All'interno di un panorama del cinema italiano tendenzialmente ripiegato sulla dimensione privata o sociale e oscillante tra la commedia più o meno impegnata e il registro drammatico, il film di Matteo Rovere (già regista dell'apprezzato Veloce come il vento, che io però non ho visto) rappresenta un'operazione coraggiosa e certamente ambiziosa.
Il primo re racconta infatti la storia di Romolo (Alessio Lapice) e Remo (Alessandro Borghi) e della loro estenuante lotta per la sopravvivenza in un'epoca di feroce violenza e per la conquista di una terra dove fondare una nuova città che diventerà nel giro di qualche secolo il grande impero romano.
Siamo nel I sec. a.C. e l'uomo è ancora totalmente indifeso di fronte a una natura prevalente e minacciosa: Romolo e Remo vengono sopresi da un'alluvione che spazza via la loro terra e li rende prigionieri della popolazione di Alba, lasciando Romolo in fin di vita. Destinati a morte certa, i due fratelli guidano la rivolta dei prigionieri e scappano portando con sé il fuoco sacro e la vestale che lo protegge, alla ricerca di un luogo sicuro dove stanziarsi. Individuano questo luogo sull'altra sponda del Tevere che però, per essere raggiunta, richiede l'attraversamento di una foresta abitata da spiriti maligni e da sanguinari guerrieri.
È il coraggio di Remo che, oltre a proteggere e salvare il fratello in più circostanze, permette a questa "accozzaglia" di derelitti senza patria di sconfiggere i nemici che incontrano sul loro cammino e di raggiungere la "terra promessa". Sui due fratelli incombe però il volere degli dei, presagito grazie all'arte aruspicina, che preannuncia la morte di uno dei due fratelli per mano dell'altro e la nascita del nuovo regno.
Da un lato c'è Remo il cui coraggio, forza, carisma e abnegazione rendono naturalmente capo di questa costituenda comunità (il vero "primo re"), ma che non riconosce la superiorità divina e si fa sempre più tracotante e sprezzante, dall'altro c'è un Romolo debole e sofferente, totalmente sottomesso alla divinità e che finirà per compierne la volontà uccidendo il fratello.
Ironicamente si potrebbe commentare che questa grande civiltà da cui proveniamo poteva nascere da un uomo che credeva in sé stesso e nelle potenzialità dell'umanità piuttosto che in un destino determinato dalla volontà degli dei, e invece è finita nelle mani di un uomo che mette il suo futuro regno sotto la protezione della divinità.
Non sono in grado di dire, né mi interessa particolarmente verificare quanta e quale parte della narrazione de Il primo re corrisponda alla verità storica, anche perché si tratterebbe quasi certamente di un'operazione quasi impossibile visto che parliamo di un'epoca le cui fonti attingono più spesso al mito e alla leggenda che alla realtà di fatti pressoché inconoscibili.
La narrazione di Mattia Rovere appare però convincente e verosimile - entro i limiti del possibile - e ci catapulta in un mondo in cui il confine tra la vita e la morte è incredibilmente labile e la sopravvivenza passa inevitabilmente attraverso la guerra e la violenza degli uomini contro gli uomini, ma anche contro la natura. La scelta delle ambientazioni (con le bellissime immagini di Daniele Ciprì in una foresta dai cui alberi filtra la luce del sole e dal cui terreno sale la nebbia) conferisce a questo film un'atmosfera quasi priva di artificiosità (anni luce lontana ad esempio da film come 300), richiamando alla mente semmai lo stile di alcuni film di Mel Gibson come Apocalypto e anche La passione di Cristo. Anche l'uso di un latino arcaico, sottotitolato in italiano, appare coerente con le scelte di fondo.
Se non amate gli scontri cruenti tra uomini che lottano a mani nude e con armi primitive e lo schizzare del sangue forse non è il film per voi (e in parte non lo è neanche per me), ma l'operazione compiuta da Matteo Rovere - anche grazie ai soldi belgi - riporta il cinema italiano a un genere ormai dimenticato e lo fa con cura e attenzione e senza calcare eccessivamente la mano - a parte pochi passaggi - su un'epicità fine a sé stessa.
Voto: 3,5/5
mercoledì 27 febbraio 2019
lunedì 25 febbraio 2019
Winston vs Churchill. Teatro Ambra Jovinelli, 21 febbraio 2019
Quello raccontato da Carlo G. Gabardini, l'autore del testo da cui è tratto questo spettacolo, è un Winston Churchill ormai alla fine della sua lunghissima vita (morì a 90 anni). Appesantito nel fisico e nell'animo, malato, ostaggio dei propri vizi (il sigaro, l'alcol, le droghe), l'uomo Winston ci mostra sul palco i suoi umori altalenanti, l'ammirazione per l'indipendenza del suo gatto, i traumi del passato, il difficile rapporto con i genitori, l'amore per le citazioni, in un duetto con la sua infermiera che oscilla tra il giocoso e il sarcastico.
