Non posso certamente dire che quello di Nanni Moretti sia un brutto film; e comprendo le recensioni tra il commosso e l'entusiastico che ho letto in rete (ad esempio questa e questa). Però neppure posso dire che Mia madre mi abbia colpito e coinvolto. D'altra parte, quando poi vado a rileggere le mie recensioni ai suoi film precedenti mi rendo conto che il mio rapporto con Moretti resta problematico in ogni caso.
In generale, mi piace di più il Moretti un po' surreale e visionario di film quali Habemus papam e Il caimano, nei quali il Nanni nazionale guarda fuori di sé, al mondo sociale, politico, umano che lo circonda, sebbene - anche in questi casi - l'obiettivo sia sempre quello di indagare i meandri della natura umana e, attraverso di essi, se stesso.
Anche in questi casi - a dire la verità - io e lui non riusciamo ad essere veramente sulla stessa lunghezza d'onda da un punto di vista emotivo; però riesco ad accettarne lo sguardo onirico, certe forme di rigidità, nonché la distanza che in qualche modo il regista mette sempre tra sé e i suoi personaggi e persino rispetto a se stesso.
Va a finire che quello che apprezzo di più nei suoi film è la componente ludica, fatta di un'ironia tagliente e cinica che non risparmia nessuno, ma che è anche a tratti liberatoria.
E così in Mia madre il personaggio di Barry Huggins, interpretato da uno strepitoso John Turturro, è quello che mi è arrivato in maniera più diretta e sincera. Ora, posso certamente comprendere il meccanismo intellettualistico e il gioco di specchi tra realtà e finzione su cui è giocato l'intero film, e capisco anche quanto sia voluto che proprio il personaggio dell'attore sia quello che appare più vero e umano.
Fin dalle prime scene, mentre la regista Margherita (Margherita Buy, nel film l'alter ego di Moretti) sta girando il suo film Noi siamo qui, è chiara la cifra morettiana: stare dentro le cose non è un'opzione per lui praticabile, perché raccontare significa in qualche modo rielaborare e rielaborare è un'operazione intellettualistica. E ciò è tanto più vero se sei un regista, abituato - anche ormai al di là della sua volontà - a ricostruire la presunta realtà attraverso la macchina da presa. Così, realtà e finzione si rincorrono e si rispecchiano, scambiandosi i ruoli in un inseguimento percettivo che produce la paralisi emotiva della protagonista.
Per tutti questi motivi, la vicenda della malattia della madre (Giulia Lazzarini) di Margherita e di Giovanni (lo stesso Nanni Moretti) e il faticoso percorso che conduce infine Margherita non solo a guardare in faccia la morte, ma anche a provare a ri-guardare la propria vita (il proprio essere donna, madre, professionista) non hanno prodotto in me un vero processo di identificazione, bensì semmai un'operazione intellettualistica uguale e contraria a quella condotta da Nanni Moretti.
Mi sono sentita anche io in balia di "quello stronzo del regista" e non perché mi abbia presa in giro, bensì perché, nel fare la sua operazione di sincerità rispetto a se stesso, ha inevitabilmente creato una distanza con la mia sensibilità.
Voto: 3/5
sabato 25 aprile 2015
giovedì 23 aprile 2015
Una nuova amica
Il nuovo film di François Ozon è liberamente ispirato a una novella di Ruth Rendell (che a questo punto - tra l'altro - mi incuriosisce non poco!).
Personalmente, trovo che Ozon sia un maestro nel rappresentare l'ambiguità e la complessità dei sentimenti, del desiderio e della sessualità, ed è forse uno dei pochi in grado di farlo in maniera al contempo diretta e delicata, sotterranea ed esplicita.
In Una nuova amica il regista francese gioca con lo spettatore spiazzandolo a tutti i livelli, a partire dal titolo del film. Ci aspettiamo infatti che protagonista di questa narrazione sia David (Romain Duris, l'attore feticcio di Cédric Klapisch), il giovane marito e padre che - persa la moglie Laura (Isild Le Besco) per una malattia - esplora la propria identità femminile travestendosi da Virginia. Il personaggio di David/Virginia appare in prima battuta quello più spiazzante, nonché quello chiamato a turbare il mondo ordinato dello spettatore.
Ma in realtà la vera protagonista di questa storia è Claire (Anaïs Demoustier), fin da bambina amica di Laura, con la quale - sulla base di un vero e proprio patto di sangue - ha condiviso i giochi, le vacanze, i primi amori, seguendola dappresso in tutti i passi della vita.
Ora, dopo la morte di Laura, Claire - faccia pulita da brava ragazza, sposata con Gilles - vorrebbe mantenere la promessa di occuparsi del marito dell'amica e di sua figlia, ma la scoperta casuale dei travestimenti di David e del suo desiderio di esplorare la sua identità femminile innesca un processo i cui esiti non sono per nulla scontati.
Claire, che in un primo momento sembra rifuggire spaventata di fronte all'ambiguità di David/Virginia, viene a poco a poco conquistata da questo gioco di slittamento continuo dell'identità che si fa sempre più pericoloso e, soprattutto, sempre più personale.
I confini del maschile e del femminile si fanno confusi e si mescolano in modi imprevedibili, così come il desiderio ne travalica i confini facendosi imprevedibile. Il nostro innato bisogno di attribuire persone e sentimenti a delle categorie, magari anche originali e inaspettate, però certamente riconoscibili, viene continuamente sovvertito da Ozon, con una costruzione della narrazione che essa stessa oscilla - e spesso mescola - il cupo e il giocoso.
Certo, Ozon - che qui si ritaglia persino un cameo giocando pure lui sull'ambiguità - non è un regista misurato, e ogni tanto anche in questo film il suo addentrarsi nei meandri dell'identità e dei sentimenti sembra slabbrarsi e perdere di solidità. Nel complesso però questo scavo psicologico resta potente e delicato, e costringe lo spettatore ad accettare e, in qualche misura, ad anticipare insieme al regista qualunque esito. Al punto tale che di fronte all'epilogo l'interpretazione più immediata non è - nemmeno quella! - l'unica possibile.
