Non so chi sei / Cristina Portolano. Milano: Rizzoli Lizard, 2017.
Su un argomento similare avevo letto qualche tempo fa un altro graphic novel, Love addict di Koren Shadmi. Se dunque il tema non è nuovo, l'amore e il sesso ai tempi di Tinder e delle app di incontri, il graphic novel di Cristina Portolano è invece originale e coraggioso nella misura in cui protagonista di questa storia è una donna, nella fattispecie la stessa autrice che ne fa un racconto semiautobiografico.
La protagonista, dopo la fine di una lunga convivenza con una donna, decide di riprendere confidenza con se stessa, con il proprio corpo e con il mondo maschile circostante iscrivendosi a Tinder, e di questa esperienza ci racconta - senza ipocrisie o moralismi - tutte le fasi, dall'entusiasmo, alla dipendenza, infine alla noia.
Quello di Cristina Portolano è un viaggio sincero nella sessualità e nei desideri femminili, da un lato evitando l'estetizzazione dell'esperienza sessuale (i corpi da lei disegnati - pur essenziali - sono molto realistici nella loro imperfezione), dall'altro dando dignità e visibilità a un punto di vista femminile non stereotipato e fintamente sottomesso, ma libero e consapevole delle proprie necessità.
Cristina Portolano presenta la sessualità come uno strumento di conoscenza di sé, con tutti i rischi che l'incontro intimo con un'altra persona comporta e con l'inevitabile gestione di emozioni e delusioni che comporta, ma forte della consapevolezza che il binomio tra amore e sesso è il risultato di una costruzione sociale più che di una nostra naturale propensione.
Il racconto a fumetti - pur essendo realistico e senza pudori anche nella rappresentazione dell'atto sessuale - riesce ad assurgere a una dimensione sospesa e a tratti quasi poetica grazie ad alcune interessanti scelte grafiche: fatti salvi i flashback con cui Cristina ricorda o sogna momenti di frustrazione della sua vita di coppia (che sono disegnati in scala di grigi), tutto l'albo è in nero e rosa, un rosa quasi confetto che certo richiama il colore dei corpi ma al contempo sembra ricoprire tutto di una sorta di innocenza; il disegno poi - come accennato - è fondamentalmente realistico, ma non disdegna l'utilizzo della deformazione o del rimpicciolimento dei corpi per rappresentare emozioni e sensazioni.
L'aspetto però in definitiva più lodevole dell'albo della Portolano sta nella semplicità dell'approccio: l'autrice non pretende di proporre riflessioni complesse, né di dare lezioni a nessuno, bensì racconta un'esperienza che non vuole essere rappresentativa se non di se stessa.
In questo modo realizza lo straordinario obiettivo di togliere il velo da una realtà che la società e spesso anche la letteratura e l'arte nascondono semplicemente ignorando, ossia che la sessualità è una dimensione dell'essere umano, uomo o donna che sia, e un approccio libero e consapevole a essa - finché si garantisce rispetto reciproco - è un diritto legittimo di ogni individuo, la cui stigmatizzazione è frutto solo di pregiudizi e - nel caso specifico delle donne - di un maschilismo imperante, che anche inconsciamente abbiamo interiorizzato, noi donne per prime.
Voto: 3,5/5
lunedì 30 luglio 2018
venerdì 27 luglio 2018
La scuola delle mogli / con Arturo Cirillo. Il giardino ritrovato, Palazzo Venezia, 24 luglio 2018
Arturo Cirillo è stato per me e F. una costante della stagione teatrale appena conclusa. Dopo averlo apprezzato in Notturno di donna con ospiti siamo tornate ad ammirarlo nel lavoro teatrale di Giuseppe Patroni Griffi, Scende giù per Toledo, con cui ci ha definitivamente conquistate non solo per la sua bravura, ma anche per la sua energia vitale.
Così siamo tornate a seguirlo anche all'aperto, ne La scuola delle mogli di Molière, per la rassegna Artcity 2018, nello splendido scenario del giardino di palazzo Venezia. E devo dire che anche assistere a uno spettacolo teatrale all'aperto si è rivelata un'esperienza valida anche di per se stessa.