In questa sua dimensione di decadimento, che a tratti indispone e a tratti suscita pietà e commozione, irrompe però in maniera talvolta prepotente Churchill, lo statista che è stato protagonista indiscusso della storia mondiale del Novecento: attraverso la sua memoria entriamo in contatto con il Churchill che ebbe un ruolo determinante durante la seconda guerra mondiale nella resistenza della Gran Bretagna a Hitler e nella successiva vittoria degli alleati, ma anche quello che andò incontro a grandi fallimenti come la campagna di Gallipoli, che causò la morte di migliaia di giovani.
Pur all'interno di un carattere assertivo e consapevole del suo ruolo, Winston non può sfuggire ai tormenti determinati dalle sue azioni e dalle decisioni che ha dovuto prendere nell'esercizio della sua funzione pubblica.
Ne emerge una figura controversa e sfaccettata, adorabilmente ironica e detestabilmente sarcastica, che non a caso è stata oggetto di grandi critiche e altrettanto grandi elogi.
In una scenografia in cui, all'interno di una collinetta dal fondale quasi lunare circondata da un cerchio di luci, si trovano pochi oggetti - una poltrona, un telefono, una radio - Giuseppe Battiston presta il suo corpo e la sua voce a un Winston Churchill che ha in parte dismesso gli abiti dello statista, ma che da un lato ne conserva tutta l'arroganza e dall'altro dimostra tutta la sua fragilità umana. La brava Maria Roveran regge molto bene il confronto e conferisce con il suo canto un ché di poetico alla messa in scena, che invece per altri versi è scossa da rotture visive e sonore determinate dagli inserti di musica rock e di luci da cabaret.
Il testo di Gabardini, portato in scena per la regia di Paola Rota, si inserisce nell'ormai ricco filone di lavori di riscoperta del personaggio di Winston Churchill (si pensi al film L'ora più buia, ma anche indirettamente al Dunkirk di Nolan), però lo fa in maniera originale e senza cedere alla retorica.
Voto: 3/5
In questa sua dimensione di decadimento, che a tratti indispone e a tratti suscita pietà e commozione, irrompe però in maniera talvolta prepotente Churchill, lo statista che è stato protagonista indiscusso della storia mondiale del Novecento: attraverso la sua memoria entriamo in contatto con il Churchill che ebbe un ruolo determinante durante la seconda guerra mondiale nella resistenza della Gran Bretagna a Hitler e nella successiva vittoria degli alleati, ma anche quello che andò incontro a grandi fallimenti come la campagna di Gallipoli, che causò la morte di migliaia di giovani.
Pur all'interno di un carattere assertivo e consapevole del suo ruolo, Winston non può sfuggire ai tormenti determinati dalle sue azioni e dalle decisioni che ha dovuto prendere nell'esercizio della sua funzione pubblica.
Ne emerge una figura controversa e sfaccettata, adorabilmente ironica e detestabilmente sarcastica, che non a caso è stata oggetto di grandi critiche e altrettanto grandi elogi.
In una scenografia in cui, all'interno di una collinetta dal fondale quasi lunare circondata da un cerchio di luci, si trovano pochi oggetti - una poltrona, un telefono, una radio - Giuseppe Battiston presta il suo corpo e la sua voce a un Winston Churchill che ha in parte dismesso gli abiti dello statista, ma che da un lato ne conserva tutta l'arroganza e dall'altro dimostra tutta la sua fragilità umana. La brava Maria Roveran regge molto bene il confronto e conferisce con il suo canto un ché di poetico alla messa in scena, che invece per altri versi è scossa da rotture visive e sonore determinate dagli inserti di musica rock e di luci da cabaret.
Il testo di Gabardini, portato in scena per la regia di Paola Rota, si inserisce nell'ormai ricco filone di lavori di riscoperta del personaggio di Winston Churchill (si pensi al film L'ora più buia, ma anche indirettamente al Dunkirk di Nolan), però lo fa in maniera originale e senza cedere alla retorica.
Voto: 3/5
venerdì 22 febbraio 2019
On love and other matters / Richard Renaldi. Bologna, Spazio Labò, 16 febbraio 2019
Durante uno dei miei weekend bolognesi, mi propongo di andare a vedere la mostra fotografica dedicata al fotografo americano Richard Renaldi (classe 1968), di cui avevo letto bene in un articolo dell'Internazionale.
Non conosco l'artista, né ho la più pallida idea (pur avendo vissuto a Bologna) di dove sia lo Spazio Labò, il luogo che ospita la mostra. Scopro che si tratta di un piccolo atelier fotografico al piano terra di un edificio che si affaccia su una corte interna di un palazzo signorile di strada Maggiore. All'esterno per fortuna c'è un totem che pubblicizza la mostra, altrimenti non credo l'avremmo mai trovato!
