al romanzo Tony and Susan di Austin Wright. Del resto, si sa, Tom Ford è un megalomane e un perfezionista, e forse i film non li farebbe se non se li potesse gestire in totale autonomia.
Con questo secondo film, il regista conferma tutte le qualità che già aveva messo in evidenza nel primo, ossia una confezione cinematografica un po’ retro (che strizza l’occhio a registi del calibro di Alfred Hitchcock), di una perfezione calligrafica e di una bellezza estetica da lasciare a bocca aperta.
Animali notturni parla fondamentalmente di un personaggio, Susan (Amy Adams), una ricchissima borghese che vive in una casa da sogno e che fa la curatrice di un museo di arte contemporanea, ma la cui vita sta andando in pezzi, complice l’allontanamento progressivo del secondo marito. Un giorno Susan riceve il manoscritto del libro che il suo primo marito, Edward (Jake Gyllenhaal), sta per pubblicare e che si intitola appunto Animali notturni. Da quel momento, Susan viene assorbita nella lettura di questa storia che rivanga episodi e sentimenti del passato e porta alla memoria alcuni momenti della storia con Edward e soprattutto il modo “brutale” in cui lei lo ha lasciato.
La lettura del romanzo, che scorre parallela ai giorni che Susan sta trascorrendo da sola in casa mentre suo marito è a New York e la sta sicuramente tradendo, diventa un viaggio negli abissi delle paure, del rimpianto e del rimorso della donna, materializzati nel racconto di un uomo cui tre balordi, in una desolata strada del Texas di notte, rapiscono moglie e figlia e le uccidono, e da cui lui si salva per miracolo e per cui cercherà vendetta grazie all’aiuto di un agente di polizia che non ha più niente da perdere.
Al mondo dalle linee essenziali e dai colori freddi in cui vive Susan si contrappongono i colori, la mutevolezza, la polvere e la brutalità dell’ambientazione texana e dei personaggi del romanzo. Due mondi che apparentemente non hanno alcun punto di contatto, se non che il mondo asettico e totalmente estetizzante in cui vive Susan la brutalità la mette in mostra in performance e opere d’arte, ma l’ha in un certo senso epurata dalla vita. Un mondo finto il cui equilibrio emotivo apparentemente inscalfibile può essere mandato in frantumi con una iniezione di pathos e di brutalità.
Tom Ford riesce a creare uno stato di fibrillazione e di ansia crescenti e una sensazione di pericolo e di morte imminenti che paradossalmente riguardano il presente e la realtà di Susan esattamente come il racconto di fantasia di Edward.
Un film stilisticamente e cinematograficamente da “wow”, che mi ha lasciata però un po’ delusa sul piano dei contenuti. A differenza di A single man, in cui oltre la confezione c’era una stratificazione di senso complesso, fors’anche grazie alla complessità del testo di partenza, in questo caso personalmente ci ho intravisto parecchi temi - le dinamiche di coppia, la vendetta, il conflitto tra le classi sociali, il rapporto madre-figlia, la creatività - ma nessuno di questi mi ha aperto orizzonti nuovi né trasmesso significati originali.
In ogni caso i film si possono enormemente apprezzare anche al di là dei significati più o meno profondi che trasmettono.
Voto: 3,5/5
domenica 20 novembre 2016
Se ce l’ho fatta io / Maurizio Mancini, alias Uovo Elettrico. Teatro Furio Camillo, 18 novembre 2016
Al Teatro Furio Camillo è in corso Battiti, la rassegna internazionale di circo teatro che si concluderà il 4 dicembre, una serie di spettacoli in cui si mescolano e si arricchiscono reciprocamente il mondo del teatro e quello circense.
Nell’ambito di questa rassegna è andato in scena il 18 novembre lo spettacolo di Maurizio Mancini, in arte Uovo Elettrico, Se ce l’ho fatta io, che ha vinto il bando di residenza creativa e ha guadagnato il diritto ad andare sul palco.