Voto: 3,5/5
Personalmente, trovo che Ozon sia un maestro nel rappresentare l'ambiguità e la complessità dei sentimenti, del desiderio e della sessualità, ed è forse uno dei pochi in grado di farlo in maniera al contempo diretta e delicata, sotterranea ed esplicita.
In Una nuova amica il regista francese gioca con lo spettatore spiazzandolo a tutti i livelli, a partire dal titolo del film. Ci aspettiamo infatti che protagonista di questa narrazione sia David (Romain Duris, l'attore feticcio di Cédric Klapisch), il giovane marito e padre che - persa la moglie Laura (Isild Le Besco) per una malattia - esplora la propria identità femminile travestendosi da Virginia. Il personaggio di David/Virginia appare in prima battuta quello più spiazzante, nonché quello chiamato a turbare il mondo ordinato dello spettatore.
Ma in realtà la vera protagonista di questa storia è Claire (Anaïs Demoustier), fin da bambina amica di Laura, con la quale - sulla base di un vero e proprio patto di sangue - ha condiviso i giochi, le vacanze, i primi amori, seguendola dappresso in tutti i passi della vita.
Ora, dopo la morte di Laura, Claire - faccia pulita da brava ragazza, sposata con Gilles - vorrebbe mantenere la promessa di occuparsi del marito dell'amica e di sua figlia, ma la scoperta casuale dei travestimenti di David e del suo desiderio di esplorare la sua identità femminile innesca un processo i cui esiti non sono per nulla scontati.
Claire, che in un primo momento sembra rifuggire spaventata di fronte all'ambiguità di David/Virginia, viene a poco a poco conquistata da questo gioco di slittamento continuo dell'identità che si fa sempre più pericoloso e, soprattutto, sempre più personale.
I confini del maschile e del femminile si fanno confusi e si mescolano in modi imprevedibili, così come il desiderio ne travalica i confini facendosi imprevedibile. Il nostro innato bisogno di attribuire persone e sentimenti a delle categorie, magari anche originali e inaspettate, però certamente riconoscibili, viene continuamente sovvertito da Ozon, con una costruzione della narrazione che essa stessa oscilla - e spesso mescola - il cupo e il giocoso.
Certo, Ozon - che qui si ritaglia persino un cameo giocando pure lui sull'ambiguità - non è un regista misurato, e ogni tanto anche in questo film il suo addentrarsi nei meandri dell'identità e dei sentimenti sembra slabbrarsi e perdere di solidità. Nel complesso però questo scavo psicologico resta potente e delicato, e costringe lo spettatore ad accettare e, in qualche misura, ad anticipare insieme al regista qualunque esito. Al punto tale che di fronte all'epilogo l'interpretazione più immediata non è - nemmeno quella! - l'unica possibile.
Voto: 3,5/5
martedì 21 aprile 2015
Yuri Temirkanov / Martha Argerich. Roma, Accademia Nazionale di Santa Cecilia, 11 aprile 2015
Quando - mesi e mesi fa - era stato pubblicato il programma dei concerti di quest'anno all'Accademia di Santa Cecilia avevo immediatamente adocchiato la presenza di Martha Argerich.
Da quando io e C. avevamo visto il film su di lei, Bloody Daughter, e l'avevamo sentita suonare sempre al Santa Cecilia tre anni fa, l'attenzione nei suoi confronti da parte nostra non è mai scemata e si è sviluppata quasi una forma di affetto.
Dunque, appena possibile, ero andata all'Auditorium a comprare il biglietto per la pomeridiana del sabato, senza nemmeno leggere il programma.
I mesi poi sono passati, fitti di impegni e di cose da fare. Varie volte io e C. ci siamo dette che avremmo dovuto guardare il programma e prepararci un po', ma alla fine siamo arrivate al giorno precedente al concerto senza aver mai ascoltato nulla del programma.
La sera prima decidiamo di ascoltare su You Tube almeno la parte che vedrà protagonista la Argerich, ossia il concerto per pianoforte e tromba n. 1 di Shostakovich. Io sono scioccata. Lì per lì mi pare una cosa assurda, qualcosa di lontanissimo dalla musica classica a cui faticosamente ho provato a educarmi negli ultimi anni. Già al secondo ascolto le invenzioni di Shostakovich risultano più affrontabili, ma sono decisamente preoccupata per l'indomani. Proviamo anche ad ascoltare le altre due sinfonie in programma, la Sinfonia n. 94 "Sorpresa" di Haydn e la Sinfonia n. 8 di Dvořák, ma pure quelle, alle prime, non mi entusiasmano.
Il giorno dopo eccoci (io, C., A. e A.) nella sala Santa Cecilia al gran completo. Molte facce note nel pubblico. A un certo punto parte l'applauso e c'è gente in piedi che guarda verso il centro della platea ma non capiamo perché. In pochi minuti, il telefono senza fili funziona e riusciamo a intravedere tra il pubblico l'ex Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, con la moglie.
L'orchestra - in versione non estesa - prende post sul palco e arriva a dirigerla Yuri Temirkanov, il direttore senza bacchetta. Si comincia.
Capiamo subito che sarà un pomeriggio molto intenso e in qualche modo divertente. Il modo di dirigere l'orchestra da parte di Temirkanov è incredibilmente affascinante e l'orchestra appare in gran forma. Tra l'altro dopo aver visto Il carattere italiano, il film documentario dedicato all'orchestra di Santa Cecilia, riconosco molti dei musicisti, ne conosco alcuni retroscena, cosa che ha eliminato quella distanza reverenziale che mi incutevano all'inizio.