Il posto è molto bello, c'è una piccola anticamera, poi una saletta con una libreria piena di libri di fotografia e un grosso tavolo dove poterli consultare, e sulla parete di fronte sono appese le prime foto della mostra On love and other matters di Richard Renaldi.
Quelle esposte sono alcune delle foto che fanno parte del progetto fotografico I want your love, un progetto autobiografico dell'artista che inizia con alcune foto familiari dei primi anni Settanta e i primissimi autoscatti in bagno all'età di circa 10-11 anni per arrivare fino ad oggi con ritratti e autoritratti dell'artista ormai cinquantenne.
L'autoscatto che fissa lo sguardo su sé stesso a età diverse è una delle componenti di questo progetto e registra il cambiamento fisico di Renaldi, che anche attraverso la sua fisicità cerca di definire e imporre la sua identità, mentre attraversa le varie fasi della vita, caratterizzate dall'irrompere della sua omosessualità e dalla partecipazione all'universo gay newyorkese, dai rapporti non sempre facili con i genitori, dalle feste e dai divertimenti, da nuovi amori più o meno duraturi e fortunati (l'ultimo ormai ventennale con Seth), dalla scoperta della malattia. E però più in generale da una sostanziale gioia di vivere e partecipare appieno dell'esistenza.
Nella sala principale della mostra è collocata anche una vetrina con oggetti e piccole stampe a corredo dell'universo visivo di Renaldi raccontato in I want your love.
Alle foto stampate ed esposte si affiancano, sempre nella sala grande, due schermi : uno manda fotografie di night club e incontri di natura prevalentemente sessuale (2, Untitled work), l'altro riproduce in sequenza le centinaia di foto che compongono la serie Hotel room portraits, che ritrae Richard e Seth nelle numerosissime stanze d'albergo che hanno frequentato durante i loro viaggi in tutto il mondo.
Nella saletta in fondo alla mostra un piccolo televisore vintage riproduce le foto che fanno parte del progetto Pier 45, il luogo di New York dove un tempo si radunava la comunità LGBT di New York nonché altre minoranze della città, prima che la zona fosse oggetto di una totale riqualificazione. Sul video scorre la voce di persone che hanno vissuto il Pier 45 e che raccontano il significato e il valore che questo luogo ha avuto per loro.
Dopo aver visto la mostra ci fermiamo al tavolo di consultazione e sfogliamo il libro I want your love lì disponibile, nonché altri volumi in cui sono stati pubblicati i progetti di Renaldi. A me colpisce soprattutto quello che si intitola Touching strangers, in cui Renaldi fotografa due (o più) estranei che invita a un contatto fisico.
La mostra è molto interessante e non può non catturare l'attenzione del visitatore. Personalmente avrei gradito qualche didascalia e forse anche qualche aiuto visivo in più nello spazio espositivo per creare una più chiara corrispondenza tra le foto e i testi contenuti nell'opuscolo distribuito all'ingresso della mostra, testi che amplificano e conferiscono significati più ampi alle immagini che vediamo. Ma forse è solo perché io sono una persona che appartiene al mondo della parola prima che a quello delle immagini.
Voto: 4/5
Non conosco l'artista, né ho la più pallida idea (pur avendo vissuto a Bologna) di dove sia lo Spazio Labò, il luogo che ospita la mostra. Scopro che si tratta di un piccolo atelier fotografico al piano terra di un edificio che si affaccia su una corte interna di un palazzo signorile di strada Maggiore. All'esterno per fortuna c'è un totem che pubblicizza la mostra, altrimenti non credo l'avremmo mai trovato!
Il posto è molto bello, c'è una piccola anticamera, poi una saletta con una libreria piena di libri di fotografia e un grosso tavolo dove poterli consultare, e sulla parete di fronte sono appese le prime foto della mostra On love and other matters di Richard Renaldi.
Quelle esposte sono alcune delle foto che fanno parte del progetto fotografico I want your love, un progetto autobiografico dell'artista che inizia con alcune foto familiari dei primi anni Settanta e i primissimi autoscatti in bagno all'età di circa 10-11 anni per arrivare fino ad oggi con ritratti e autoritratti dell'artista ormai cinquantenne.
L'autoscatto che fissa lo sguardo su sé stesso a età diverse è una delle componenti di questo progetto e registra il cambiamento fisico di Renaldi, che anche attraverso la sua fisicità cerca di definire e imporre la sua identità, mentre attraversa le varie fasi della vita, caratterizzate dall'irrompere della sua omosessualità e dalla partecipazione all'universo gay newyorkese, dai rapporti non sempre facili con i genitori, dalle feste e dai divertimenti, da nuovi amori più o meno duraturi e fortunati (l'ultimo ormai ventennale con Seth), dalla scoperta della malattia. E però più in generale da una sostanziale gioia di vivere e partecipare appieno dell'esistenza.