Maurizio Mancini da anni è appassionato di giocoleria, e in questo spettacolo porta in scena la sua passione all’interno di un testo ironico e niente affatto stupido.
Il nostro protagonista ha alle spalle un passato di giocoliere e di vita godereccia, ma ormai ha messo la testa a posto; ha una moglie e un figlio, un lavoro fisso in azienda, una vita tranquilla e… il passato è ormai passato. Un passato che il nostro antieroe guarda apparentemente con tristezza e distacco, immerso in un presente ch’egli decanta come la piena realizzazione di sé, un presente in cui gli si anima la voce e tutto appare meraviglioso.
Se non che l’uomo del presente è un uomo pieno di tic, in cui il corpo accelera o si rallenta per effetto delle pressioni esterne, un uomo che a poco a poco rivela la tristezza di una quotidianità decisamente poco entusiasmante e della rinuncia ai sogni, e soprattutto dell’abbandono di quel bisogno di giocare, che l’età adulta attribuisce ai bambini e che a poco a poco tristemente e stupidamente aliena da sé.
Durante lo spettacolo, in cui Maurizio è solo in scena a parte un paio di momenti in cui chiede la collaborazione del pubblico, si alternano racconti e momenti di giocoleria, e pochi semplici oggetti diventano strumenti per raccontare una vita e una passione. Uovo elettrico dimostra innanzitutto una grande capacità di esprimersi con il proprio corpo, in secondo luogo una inventiva non comune, nonché una notevole maestria tecnica nella giocoleria e anche un’ironia e un’autoironia che è oggi merce rara e che tanto più va salutata con favore.
Alla fine il pubblico applaude entusiasta a suggello dell’ottimo lavoro, per quanto in alcuni aspetti ancora un pochino acerbo (che poi forse è un pregio in un teatro un po’ troppo intellettualistico), di questo bravo performer.
E io sono stata contentissima perché ho anche potuto fare qualche foto :-)
Voto: 3,5/5
Nell’ambito di questa rassegna è andato in scena il 18 novembre lo spettacolo di Maurizio Mancini, in arte Uovo Elettrico, Se ce l’ho fatta io, che ha vinto il bando di residenza creativa e ha guadagnato il diritto ad andare sul palco.
Maurizio Mancini da anni è appassionato di giocoleria, e in questo spettacolo porta in scena la sua passione all’interno di un testo ironico e niente affatto stupido.
Il nostro protagonista ha alle spalle un passato di giocoliere e di vita godereccia, ma ormai ha messo la testa a posto; ha una moglie e un figlio, un lavoro fisso in azienda, una vita tranquilla e… il passato è ormai passato. Un passato che il nostro antieroe guarda apparentemente con tristezza e distacco, immerso in un presente ch’egli decanta come la piena realizzazione di sé, un presente in cui gli si anima la voce e tutto appare meraviglioso.
Se non che l’uomo del presente è un uomo pieno di tic, in cui il corpo accelera o si rallenta per effetto delle pressioni esterne, un uomo che a poco a poco rivela la tristezza di una quotidianità decisamente poco entusiasmante e della rinuncia ai sogni, e soprattutto dell’abbandono di quel bisogno di giocare, che l’età adulta attribuisce ai bambini e che a poco a poco tristemente e stupidamente aliena da sé.
Durante lo spettacolo, in cui Maurizio è solo in scena a parte un paio di momenti in cui chiede la collaborazione del pubblico, si alternano racconti e momenti di giocoleria, e pochi semplici oggetti diventano strumenti per raccontare una vita e una passione. Uovo elettrico dimostra innanzitutto una grande capacità di esprimersi con il proprio corpo, in secondo luogo una inventiva non comune, nonché una notevole maestria tecnica nella giocoleria e anche un’ironia e un’autoironia che è oggi merce rara e che tanto più va salutata con favore.