La Sinfonia di Haydn è un perfetto antipasto che accresce l'appetito di quello che verrà dopo.
Ecco arrivare sul palco Martha Argerich (con una bellissima ed elegantissima gonna lunga e morbida molto colorata) e Giuliano Sommerhalder che sarà la tromba del pezzo di Shostakovich.
Suonato dal vivo e con noi in una posizione invidiabile in platea, il concerto è tutto un'altra cosa, divertente, sorprendente, moderno e antico insieme, giocoso, a tratti quasi entusiasmante. La Argerich è un tutt'uno con il suo pianoforte. Come sempre senza spartito davanti, la musica è tutta nella sua testa. E il gioco di sguardi e di contrappunti tra lei e Temirkanov è uno spettacolo nello spettacolo.
Alla fine del concerto il pubblico la richiama a gran voce, e così Martha Argerich ci regala una seconda esecuzione dell'ultimo movimento.
Dopo una breve pausa, eccoci alla sinfonia di Dvořák. L'orchestra è al gran completo; non credo di aver visto mai così tanti strumenti musicali tutti insieme su un palco e l'effetto si sente. La potenza e la grandiosità del suono sono massimi; Temirkanov è in grado di tirare fuori il meglio dall'orchestra e di farci apprezzare ogni dettaglio della sinfonia valorizzando l'apporto di ogni musicista.
Alla fine C. mi dice che solo ascoltando questi tre concerti insieme dal vivo le è stato chiaro il loro legame, riconoscibile nella giocosità e nella sorpresa che tutti e tre scelgono come loro cifra dominante.
Io ovviamente lo realizzo solo dopo che mi è stato detto. Ma - nonostante la mia ignoranza - anche io sono entusiasta ed esco dall'Auditorium più ricca di come ci ero entrata.
Voto: 4,5/5
Da quando io e C. avevamo visto il film su di lei, Bloody Daughter, e l'avevamo sentita suonare sempre al Santa Cecilia tre anni fa, l'attenzione nei suoi confronti da parte nostra non è mai scemata e si è sviluppata quasi una forma di affetto.
Dunque, appena possibile, ero andata all'Auditorium a comprare il biglietto per la pomeridiana del sabato, senza nemmeno leggere il programma.
I mesi poi sono passati, fitti di impegni e di cose da fare. Varie volte io e C. ci siamo dette che avremmo dovuto guardare il programma e prepararci un po', ma alla fine siamo arrivate al giorno precedente al concerto senza aver mai ascoltato nulla del programma.
La sera prima decidiamo di ascoltare su You Tube almeno la parte che vedrà protagonista la Argerich, ossia il concerto per pianoforte e tromba n. 1 di Shostakovich. Io sono scioccata. Lì per lì mi pare una cosa assurda, qualcosa di lontanissimo dalla musica classica a cui faticosamente ho provato a educarmi negli ultimi anni. Già al secondo ascolto le invenzioni di Shostakovich risultano più affrontabili, ma sono decisamente preoccupata per l'indomani. Proviamo anche ad ascoltare le altre due sinfonie in programma, la Sinfonia n. 94 "Sorpresa" di Haydn e la Sinfonia n. 8 di Dvořák, ma pure quelle, alle prime, non mi entusiasmano.
Il giorno dopo eccoci (io, C., A. e A.) nella sala Santa Cecilia al gran completo. Molte facce note nel pubblico. A un certo punto parte l'applauso e c'è gente in piedi che guarda verso il centro della platea ma non capiamo perché. In pochi minuti, il telefono senza fili funziona e riusciamo a intravedere tra il pubblico l'ex Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, con la moglie.
L'orchestra - in versione non estesa - prende post sul palco e arriva a dirigerla Yuri Temirkanov, il direttore senza bacchetta. Si comincia.
Capiamo subito che sarà un pomeriggio molto intenso e in qualche modo divertente. Il modo di dirigere l'orchestra da parte di Temirkanov è incredibilmente affascinante e l'orchestra appare in gran forma. Tra l'altro dopo aver visto Il carattere italiano, il film documentario dedicato all'orchestra di Santa Cecilia, riconosco molti dei musicisti, ne conosco alcuni retroscena, cosa che ha eliminato quella distanza reverenziale che mi incutevano all'inizio.
La Sinfonia di Haydn è un perfetto antipasto che accresce l'appetito di quello che verrà dopo.
Ecco arrivare sul palco Martha Argerich (con una bellissima ed elegantissima gonna lunga e morbida molto colorata) e Giuliano Sommerhalder che sarà la tromba del pezzo di Shostakovich.
Suonato dal vivo e con noi in una posizione invidiabile in platea, il concerto è tutto un'altra cosa, divertente, sorprendente, moderno e antico insieme, giocoso, a tratti quasi entusiasmante. La Argerich è un tutt'uno con il suo pianoforte. Come sempre senza spartito davanti, la musica è tutta nella sua testa. E il gioco di sguardi e di contrappunti tra lei e Temirkanov è uno spettacolo nello spettacolo.
Alla fine del concerto il pubblico la richiama a gran voce, e così Martha Argerich ci regala una seconda esecuzione dell'ultimo movimento.
Dopo una breve pausa, eccoci alla sinfonia di Dvořák. L'orchestra è al gran completo; non credo di aver visto mai così tanti strumenti musicali tutti insieme su un palco e l'effetto si sente. La potenza e la grandiosità del suono sono massimi; Temirkanov è in grado di tirare fuori il meglio dall'orchestra e di farci apprezzare ogni dettaglio della sinfonia valorizzando l'apporto di ogni musicista.
Alla fine C. mi dice che solo ascoltando questi tre concerti insieme dal vivo le è stato chiaro il loro legame, riconoscibile nella giocosità e nella sorpresa che tutti e tre scelgono come loro cifra dominante.
Io ovviamente lo realizzo solo dopo che mi è stato detto. Ma - nonostante la mia ignoranza - anche io sono entusiasta ed esco dall'Auditorium più ricca di come ci ero entrata.