Nella sala principale della mostra è collocata anche una vetrina con oggetti e piccole stampe a corredo dell'universo visivo di Renaldi raccontato in I want your love.
Alle foto stampate ed esposte si affiancano, sempre nella sala grande, due schermi : uno manda fotografie di night club e incontri di natura prevalentemente sessuale (2, Untitled work), l'altro riproduce in sequenza le centinaia di foto che compongono la serie Hotel room portraits, che ritrae Richard e Seth nelle numerosissime stanze d'albergo che hanno frequentato durante i loro viaggi in tutto il mondo.
Nella saletta in fondo alla mostra un piccolo televisore vintage riproduce le foto che fanno parte del progetto Pier 45, il luogo di New York dove un tempo si radunava la comunità LGBT di New York nonché altre minoranze della città, prima che la zona fosse oggetto di una totale riqualificazione. Sul video scorre la voce di persone che hanno vissuto il Pier 45 e che raccontano il significato e il valore che questo luogo ha avuto per loro.
Dopo aver visto la mostra ci fermiamo al tavolo di consultazione e sfogliamo il libro I want your love lì disponibile, nonché altri volumi in cui sono stati pubblicati i progetti di Renaldi. A me colpisce soprattutto quello che si intitola Touching strangers, in cui Renaldi fotografa due (o più) estranei che invita a un contatto fisico.
La mostra è molto interessante e non può non catturare l'attenzione del visitatore. Personalmente avrei gradito qualche didascalia e forse anche qualche aiuto visivo in più nello spazio espositivo per creare una più chiara corrispondenza tra le foto e i testi contenuti nell'opuscolo distribuito all'ingresso della mostra, testi che amplificano e conferiscono significati più ampi alle immagini che vediamo. Ma forse è solo perché io sono una persona che appartiene al mondo della parola prima che a quello delle immagini.
Voto: 4/5
mercoledì 20 febbraio 2019
Corpi Impuri / Marinella Manicardi. Casalecchio di Reno, Teatro Laura Betti, 16 febbraio 2019
Approfittando di una trasferta bolognese, accetto l'invito di S. di andare al Teatro Laura Betti di Casalecchio di Reno a vedere, insieme anche a S., R. e S., lo spettacolo di Marinella Manicardi, Corpi impuri.
Si tratta di un monologo puro, in cui l'autrice e attrice, da un palco completamente spoglio (a parte che per un'immagine proiettata su un telo prima che lo spettacolo inizi e poi a un certo punto) dialoga con il pubblico su un tema tabù, quello delle mestruazioni.
A metà strada tra il comico, il sociologico, lo storico e l'informativo, la Manicardi ci racconta che le origini del tabù per cui le mestruazioni sono qualcosa che fa ribrezzo e non sta bene parlarne, diventando una specie di marchio di infamia e inferiorità delle donne, vanno ricercate nel maschilismo imperante per secoli, anzi per millenni, e dunque nel diffuso pregiudizio che ha ritardato i progressi scientifici e ha condizionato (e condiziona) la vita delle donne.
La Manicardi per un'ora circa si muove come un folletto da una parte all'altra del palco, accompagnata dalle luci di scena, e con la sua recitazione brillante e coinvolgente ci rende partecipi di un vero e proprio viaggio nel tempo, da lei costruito a partire da una estesa attività di ricerca.
Il suo monologo non risparmia nessuno: gli uomini, la chiesa, le religioni in generale, la scienza e le stesse donne che, per ignoranza o paura, si sono spesso fatte complici della sopraffazione maschile.
Si ride molto durante lo spettacolo, ma si riflette anche tanto e si imparano cose che non è detto che tutti sappiano, come ad esempio che il delitto d'onore e il matrimonio riparatore sono stati abrogati in Italia solo nel 1981 e solo nel 1996 il reato di stupro da delitto contro la morale pubblica è diventato delitto contro la persona.
Per fortuna in coda allo spettacolo l'attrice ci ritira su il morale raccontandoci due delle pochissime barzellette da lei rinvenute sul tema delle mestruazioni (a ulteriore dimostrazione della forza di questo tabù).
Ad alcuni forse il testo della Manicardi potrà sembrare un po' vetero-femminista, ma la storia - anche recente - ci ha dimostrato che ancora non è arrivato il momento di abbassare la guardia in merito ai diritti delle donne. Inoltre, mettere in fila i fatti che raccontano ignoranza e pregiudizi nei confronti delle donne, seppure con tono leggero e divulgativo, aiuta a collocare nella giusta prospettiva alcune delle questioni femminili ancora oggi centrali. Certo, in sala gli uomini si contavano sulle dita di due mani al massimo; forse non sono interessati all'argomento, oppure pensano di sapere già tutto, o non vogliono che li si faccia sentire "corresponsabili".