Alla fine il pubblico applaude entusiasta a suggello dell’ottimo lavoro, per quanto in alcuni aspetti ancora un pochino acerbo (che poi forse è un pregio in un teatro un po’ troppo intellettualistico), di questo bravo performer.
E io sono stata contentissima perché ho anche potuto fare qualche foto :-)
Voto: 3,5/5
mercoledì 16 novembre 2016
Basilicò / Giulio Macaione
Basilicò / Giulio Macaione. Milano: Bao Publishing, 2016.
Il graphic novel di Giulio Macaione racconta la storia di una famiglia siciliana a partire dal giorno della morte della madre, Maria, vera e propria matriarca che ha tirato su da sola i suoi cinque figli: Giovanni, professore al liceo, sposato con Anna, fin troppo buono e remissivo, Agata, che vorrebbe fare l'artista ma lavora in un call center e non ha una relazione stabile, Diego Maria, il figlio gay che passa da un fidanzato all'altro, accomunati tutti dalla caratteristica di essere ricchi, Rosalia, la Santuzza nonché la preferita della mamma, e Santo, il più piccolo, giornalista che gira per il mondo.
Come nelle migliori tradizioni familiari, Maria ha invitato a pranzo i suoi figli, in occasione del ritorno a casa di Santo, usando i suoi manicaretti per conquistarli (ogni figlio ha il suo piatto preferito la cui ricetta viene puntualmente riprodotta per intero nell'albo e dunque è replicabile). Ma mentre tutti dalle loro vite confuse e talvolta complicate convergono verso casa arriva la notizia che Maria è morta, e dunque quella che doveva essere una riunione familiare intorno alla tavola diventa un momento di dolore, di ricordi, di confronti che farà emergere verità familiari a lungo celate.
Giulio Macaione costruisce il suo albo come un vero e proprio giallo psicologico, alternando al racconto del presente – in bianco e nero – brevi flashback del passato e della storia di Maria – virati in seppia. E attraverso questa alternanza, al principio apparentemente innocua e puramente narrativa, emerge una verità ben diversa da quella che Maria ha raccontato ai suoi figli per tanti anni riguardo all'assenza del padre, che tutti pensano fuggito con la domestica a Capo Verde.
Basilicò si rivela un prodotto interessante e originale nel panorama dei graphic novels italiani, prima di tutto perché ci allieta con un disegno pulito e di grande espressività e con un impianto movimentato e divertente anche grazie alla presenza delle ricette, in secondo luogo perché – pur prendendo spunto da qualche elemento certamente autobiografico – riesce a conferire alla storia la “trascendenza” e l'universalità dei lavori di scrittura maturi.
Voto: 3,5/5
Il graphic novel di Giulio Macaione racconta la storia di una famiglia siciliana a partire dal giorno della morte della madre, Maria, vera e propria matriarca che ha tirato su da sola i suoi cinque figli: Giovanni, professore al liceo, sposato con Anna, fin troppo buono e remissivo, Agata, che vorrebbe fare l'artista ma lavora in un call center e non ha una relazione stabile, Diego Maria, il figlio gay che passa da un fidanzato all'altro, accomunati tutti dalla caratteristica di essere ricchi, Rosalia, la Santuzza nonché la preferita della mamma, e Santo, il più piccolo, giornalista che gira per il mondo.
Come nelle migliori tradizioni familiari, Maria ha invitato a pranzo i suoi figli, in occasione del ritorno a casa di Santo, usando i suoi manicaretti per conquistarli (ogni figlio ha il suo piatto preferito la cui ricetta viene puntualmente riprodotta per intero nell'albo e dunque è replicabile). Ma mentre tutti dalle loro vite confuse e talvolta complicate convergono verso casa arriva la notizia che Maria è morta, e dunque quella che doveva essere una riunione familiare intorno alla tavola diventa un momento di dolore, di ricordi, di confronti che farà emergere verità familiari a lungo celate.