Voto: 4,5/5
sabato 18 aprile 2015
Tokio fiancée = Il fascino indiscreto dell'amore
Grazie a L. riesco ad andare a vedere almeno un film del Festival Rendez-vous, organizzato dall'Institut français in Italia e in programmazione a Roma dall'8 al 12 aprile.
Si tratta del film Tokio fiancée del regista belga Stefan Liberski, che è presente in sala e che ci racconta qualche retroscena nel suo divertente, ma tutto sommato corretto italiano. Il film dovrebbe uscire in Italia a maggio, con il titolo - in verità piuttosto banale - di Innamorarsi a Tokio (in realtà è uscito con un titolo ancora più banale: Il fascino indiscreto dell'amore).
Il film è tratto dal libro di Amélie Nothomb Né di Eva, né di Adamo, uno credo dei pochi che ancora non ho letto.
La storia è quella della giovane Amélie (magnificamente interpretata da Pauline Etienne - ecco dove l'avevo vista, nel film La religiosa), che - dopo essere nata e aver trascorso l'infanzia in Giappone al seguito del padre diplomatico - decide di ritornare in questo paese a cui si sente appartenere e lo fa trasferendosi a Tokio a insegnare il francese. Qui il suo primo e alla fine unico allievo sarà Rinri (Taichi Inoue), un ragazzo dolcissimo e gentile, con il quale comincerà una bella storia d'amore.
Il tono del film, nel suo complesso, è perfettamente in linea con la scrittura della Nothomb, caratterizzata da un'ironia vivace e brillante, da un'atmosfera tra il cinico e il giocoso assolutamente inconfondibile. Lo sguardo di Amélie sul mondo è folle ed entusiasmante al contempo, e il modo in cui lei - e solo lei - ci può raccontare la cultura giapponese - che in parte le appartiene - è strepitoso.
Alcuni passaggi - come ad esempio quello della cena che Rinri organizza a casa con i suoi amici ovvero l'illustrazione degli elettrodomestici di casa da parte del ragazzo giapponese o ancora le serate in giro per Tokio e i contatti con i genitori di Rinri - sono memorabili per il modo in cui ci raccontano l'affascinante, quanto incomprensibile, cultura giapponese, dal punto di vista di una occidentale innamorata di quel paese. E la chiosa sul fatto che l'umorismo costituisce l'ultima grande barriera alla comunicazione tra i popoli mi è sembrata geniale.
Per il resto, il film procede agevolmente e si mantiene sempre piuttosto equilibrato tra l'ironica rappresentazione del mondo circostante e la tenerezza della storia d'amore tra Amélie e Rinri (ma quant’è romantica la fase in cui Rinri porta Amélie in giro per Tokio per fargliela vedere con i suoi occhi? Non è un bisogno e un piacere tutto umano quello di condividere i propri luoghi con chi si ama?).
Purtroppo a volta si ha la sensazione che il film si spinga un po' troppo oltre (lo dico in particolare in riferimento alla scena in cui Amélie canta o all'episodio - tra l'altro determinante dal punto di vista narrativo - dell'escursione di Amélie sul monte Fuji).
Alla fine però resta un po' in sordina l'evoluzione dei sentimenti di questa coppia e - a parte la distanza culturale che emerge in tutta la sua evidenza dopo la vicenda dolorosa dello tsunami che opportunamente Liberski introduce nella narrazione - non è davvero del tutto chiaro perché Amélie e Rinri non possano stare insieme. Ma forse anche questa vaghezza che a volte confina con la profondità il film la eredita pienamente dalla personalità della esuberante scrittrice belga.
Voto: 3,5/5
Si tratta del film Tokio fiancée del regista belga Stefan Liberski, che è presente in sala e che ci racconta qualche retroscena nel suo divertente, ma tutto sommato corretto italiano. Il film dovrebbe uscire in Italia a maggio, con il titolo - in verità piuttosto banale - di Innamorarsi a Tokio (in realtà è uscito con un titolo ancora più banale: Il fascino indiscreto dell'amore).
Il film è tratto dal libro di Amélie Nothomb Né di Eva, né di Adamo, uno credo dei pochi che ancora non ho letto.
La storia è quella della giovane Amélie (magnificamente interpretata da Pauline Etienne - ecco dove l'avevo vista, nel film La religiosa), che - dopo essere nata e aver trascorso l'infanzia in Giappone al seguito del padre diplomatico - decide di ritornare in questo paese a cui si sente appartenere e lo fa trasferendosi a Tokio a insegnare il francese. Qui il suo primo e alla fine unico allievo sarà Rinri (Taichi Inoue), un ragazzo dolcissimo e gentile, con il quale comincerà una bella storia d'amore.
Il tono del film, nel suo complesso, è perfettamente in linea con la scrittura della Nothomb, caratterizzata da un'ironia vivace e brillante, da un'atmosfera tra il cinico e il giocoso assolutamente inconfondibile. Lo sguardo di Amélie sul mondo è folle ed entusiasmante al contempo, e il modo in cui lei - e solo lei - ci può raccontare la cultura giapponese - che in parte le appartiene - è strepitoso.
Alcuni passaggi - come ad esempio quello della cena che Rinri organizza a casa con i suoi amici ovvero l'illustrazione degli elettrodomestici di casa da parte del ragazzo giapponese o ancora le serate in giro per Tokio e i contatti con i genitori di Rinri - sono memorabili per il modo in cui ci raccontano l'affascinante, quanto incomprensibile, cultura giapponese, dal punto di vista di una occidentale innamorata di quel paese. E la chiosa sul fatto che l'umorismo costituisce l'ultima grande barriera alla comunicazione tra i popoli mi è sembrata geniale.