Lo spettacolo della Manicardi fa il paio con quello che ho visto qualche mese fa, Perfetta, interpretato da Geppi Cucciari sul testo di Mattia Torre. E devo dire che, pur amando molto i testi di Mattia Torre, in fondo anche quello spettacolo non era altro che una dimostrazione del fatto che alla fine, persino quando si parla delle mestruazioni e lo si fa per bocca femminile, dietro c'è un uomo (per quanto un uomo intelligente, aperto e sensibile come Mattia Torre).
Non è il caso di Corpi impuri. E anche solo per questo merita tutto il nostro apprezzamento.
Voto: 3,5/5
Si tratta di un monologo puro, in cui l'autrice e attrice, da un palco completamente spoglio (a parte che per un'immagine proiettata su un telo prima che lo spettacolo inizi e poi a un certo punto) dialoga con il pubblico su un tema tabù, quello delle mestruazioni.
A metà strada tra il comico, il sociologico, lo storico e l'informativo, la Manicardi ci racconta che le origini del tabù per cui le mestruazioni sono qualcosa che fa ribrezzo e non sta bene parlarne, diventando una specie di marchio di infamia e inferiorità delle donne, vanno ricercate nel maschilismo imperante per secoli, anzi per millenni, e dunque nel diffuso pregiudizio che ha ritardato i progressi scientifici e ha condizionato (e condiziona) la vita delle donne.
La Manicardi per un'ora circa si muove come un folletto da una parte all'altra del palco, accompagnata dalle luci di scena, e con la sua recitazione brillante e coinvolgente ci rende partecipi di un vero e proprio viaggio nel tempo, da lei costruito a partire da una estesa attività di ricerca.
Il suo monologo non risparmia nessuno: gli uomini, la chiesa, le religioni in generale, la scienza e le stesse donne che, per ignoranza o paura, si sono spesso fatte complici della sopraffazione maschile.
Si ride molto durante lo spettacolo, ma si riflette anche tanto e si imparano cose che non è detto che tutti sappiano, come ad esempio che il delitto d'onore e il matrimonio riparatore sono stati abrogati in Italia solo nel 1981 e solo nel 1996 il reato di stupro da delitto contro la morale pubblica è diventato delitto contro la persona.
Per fortuna in coda allo spettacolo l'attrice ci ritira su il morale raccontandoci due delle pochissime barzellette da lei rinvenute sul tema delle mestruazioni (a ulteriore dimostrazione della forza di questo tabù).
Ad alcuni forse il testo della Manicardi potrà sembrare un po' vetero-femminista, ma la storia - anche recente - ci ha dimostrato che ancora non è arrivato il momento di abbassare la guardia in merito ai diritti delle donne. Inoltre, mettere in fila i fatti che raccontano ignoranza e pregiudizi nei confronti delle donne, seppure con tono leggero e divulgativo, aiuta a collocare nella giusta prospettiva alcune delle questioni femminili ancora oggi centrali. Certo, in sala gli uomini si contavano sulle dita di due mani al massimo; forse non sono interessati all'argomento, oppure pensano di sapere già tutto, o non vogliono che li si faccia sentire "corresponsabili".
Lo spettacolo della Manicardi fa il paio con quello che ho visto qualche mese fa, Perfetta, interpretato da Geppi Cucciari sul testo di Mattia Torre. E devo dire che, pur amando molto i testi di Mattia Torre, in fondo anche quello spettacolo non era altro che una dimostrazione del fatto che alla fine, persino quando si parla delle mestruazioni e lo si fa per bocca femminile, dietro c'è un uomo (per quanto un uomo intelligente, aperto e sensibile come Mattia Torre).
Non è il caso di Corpi impuri. E anche solo per questo merita tutto il nostro apprezzamento.
Voto: 3,5/5
lunedì 18 febbraio 2019
Ba-Rock di Giovanni Sollima. Accademia Filarmonica Romana, Teatro Argentina, 14 febbraio 2019
Ormai io e F. ci possiamo dire fans di Giovanni Sollima e tendenzialmente non ci perdiamo - se possibile - alcuna delle sue performance romane.
Questa volta il concerto è organizzato al teatro Argentina dall'Accademia Filarmonica Romana, un'accademia benemerita per le iniziative musicali che organizza nella capitale.
Sollima porta sul palco il suo 'format' - come lo chiama lui stesso pur riconoscendo che si tratta di un brutto termine - denominato Ba-rock cello, una specie di percorso musicale dal barocco al rock attraverso il violoncello.