Giulio Macaione costruisce il suo albo come un vero e proprio giallo psicologico, alternando al racconto del presente – in bianco e nero – brevi flashback del passato e della storia di Maria – virati in seppia. E attraverso questa alternanza, al principio apparentemente innocua e puramente narrativa, emerge una verità ben diversa da quella che Maria ha raccontato ai suoi figli per tanti anni riguardo all'assenza del padre, che tutti pensano fuggito con la domestica a Capo Verde.
Basilicò si rivela un prodotto interessante e originale nel panorama dei graphic novels italiani, prima di tutto perché ci allieta con un disegno pulito e di grande espressività e con un impianto movimentato e divertente anche grazie alla presenza delle ricette, in secondo luogo perché – pur prendendo spunto da qualche elemento certamente autobiografico – riesce a conferire alla storia la “trascendenza” e l'universalità dei lavori di scrittura maturi.
Voto: 3,5/5
lunedì 14 novembre 2016
Eccomi / Jonathan Safran Foer
Eccomi / Jonathan Safran Foer; trad. di Irene Abigail Piccinini. Milano: Guanda, 2016.
Aspettavo con grandissima ansia l’uscita del nuovo libro di Jonathan Safran Foer. Non che avessi letto i suoi precedenti: avevo visto al cinema il film tratto dal suo libro Ogni cosa è illuminata e ho a casa Molto forte, incredibilmente vicino, che però non ho ancora letto.
Però, leggendo la trama di questo nuovo romanzo e alcune recensioni pre-uscita, avevo grandi aspettative. Ora, sarà che l’ho iniziato a leggere quando le vacanze erano finite e dunque con sempre meno tempo a disposizione e in serate in cui dopo poche pagine gli occhi mi si chiudevano irrimediabilmente, sarà che comunque parliamo di un libro di oltre 650 pagine, ma devo confessare che ho fatto una fatica micidiale ad arrivare alla fine, sopportandolo sempre meno man mano che le pagine scorrevano sotto i miei occhi.
Eccomi è la storia di Jacob, un ebreo newyorkese che ha una moglie, Julia, e tre figli, Sam, Max e Benji. Del suo universo familiare e affettivo fanno parte anche i suoi genitori, Deborah e Irv, e suo nonno Isaac.
Jacob è in crisi con sua moglie, e molti segnali dicono che il loro matrimonio sta per finire.
Contemporaneamente, però, accadono molte altre cose di portata ben maggiore; un terribile terremoto in Israele e una successiva guerra che Israele combatte contro il MedioOriente.
Alla fine di tutto questo, niente sarà più lo stesso, o forse tutto sarà esattamente come prima.
Che dire di questo libro? Per il primo centinaio di pagine ho continuato a pensare che Safran Foer, ormai scrittore riconosciuto e consumato, stesse misurandosi con i grandi della letteratura americana. A me è venuto in mente Franzen, ma solo perché non è moltissimo tempo che ho finito di leggere Le correzioni. Ma certamente credo che un altro nome possibile da fare potrebbe essere quello di Philip Roth.
La scrittura sofisticata – non tanto dal punto di vista lessicale, quanto dal punto di vista della costruzione narrativa – scelta dall’autore, nonché il tema della famiglia americana in crisi, non possono non richiamare alla mente alcuni illustri esponenti del romanzo americano contemporaneo.
D’altra parte, però, mentre continuavo a leggere il romanzo, non potevo fare a meno di pensare di stare leggendo la versione letteraria di alcuni film di Woody Allen, e non solo per l’ambientazione (quella delle famiglie ebree newyorkesi), ma anche per l’approccio tra l’arguto e l’ironico che caratterizza fortemente queste pagine.
Nelle ultime duecento pagine, dopo aver avuto ampi saggi di arguzia stilistica e concettuale, ho cominciato a pensare che Eccomi è il libro di uno scrittore che si avvicina ai quarant’anni e che comincia ad avvertire i primi segnali di un’età di transizione, in cui tanto è stato fatto ma altrettanto ancora ci potrebbe essere davanti.