Per il resto, il film procede agevolmente e si mantiene sempre piuttosto equilibrato tra l'ironica rappresentazione del mondo circostante e la tenerezza della storia d'amore tra Amélie e Rinri (ma quant’è romantica la fase in cui Rinri porta Amélie in giro per Tokio per fargliela vedere con i suoi occhi? Non è un bisogno e un piacere tutto umano quello di condividere i propri luoghi con chi si ama?).
Purtroppo a volta si ha la sensazione che il film si spinga un po' troppo oltre (lo dico in particolare in riferimento alla scena in cui Amélie canta o all'episodio - tra l'altro determinante dal punto di vista narrativo - dell'escursione di Amélie sul monte Fuji).
Alla fine però resta un po' in sordina l'evoluzione dei sentimenti di questa coppia e - a parte la distanza culturale che emerge in tutta la sua evidenza dopo la vicenda dolorosa dello tsunami che opportunamente Liberski introduce nella narrazione - non è davvero del tutto chiaro perché Amélie e Rinri non possano stare insieme. Ma forse anche questa vaghezza che a volte confina con la profondità il film la eredita pienamente dalla personalità della esuberante scrittrice belga.
Voto: 3,5/5
martedì 14 aprile 2015
Il chiodo fisso / Arthur de Pins
Il chiodo fisso / Arthur de Pins. Roma: B&M Books and Magazine edizioni, 2012.
Il chiodo fisso: Caccia all’uomo / Arthur de Pins. Roma: B&M Books and Magazine edizioni, 2010.
Il chiodo fisso 3 / Arthur de Pins e Maia Mazaurette. Roma: B&M Books and Magazine edizioni, 2011.
Il chiodo fisso 4 / Arthur de Pins e Maia Mazaurette. Roma: B&M Books and Magazine edizioni, 2012.
Grazie a L. ho scoperto i fumetti di Arthur de Pins, un autore francese (per l’esattezza bretone) che è famoso in Italia in particolare per la serie Il chiodo fisso.
Si tratta sostanzialmente di fumetti avente come filo conduttore la tematica del sesso e come protagonisti lo stesso Arthur e Clara, con la quale il primo ha una storia piuttosto travagliata.
Gli albi sono organizzati su episodi che di solito occupano una pagina, ma in qualche modo gli episodi hanno una loro continuità che dà caratteristiche unitarie alla narrazione.
Il disegno di de Pins è ispirato insieme ai cartoon e allo stile kawaii, e con i suoi personaggi piccoli ma con la testa grande, e le loro movenze ed espressioni simpatiche riesce a parlare con straordinaria ironia e autoironia di temi anche molto delicati legati alla sessualità che risulterebbero altrimenti volgari.
Arthur de Pins ci fa ridere e sorridere del nostro rapporto con il sesso e soprattutto ci lascia intendere che in qualche modo da questo punto di vista siamo tutti uguali, al di là dei dictat morali che per vari motivi ci imponiamo.
Nei suoi fumetti non c’è giudizio né morbosità, solo il desiderio di parlare di temi normalmente tabù con libertà e leggerezza.
Lettura “da adulti”, ma assolutamente consigliata per tutti, soprattutto per chi vuole farsi un po’ di sane risate sul sesso e sulla nostra natura di esseri umani con istinti e appetiti non sempre socialmente gestibili.
Con de Pins non siamo di fronte all’erotismo patinato di Milo Manara o di altri autori, bensì di fronte all’allegra presa in giro di tutta l’aura romantica con cui spesso si cerca di ammantare il desiderio sessuale.
Credo che in un paese bigotto, ma al contempo profondamente ipocrita come il nostro, ci vorrebbero molti de Pins capaci di sdrammatizzare e portare alla luce del sole quello che la nostra morale e i condizionamenti sociali spingono a nascondere nel proprio privato.
Voto: 4/5
Il chiodo fisso: Caccia all’uomo / Arthur de Pins. Roma: B&M Books and Magazine edizioni, 2010.
Il chiodo fisso 3 / Arthur de Pins e Maia Mazaurette. Roma: B&M Books and Magazine edizioni, 2011.
Il chiodo fisso 4 / Arthur de Pins e Maia Mazaurette. Roma: B&M Books and Magazine edizioni, 2012.
Grazie a L. ho scoperto i fumetti di Arthur de Pins, un autore francese (per l’esattezza bretone) che è famoso in Italia in particolare per la serie Il chiodo fisso.
Si tratta sostanzialmente di fumetti avente come filo conduttore la tematica del sesso e come protagonisti lo stesso Arthur e Clara, con la quale il primo ha una storia piuttosto travagliata.
Gli albi sono organizzati su episodi che di solito occupano una pagina, ma in qualche modo gli episodi hanno una loro continuità che dà caratteristiche unitarie alla narrazione.
Il disegno di de Pins è ispirato insieme ai cartoon e allo stile kawaii, e con i suoi personaggi piccoli ma con la testa grande, e le loro movenze ed espressioni simpatiche riesce a parlare con straordinaria ironia e autoironia di temi anche molto delicati legati alla sessualità che risulterebbero altrimenti volgari.
Arthur de Pins ci fa ridere e sorridere del nostro rapporto con il sesso e soprattutto ci lascia intendere che in qualche modo da questo punto di vista siamo tutti uguali, al di là dei dictat morali che per vari motivi ci imponiamo.
Nei suoi fumetti non c’è giudizio né morbosità, solo il desiderio di parlare di temi normalmente tabù con libertà e leggerezza.
Lettura “da adulti”, ma assolutamente consigliata per tutti, soprattutto per chi vuole farsi un po’ di sane risate sul sesso e sulla nostra natura di esseri umani con istinti e appetiti non sempre socialmente gestibili.
Con de Pins non siamo di fronte all’erotismo patinato di Milo Manara o di altri autori, bensì di fronte all’allegra presa in giro di tutta l’aura romantica con cui spesso si cerca di ammantare il desiderio sessuale.