La serata inizia con una breve intervista a Sollima da parte di Valerio Sebastiani di Quinte Parallele, intervista che è anche contenuta nell'opuscolo del programma di oggi. Sollima ci spiega il senso di questo progetto e che cosa avvicina la musica antica a certe sperimentazioni della musica rock; a seguire ci racconta il programma della serata e le variazioni d'ordine che intende fare.
Si inizia e si chiude con delle composizioni dello stesso Sollima, i quattro movimenti del Concerto rotondo in apertura e la Lamentatio in chiusura, musica nella quale si sentono echi delle sonorità della Sicilia e del Mediterraneo più ampio. A seguire è previsto il Capriccio n. 1 di Giuseppe Dall'Abaco, un musicista del Settecento per me quasi sconosciuto, ma che - come ci spiega Sollima - ha composto 11 capricci molto belli e ha lasciato incompiuto il dodicesimo, su cui il maestro sta facendo un progetto apposito.
A questo punto fa capolino la musica rock con i Nirvana di About a girl. Subito dopo Sollima ci propone il confronto diretto tra la famosissima Suite n. 1 BWV 1007 per violoncello solo di Bach (con i suoi sette movimenti) e il pezzo dei Genesis Horizons che al pezzo di Bach si ispira e da cui prende in prestito la sequenza musicale più famosa.
A metà del programma il maestro ci propone la sonata 1959 di suo padre Eliodoro Sollima, morto nel 2000, di cui nell'intervista iniziale ci ha raccontato la storia, ossia che lui stesso scoprì questo spartito tra le carte del padre quando era ancora vivo e seppe che l'aveva composto per un concorso a cattedra ma lo considerava 'munnizza'. Ebbene il figlio lo ha eseguito poi a Parigi e ovunque e lo ha fatto incidere.
Nell'ultima parte del programma è prevista la canzone Angel di Jimy Hendrix, il Concert Etude op. 10 n. 4 di Bernhard Cossmann (altro musicista, questa volta ottocentesco, per me sconosciuto!), quindi una pazzesca versione al violoncello di un pezzo heavy metal degli Slayer dal titolo Raining blood, con cui - come dice Sollima - fa urlare il violoncello sulla base di un arrangiamento che ha scritto in treno.
Al termine del programma, il maestro non si fa pregare per concedere il bis e torna sul palco per ben tre volte, la prima con un assaggio del Fandango di Boccherini, la seconda con una sua composizione (o almeno così crediamo!), la terza con un brano di Francesco Corbetta, un compositore e chitarrista seicentesco che questa volta lo stesso Sollima ammette essere sconosciuto (così almeno mi sento meno ignorante!).
Come abbiamo già avuto modo di apprezzare in altre circostanze, la forza di Sollima sta da un lato nella sua umiltà e affabilità che diventano strumento di comunicazione e di relazione con il pubblico, dall'altro nella sua straordinaria maestria di musicista, capace di farsi tutt'uno con il suo strumento, suonando non solo con le mani e l'archetto ma con tutto il corpo, e utilizzando tutte le parti e i modi - anche quelli meno canonici - per far suonare il violoncello. È anche impressionante il fatto che Sollima non abbia praticamente mai bisogno di spartito, immergendosi in ogni composizione come se non avesse mai suonato nient'altro, e conferendo a ogni esecuzione un'interpretazione unica e riconoscibile.
Voto: 4/5
Questa volta il concerto è organizzato al teatro Argentina dall'Accademia Filarmonica Romana, un'accademia benemerita per le iniziative musicali che organizza nella capitale.
Sollima porta sul palco il suo 'format' - come lo chiama lui stesso pur riconoscendo che si tratta di un brutto termine - denominato Ba-rock cello, una specie di percorso musicale dal barocco al rock attraverso il violoncello.
La serata inizia con una breve intervista a Sollima da parte di Valerio Sebastiani di Quinte Parallele, intervista che è anche contenuta nell'opuscolo del programma di oggi. Sollima ci spiega il senso di questo progetto e che cosa avvicina la musica antica a certe sperimentazioni della musica rock; a seguire ci racconta il programma della serata e le variazioni d'ordine che intende fare.
Si inizia e si chiude con delle composizioni dello stesso Sollima, i quattro movimenti del Concerto rotondo in apertura e la Lamentatio in chiusura, musica nella quale si sentono echi delle sonorità della Sicilia e del Mediterraneo più ampio. A seguire è previsto il Capriccio n. 1 di Giuseppe Dall'Abaco, un musicista del Settecento per me quasi sconosciuto, ma che - come ci spiega Sollima - ha composto 11 capricci molto belli e ha lasciato incompiuto il dodicesimo, su cui il maestro sta facendo un progetto apposito.
A questo punto fa capolino la musica rock con i Nirvana di About a girl. Subito dopo Sollima ci propone il confronto diretto tra la famosissima Suite n. 1 BWV 1007 per violoncello solo di Bach (con i suoi sette movimenti) e il pezzo dei Genesis Horizons che al pezzo di Bach si ispira e da cui prende in prestito la sequenza musicale più famosa.