Il risultato alla fine è stato – per quanto mi riguarda – un sostanziale fastidio. Non ho amato nessuno dei personaggi: non Jacob nella sua umana pusillanimità, non Julia nel suo insopportabile perfezionismo, non i tre ragazzini, che pure sono il contrappunto ironico-saggio di tutto il libro e sono i veri portatori di quelle perle di saggezza di cui sono disseminate queste pagine… Il fatto è che, per essere ragazzini che vanno dai 7 ai 14 anni, Sam, Max e Benji sono un concentrato di intelligenza e di visione profonda, matura, arguta delle cose, che oltre a risultare del tutto irrealistico finisce per essere sinceramente fastidioso.
Il libro di Safran Foer mi ha fatto l’effetto prodotto dalla somma di un libro di Franzen e di un film di Woody Allen: cioè una combinazione di depressione e angoscia da un lato e di illuminazioni folgoranti all’interno di uno sproloquio quasi insopportabile dall’altro.
Quindi, se non vi sentite pronti ad affrontare queste impegnative 660 pagine che probabilmente non vi porteranno da nessuna parte, ma non volete perdervi i paragrafi e le pagine illuminanti, forse potete chiedermi in prestito la mia copia, dove – a penna o, quando ero gentile, a matita – ho segnato le cose memorabili. Che per me restano però annegate dentro un romanzo che forse è troppo yiddish perché io lo potessi comprendere appieno, o forse semplicemente troppo intelligente e troppo astruso perché io lo potessi apprezzare in questo momento.
Voto: 2,5/5
Aspettavo con grandissima ansia l’uscita del nuovo libro di Jonathan Safran Foer. Non che avessi letto i suoi precedenti: avevo visto al cinema il film tratto dal suo libro Ogni cosa è illuminata e ho a casa Molto forte, incredibilmente vicino, che però non ho ancora letto.
Però, leggendo la trama di questo nuovo romanzo e alcune recensioni pre-uscita, avevo grandi aspettative. Ora, sarà che l’ho iniziato a leggere quando le vacanze erano finite e dunque con sempre meno tempo a disposizione e in serate in cui dopo poche pagine gli occhi mi si chiudevano irrimediabilmente, sarà che comunque parliamo di un libro di oltre 650 pagine, ma devo confessare che ho fatto una fatica micidiale ad arrivare alla fine, sopportandolo sempre meno man mano che le pagine scorrevano sotto i miei occhi.
Eccomi è la storia di Jacob, un ebreo newyorkese che ha una moglie, Julia, e tre figli, Sam, Max e Benji. Del suo universo familiare e affettivo fanno parte anche i suoi genitori, Deborah e Irv, e suo nonno Isaac.
Jacob è in crisi con sua moglie, e molti segnali dicono che il loro matrimonio sta per finire.
Contemporaneamente, però, accadono molte altre cose di portata ben maggiore; un terribile terremoto in Israele e una successiva guerra che Israele combatte contro il MedioOriente.
Alla fine di tutto questo, niente sarà più lo stesso, o forse tutto sarà esattamente come prima.
Che dire di questo libro? Per il primo centinaio di pagine ho continuato a pensare che Safran Foer, ormai scrittore riconosciuto e consumato, stesse misurandosi con i grandi della letteratura americana. A me è venuto in mente Franzen, ma solo perché non è moltissimo tempo che ho finito di leggere Le correzioni. Ma certamente credo che un altro nome possibile da fare potrebbe essere quello di Philip Roth.
La scrittura sofisticata – non tanto dal punto di vista lessicale, quanto dal punto di vista della costruzione narrativa – scelta dall’autore, nonché il tema della famiglia americana in crisi, non possono non richiamare alla mente alcuni illustri esponenti del romanzo americano contemporaneo.