L'opera portata in scena da Cirillo, che non ne è solo attore principale bensì anche regista, è un lavoro tardo di Molière e per questo considerata espressione della maturità artistica e personale del commediografo francese.
La storia è quella di Arnolfo, che ora si fa chiamare Del Ramo, il quale dopo aver vissuto una vita prendendosi gioco dei mariti traditi dalle mogli e averne sparlato a destra e a manca, ha deciso di sposarsi anche lui. Prenderà in moglie Agnese, una donna molto più giovane di lui che si è messo in casa da piccola salvandola da una condizione di povertà e ha educato alla totale ingenuità e innocenza, per mantenerla in uno stato di sudditanza psicologica ed economica ed essere sicuro di non finire tradito.
Il suo amico Crisaldo dubita di questa strategia e tenta di farlo ragionare ma senza successo.
Intanto Arnolfo, rientrato da un viaggio, è pronto a chiedere ad Agnese di sposarlo, quando scopre che Orazio, il figlio del suo amico Oronte, durante la sua assenza, ha incontrato la giovane e si è innamorato di lei.
Tutti i tentativi di Arnolfo di rompere il legame tra i due giovani naufragano miseramente cosicché alla fine dovrà rassegnarsi e rinunciare a lei.
Il testo di Molière, secondo alcuni parzialmente autobiografico, e qui proposto nella traduzione del grande Cesare Garboli, appare a prima vista un testo datato, che utilizza struttura e meccanismi della commedia classica alla Plauto per raccontare vizi e virtù di un mondo che non c'è più. E invece dietro gli stilemi di questo tipo di rappresentazione troviamo le tracce della persistenza di una società misogina e maschilista che vede nelle donne dotate di mezzi, intelligenza e capacità un pericolo per l'uomo. Quello di Arnolfo è un vero e proprio esperimento sociale che consiste nel deprivare la donna di tutti gli strumenti garantiti da educazione, cultura e risorse economiche allo scopo di annullarne la volontà e i desideri. Ne emergerà che l'intelligenza del cuore, la sensibilità e l'amore sono in grado di bypassare qualunque sovrastruttura e indicare ad Agnese la strada da percorrere e le scelte più giuste da fare per se stessa.
In un certo senso, La scuola delle mogli è la storia di un riscatto, quello di una donna che può trovare dentro se stessa le risposte ai casi che la vita le mette davanti, anche quando non ha altri strumenti cui attingere.
Alla fine si fa quasi il tifo per Agnese che si libera dal suo stato di minorità scegliendo di accettare la proposta di Orazio e dimostrandosi persino più accorta e intelligente di quest'ultimo, mentre per Arnolfo si prova un senso di pietà per essere alla fine rimasto vittima del suo stesso gioco, mentre si vanno rivelando le ragioni profonde del suo cinismo che nasconde in realtà una estrema fragilità.
Voto: 3,5/5
Così siamo tornate a seguirlo anche all'aperto, ne La scuola delle mogli di Molière, per la rassegna Artcity 2018, nello splendido scenario del giardino di palazzo Venezia. E devo dire che anche assistere a uno spettacolo teatrale all'aperto si è rivelata un'esperienza valida anche di per se stessa.
L'opera portata in scena da Cirillo, che non ne è solo attore principale bensì anche regista, è un lavoro tardo di Molière e per questo considerata espressione della maturità artistica e personale del commediografo francese.
La storia è quella di Arnolfo, che ora si fa chiamare Del Ramo, il quale dopo aver vissuto una vita prendendosi gioco dei mariti traditi dalle mogli e averne sparlato a destra e a manca, ha deciso di sposarsi anche lui. Prenderà in moglie Agnese, una donna molto più giovane di lui che si è messo in casa da piccola salvandola da una condizione di povertà e ha educato alla totale ingenuità e innocenza, per mantenerla in uno stato di sudditanza psicologica ed economica ed essere sicuro di non finire tradito.
Il suo amico Crisaldo dubita di questa strategia e tenta di farlo ragionare ma senza successo.
