Anya e il suo fantasma / Vera Brosgol; trad. di Caterina Marietti. Milano: Bao Publishing, 2012.
Quello di Vera Brosgol è di fatto un classico romanzo di formazione.
La protagonista, Anya, è un'adolescente un po' in carne, di origine russa, che vive con fatica - come tutti gli adolescenti - il suo rapporto con il mondo esterno e quel delicato passaggio in cui si ha bisogno di essere accettati dagli altri per arrivare ad accettare pienamente se stessi.
Un giorno Anya cade in una buca nel bosco e lì incontra Emily, il fantasma di una ragazza morta molti anni prima. Dopo un primo incontro un po' burrascoso, le due fanno amicizia e Anya trova in Emily un'insostituibile alleata nel suo quotidiano tentativo di sopravvivere alle dinamiche di gruppo della scuola che frequenta e far colpo sul ragazzo che le piace.
Anya però scoprirà a sue spese che gli aiuti esterni, tanto più se soprannaturali, non risolvono le contraddizioni interiori e che per diventare grandi è necessario affrontare le proprie debolezze e guardare con affetto e tolleranza a quelle degli altri.
L’originalità di questo romanzo di formazione sta innanzitutto nel fatto che quella di Anya è una storia a fumetti, un albo dai contorni nitidi e le forme rotonde che a tratti ricordano il segno deciso di Marjane Satrapi, in secondo luogo in quella componente un po’ spaventosa, un po’ soprannaturale che ricorda un po’ i romanzi di Neil Gaiman.
Vera Brosgol racconta una storia bella e divertente (ho adorato la scena in biblioteca nella quale Anya deve consultare i giornali su microfilm e va nel panico più totale perché si aspetta di poter fare una ricerca come su Google), una storia in cui le ragazze adolescenti probabilmente si riconosceranno o riconosceranno alcune dinamiche proprie dei loro coetanei, mentre gli adulti apprezzeranno l’ironia, l’intelligenza e gli spunti di riflessione che l’autrice ci regala.
Qui una preview.
Voto: 3,5/5
venerdì 28 marzo 2014
lunedì 24 marzo 2014
In fondo alla palude / Joe R. Lansdale
In fondo alla palude / Joe R. Lansdale; trad. di Francesco Salvi. Roma: Fanucci, 2005.
Passato un po’ di tempo da quando l’avevo annunciato, ho finalmente letto In fondo alla palude di Joe R. Lansdale, anche grazie all’editore Fanucci che ha finalmente deciso di fare una nuova edizione di questo libro, che è stato per qualche tempo introvabile.
Di Lansdale avevo già letto La sottile linea scura che mi era molto piaciuto e sono intenzionata a leggere l’ultimo pubblicato in Italia, La foresta. Diciamo che – per quel poco che ho letto fin qui e tenendo conto che non ho ancora affrontato la sua scrittura più umoristica incarnata dai personaggi di Hap e Leonard – il punto di forza di questo scrittore mi pare la sua capacità di riportare in vita le atmosfere della profonda America degli anni Quaranta e Cinquanta che spesso sono al centro dei suoi romanzi, con tutto il loro portato sociale e non solo: la contrapposizione tra bianchi e neri, il Ku Klux Klan, una natura ancora prevalente con i suoi fiumi, i suoi boschi e le sue paludi, un’infanzia al contempo più adulta e più ingenua di quelle a cui siamo abituati.
Ad onor del vero, va detto che su questo fronte Lansdale deve molto alla scrittura e alle atmosfere che Harper Lee costruisce nel suo capolavoro Il buio oltre la siepe, con cui entrambi i libri di Lansdale che ho letto hanno in comune non solo l’ambientazione geografica e cronologica, ma anche la scelta di mettere al centro del racconto due fratelli (in Harper Lee la protagonista è la sorella minore, in Lansdale è in entrambi i casi un figlio maschio, sebbene per In fondo alla palude sia da considerarsi importante anche il ruolo della sorellina che tutti chiamano Tom).
La storia raccontata in questo libro – come mi pare sia tipico di Lansdale – mescola generi diversi che vanno dal thriller classico all’horror (non mancano nei suoi romanzi personaggi che – anche grazie all’occhio infantile di chi li guarda – sembrano appartenere a un genere non umano), dal ritratto sociale a quello familiare (interessante in questo caso anche la figura della nonna).
Il romanzo si configura dunque come una sorta di coming of age del protagonista, Harry, che tra l’altro ne è il narratore a distanza di molti anni da quando i fatti narrati si sono svolti, ossia quando – ormai anziano – vive in una casa di riposo e ha assistito al profondo cambiamento del mondo circostante e ai tanti avvenimenti che hanno caratterizzato non solo la sua famiglia, ma anche la sua terra e la sua gente.
Bella scrittura, gradevole e a tratti molto coinvolgente. Forse in alcuni momenti le somiglianze con altri romanzi danno l’impressione di già letto e di già visto, ma complessivamente una lettura molto piacevole.
Voto: 3/5
Passato un po’ di tempo da quando l’avevo annunciato, ho finalmente letto In fondo alla palude di Joe R. Lansdale, anche grazie all’editore Fanucci che ha finalmente deciso di fare una nuova edizione di questo libro, che è stato per qualche tempo introvabile.