A metà del programma il maestro ci propone la sonata 1959 di suo padre Eliodoro Sollima, morto nel 2000, di cui nell'intervista iniziale ci ha raccontato la storia, ossia che lui stesso scoprì questo spartito tra le carte del padre quando era ancora vivo e seppe che l'aveva composto per un concorso a cattedra ma lo considerava 'munnizza'. Ebbene il figlio lo ha eseguito poi a Parigi e ovunque e lo ha fatto incidere.
Nell'ultima parte del programma è prevista la canzone Angel di Jimy Hendrix, il Concert Etude op. 10 n. 4 di Bernhard Cossmann (altro musicista, questa volta ottocentesco, per me sconosciuto!), quindi una pazzesca versione al violoncello di un pezzo heavy metal degli Slayer dal titolo Raining blood, con cui - come dice Sollima - fa urlare il violoncello sulla base di un arrangiamento che ha scritto in treno.
Al termine del programma, il maestro non si fa pregare per concedere il bis e torna sul palco per ben tre volte, la prima con un assaggio del Fandango di Boccherini, la seconda con una sua composizione (o almeno così crediamo!), la terza con un brano di Francesco Corbetta, un compositore e chitarrista seicentesco che questa volta lo stesso Sollima ammette essere sconosciuto (così almeno mi sento meno ignorante!).
Come abbiamo già avuto modo di apprezzare in altre circostanze, la forza di Sollima sta da un lato nella sua umiltà e affabilità che diventano strumento di comunicazione e di relazione con il pubblico, dall'altro nella sua straordinaria maestria di musicista, capace di farsi tutt'uno con il suo strumento, suonando non solo con le mani e l'archetto ma con tutto il corpo, e utilizzando tutte le parti e i modi - anche quelli meno canonici - per far suonare il violoncello. È anche impressionante il fatto che Sollima non abbia praticamente mai bisogno di spartito, immergendosi in ogni composizione come se non avesse mai suonato nient'altro, e conferendo a ogni esecuzione un'interpretazione unica e riconoscibile.
Voto: 4/5
venerdì 15 febbraio 2019
Enrico IV / con Carlo Cecchi. Teatro Argentina, 12 febbraio 2019
L'Enrico IV adattato, diretto e recitato da Carlo Cecchi non è la classica messa in scena del dramma scritto da Luigi Pirandello nel 1921 avendo in mente come protagonista Ruggero Ruggeri, un attore famoso dei primi decenni del Novecento. E lo si capisce fin dalla prima scena.
La scenografia si presenta come un dietro le quinte di un teatro, dove ci sono tre personaggi vestiti in abiti storici (i consiglieri di Enrico IV) che fanno un provino a un quarto personaggio vestito in abiti contemporanei. Quest'ultimo sembra debba sostituire un attore che nel frattempo è venuto meno. Non è chiaro se c'è un copione da recitare e una parte da imparare in questa gigantesca recita intorno al protagonista, un nobile che molti anni prima - durante una cavalcata in costume - è stato disarcionato dal suo cavallo e dopo la caduta si è fissato nel personaggio che interpretava, appunto l'imperatore Enrico IV di Franconia.
Quando arrivano a palazzo il barone Belcredi, la marchesa Matilde, la figlia di questa, Frida, il nipote del protagonista, Carlo Di Nolli, e uno psichiatra interessato a studiare il caso della pazzia di Enrico, le circostanze della cavalcata in costume emergono, così come la rivalità tra Enrico e Belcredi per l'amore di Matilde. Il dottore decide di tentare di inscenare nuovamente quella situazione, facendo interpretare Matilde di Canossa a Frida (la figlia della marchesa, che è identica alla madre da giovane), per determinare in Enrico uno shock uguale e contrario a quello originario.
Il fatto è che Enrico è rinsavito da tempo, ma ha deciso di continuare a recitare la sua parte per non dover tornare nel mondo e affrontare la realtà e il dolore della perdita della donna amata, finita sposa di Belcredi, il vero responsabile del disarcionamento. Cosicché l'esperimento del dottore riporterà a galla le verità passate e presenti fino alla tragedia finale, l'uccisione di Belcredi da parte di Enrico, che costringerà quest'ultimo a continuare la sua folle recita per il resto della sua vita.
Il testo di Pirandello e soprattutto i lunghi monologhi da questo affidati al personaggio di Enrico IV vengono riletti da Carlo Cecchi in quell'ottica meta-teatrale già evidente dalle prime battute, aggiungendo al classico tema pirandelliano delle maschere e del rapporto tra follia e normalità anche una riflessione sul teatro. Nelle pieghe della narrazione viene infatti continuamente rivelata la finzione, che non è solo quella di Enrico IV che si finge folle, bensì anche quella degli attori che interpretano questo dramma un po' datato e che devono fare i conti con i dettami del linguaggio dell'epoca e della recitazione teatrale classica.