Intanto Arnolfo, rientrato da un viaggio, è pronto a chiedere ad Agnese di sposarlo, quando scopre che Orazio, il figlio del suo amico Oronte, durante la sua assenza, ha incontrato la giovane e si è innamorato di lei.
Tutti i tentativi di Arnolfo di rompere il legame tra i due giovani naufragano miseramente cosicché alla fine dovrà rassegnarsi e rinunciare a lei.
Il testo di Molière, secondo alcuni parzialmente autobiografico, e qui proposto nella traduzione del grande Cesare Garboli, appare a prima vista un testo datato, che utilizza struttura e meccanismi della commedia classica alla Plauto per raccontare vizi e virtù di un mondo che non c'è più. E invece dietro gli stilemi di questo tipo di rappresentazione troviamo le tracce della persistenza di una società misogina e maschilista che vede nelle donne dotate di mezzi, intelligenza e capacità un pericolo per l'uomo. Quello di Arnolfo è un vero e proprio esperimento sociale che consiste nel deprivare la donna di tutti gli strumenti garantiti da educazione, cultura e risorse economiche allo scopo di annullarne la volontà e i desideri. Ne emergerà che l'intelligenza del cuore, la sensibilità e l'amore sono in grado di bypassare qualunque sovrastruttura e indicare ad Agnese la strada da percorrere e le scelte più giuste da fare per se stessa.
In un certo senso, La scuola delle mogli è la storia di un riscatto, quello di una donna che può trovare dentro se stessa le risposte ai casi che la vita le mette davanti, anche quando non ha altri strumenti cui attingere.
Alla fine si fa quasi il tifo per Agnese che si libera dal suo stato di minorità scegliendo di accettare la proposta di Orazio e dimostrandosi persino più accorta e intelligente di quest'ultimo, mentre per Arnolfo si prova un senso di pietà per essere alla fine rimasto vittima del suo stesso gioco, mentre si vanno rivelando le ragioni profonde del suo cinismo che nasconde in realtà una estrema fragilità.
Voto: 3,5/5
mercoledì 25 luglio 2018
Tito e gli alieni
Grazie alle rassegne estive e in compagnia di mio nipote in visita a Roma, ho recuperato Tito e gli alieni che era uscito nell'ultima parte della stagione cinematografica e avevo perso.
La storia è molto semplice.
Siamo alla fine degli anni Settanta. Tito e Anita, due fratelli napoletani, il primo di 7 anni e l'altra adolescente, già orfani di madre, rimangono soli dopo la morte del padre. Quest'ultimo prima di morire ha deciso - comunicandoglielo solo a cose fatte - di affidare i figli al fratello (Valerio Mastandrea), uno scienziato che vive negli Stati Uniti, a un passo dall'Area 51, dove conduce un esperimento per conto del governo americano.
In realtà, il professore passa metà del suo tempo a realizzare strani e buffi oggetti con materiali di scarto e l'altra metà a dormire su un divano, in quanto dopo la morte della moglie ha praticamente accantonato il suo esperimento e si limita a sopravvivere, riducendo al minimo i suoi contatti col mondo, solo nel suo bislacco mondo in cui sembra avere interesse solo a continuare ad alimentare il ricordo e il dolore. L'arrivo dei due ragazzi metterà fine alla sua mesta quotidianità e al suo isolamento, costringendolo a fare i conti non più solo con il proprio dolore, ma anche con quello di Tito e Anita, a loro volta costretti a elaborare un lutto pesante a migliaia di chilometri da casa, sperduti nel deserto del Nevada, ma al contempo desiderosi di incontrare la vita che li aspetta.
Determinante sarà il ruolo di Stella (Clémence Poésy), una giovane donna che organizza "matrimoni spaziali" nella zona e per hobby si occupa di manicure, e che è una dei numerosi personaggi borderline che vivono esiliati da se stessi nei camper che compongono il paesino di Rachel, il punto "urbanizzato" più vicino a dove vive il professore.
