La generazione / Flavia Biondi. Milano: Bao Publishing, 2015.
Dopo aver letto L’importante è finire mi è caduto l’occhio su un altro graphic novel di Flavia Biondi, La generazione, e, dopo aver letto una breve presentazione, ho pensato che volevo assolutamente leggerlo. E così in un paio di ore di relax di un sabato pomeriggio primaverile ho letto, ho guardato, mi sono emozionata e commossa su queste pagine.
Matteo è un giovane che ha trascorso a Milano gli ultimi tre anni della sua vita, pensando che la lontananza da casa e una scelta dirompente avrebbero messo a tacere le sue domande esistenziali. Ora però, dopo che parte dei suoi progetti sembrano andare in frantumi, è su un treno che lo riporterà nel suo paese natio, a casa della nonna, dove adesso vivono le tre figlie (le sue zie) e la cugina Sara.
In questa casa Matteo vuole nascondersi al mondo: al suo compagno Massimo con cui è in crisi e che è rimasto a Milano, a suo padre con cui ha litigato quando gli ha detto di essere gay, alle zie e alla nonna che appartengono a un passato che si è lasciato indietro, agli amici e alle conoscenze di un tempo con cui non ha niente da dire, alla terra in cui è nato che si è scolorita nella sua mente.
In realtà Matteo si sta nascondendo soprattutto da se stesso, nel tentativo di sfuggire la necessità di trovare il proprio modo di stare nel mondo, di essere una persona intera senza proiettare sul mondo esterno le proprie insoddisfazioni, i propri desideri e i propri limiti.
Partire serve a costruire una distanza che aiuta a guardare meglio, ma il viaggio non è completo senza tornare guardando le cose con occhi nuovi e puliti. È solo quando riconosciamo e accettiamo quello che siamo che il mondo esterno non è più né una minaccia né un’àncora di salvezza, bensì acquista le giuste proporzioni. Solo allora siamo pronti ad accoglierne i limiti, la bellezza, la forza, i significati profondi, così come siamo pronti a comprendere e ad amare i percorsi – essi stessi difficili e faticosi - degli altri, di chi è venuto prima di noi e di chi verrà dopo, a comprendere e fare tesoro degli affetti familiari senza esserne condizionati nella ricerca della propria strada e della propria felicità. Perché “siamo resistenti alle intemperie se conserviamo la memoria”.
Il graphic novel di Flavia Biondi, pur appartenendo a un filone molto esplorato di questa letteratura, ossia le riletture più o meno autobiografiche della propria giovinezza e del proprio rapporto con le origini, lo fa in un modo così delicato ed empatico da risultare commovente e con un approccio così profondo e universale da risultare in qualche modo originale.
A tutti coloro che hanno fatto un viaggio – fisico o interiore – che li ha portati lontani e da cui sono poi ritornati, a tutti quelli che sono nati una seconda volta portando con sé la memoria della loro vita precedente, La generazione strapperà una lacrima e scalderà il cuore.
Voto: 4/5
martedì 31 maggio 2016
domenica 29 maggio 2016
Joan as Police Woman. Monk, 20 maggio 2016
Dopo nemmeno un anno, Joan Wasser, in arte Joan as Police Woman, torna a suonare e cantare a Roma, in un solo act, ossia senza band, e senza che sia uscito alcun suo nuovo lavoro.
Il perché ce lo spiega lei stessa praticamente all'inizio del concerto: non riesce a stare troppo lontana dall'Italia di cui è praticamente innamorata, e in attesa dell'uscito a ottobre del suo nuovo album, realizzato insieme a Benjamin Lazar Davis (visto l'anno scorso al Parco della Musica), ha deciso di proporre questi concerti un po' intimi in quattro date italiane.
Stasera Joan ha un'aria particolarmente rilassata e contenta. Fin da subito apprezza l'affetto con cui il pubblico la accoglie, e scherza a più riprese, come quando ci dice che - dovendo decidere la mise per il concerto - ha deciso di vestirsi casual: ciò dopo essere salita su un palco con una tuta dorata e luccicante super attillata e degli stivaletti tacco 14. O ancora quando non sa quale canzone segue nella scaletta e si piega a prendere il foglio, dicendoci che ormai non ci vede mica più tanto bene e se lo porta vicinissimo agli occhi.
Le prime canzoni del suo concerto ce le propone seduta al pianoforte a coda: sono delle slowed versions delle sue canzoni più famose, soprattutto dei primi album. L'atmosfera è molto calda e intima, e il pubblico ascolta in religioso silenzio salvo poi esplodere in applausi e urletti al termine di ciascuna esecuzione.
Dal pianoforte Joan si sposta poi alla chitarra, dove di nuovo ci propone alcune canzoni del suo repertorio con arrangiamenti minimali, che in qualche modo valorizzano la struttura originale delle sue composizioni nonché i testi.