D’altra parte, però, mentre continuavo a leggere il romanzo, non potevo fare a meno di pensare di stare leggendo la versione letteraria di alcuni film di Woody Allen, e non solo per l’ambientazione (quella delle famiglie ebree newyorkesi), ma anche per l’approccio tra l’arguto e l’ironico che caratterizza fortemente queste pagine.
Nelle ultime duecento pagine, dopo aver avuto ampi saggi di arguzia stilistica e concettuale, ho cominciato a pensare che Eccomi è il libro di uno scrittore che si avvicina ai quarant’anni e che comincia ad avvertire i primi segnali di un’età di transizione, in cui tanto è stato fatto ma altrettanto ancora ci potrebbe essere davanti.
Il risultato alla fine è stato – per quanto mi riguarda – un sostanziale fastidio. Non ho amato nessuno dei personaggi: non Jacob nella sua umana pusillanimità, non Julia nel suo insopportabile perfezionismo, non i tre ragazzini, che pure sono il contrappunto ironico-saggio di tutto il libro e sono i veri portatori di quelle perle di saggezza di cui sono disseminate queste pagine… Il fatto è che, per essere ragazzini che vanno dai 7 ai 14 anni, Sam, Max e Benji sono un concentrato di intelligenza e di visione profonda, matura, arguta delle cose, che oltre a risultare del tutto irrealistico finisce per essere sinceramente fastidioso.
Il libro di Safran Foer mi ha fatto l’effetto prodotto dalla somma di un libro di Franzen e di un film di Woody Allen: cioè una combinazione di depressione e angoscia da un lato e di illuminazioni folgoranti all’interno di uno sproloquio quasi insopportabile dall’altro.
Quindi, se non vi sentite pronti ad affrontare queste impegnative 660 pagine che probabilmente non vi porteranno da nessuna parte, ma non volete perdervi i paragrafi e le pagine illuminanti, forse potete chiedermi in prestito la mia copia, dove – a penna o, quando ero gentile, a matita – ho segnato le cose memorabili. Che per me restano però annegate dentro un romanzo che forse è troppo yiddish perché io lo potessi comprendere appieno, o forse semplicemente troppo intelligente e troppo astruso perché io lo potessi apprezzare in questo momento.
Voto: 2,5/5
venerdì 11 novembre 2016
La ragazza senza nome
Dopo essere andata due anni fa a vedere il film Due giorni una notte, e - anche grazie alla splendida interpretazione di Marion Cotillard - essermi riavvicinata ai fratelli Dardenne, alla proposta di andare a vedere il loro nuovo film non mi sono tirata indietro, preparandomi però psicologicamente al fatto che non si sarebbe trattato certamente di un film da cui uscire a cuor leggero.
La ragazza senza nome è una specie di thriller psicologico, un genere piuttosto nuovo per i due fratelli francesi, e con il quale - si capirà durante la visione - non sono perfettamente a loro agio.
Lo spunto della storia è molto interessante: Jenny Davin (Adèle Haenel) è una giovane dottoressa che presta servizio come medico di base, ma che si prepara al grande salto verso un prestigioso ospedale, grazie alla sua bravura. Un giorno, dopo l'orario di chiusura dell'ambulatorio, mentre è ancora lì con il giovane stagista Julien, qualcuno suona alla porta ma Jenny dice allo stagista di non aprire, visto che l'orario delle visite è terminato. Il giorno dopo, non lontano la polizia trova il corpo senza vita di una ragazza di colore, che si scoprirà - grazie alle telecamere poste all'ingresso dell'ambulatorio - essere la stessa che aveva suonato la sera prima. Da quel momento, Jenny - anche a causa del senso di colpa - impiega tutte le sue energie non tanto per scoprire chi ha causato la morte della donna, quanto per scoprire il nome di lei e darle una degna sepoltura. La sua "indagine" finirà per scoperchiare piccoli e grandi ipocrisie e segreti del piccolo mondo che la circonda, e la costringerà anche a fare i conti con il delicato equilibrio tra partecipazione e distacco su cui si regge la sua professione.