La forza della vita che pretende di andare avanti, senza per questo lasciar scomparire i ricordi, farà irruzione nella quotidianità del professore grazie a Tito e Anita i quali - pur dovendo fare i conti con la solitudine - portano con sé l'inevitabile vitalità della loro età, la necessità di conoscere la vita, il desiderio di avventura, l'ansia della scoperta, la fiammella della ribellione, il bisogno di amare e di essere amati.
In un'atmosfera sempre più grottesca e surreale il professore si vedrà costretto - per il bene dei suoi nipoti - a uscire dalla propria condizione catatonica e infine a riprendere il suo esperimento, trovando negli esiti dello stesso la risposta al proprio dolore e a quello di Tito e Anita.
Quello di Paola Randi è un film di pochi mezzi (forse utilizzati in gran parte per girare negli splendidi e un po' inquietanti paesaggi lunari del cuore dell'America) che si regge fondamentalmente su alcuni elementi: una bella fotografia, una trascinante colonna sonora (che diventa a tratti intradiegetica), un uso moderno della cinepresa e del linguaggio cinematografico (vedi i cambiamenti di formato dello schermo di dolaniana memoria e qui anche ben utilizzati a rappresentare l'apertura al mondo e alla vita del professore), infine - e non ultima - la forza di un'idea semplice. Raccontare cosa vuol dire fare i conti con il passato e ricominciare a guardare avanti, lasciandosi nuovamente andare al flusso potente della vita.
E lo fa all'interno di questa cornice a metà strada tra la fantascienza e il surreale, dentro un mondo alla deriva dello spazio e del tempo, abitato da oggetti e da persone che in un qualche momento sono stati scartati o sono rimasti indietro. Ma, come nel piccolo mondo del professore non c'è oggetto scartato che la creatività non possa riciclare a nuova vita, così nel grande mondo in cui viviamo non c'è persona che non abbia possibilità di riscatto e che non possa trovare il senso della propria esistenza per quanto originale e poco comprensibile.
Voto: 3/5
La storia è molto semplice.
Siamo alla fine degli anni Settanta. Tito e Anita, due fratelli napoletani, il primo di 7 anni e l'altra adolescente, già orfani di madre, rimangono soli dopo la morte del padre. Quest'ultimo prima di morire ha deciso - comunicandoglielo solo a cose fatte - di affidare i figli al fratello (Valerio Mastandrea), uno scienziato che vive negli Stati Uniti, a un passo dall'Area 51, dove conduce un esperimento per conto del governo americano.
In realtà, il professore passa metà del suo tempo a realizzare strani e buffi oggetti con materiali di scarto e l'altra metà a dormire su un divano, in quanto dopo la morte della moglie ha praticamente accantonato il suo esperimento e si limita a sopravvivere, riducendo al minimo i suoi contatti col mondo, solo nel suo bislacco mondo in cui sembra avere interesse solo a continuare ad alimentare il ricordo e il dolore. L'arrivo dei due ragazzi metterà fine alla sua mesta quotidianità e al suo isolamento, costringendolo a fare i conti non più solo con il proprio dolore, ma anche con quello di Tito e Anita, a loro volta costretti a elaborare un lutto pesante a migliaia di chilometri da casa, sperduti nel deserto del Nevada, ma al contempo desiderosi di incontrare la vita che li aspetta.
Determinante sarà il ruolo di Stella (Clémence Poésy), una giovane donna che organizza "matrimoni spaziali" nella zona e per hobby si occupa di manicure, e che è una dei numerosi personaggi borderline che vivono esiliati da se stessi nei camper che compongono il paesino di Rachel, il punto "urbanizzato" più vicino a dove vive il professore.
La forza della vita che pretende di andare avanti, senza per questo lasciar scomparire i ricordi, farà irruzione nella quotidianità del professore grazie a Tito e Anita i quali - pur dovendo fare i conti con la solitudine - portano con sé l'inevitabile vitalità della loro età, la necessità di conoscere la vita, il desiderio di avventura, l'ansia della scoperta, la fiammella della ribellione, il bisogno di amare e di essere amati.