Credo che in un paese bigotto, ma al contempo profondamente ipocrita come il nostro, ci vorrebbero molti de Pins capaci di sdrammatizzare e portare alla luce del sole quello che la nostra morale e i condizionamenti sociali spingono a nascondere nel proprio privato.
Voto: 4/5
venerdì 10 aprile 2015
Diario del cattivo papà. Volume 3 / Guy Delisle
Diario del cattivo papà. Volume 3 / Guy Delisle; trad. di Giovanni Zucca. Milano: Rizzoli Lizard, 2015.
Ed eccoci alla terza puntata delle avventure del cattivo papà Delisle, una saga che, a questo punto, potrebbe anche andare avanti all’infinito, con l’unico limite rappresentato dalla crescita dei due figli, Louis e Alice ;-)
Svanito l’effetto sorpresa (ormai sappiamo quasi tutto di questo papà sui generis, egocentrico, politicamente scorretto, infantile e pedagogicamente discutibile, ma assolutamente esilarante e tenero), resta la straordinaria capacità di Delisle di fare ironia e autoironia sul rapporto genitori-figli.
Anche in questa terza puntata Delisle ci fa sorridere e in alcuni casi ridere di gusto: penso per esempio alla spiegazione fonetica che papà Delisle dà alla figlia Alice che a scuola ha sentito dire a qualcuno “chepessa” di ca**o e non sa cosa voglia dire, ovvero alla sua incapacità di manovrare un elicottero telecomandato che è stato regalato a suo figlio Louis e che quest’ultimo non ha nessun problema a far volare a proprio piacimento (qualcosa del genere è capitata anche a me con i nipoti), al racconto della fiaba della buonanotte “Riccioli d’oro” che suscita troppe domande ed entusiasmi in Alice, alle marachelle con Louis nel negozio di elettrodomestici.
Devo dire che, in questo terzo volumetto, ho avuto la sensazione che gli episodi più genuinamente divertenti siano quelli che hanno come protagonista la figlioletta Alice, forse perché è più piccola, mentre Louis - man mano che cresce - è più consapevole delle dinamiche del rapporto genitore-figlio ed è persino in grado di smascherare il padre, per esempio quando gli suggerisce di appuntarsi quello che è successo nel suo taccuino per la prossima puntata del Diario del cattivo papà.
In ogni caso, per chi ha amato il primo e il secondo volume, perdersi questo terzo sarebbe un delitto.
Voto: 3,5/5
Ed eccoci alla terza puntata delle avventure del cattivo papà Delisle, una saga che, a questo punto, potrebbe anche andare avanti all’infinito, con l’unico limite rappresentato dalla crescita dei due figli, Louis e Alice ;-)
Svanito l’effetto sorpresa (ormai sappiamo quasi tutto di questo papà sui generis, egocentrico, politicamente scorretto, infantile e pedagogicamente discutibile, ma assolutamente esilarante e tenero), resta la straordinaria capacità di Delisle di fare ironia e autoironia sul rapporto genitori-figli.
Anche in questa terza puntata Delisle ci fa sorridere e in alcuni casi ridere di gusto: penso per esempio alla spiegazione fonetica che papà Delisle dà alla figlia Alice che a scuola ha sentito dire a qualcuno “chepessa” di ca**o e non sa cosa voglia dire, ovvero alla sua incapacità di manovrare un elicottero telecomandato che è stato regalato a suo figlio Louis e che quest’ultimo non ha nessun problema a far volare a proprio piacimento (qualcosa del genere è capitata anche a me con i nipoti), al racconto della fiaba della buonanotte “Riccioli d’oro” che suscita troppe domande ed entusiasmi in Alice, alle marachelle con Louis nel negozio di elettrodomestici.
Devo dire che, in questo terzo volumetto, ho avuto la sensazione che gli episodi più genuinamente divertenti siano quelli che hanno come protagonista la figlioletta Alice, forse perché è più piccola, mentre Louis - man mano che cresce - è più consapevole delle dinamiche del rapporto genitore-figlio ed è persino in grado di smascherare il padre, per esempio quando gli suggerisce di appuntarsi quello che è successo nel suo taccuino per la prossima puntata del Diario del cattivo papà.
In ogni caso, per chi ha amato il primo e il secondo volume, perdersi questo terzo sarebbe un delitto.
Voto: 3,5/5
martedì 7 aprile 2015
Vergine giurata
Il film di Laura Bispuri racconta la storia di Hana/Mark (una sempre eccellente Alba Rohrwacher) e lo fa a partire dal momento in cui la protagonista decide di partire dal suo paesino tra le montagne dell’Albania alla volta dell’Italia. Da questo momento in poi la narrazione si svolge a cavallo tra presente e passato, tra Italia e Albania, in un continuo rimando e mescolanza di situazioni vecchie e nuove che si riflettono anche nel modo in cui i protagonisti – tutti albanesi – alternano l’uso della loro lingua madre con l’italiano.
L’inizio del film ci mostra una donna in abiti e atteggiamenti maschili immersa in un paesaggio aspro e bello al contempo, che appare in qualche modo fuori dal tempo e dallo spazio, in una società arcaica che si fa fatica a collocare cronologicamente nella contemporaneità. Mark – così si fa chiamare la protagonista – parla pochissimo e il senso di attesa e di spaesamento dello spettatore non è inferiore a quello che la protagonista sembra provare durante il viaggio che la porterà in Italia alla ricerca di Lila.
Quest’ultima vive in un piccolo appartamento di una qualche provincia italiana non ben identificata insieme al marito, anche lui albanese, e alla figlia, quasi certamente nata in Italia e perfettamente integrata nel paese di adozione dei genitori.
Poco a poco e – in buona parte attraverso le immagini - comprenderemo chi è Mark – il cui vero nome è Hana - e che rapporto ha con la donna che è andato a cercare al di là del mare, che cosa ha portato queste due donne lontane, l’una fuggita molti anni prima dall’Albania e l’altra invece rimasta fedele alla comunità di provenienza anche nella “scelta” del ruolo di “vergine giurata”.