Di Lansdale avevo già letto La sottile linea scura che mi era molto piaciuto e sono intenzionata a leggere l’ultimo pubblicato in Italia, La foresta. Diciamo che – per quel poco che ho letto fin qui e tenendo conto che non ho ancora affrontato la sua scrittura più umoristica incarnata dai personaggi di Hap e Leonard – il punto di forza di questo scrittore mi pare la sua capacità di riportare in vita le atmosfere della profonda America degli anni Quaranta e Cinquanta che spesso sono al centro dei suoi romanzi, con tutto il loro portato sociale e non solo: la contrapposizione tra bianchi e neri, il Ku Klux Klan, una natura ancora prevalente con i suoi fiumi, i suoi boschi e le sue paludi, un’infanzia al contempo più adulta e più ingenua di quelle a cui siamo abituati.
Ad onor del vero, va detto che su questo fronte Lansdale deve molto alla scrittura e alle atmosfere che Harper Lee costruisce nel suo capolavoro Il buio oltre la siepe, con cui entrambi i libri di Lansdale che ho letto hanno in comune non solo l’ambientazione geografica e cronologica, ma anche la scelta di mettere al centro del racconto due fratelli (in Harper Lee la protagonista è la sorella minore, in Lansdale è in entrambi i casi un figlio maschio, sebbene per In fondo alla palude sia da considerarsi importante anche il ruolo della sorellina che tutti chiamano Tom).
La storia raccontata in questo libro – come mi pare sia tipico di Lansdale – mescola generi diversi che vanno dal thriller classico all’horror (non mancano nei suoi romanzi personaggi che – anche grazie all’occhio infantile di chi li guarda – sembrano appartenere a un genere non umano), dal ritratto sociale a quello familiare (interessante in questo caso anche la figura della nonna).
Il romanzo si configura dunque come una sorta di coming of age del protagonista, Harry, che tra l’altro ne è il narratore a distanza di molti anni da quando i fatti narrati si sono svolti, ossia quando – ormai anziano – vive in una casa di riposo e ha assistito al profondo cambiamento del mondo circostante e ai tanti avvenimenti che hanno caratterizzato non solo la sua famiglia, ma anche la sua terra e la sua gente.
Bella scrittura, gradevole e a tratti molto coinvolgente. Forse in alcuni momenti le somiglianze con altri romanzi danno l’impressione di già letto e di già visto, ma complessivamente una lettura molto piacevole.
Voto: 3/5
martedì 18 marzo 2014
Fermo / Sualzo
Fermo / Sualzo. Milano: Bao Publishing, 2013.
Quando C. ha visto in libreria questo graphic novel si è detta convinta che l’autore fosse spagnolo, perché il suo modo di disegnare e i tratti somatici delle persone le apparivano innegabilmente spagnoli. In realtà, abbiamo scoperto poco dopo che l’autore è italianissimo, si chiama Antonio Vincenti, in arte Sualzo, e che la storia è ambientata in Italia, in buona parte a Bibbiena, dove il protagonista svolge il suo servizio civile, in un’epoca in cui la leva è ancora obbligatoria.
In realtà, l’intuizione di C. non era del tutto errata, perché effettivamente ho trovato molto del tratto di Paco Roca e anche del suo stile in questo fumetto. Bello però sapere che si tratta di un italiano, anche se - come molti altri suoi colleghi - ha dovuto spesso guardare all’estero per vedere riconosciuta la sua arte.
La storia è in buona parte autobiografica. Il protagonista è fidanzato da molti anni, vive con la propria famiglia, suona il sassofono, ma è sostanzialmente perseguitato dalle paure che si manifestano con attacchi di panico. Chiamato alla leva obbligatoria, opta per il servizio civile sperando di essere mandato in biblioteca dove potrà trascorrere un anno tranquillo e isolato dal mondo (!). Purtroppo però non sa cos’è la Dewey, a differenza del suo collega, e dunque viene destinato ai servizi sociali, in particolare al supporto delle famiglie che hanno al loro interno un disabile psichico.
All’inizio Sebastiano ne è terrorizzato. I cosiddetti “matti” con cui deve trascorrere il suo tempo amplificano le sue paure e lo fanno sentire totalmente incapace di affrontare non solo il suo compito, ma anche la quotidianità, fatta anche delle sue passioni come il sassofono.
Questa esperienza però lo cambierà profondamente e lo aiuterà a capire quando stare fermo, senza fuggire di fronte alla vita, e quando muoversi per cogliere le opportunità e le occasioni che la vita stessa ci offre.
Una storia minimale e commovente che rivela qualità tecniche e sensibilità dell’autore. Una storia che tutti quelli che in una fase più o meno lunga e complessa della vita sono stati paralizzati dalla paura dovrebbero leggere.
Voto: 3,5/5
Quando C. ha visto in libreria questo graphic novel si è detta convinta che l’autore fosse spagnolo, perché il suo modo di disegnare e i tratti somatici delle persone le apparivano innegabilmente spagnoli. In realtà, abbiamo scoperto poco dopo che l’autore è italianissimo, si chiama Antonio Vincenti, in arte Sualzo, e che la storia è ambientata in Italia, in buona parte a Bibbiena, dove il protagonista svolge il suo servizio civile, in un’epoca in cui la leva è ancora obbligatoria.