In un'atmosfera sempre più grottesca e surreale il professore si vedrà costretto - per il bene dei suoi nipoti - a uscire dalla propria condizione catatonica e infine a riprendere il suo esperimento, trovando negli esiti dello stesso la risposta al proprio dolore e a quello di Tito e Anita.
Quello di Paola Randi è un film di pochi mezzi (forse utilizzati in gran parte per girare negli splendidi e un po' inquietanti paesaggi lunari del cuore dell'America) che si regge fondamentalmente su alcuni elementi: una bella fotografia, una trascinante colonna sonora (che diventa a tratti intradiegetica), un uso moderno della cinepresa e del linguaggio cinematografico (vedi i cambiamenti di formato dello schermo di dolaniana memoria e qui anche ben utilizzati a rappresentare l'apertura al mondo e alla vita del professore), infine - e non ultima - la forza di un'idea semplice. Raccontare cosa vuol dire fare i conti con il passato e ricominciare a guardare avanti, lasciandosi nuovamente andare al flusso potente della vita.
E lo fa all'interno di questa cornice a metà strada tra la fantascienza e il surreale, dentro un mondo alla deriva dello spazio e del tempo, abitato da oggetti e da persone che in un qualche momento sono stati scartati o sono rimasti indietro. Ma, come nel piccolo mondo del professore non c'è oggetto scartato che la creatività non possa riciclare a nuova vita, così nel grande mondo in cui viviamo non c'è persona che non abbia possibilità di riscatto e che non possa trovare il senso della propria esistenza per quanto originale e poco comprensibile.
Voto: 3/5
lunedì 23 luglio 2018
La canzone del ritorno/ David Trueba
La canzone del ritorno / David Trueba; trad. di Pino Cacucci. Milano: Feltrinelli, 2017.
L'idea di leggere questo libro è nata quando ero andata al festival del cinema spagnolo a vedere il film di maggior successo di Trueba, Vivir es facil con los ojos cerrados. E lì c'era Trueba in persona venuto a presentare il suo libro da poco uscito in Italia, La canzone del ritorno, che in originale si chiama Tierra de Campos (e chi legge il libro capirà perché).
Trueba mi aveva incuriosito e affascinato per il suo modo di parlare e così avevo messo il libro in cima alla mia lista dei desideri. Quando stavo per partire per la mia vacanza in bicicletta ho deciso che era il libro perfetto da portare con me. E non mi sbagliavo.
Il libro di Trueba racconta la storia di Dani Mosca - nome d'arte di un cantante di mezza età, separato da Kei, una donna giapponese, padre di due figli, con un discreto successo alle spalle - il quale decide, a un anno dalla morte del padre, di portare la sua salma al paese natale per seppellirla lì.
Il viaggio verso il paese del padre (dove lui ha trascorso solo qualche estate) e la festa organizzata dai compaesani per il suo arrivo saranno l'occasione di numerosi flashback sulla sua vita, non necessariamente raccontati in ordine cronologico ma seguendo il flusso dei ricordi.
Vedremo così la vita di quest'uomo e delle persone che lo hanno circondato scorrerci davanti agli occhi: la storia di suo padre e sua madre, il suo rapporto con i genitori, la passione per la musica e il modo in cui la musica è diventata un lavoro, gli amici - da quelli storici come Gus e Animal con cui mette su la band a quelli arrivati più avanti nella vita -, gli amori, da quelli infantili a quelli della giovinezza e dell'età adulta, in particolare Oliva e Kei, i tradimenti, le delusioni, le rivelazioni. La vita insomma con tutto quello che porta con sé e tutte le riflessioni che accompagnano le sue varie età.
Non a caso la narrazione si articola come un disco 45 giri, in un lato A e un lato B che sostanzialmente corrispondono alle fasi diciamo così ascendente e discendente dell'esistenza, senza però che ciò abbia una connotazione necessariamente negativa perché l'esperienza e il suo corso aiutano a ridimensionare molte cose e dunque anche a prendere la quotidianità con maggiore filosofia.
Nel libro di Trueba si respira un acutissimo amore per la vita, non solo per la felicità che porta con sé ma anche e soprattutto per la sorprendente varietà dell'esistenza con tutto quello che di positivo e negativo implica.