Assisteremo poi al lento processo di disgelo che, sotto la ruvidezza di Mark, svelerà l’animo sensibile e femminile di Hana, alla sua faticosa ma tenace riconquista della propria identità, degli affetti e della vita cui ha rinunciato.
Vergine giurata è un film con una capacità espressiva ed emotiva che va molto al di là delle parole, anzi non ne ha bisogno, perché riesce a caricare di significati inespressi e di spessore umano paesaggi, sguardi, cerimonie arcaiche, piccoli gesti, traducendone la potenza in una forma di comunicazione.
Film che non cede una virgola al banale, al didascalico, all’intellettuale, al pretenzioso. Duro, potente, diretto, come quel paesaggio con le montagne altissime coperte di neve che costringe ad avere sempre con sé un fucile per sopravvivere.
Voto: 4/5
L’inizio del film ci mostra una donna in abiti e atteggiamenti maschili immersa in un paesaggio aspro e bello al contempo, che appare in qualche modo fuori dal tempo e dallo spazio, in una società arcaica che si fa fatica a collocare cronologicamente nella contemporaneità. Mark – così si fa chiamare la protagonista – parla pochissimo e il senso di attesa e di spaesamento dello spettatore non è inferiore a quello che la protagonista sembra provare durante il viaggio che la porterà in Italia alla ricerca di Lila.
Quest’ultima vive in un piccolo appartamento di una qualche provincia italiana non ben identificata insieme al marito, anche lui albanese, e alla figlia, quasi certamente nata in Italia e perfettamente integrata nel paese di adozione dei genitori.
Poco a poco e – in buona parte attraverso le immagini - comprenderemo chi è Mark – il cui vero nome è Hana - e che rapporto ha con la donna che è andato a cercare al di là del mare, che cosa ha portato queste due donne lontane, l’una fuggita molti anni prima dall’Albania e l’altra invece rimasta fedele alla comunità di provenienza anche nella “scelta” del ruolo di “vergine giurata”.
Assisteremo poi al lento processo di disgelo che, sotto la ruvidezza di Mark, svelerà l’animo sensibile e femminile di Hana, alla sua faticosa ma tenace riconquista della propria identità, degli affetti e della vita cui ha rinunciato.
Vergine giurata è un film con una capacità espressiva ed emotiva che va molto al di là delle parole, anzi non ne ha bisogno, perché riesce a caricare di significati inespressi e di spessore umano paesaggi, sguardi, cerimonie arcaiche, piccoli gesti, traducendone la potenza in una forma di comunicazione.
Film che non cede una virgola al banale, al didascalico, all’intellettuale, al pretenzioso. Duro, potente, diretto, come quel paesaggio con le montagne altissime coperte di neve che costringe ad avere sempre con sé un fucile per sopravvivere.
Voto: 4/5
giovedì 2 aprile 2015
Neil Halstead (+Daniel Martin Moore), Roma, Chiesa evangelica metodista, Unplugged in Monti, Church session, 25 marzo 2015
Non era la mia prima volta a un concerto di Neil Halstead. L'avevo visto e ascoltato al Circolo degli artisti circa un anno fa. E dunque sapevo cosa mi aspettava.
Ma non volevo perdermi questa seconda occasione, innanzitutto perché ascoltare Halstead dal vivo è sempre un'esperienza di grande bellezza, in secondo luogo perché volevo sperimentare la Church session della rassegna Unplugged in Monti (che di solito si svolge al Black Market e che invece in questa circostanza viene ospitata dalla Chiesa Evangelica Metodista di via XX settembre).
Ovviamente (come spesso mi accade nelle giornate in cui decido di andare a dei concerti) ha piovuto tutto il giorno e sono arrivata al concerto piuttosto zuppa. Però, ho trovato un bel posto nel banco della prima fila da dove ho potuto scatenarmi con le foto.
La location è parecchio suggestiva, nonché acusticamente molto efficace. La chiesa è piena in ogni ordine di posto e - oltre a molta parte di gioventù romana radical chic - ci sono persone di età diverse e con facce diverse. Tutte attentissime e silenziosissime nell'ascolto dei due artisti che si esibiranno sul palco.
Il primo è un ragazzone parecchio spilungone che arriva dal Kentucky, Daniel Martin Moore, e che ci porta subito nell'atmosfera della serata con la sua chitarra e la sua bellissima voce. Verso la fine del suo opening act si sposta al pianoforte e - di spalle a tutta la sala - ci offre un singolo tratto dal suo ultimo album, Golden age. Infine, scende dal palco e senza fili (davvero unplugged!) ci canta una ballata del Kentucky che dice essere una delle preferite di sua nonna.
Dopo la delicatezza di Daniel Martin Moore sale sul palco Neil Halstead, meno barbuto dell'ultima volta, con dei pantaloni skinny molto alla moda e la solita giacca sulla maglietta. Ormai posso dire di essergli quasi affezionata, come fosse uno di famiglia.
Ovviamente, tutto dipende dalla sua musica. L'album Out of tune dei Mojave 3 (una delle formazioni, oltre agli Slowdive, di cui Neil ha fatto parte) è uno dei miei preferiti nonché più "long-lasting", e il suo ultimo da solista, Palindrome Hunches, è una delle cose più belle che io abbia ascoltato negli ultimi anni.
Quando, seduto sul suo sgabello, Neil comincia a suonare l'atmosfera è magica. Il silenzio è assoluto, lui appare particolarmente ispirato e trasmette questo senso di armonia a tutti. Non a caso, rispetto al suo solito, tende a parlare di meno, si limita a dire numerosi grazie. Il top dal mio punto di vista lo raggiunge quando canta Digging shelters. Da brividi.