In realtà, l’intuizione di C. non era del tutto errata, perché effettivamente ho trovato molto del tratto di Paco Roca e anche del suo stile in questo fumetto. Bello però sapere che si tratta di un italiano, anche se - come molti altri suoi colleghi - ha dovuto spesso guardare all’estero per vedere riconosciuta la sua arte.
La storia è in buona parte autobiografica. Il protagonista è fidanzato da molti anni, vive con la propria famiglia, suona il sassofono, ma è sostanzialmente perseguitato dalle paure che si manifestano con attacchi di panico. Chiamato alla leva obbligatoria, opta per il servizio civile sperando di essere mandato in biblioteca dove potrà trascorrere un anno tranquillo e isolato dal mondo (!). Purtroppo però non sa cos’è la Dewey, a differenza del suo collega, e dunque viene destinato ai servizi sociali, in particolare al supporto delle famiglie che hanno al loro interno un disabile psichico.
All’inizio Sebastiano ne è terrorizzato. I cosiddetti “matti” con cui deve trascorrere il suo tempo amplificano le sue paure e lo fanno sentire totalmente incapace di affrontare non solo il suo compito, ma anche la quotidianità, fatta anche delle sue passioni come il sassofono.
Questa esperienza però lo cambierà profondamente e lo aiuterà a capire quando stare fermo, senza fuggire di fronte alla vita, e quando muoversi per cogliere le opportunità e le occasioni che la vita stessa ci offre.
Una storia minimale e commovente che rivela qualità tecniche e sensibilità dell’autore. Una storia che tutti quelli che in una fase più o meno lunga e complessa della vita sono stati paralizzati dalla paura dovrebbero leggere.
Voto: 3,5/5
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domenica 16 marzo 2014
Accabadora / Michela Murgia
Accabadora / Michela Murgia. Torino: Einaudi, 2009.
Non avevo mai letto nulla di Michela Murgia, una carenza imperdonabile nel panorama delle mie letture. Ma dopo l’entusiasmo di C. per questo libro non ho più potuto sottrarmi.
E così eccomi a leggere Accabadora, il libro con cui la Murgia ha vinto il Premio Campiello 2010. L’ho letto quasi d’un fiato, in pochissimi giorni.
Quando l’ho finito non ho potuto fare a meno di pensare che questo libro appartiene a precise categorie narrative: innanzitutto quella delle storie con una forte connotazione regionale (in questo caso l’ambientazione sarda), in secondo luogo quella dei racconti un po’ minimali, cioè non minimali per la portata dei sentimenti che raccontano, né minimali nello sviluppo psicologico dei protagonisti, ma minimali nel senso di circoscritte, semplici, quasi contenute. Infine, il libro appartiene alle storie che non lasciano scampo né ai protagonisti, né al lettore, trascinandoli nelle pieghe di un destino che sembra non consentire spazi di speranza, se non esclusivamente intimi.
Michela Murgia non vuole raccontare saghe familiari, né parlare di vicende storico-sociali ampie a partire dalle storie personali, bensì si concentra su due personaggi femminili, quella di Bonaria Urriu, l’accabadora, e quella di Maria Listru, la fill’e anima di Bonaria.
Bonaria è una che osserva la vita per comprenderla. Cerca non il suo significato profondo e universalmente valido, ma quello che in qualche modo è più compatibile con la nostra umanità. È una donna di profondi sentimenti e di un elevato livello di moralità, ma si trova a fare i conti con domande che non hanno risposte semplici, nemmeno per chi è disponibile a cercarle con umiltà.
Maria ruba attimi ad un’esistenza che si annuncia grama e scarna di soddisfazioni. Si illude di poter prendere il controllo di se stessa e della vita, pensa di poter capire tutto e sulla base di questo di poter giudicare. Ma si renderà conto a proprie spese che i sentimenti ci sfuggono di mano, l’umanità ha sfaccettature complesse, le cose non hanno nomi definiti una volta per tutte, i torti non sempre trovano compensazione.
Maria imparerà la difficile arte dell’accettazione della propria e dell’altrui imperfezione in un finale ineluttabile nel rivendicare la forza delle origini.
Il libro di Michela Murgia sprigiona umiltà da ogni pagina, non cerca di essere difficile a tutti i costi, non aspira all’intellettualismo. Piuttosto si fa semplice, piano, piccolo, esattamente come il mondo che racconta. Non per questo però cade nella semplificazione, conscio che anche le società e le persone più semplici portano impressi i segni della complessità della nostra umanità.
Voto: 3,5/5
Non avevo mai letto nulla di Michela Murgia, una carenza imperdonabile nel panorama delle mie letture. Ma dopo l’entusiasmo di C. per questo libro non ho più potuto sottrarmi.
E così eccomi a leggere Accabadora, il libro con cui la Murgia ha vinto il Premio Campiello 2010. L’ho letto quasi d’un fiato, in pochissimi giorni.