Enrico IV, alias Carlo Cecchi, si fa beffe non solo degli altri personaggi del dramma pirandelliano, bensì anche degli spettatori e infine dello stesso Pirandello. Si ribella alla recita della recita, si dimentica le battute e improvvisa, attinge al linguaggio - anche volgare - dell'uomo della strada, subito ripreso dal suo consigliere che si fa anche suggeritore e interprete del teatro classico.
E così Cecchi svela la finzione persino nella tragedia finale dell'uccisione di Belcredi, richiamando l'attore che interpreta quest'ultimo ad alzarsi per la prossima replica.
In questo gioco di specchi tra teatro e meta-teatro, Cecchi dichiara di voler ridimensionare la centralità assoluta che Pirandello conferisce al protagonista con i lunghi monologhi della sua opera recuperando e dando spessore ai comprimari; la verità però è che, alla fine, lo spettacolo decolla proprio quando Enrico IV (e il suo attore) prendono la scena rovesciando le convenzioni, ma in fondo facendo dimenticare quasi tutti gli altri attori sul palco.
Voto: 3,5/5
La scenografia si presenta come un dietro le quinte di un teatro, dove ci sono tre personaggi vestiti in abiti storici (i consiglieri di Enrico IV) che fanno un provino a un quarto personaggio vestito in abiti contemporanei. Quest'ultimo sembra debba sostituire un attore che nel frattempo è venuto meno. Non è chiaro se c'è un copione da recitare e una parte da imparare in questa gigantesca recita intorno al protagonista, un nobile che molti anni prima - durante una cavalcata in costume - è stato disarcionato dal suo cavallo e dopo la caduta si è fissato nel personaggio che interpretava, appunto l'imperatore Enrico IV di Franconia.
Quando arrivano a palazzo il barone Belcredi, la marchesa Matilde, la figlia di questa, Frida, il nipote del protagonista, Carlo Di Nolli, e uno psichiatra interessato a studiare il caso della pazzia di Enrico, le circostanze della cavalcata in costume emergono, così come la rivalità tra Enrico e Belcredi per l'amore di Matilde. Il dottore decide di tentare di inscenare nuovamente quella situazione, facendo interpretare Matilde di Canossa a Frida (la figlia della marchesa, che è identica alla madre da giovane), per determinare in Enrico uno shock uguale e contrario a quello originario.
Il fatto è che Enrico è rinsavito da tempo, ma ha deciso di continuare a recitare la sua parte per non dover tornare nel mondo e affrontare la realtà e il dolore della perdita della donna amata, finita sposa di Belcredi, il vero responsabile del disarcionamento. Cosicché l'esperimento del dottore riporterà a galla le verità passate e presenti fino alla tragedia finale, l'uccisione di Belcredi da parte di Enrico, che costringerà quest'ultimo a continuare la sua folle recita per il resto della sua vita.
Il testo di Pirandello e soprattutto i lunghi monologhi da questo affidati al personaggio di Enrico IV vengono riletti da Carlo Cecchi in quell'ottica meta-teatrale già evidente dalle prime battute, aggiungendo al classico tema pirandelliano delle maschere e del rapporto tra follia e normalità anche una riflessione sul teatro. Nelle pieghe della narrazione viene infatti continuamente rivelata la finzione, che non è solo quella di Enrico IV che si finge folle, bensì anche quella degli attori che interpretano questo dramma un po' datato e che devono fare i conti con i dettami del linguaggio dell'epoca e della recitazione teatrale classica.
Enrico IV, alias Carlo Cecchi, si fa beffe non solo degli altri personaggi del dramma pirandelliano, bensì anche degli spettatori e infine dello stesso Pirandello. Si ribella alla recita della recita, si dimentica le battute e improvvisa, attinge al linguaggio - anche volgare - dell'uomo della strada, subito ripreso dal suo consigliere che si fa anche suggeritore e interprete del teatro classico.
E così Cecchi svela la finzione persino nella tragedia finale dell'uccisione di Belcredi, richiamando l'attore che interpreta quest'ultimo ad alzarsi per la prossima replica.
In questo gioco di specchi tra teatro e meta-teatro, Cecchi dichiara di voler ridimensionare la centralità assoluta che Pirandello conferisce al protagonista con i lunghi monologhi della sua opera recuperando e dando spessore ai comprimari; la verità però è che, alla fine, lo spettacolo decolla proprio quando Enrico IV (e il suo attore) prendono la scena rovesciando le convenzioni, ma in fondo facendo dimenticare quasi tutti gli altri attori sul palco.
Voto: 3,5/5
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