Purtroppo però a un certo punto, su uno dei pezzi, dimentica le parole e deve interrompersi. Ovviamente il pubblico lo incoraggia e Neil la butta sul ridere (dice che ormai questa cosa che lui si dimentica le parole delle sue canzoni è diventata una barzelletta tra i suoi amici cantanti), ma l'atmosfera dell'inizio è ormai irrimediabilmente rovinata. Il che non vuol dire che il concerto sia rovinato.
Neil ci appare più umano, ora chiacchiera di più con il pubblico, ci parla del fatto che è la seconda volta che viene a Roma, ma la prima che riesce a fare qualche giro. Ci dice che è andato alla Cappella Sistina con la sua fidanzata e lì ha pensato che il pavimento della cappella è bellissimo. E cose di questo tipo.
Adesso alterna canzoni con la sola chitarra ad altre con chitarra e armonica da bocca. La musicalità e la limpidezza del suono restano incantevoli. Si fa suggerire dal pubblico qualche canzone che vorremmo ascoltare e così arriva anche un'altra delle mie canzoni preferite, Hey, daydreamer. Dopo almeno un'ora di concerto ci saluta e va verso la sacrestia, ma il pubblico lo chiama con applausi e fischi di approvazione, cosicché torna sul palco per deliziarci ancora con qualche canzone.
Per quanto mi riguarda, esco soddisfatta e in pace col mondo. E adesso non piove neppure più, e io porto a casa anche il bellissimo poster dedicato al concerto da Mynameisbri (aka Sabrina Gabrielli). Anzi ora che ne ho un certo numero dovrò decidermi a farli incorniciare e ad appenderli da qualche parte.
Voto: 4/5
Ma non volevo perdermi questa seconda occasione, innanzitutto perché ascoltare Halstead dal vivo è sempre un'esperienza di grande bellezza, in secondo luogo perché volevo sperimentare la Church session della rassegna Unplugged in Monti (che di solito si svolge al Black Market e che invece in questa circostanza viene ospitata dalla Chiesa Evangelica Metodista di via XX settembre).
Ovviamente (come spesso mi accade nelle giornate in cui decido di andare a dei concerti) ha piovuto tutto il giorno e sono arrivata al concerto piuttosto zuppa. Però, ho trovato un bel posto nel banco della prima fila da dove ho potuto scatenarmi con le foto.
La location è parecchio suggestiva, nonché acusticamente molto efficace. La chiesa è piena in ogni ordine di posto e - oltre a molta parte di gioventù romana radical chic - ci sono persone di età diverse e con facce diverse. Tutte attentissime e silenziosissime nell'ascolto dei due artisti che si esibiranno sul palco.
Il primo è un ragazzone parecchio spilungone che arriva dal Kentucky, Daniel Martin Moore, e che ci porta subito nell'atmosfera della serata con la sua chitarra e la sua bellissima voce. Verso la fine del suo opening act si sposta al pianoforte e - di spalle a tutta la sala - ci offre un singolo tratto dal suo ultimo album, Golden age. Infine, scende dal palco e senza fili (davvero unplugged!) ci canta una ballata del Kentucky che dice essere una delle preferite di sua nonna.
Dopo la delicatezza di Daniel Martin Moore sale sul palco Neil Halstead, meno barbuto dell'ultima volta, con dei pantaloni skinny molto alla moda e la solita giacca sulla maglietta. Ormai posso dire di essergli quasi affezionata, come fosse uno di famiglia.
Ovviamente, tutto dipende dalla sua musica. L'album Out of tune dei Mojave 3 (una delle formazioni, oltre agli Slowdive, di cui Neil ha fatto parte) è uno dei miei preferiti nonché più "long-lasting", e il suo ultimo da solista, Palindrome Hunches, è una delle cose più belle che io abbia ascoltato negli ultimi anni.
Quando, seduto sul suo sgabello, Neil comincia a suonare l'atmosfera è magica. Il silenzio è assoluto, lui appare particolarmente ispirato e trasmette questo senso di armonia a tutti. Non a caso, rispetto al suo solito, tende a parlare di meno, si limita a dire numerosi grazie. Il top dal mio punto di vista lo raggiunge quando canta Digging shelters. Da brividi.
Purtroppo però a un certo punto, su uno dei pezzi, dimentica le parole e deve interrompersi. Ovviamente il pubblico lo incoraggia e Neil la butta sul ridere (dice che ormai questa cosa che lui si dimentica le parole delle sue canzoni è diventata una barzelletta tra i suoi amici cantanti), ma l'atmosfera dell'inizio è ormai irrimediabilmente rovinata. Il che non vuol dire che il concerto sia rovinato.
Neil ci appare più umano, ora chiacchiera di più con il pubblico, ci parla del fatto che è la seconda volta che viene a Roma, ma la prima che riesce a fare qualche giro. Ci dice che è andato alla Cappella Sistina con la sua fidanzata e lì ha pensato che il pavimento della cappella è bellissimo. E cose di questo tipo.
Adesso alterna canzoni con la sola chitarra ad altre con chitarra e armonica da bocca. La musicalità e la limpidezza del suono restano incantevoli. Si fa suggerire dal pubblico qualche canzone che vorremmo ascoltare e così arriva anche un'altra delle mie canzoni preferite, Hey, daydreamer. Dopo almeno un'ora di concerto ci saluta e va verso la sacrestia, ma il pubblico lo chiama con applausi e fischi di approvazione, cosicché torna sul palco per deliziarci ancora con qualche canzone.
Per quanto mi riguarda, esco soddisfatta e in pace col mondo. E adesso non piove neppure più, e io porto a casa anche il bellissimo poster dedicato al concerto da Mynameisbri (aka Sabrina Gabrielli). Anzi ora che ne ho un certo numero dovrò decidermi a farli incorniciare e ad appenderli da qualche parte.
Voto: 4/5
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