Quando l’ho finito non ho potuto fare a meno di pensare che questo libro appartiene a precise categorie narrative: innanzitutto quella delle storie con una forte connotazione regionale (in questo caso l’ambientazione sarda), in secondo luogo quella dei racconti un po’ minimali, cioè non minimali per la portata dei sentimenti che raccontano, né minimali nello sviluppo psicologico dei protagonisti, ma minimali nel senso di circoscritte, semplici, quasi contenute. Infine, il libro appartiene alle storie che non lasciano scampo né ai protagonisti, né al lettore, trascinandoli nelle pieghe di un destino che sembra non consentire spazi di speranza, se non esclusivamente intimi.
Michela Murgia non vuole raccontare saghe familiari, né parlare di vicende storico-sociali ampie a partire dalle storie personali, bensì si concentra su due personaggi femminili, quella di Bonaria Urriu, l’accabadora, e quella di Maria Listru, la fill’e anima di Bonaria.
Bonaria è una che osserva la vita per comprenderla. Cerca non il suo significato profondo e universalmente valido, ma quello che in qualche modo è più compatibile con la nostra umanità. È una donna di profondi sentimenti e di un elevato livello di moralità, ma si trova a fare i conti con domande che non hanno risposte semplici, nemmeno per chi è disponibile a cercarle con umiltà.
Maria ruba attimi ad un’esistenza che si annuncia grama e scarna di soddisfazioni. Si illude di poter prendere il controllo di se stessa e della vita, pensa di poter capire tutto e sulla base di questo di poter giudicare. Ma si renderà conto a proprie spese che i sentimenti ci sfuggono di mano, l’umanità ha sfaccettature complesse, le cose non hanno nomi definiti una volta per tutte, i torti non sempre trovano compensazione.
Maria imparerà la difficile arte dell’accettazione della propria e dell’altrui imperfezione in un finale ineluttabile nel rivendicare la forza delle origini.
Il libro di Michela Murgia sprigiona umiltà da ogni pagina, non cerca di essere difficile a tutti i costi, non aspira all’intellettualismo. Piuttosto si fa semplice, piano, piccolo, esattamente come il mondo che racconta. Non per questo però cade nella semplificazione, conscio che anche le società e le persone più semplici portano impressi i segni della complessità della nostra umanità.
Voto: 3,5/5
martedì 11 marzo 2014
I segreti di Osage County
La prima definizione di questo film che mi è venuta in mente è un “Festen in salsa americana”. Come nel film danese infatti al centro del racconto c’è una famiglia che si riunisce nella casa paterna a seguito della scomparsa del padre (che si scoprirà a breve essersi suicidato nel lago). La famiglia è composta da una madre di grande presenza "scenica" (Meryl Streep), le tre figlie (Julia Roberts, Juliette Lewis e Julianne Nicholson) con le rispettive famiglie e/o compagni, e la loro zia (sorella della madre) con il marito e il figlio. La riunione familiare sarà la circostanza nella quale tutte le tensioni e i nodi irrisolti delle dinamiche relazionali verranno più o meno drammaticamente a galla.
Iniziamo dai difetti di questo film. È un film decisamente molto, forse troppo americano, sia nella confezione sia nella sceneggiatura, che appare un po’ troppo didascalica per i miei gusti. I protagonisti tendono in alcuni momenti al macchiettismo, o a interpretare una categoria psicologica troppo riconoscibile per essere completamente credibile. In generale, l’intera narrazione è tutta parecchio sopra le righe, così come la recitazione, in linea probabilmente con certo stile americano.
Ciò detto, devo confessare che – depurato da qualche forzatura e semplificazione – ho trovato il film molto centrato sul tema della famiglia, capace di metterne a nudo alcune dinamiche perverse a cui tutti noi – chi più chi meno – abbiamo dovuto e dobbiamo far fronte.
Fa parte della storia di ognuno confrontarsi con il modo di essere dei propri genitori. Ciascuno di noi è in qualche modo l’esito e la risposta a questi modi di essere (che a loro volta sono il risultato della loro storia personale e familiare), nella maniera unica ed originale in cui queste modalità si innestano sul proprio apparato caratteriale ed evolvono in relazione alle nostre esperienze.
Una madre come quella portata in scena da Meryl Streep è una madre che in nessun modo può lasciare indifferente il mondo circostante, nella durezza con cui riversa su di esso le proprie fragilità e il proprio bisogno insaziabile di affetto, trasformandoli in aggressività e disprezzo per i componenti della sua famiglia. Di fronte a cotanta madre ognuno fa quello che può: suo marito porta avanti il suo compito fino in fondo e poi decide di uscire di scena, sua sorella non riesce a fare pace con il senso di colpa, le sue figlie rispondono chi con la stessa aggressività e durezza (riproducendo dunque nella propria vita le stesse dinamiche materne e finendone in qualche modo schiacciate), chi con una patologica ingenuità che in qualche modo è funzionale alla sopravvivenza, chi con una passività e un vittimismo che si portano dietro dolore e frustrazione.
Come si dice spesso, la famiglia non ce la scegliamo e in molti casi è composta da persone che probabilmente non avremmo scelto in una libera dinamica relazionale. La famiglia, intesa soprattutto come legame di sangue, è però anche l’unico legame che non può essere veramente reciso. Si può divorziare da un marito, si può decidere di cambiare compagno o amici, ma non si può divorziare dai propri genitori o dai propri fratelli. Anche quando si decide volontariamente di allontanarsene, il legame con loro continua ad agire sotterraneamente nella nostra vita, senza lasciarci veramente liberi.