Dani Mosca non pretende di raccontare una storia universale, bensì la propria storia che in quanto tale è unica. E però in essa a più riprese riconosciamo i tratti comuni dell'umanità, quelli che per tutti diventano più chiari e riconoscibili soprattutto nel lato B della vita.
In questo senso La canzone del ritorno è probabilmente un libro soprattutto da 40-50enni, un libro di bilanci, quelli tipici del momento in cui si è superata la metà della propria esistenza.
E però quello di Trueba - pur essendo inevitabilmente venato di malinconia - è soprattutto un racconto ironico e autoironico, finalizzato a celebrare la bellezza della vita anche nella sua instabilità e nelle sue tristezze. Una specie di immenso grazie per aver avuto la possibilità di fare questo passaggio chiamato vita su questa terra.
Voto: 4/5
L'idea di leggere questo libro è nata quando ero andata al festival del cinema spagnolo a vedere il film di maggior successo di Trueba, Vivir es facil con los ojos cerrados. E lì c'era Trueba in persona venuto a presentare il suo libro da poco uscito in Italia, La canzone del ritorno, che in originale si chiama Tierra de Campos (e chi legge il libro capirà perché).
Trueba mi aveva incuriosito e affascinato per il suo modo di parlare e così avevo messo il libro in cima alla mia lista dei desideri. Quando stavo per partire per la mia vacanza in bicicletta ho deciso che era il libro perfetto da portare con me. E non mi sbagliavo.
Il libro di Trueba racconta la storia di Dani Mosca - nome d'arte di un cantante di mezza età, separato da Kei, una donna giapponese, padre di due figli, con un discreto successo alle spalle - il quale decide, a un anno dalla morte del padre, di portare la sua salma al paese natale per seppellirla lì.
Il viaggio verso il paese del padre (dove lui ha trascorso solo qualche estate) e la festa organizzata dai compaesani per il suo arrivo saranno l'occasione di numerosi flashback sulla sua vita, non necessariamente raccontati in ordine cronologico ma seguendo il flusso dei ricordi.
Vedremo così la vita di quest'uomo e delle persone che lo hanno circondato scorrerci davanti agli occhi: la storia di suo padre e sua madre, il suo rapporto con i genitori, la passione per la musica e il modo in cui la musica è diventata un lavoro, gli amici - da quelli storici come Gus e Animal con cui mette su la band a quelli arrivati più avanti nella vita -, gli amori, da quelli infantili a quelli della giovinezza e dell'età adulta, in particolare Oliva e Kei, i tradimenti, le delusioni, le rivelazioni. La vita insomma con tutto quello che porta con sé e tutte le riflessioni che accompagnano le sue varie età.
Non a caso la narrazione si articola come un disco 45 giri, in un lato A e un lato B che sostanzialmente corrispondono alle fasi diciamo così ascendente e discendente dell'esistenza, senza però che ciò abbia una connotazione necessariamente negativa perché l'esperienza e il suo corso aiutano a ridimensionare molte cose e dunque anche a prendere la quotidianità con maggiore filosofia.
Nel libro di Trueba si respira un acutissimo amore per la vita, non solo per la felicità che porta con sé ma anche e soprattutto per la sorprendente varietà dell'esistenza con tutto quello che di positivo e negativo implica.
Dani Mosca non pretende di raccontare una storia universale, bensì la propria storia che in quanto tale è unica. E però in essa a più riprese riconosciamo i tratti comuni dell'umanità, quelli che per tutti diventano più chiari e riconoscibili soprattutto nel lato B della vita.
In questo senso La canzone del ritorno è probabilmente un libro soprattutto da 40-50enni, un libro di bilanci, quelli tipici del momento in cui si è superata la metà della propria esistenza.
E però quello di Trueba - pur essendo inevitabilmente venato di malinconia - è soprattutto un racconto ironico e autoironico, finalizzato a celebrare la bellezza della vita anche nella sua instabilità e nelle sue tristezze. Una specie di immenso grazie per aver avuto la possibilità di fare questo passaggio chiamato vita su questa terra.
Voto: 4/5
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