Durante questa prima parte del concerto ci fa ascoltare anche due inediti: una canzone dedicata a suo padre venuto a mancare poco tempo fa e una dedicata al cantante Elliott Smith. Poi a un certo punto Joan ci dice che ci esegue l'ultima canzone... e lì vocìo di disapprovazione del pubblico; ma Joan ci sta in realtà dicendo che quella sarà l'ultima canzone che parla di morte, e che poi passerà a canzoni più allegre nei contenuti e nei ritmi!
Peccato che a un certo punto sbaglia un accordo alla chitarra, e con quello la sua concentrazione si sfilaccia un po'. Cosicché la seconda parte del concerto risulta meno perfetta e armoniosa sul piano dell'esecuzione musicale e canora, ma non meno coinvolgente e affettuosa.
In fondo il concerto di stasera è una specie di occasione di ritrovo tra amici di lunga data, Joan da una parte e il pubblico romano dall'altra, amici che si stimano e si vogliono bene, e che sono pienamente disponibili a comprendere le imperfezioni dell'altro, perché questo li rende ancora più vicini e umani.
Ed è per questo che, nonostante tutto, quando Joan termine la sua scaletta, il pubblico la richiama a gran voce una prima e una seconda volta, perché quando si è amici il tempo che si trascorre insieme passa sempre troppo in fretta e non ci si vorrebbe mai lasciar andare.
Ti aspettiamo presto di nuovo a Roma, Joan. Non ci fare aspettare troppo.
Voto: 3,5/5
Il perché ce lo spiega lei stessa praticamente all'inizio del concerto: non riesce a stare troppo lontana dall'Italia di cui è praticamente innamorata, e in attesa dell'uscito a ottobre del suo nuovo album, realizzato insieme a Benjamin Lazar Davis (visto l'anno scorso al Parco della Musica), ha deciso di proporre questi concerti un po' intimi in quattro date italiane.
Stasera Joan ha un'aria particolarmente rilassata e contenta. Fin da subito apprezza l'affetto con cui il pubblico la accoglie, e scherza a più riprese, come quando ci dice che - dovendo decidere la mise per il concerto - ha deciso di vestirsi casual: ciò dopo essere salita su un palco con una tuta dorata e luccicante super attillata e degli stivaletti tacco 14. O ancora quando non sa quale canzone segue nella scaletta e si piega a prendere il foglio, dicendoci che ormai non ci vede mica più tanto bene e se lo porta vicinissimo agli occhi.
Le prime canzoni del suo concerto ce le propone seduta al pianoforte a coda: sono delle slowed versions delle sue canzoni più famose, soprattutto dei primi album. L'atmosfera è molto calda e intima, e il pubblico ascolta in religioso silenzio salvo poi esplodere in applausi e urletti al termine di ciascuna esecuzione.
Dal pianoforte Joan si sposta poi alla chitarra, dove di nuovo ci propone alcune canzoni del suo repertorio con arrangiamenti minimali, che in qualche modo valorizzano la struttura originale delle sue composizioni nonché i testi.
Durante questa prima parte del concerto ci fa ascoltare anche due inediti: una canzone dedicata a suo padre venuto a mancare poco tempo fa e una dedicata al cantante Elliott Smith. Poi a un certo punto Joan ci dice che ci esegue l'ultima canzone... e lì vocìo di disapprovazione del pubblico; ma Joan ci sta in realtà dicendo che quella sarà l'ultima canzone che parla di morte, e che poi passerà a canzoni più allegre nei contenuti e nei ritmi!
Peccato che a un certo punto sbaglia un accordo alla chitarra, e con quello la sua concentrazione si sfilaccia un po'. Cosicché la seconda parte del concerto risulta meno perfetta e armoniosa sul piano dell'esecuzione musicale e canora, ma non meno coinvolgente e affettuosa.
In fondo il concerto di stasera è una specie di occasione di ritrovo tra amici di lunga data, Joan da una parte e il pubblico romano dall'altra, amici che si stimano e si vogliono bene, e che sono pienamente disponibili a comprendere le imperfezioni dell'altro, perché questo li rende ancora più vicini e umani.
Ed è per questo che, nonostante tutto, quando Joan termine la sua scaletta, il pubblico la richiama a gran voce una prima e una seconda volta, perché quando si è amici il tempo che si trascorre insieme passa sempre troppo in fretta e non ci si vorrebbe mai lasciar andare.
Ti aspettiamo presto di nuovo a Roma, Joan. Non ci fare aspettare troppo.
Voto: 3,5/5
mercoledì 25 maggio 2016
Gianni Berengo Gardin. "Vera fotografia". Reportage, immagini, incontri. Palazzo delle Esposizioni, 21 maggio 2016
Dal 19 maggio al 28 agosto è in corso al Palazzo delle Esposizioni una mostra dedicata a uno dei più grandi fotografi italiani viventi, Gianni Berengo Gardin. E io non potevo assolutamente perderla (dopo aver già visto a suo tempo la mostra parallela dedicata a Berengo Gardin e Erwitt all'Auditorium).