È per questo che ognuno di noi nel proprio personale percorso di maturazione, nella faticosa ricerca di un equilibrio con il mondo circostante, nella propria personale via verso quella seconda nascita che ci rivela davvero chi siamo (e non quello che la nostra famiglia e il mondo avrebbero voluto che fossimo), deve avere il coraggio di affrontare e sciogliere questo nodo, ossia riconoscere e fare pace con l’impronta familiare che ci porteremo dietro per sempre, ma anche guardare il proprio io più profondo, dargli spazio, creargli un ambiente che gli consenta di respirare e crescere. Ognuno di noi è chiamato a trovare il suo modo: c’è chi lo fa allontanandosi e chi restando vicino, chi rifiutando e chi accettando, chi rielaborando e chi prendendo le cose come sono.
Ebbene, I segreti di Osage County è uno di quei film che – pur non essendo cinematograficamente del tutto convincenti – ci aiuta a ricordarci quanto c’è di universale e di profondamente umano anche nella fatica e nell’assurdità di certe dinamiche familiari.
Voto: 3/5
Iniziamo dai difetti di questo film. È un film decisamente molto, forse troppo americano, sia nella confezione sia nella sceneggiatura, che appare un po’ troppo didascalica per i miei gusti. I protagonisti tendono in alcuni momenti al macchiettismo, o a interpretare una categoria psicologica troppo riconoscibile per essere completamente credibile. In generale, l’intera narrazione è tutta parecchio sopra le righe, così come la recitazione, in linea probabilmente con certo stile americano.
Ciò detto, devo confessare che – depurato da qualche forzatura e semplificazione – ho trovato il film molto centrato sul tema della famiglia, capace di metterne a nudo alcune dinamiche perverse a cui tutti noi – chi più chi meno – abbiamo dovuto e dobbiamo far fronte.
Fa parte della storia di ognuno confrontarsi con il modo di essere dei propri genitori. Ciascuno di noi è in qualche modo l’esito e la risposta a questi modi di essere (che a loro volta sono il risultato della loro storia personale e familiare), nella maniera unica ed originale in cui queste modalità si innestano sul proprio apparato caratteriale ed evolvono in relazione alle nostre esperienze.
Una madre come quella portata in scena da Meryl Streep è una madre che in nessun modo può lasciare indifferente il mondo circostante, nella durezza con cui riversa su di esso le proprie fragilità e il proprio bisogno insaziabile di affetto, trasformandoli in aggressività e disprezzo per i componenti della sua famiglia. Di fronte a cotanta madre ognuno fa quello che può: suo marito porta avanti il suo compito fino in fondo e poi decide di uscire di scena, sua sorella non riesce a fare pace con il senso di colpa, le sue figlie rispondono chi con la stessa aggressività e durezza (riproducendo dunque nella propria vita le stesse dinamiche materne e finendone in qualche modo schiacciate), chi con una patologica ingenuità che in qualche modo è funzionale alla sopravvivenza, chi con una passività e un vittimismo che si portano dietro dolore e frustrazione.
Come si dice spesso, la famiglia non ce la scegliamo e in molti casi è composta da persone che probabilmente non avremmo scelto in una libera dinamica relazionale. La famiglia, intesa soprattutto come legame di sangue, è però anche l’unico legame che non può essere veramente reciso. Si può divorziare da un marito, si può decidere di cambiare compagno o amici, ma non si può divorziare dai propri genitori o dai propri fratelli. Anche quando si decide volontariamente di allontanarsene, il legame con loro continua ad agire sotterraneamente nella nostra vita, senza lasciarci veramente liberi.
È per questo che ognuno di noi nel proprio personale percorso di maturazione, nella faticosa ricerca di un equilibrio con il mondo circostante, nella propria personale via verso quella seconda nascita che ci rivela davvero chi siamo (e non quello che la nostra famiglia e il mondo avrebbero voluto che fossimo), deve avere il coraggio di affrontare e sciogliere questo nodo, ossia riconoscere e fare pace con l’impronta familiare che ci porteremo dietro per sempre, ma anche guardare il proprio io più profondo, dargli spazio, creargli un ambiente che gli consenta di respirare e crescere. Ognuno di noi è chiamato a trovare il suo modo: c’è chi lo fa allontanandosi e chi restando vicino, chi rifiutando e chi accettando, chi rielaborando e chi prendendo le cose come sono.
Ebbene, I segreti di Osage County è uno di quei film che – pur non essendo cinematograficamente del tutto convincenti – ci aiuta a ricordarci quanto c’è di universale e di profondamente umano anche nella fatica e nell’assurdità di certe dinamiche familiari.
Voto: 3/5
domenica 9 marzo 2014
Stare meglio oggi / Giacomo Ciarrapico
Immaginate di parlare di voi stessi utilizzando la metafora del funzionamento di un Paese, come se la vostra mente e il vostro corpo potessero essere rappresentati sotto forma di uno stato sovrano che deve essere governato.