La missione di Jenny la esporrà a inevitabili rischi, ma in qualche modo romperà quel velo di omertà che sembra essere calato sul corpo della giovane donna morta, rivelando le contraddizioni e i conflitti interiori che si celano dietro un quotidianità apparentemente ordinaria.
Che dire? Per quanto mi riguarda siamo lontanissimi dalle vette del film Due giorni una notte. La mano dei Dardenne è sempre la stessa e la si riconosce anche in una certa meccanicità dello svolgimento narrativo, ma mi pare che in questo caso il risultato non sia perfettamente riuscito.
Non solo la prima parte del film risulta decisamente poco coinvolgente e in generale il film appare infarcito di dettagli e inserti non sempre chiaramente funzionali alla storia e al suo senso, ma i personaggi appaiono quasi robotici nei loro comportamenti e interazioni, così come la narrazione molto imbalsamata. Non che ci si possa aspettare dai Dardenne un vero realismo e una partecipazione emotiva non filtrata dalla loro visione delle cose, ma in questo caso la distanza non viene colmata altrimenti, lasciando lo spettatore in uno stato che oscilla tra incertezza e freddezza.
Questa volta i due fratelli belgi non mi hanno conquistata.
Voto: 3/5
La ragazza senza nome è una specie di thriller psicologico, un genere piuttosto nuovo per i due fratelli francesi, e con il quale - si capirà durante la visione - non sono perfettamente a loro agio.
Lo spunto della storia è molto interessante: Jenny Davin (Adèle Haenel) è una giovane dottoressa che presta servizio come medico di base, ma che si prepara al grande salto verso un prestigioso ospedale, grazie alla sua bravura. Un giorno, dopo l'orario di chiusura dell'ambulatorio, mentre è ancora lì con il giovane stagista Julien, qualcuno suona alla porta ma Jenny dice allo stagista di non aprire, visto che l'orario delle visite è terminato. Il giorno dopo, non lontano la polizia trova il corpo senza vita di una ragazza di colore, che si scoprirà - grazie alle telecamere poste all'ingresso dell'ambulatorio - essere la stessa che aveva suonato la sera prima. Da quel momento, Jenny - anche a causa del senso di colpa - impiega tutte le sue energie non tanto per scoprire chi ha causato la morte della donna, quanto per scoprire il nome di lei e darle una degna sepoltura. La sua "indagine" finirà per scoperchiare piccoli e grandi ipocrisie e segreti del piccolo mondo che la circonda, e la costringerà anche a fare i conti con il delicato equilibrio tra partecipazione e distacco su cui si regge la sua professione.
La missione di Jenny la esporrà a inevitabili rischi, ma in qualche modo romperà quel velo di omertà che sembra essere calato sul corpo della giovane donna morta, rivelando le contraddizioni e i conflitti interiori che si celano dietro un quotidianità apparentemente ordinaria.
Che dire? Per quanto mi riguarda siamo lontanissimi dalle vette del film Due giorni una notte. La mano dei Dardenne è sempre la stessa e la si riconosce anche in una certa meccanicità dello svolgimento narrativo, ma mi pare che in questo caso il risultato non sia perfettamente riuscito.
Non solo la prima parte del film risulta decisamente poco coinvolgente e in generale il film appare infarcito di dettagli e inserti non sempre chiaramente funzionali alla storia e al suo senso, ma i personaggi appaiono quasi robotici nei loro comportamenti e interazioni, così come la narrazione molto imbalsamata. Non che ci si possa aspettare dai Dardenne un vero realismo e una partecipazione emotiva non filtrata dalla loro visione delle cose, ma in questo caso la distanza non viene colmata altrimenti, lasciando lo spettatore in uno stato che oscilla tra incertezza e freddezza.
Questa volta i due fratelli belgi non mi hanno conquistata.
Voto: 3/5
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