Ebbene, ne verrebbe fuori che avete una vostra Costituzione interna che si è formata con la maggiore età, che dentro di voi si sono alternati nel tempo governi diversi che hanno spinto la vostra vita in direzioni differenti, che anche in presenza di tali governi avete sempre avuto una qualche opposizione interna, pronta a prendere il potere a seguito di eventi importanti attraverso un faticoso processo elettivo interiore, che ogni governo che vi ha presieduto ha avuto i suoi Ministeri e i suoi Ministri con orientamenti diversi: il Ministero della Salute, quello delle Finanze, quello dello Sport, quello degli Esteri ecc. Forse ci sono stati momenti in cui il governo insediato vi ha mandato in rovina fisicamente o economicamente, situazioni in cui siete stati sull'orlo di una guerra civile interiore, in cui l'opinione pubblica e la stampa si sono allineati al pensiero dominante o sono stati critici.
Questo è il testo scritto da Giacomo Ciarrapico (uno degli sceneggiatori del mitico Boris) e interpretato da Carlo De Ruggieri (lo ricorderete come lo "stagista muto" sempre nella serie Boris), messo in scena alla Fonderia delle Arti con l'accompagnamento del violino di Andrea Ruggiero.
Gli esiti sono da una parte esilaranti (per l'arguzia di alcune trovate) e dall'altra carichi di spunti di riflessione sul modo in cui funzioniamo come esseri umani e in fondo - e forse di conseguenza - anche sul modo in cui funzionano gli stati.
Nella storia di questo diciamo trentenne disoccupato e un po' tardo-adolescenziale si ritrovano molti riferimenti alla nostra Italia e alla sua storia politica recente. Ma alla fine il tono è in qualche modo bonario, meno giudicante di quanto siamo abituati a leggere e ad ascoltare. La crisi del nostro protagonista di fronte al tradimento della sua fidanzata finisce per essere struggente e quasi commovente, e la scoperta che divenire adulti significa prendere decisioni fortemente impopolari, ma che la scelta di una via - diciamo così - di disciplina interiore e di assunzione delle responsabilità e il superamento dei sensi di colpa sono la strada verso una qualche forma di felicità che forse fa rima con serenità, sono un messaggio - nemmeno tanto in codice - per noi e probabilmente anche per il consesso sociale nel quale viviamo.
In una sala gremita di un pubblico quasi tutto di trenta-quarantenni, di fronte all'opera di Ciarrapico ognuno di noi è invitato a riflettere sulla frase di lancio dello spettacolo: “Mi lamento spesso del mio Paese. Quando io sono pessimo, come l’Italia”.
Voto: 4/5
P.S. E comunque questi sceneggiatori di Boris - va detto - sono veramente bravi! Si veda quanto dicevo su un altro dei tre, Mattia Torre.
Ebbene, ne verrebbe fuori che avete una vostra Costituzione interna che si è formata con la maggiore età, che dentro di voi si sono alternati nel tempo governi diversi che hanno spinto la vostra vita in direzioni differenti, che anche in presenza di tali governi avete sempre avuto una qualche opposizione interna, pronta a prendere il potere a seguito di eventi importanti attraverso un faticoso processo elettivo interiore, che ogni governo che vi ha presieduto ha avuto i suoi Ministeri e i suoi Ministri con orientamenti diversi: il Ministero della Salute, quello delle Finanze, quello dello Sport, quello degli Esteri ecc. Forse ci sono stati momenti in cui il governo insediato vi ha mandato in rovina fisicamente o economicamente, situazioni in cui siete stati sull'orlo di una guerra civile interiore, in cui l'opinione pubblica e la stampa si sono allineati al pensiero dominante o sono stati critici.
Questo è il testo scritto da Giacomo Ciarrapico (uno degli sceneggiatori del mitico Boris) e interpretato da Carlo De Ruggieri (lo ricorderete come lo "stagista muto" sempre nella serie Boris), messo in scena alla Fonderia delle Arti con l'accompagnamento del violino di Andrea Ruggiero.
Gli esiti sono da una parte esilaranti (per l'arguzia di alcune trovate) e dall'altra carichi di spunti di riflessione sul modo in cui funzioniamo come esseri umani e in fondo - e forse di conseguenza - anche sul modo in cui funzionano gli stati.
Nella storia di questo diciamo trentenne disoccupato e un po' tardo-adolescenziale si ritrovano molti riferimenti alla nostra Italia e alla sua storia politica recente. Ma alla fine il tono è in qualche modo bonario, meno giudicante di quanto siamo abituati a leggere e ad ascoltare. La crisi del nostro protagonista di fronte al tradimento della sua fidanzata finisce per essere struggente e quasi commovente, e la scoperta che divenire adulti significa prendere decisioni fortemente impopolari, ma che la scelta di una via - diciamo così - di disciplina interiore e di assunzione delle responsabilità e il superamento dei sensi di colpa sono la strada verso una qualche forma di felicità che forse fa rima con serenità, sono un messaggio - nemmeno tanto in codice - per noi e probabilmente anche per il consesso sociale nel quale viviamo.
In una sala gremita di un pubblico quasi tutto di trenta-quarantenni, di fronte all'opera di Ciarrapico ognuno di noi è invitato a riflettere sulla frase di lancio dello spettacolo: “Mi lamento spesso del mio Paese. Quando io sono pessimo, come l’Italia”.
Voto: 4/5
P.S. E comunque questi sceneggiatori di Boris - va detto - sono veramente bravi! Si veda quanto dicevo su un altro dei tre, Mattia Torre.
giovedì 6 marzo 2014
La rivincita di Capablanca / Fabio Stassi
La rivincita di Capablanca / Fabio Stassi. Roma: minimum fax, 2008.
Il libro di Fabio Stassi, bibliotecario di Viterbo che lavora a Roma, è senza ombra di dubbio un libro originale. Racconta la storia romanzata di José Raùl Capablanca, un famoso scacchista cubano che fu campione del mondo negli anni tra le due guerre, dal 1921 e il 1927.
In particolare, il romanzo narra della storica rivalità di Capablanca con il campione russo Aleksandr Alechin, rivalità che nell'ultima parte della vita di Capablanca diventa ossessione finalizzata a ottenere una rivincita a qualunque costo.
L'originalità del romanzo sta non solo nei suoi contenuti narrativi, ma anche nella sua struttura formale che rivela solo alla conclusione una connessione profonda con il suo tema portante, ossia gli scacchi.
Non rivelerò la sorpresa che l'autore ci riserva alla fine del libro, dopo averci incuriosito durante tutta la lettura per la brevità dei capitoli, veri e propri flash che illuminano momenti e dettagli della vita di Capablanca per permetterci di comporre il quadro di insieme.
È chiaro che gli scacchi sono per Capablanca - e forse anche per Stassi - una vera e propria metafora della vita, la cui sostanza può essere ricondotta ad aperture, chiusure, mosse sbagliate e altre indovinate, calcolo, strategia, ma anche concentrazione e passione.
In questo senso, tra i passi che mi sono piaciuti di più c'è certamente il seguente:
«Le donne che aveva avuto se le ricordava tutte […] ma ancora di più, e con una precisione assoluta, si ricordava di tutte quelle che avrebbe voluto baciare e non aveva baciato. Per un errore di calcolo, un contrattempo banale o, al contrario, per aver condotto un gioco eccellente, ma incapace di affrancarsi da uno stato di continua vigilanza e controllo. L’amore vuole mosse sbagliate, il coraggio di precipitare le sorti, di distruggere le proprie difese, di esporsi al gioco altrui e all’altrui decisione, ma a lui questo era del tutto restio. Per natura.»
Sarà per questo che non diventerò mai una campionessa di scacchi! ;-)
Voto: 3/5
Il libro di Fabio Stassi, bibliotecario di Viterbo che lavora a Roma, è senza ombra di dubbio un libro originale. Racconta la storia romanzata di José Raùl Capablanca, un famoso scacchista cubano che fu campione del mondo negli anni tra le due guerre, dal 1921 e il 1927.
In particolare, il romanzo narra della storica rivalità di Capablanca con il campione russo Aleksandr Alechin, rivalità che nell'ultima parte della vita di Capablanca diventa ossessione finalizzata a ottenere una rivincita a qualunque costo.
L'originalità del romanzo sta non solo nei suoi contenuti narrativi, ma anche nella sua struttura formale che rivela solo alla conclusione una connessione profonda con il suo tema portante, ossia gli scacchi.
Non rivelerò la sorpresa che l'autore ci riserva alla fine del libro, dopo averci incuriosito durante tutta la lettura per la brevità dei capitoli, veri e propri flash che illuminano momenti e dettagli della vita di Capablanca per permetterci di comporre il quadro di insieme.
È chiaro che gli scacchi sono per Capablanca - e forse anche per Stassi - una vera e propria metafora della vita, la cui sostanza può essere ricondotta ad aperture, chiusure, mosse sbagliate e altre indovinate, calcolo, strategia, ma anche concentrazione e passione.
In questo senso, tra i passi che mi sono piaciuti di più c'è certamente il seguente:
«Le donne che aveva avuto se le ricordava tutte […] ma ancora di più, e con una precisione assoluta, si ricordava di tutte quelle che avrebbe voluto baciare e non aveva baciato. Per un errore di calcolo, un contrattempo banale o, al contrario, per aver condotto un gioco eccellente, ma incapace di affrancarsi da uno stato di continua vigilanza e controllo. L’amore vuole mosse sbagliate, il coraggio di precipitare le sorti, di distruggere le proprie difese, di esporsi al gioco altrui e all’altrui decisione, ma a lui questo era del tutto restio. Per natura.»
Sarà per questo che non diventerò mai una campionessa di scacchi! ;-)
Voto: 3/5
martedì 4 marzo 2014
12 anni schiavo
Non ero intenzionata ad andare a vedere l'ultimo film di Steve McQueen, a causa dei pregiudizi in me sollecitati dalla lettura di alcune recensioni e dalla visione del trailer che mi avevano fatto pensare a un prodotto convenzionale e troppo melodrammatico (cosa non del tutto falsa!).
E invece poi - complice un weekend sulle colline marchigiane insieme a M. - ci sono andata perché questo era il film offerto in zona! ;-)
Ebbene, ho dovuto ricredermi.
Certamente si tratta di un film di pura costruzione hollywoodiana, il che è decisamente anomalo per McQueen e forse per questo un po' spiazzante.
A questa confezione hollywoodiana, però, McQueen conferisce la forza emotiva, espressiva e visiva di cui ci ha dato prova nei suoi film precedenti.
Ebbene, a mia memoria nessun film prima di questo era riuscito a raccontare la schiavitù in modo così potente, sfaccettato e complesso. E soprattutto mi pare che per McQueen la storia di Solomon Northup (Chiwetel Ejiofor) sia - pur nella sua rappresentatività di una vicenda storicamente e geograficamente determinata - un'occasione per parlare ancora una volta dell'umanità e per esplorare i meandri più nascosti e profondi della morale umana.
Al di là del piano narrativo, che con tutta evidenza serve principalmente a rendere più leggibile l'analisi sociale e psicologica, su tutto il film aleggiano domande universali e senza tempo.
Di quali orrori e atrocità è capace l'essere umano come singolo e tanto più come appartenente a un gruppo (ovvero una classe sociale, un popolo, una razza) quando considera un altro individuo (o un altro gruppo) non solo inferiore, ma anche privo di qualunque valore, merce di scambio, oggetto di sfruttamento? Si può davvero sopravvivere alla disumanizzazione che una forzata e terribile lotta per la sopravvivenza produce? A quali irrisolvibili dilemmi morali è posto di fronte un uomo che deve scegliere tra la propria vita e la vita di un'altra persona?
La storia di Solomon è un'ulteriore possibile variante delle dinamiche perverse e disumane che si producono quando in un determinato contesto le persone si dividono in aguzzini e vittime, e dentro ognuno di questi ruoli perdono i filtri sociali e morali della convivenza umana e mettono a nudo la propria istintività animale, in una brutale rappresentazione di un darwiniano processo di selezione.
A McQueen interessa in fondo sempre la stessa cosa: l'essenza dell'uomo quando viene messa a nudo dal cadere dei filtri imposti dalla società e dall'educazione. Situazioni estreme che palesano la condanna dell'uomo, in quanto soggetto alla più elementari leggi della natura, ma anche costretto in qualche modo, dalla riflessività sulle proprie azioni, a fare i conti con la propria coscienza.
A tutto questo si aggiungano le prove straordinariamente convincenti di Chiwetel Ejiofor e di Michael Fassbender.
In conclusione, vi aspetta un film di un forte impatto emotivo, che non fa sconti e che farete fatica a non sentire sotto la pelle, se non alzerete barriere difensive di qualche genere.
Abbiate coraggio e andate a vederlo!
Voto: 4/5
E invece poi - complice un weekend sulle colline marchigiane insieme a M. - ci sono andata perché questo era il film offerto in zona! ;-)
Ebbene, ho dovuto ricredermi.
Certamente si tratta di un film di pura costruzione hollywoodiana, il che è decisamente anomalo per McQueen e forse per questo un po' spiazzante.
A questa confezione hollywoodiana, però, McQueen conferisce la forza emotiva, espressiva e visiva di cui ci ha dato prova nei suoi film precedenti.
Ebbene, a mia memoria nessun film prima di questo era riuscito a raccontare la schiavitù in modo così potente, sfaccettato e complesso. E soprattutto mi pare che per McQueen la storia di Solomon Northup (Chiwetel Ejiofor) sia - pur nella sua rappresentatività di una vicenda storicamente e geograficamente determinata - un'occasione per parlare ancora una volta dell'umanità e per esplorare i meandri più nascosti e profondi della morale umana.
Al di là del piano narrativo, che con tutta evidenza serve principalmente a rendere più leggibile l'analisi sociale e psicologica, su tutto il film aleggiano domande universali e senza tempo.
Di quali orrori e atrocità è capace l'essere umano come singolo e tanto più come appartenente a un gruppo (ovvero una classe sociale, un popolo, una razza) quando considera un altro individuo (o un altro gruppo) non solo inferiore, ma anche privo di qualunque valore, merce di scambio, oggetto di sfruttamento? Si può davvero sopravvivere alla disumanizzazione che una forzata e terribile lotta per la sopravvivenza produce? A quali irrisolvibili dilemmi morali è posto di fronte un uomo che deve scegliere tra la propria vita e la vita di un'altra persona?
La storia di Solomon è un'ulteriore possibile variante delle dinamiche perverse e disumane che si producono quando in un determinato contesto le persone si dividono in aguzzini e vittime, e dentro ognuno di questi ruoli perdono i filtri sociali e morali della convivenza umana e mettono a nudo la propria istintività animale, in una brutale rappresentazione di un darwiniano processo di selezione.
A McQueen interessa in fondo sempre la stessa cosa: l'essenza dell'uomo quando viene messa a nudo dal cadere dei filtri imposti dalla società e dall'educazione. Situazioni estreme che palesano la condanna dell'uomo, in quanto soggetto alla più elementari leggi della natura, ma anche costretto in qualche modo, dalla riflessività sulle proprie azioni, a fare i conti con la propria coscienza.
A tutto questo si aggiungano le prove straordinariamente convincenti di Chiwetel Ejiofor e di Michael Fassbender.
In conclusione, vi aspetta un film di un forte impatto emotivo, che non fa sconti e che farete fatica a non sentire sotto la pelle, se non alzerete barriere difensive di qualche genere.
Abbiate coraggio e andate a vederlo!
Voto: 4/5
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