La mostra, che ha come sottotitolo "Vera fotografia". Reportage, immagini, incontri, occupa la parte principale del primo piano del Palazzo. Per essere precisi si sviluppa nelle sei sale che si aprono intorno all'atrio centrale, dove sono posizionate delle bacheche che contengono alcuni dei numerosi libri fotografici realizzati da Berengo Gardin.
Le sei sale sono dedicate a temi e filoni dell'opera del fotografo, e nello specifico a Venezia, Milano, Il mondo del lavoro, Manicomi, Zingari, La protesta, Il racconto dell’Italia, Ritratti, Figure in primo piano, La casa e il mondo, Dai paesaggi alle Grandi Navi, in una costruzione circolare che inizia e finisce con la città di Venezia, luogo di elezione del fotografo. In alcuni di questi temi riecheggiano gli oggetti di indagine di famosi reportage realizzati nel tempo da Berengo Gardin, ad esempio quello sui manicomi italiani insieme a Basaglia, che diede poi vita al libro Morire di classe, fino ad arrivare al recente lavoro sulle grandi navi a Venezia.
Ogni sala è poi arricchita da alcune stampe di grande dimensione, scelte all'interno della produzione sterminata del fotografo, da amici, colleghi e intellettuali di varia provenienza e da questi commentate portando il proprio punto di vista all'opera già fortemente evocativa di Berengo Gardin.
Il risultato è davvero di grande rilievo, visto che il percorso della mostra consente sia di attraversare la storia dell'Italia dagli anni Cinquanta a oggi (che è il periodo coperto dalla produzione del fotografo) sia di entrare in contatto con la poetica di Berengo Gardin, dando un senso a quel timbro in verde "Vera fotografia", che è apposto sul retro di tutte le sue foto, e che è stato scelto come parola chiave per la lettura di questa mostra antologica.
Berengo Gardin, come afferma lui stesso, ha sempre guardato il mondo attraverso la macchina fotografica e lo ha sempre visto in bianco e nero, come la scrittura sopra la pagina. Questo per dire che per Berengo Gardin la fotografia è il principale strumento di conoscenza e comprensione del mondo e che questo strumento, nonostante i molti cambiamenti tecnologici e le possibilità sempre più ampie che si sono aperte nel tempo, è stato da lui utilizzato sempre nello stesso modo, ossia come occasione di osservazione. Berengo Gardin entra nei contesti e li documenta, poi sceglie e dunque propone una sua narrazione, come è normale che sia per il mezzo fotografico, ma non ama la post-produzione. Il lavoro del fotografo per lui avviene sul campo, applicando l'occhio fotografico individuale al mezzo fotografico. Il dopo è semmai dialogo tra le fotografie e chi le guarda: il fotografo stesso e il pubblico cui verranno date in pasto.
In quella "vera fotografia" non c'è né l'ingenuità né la presunzione di pensare che possa esistere una fotografia vera e una falsa, dacché fotografare significa leggere la realtà e la lettura fotografica è sempre una interpretazione della realtà. Però c'è il desiderio di esprimere la necessità e la scelta di un contatto forte tra fotografo e contesto, senza del quale il lavoro di Berengo Gardin non esisterebbe.
Passeggiando attraverso le fotografie di Berengo Gardin e in parte anche attraverso le sue parole, scritte in grandi caratteri su alcune pareti, è evidente che la cifra più significativa del suo lavoro si sostanzia dello sguardo affettuoso verso l'umanità tutta, sia quando essa è soggetto primario della sua fotografia, sia quando essa si fonde con l'ambiente circostante, sia quando protagonisti sono diseredati ed emarginati, sia quando si tratti di gente comune ovvero di personaggi famosi.
C'è una sorta di continuità e atemporalità nelle sue foto che talvolta ci costringe a guardare la didascalia per capire in che anno è stata scattata quella che stiamo guardando, e nello stesso tempo c'è - altrettanto forte - il racconto di un'epoca, di un momento storico, di una condizione sociale determinata e irripetibile. Forse perché Berengo Gardin ci ha raccontato l'umanità nell'immutabilità di alcuni suoi caratteri, ma anche un contesto sociale che a quella immutabilità conferisce sfumature e orizzonti che cambiano nel tempo.
Chiunque ami la fotografia non può non amare visceralmente le foto di Gianni Berengo Gardin, e desiderare con tutto se stesso di riuscire a dire con le proprie foto anche solo un centesimo di quello che Berengo Gardin ha raccontato con le sue.
Voto: 4/5
La mostra, che ha come sottotitolo "Vera fotografia". Reportage, immagini, incontri, occupa la parte principale del primo piano del Palazzo. Per essere precisi si sviluppa nelle sei sale che si aprono intorno all'atrio centrale, dove sono posizionate delle bacheche che contengono alcuni dei numerosi libri fotografici realizzati da Berengo Gardin.
Le sei sale sono dedicate a temi e filoni dell'opera del fotografo, e nello specifico a Venezia, Milano, Il mondo del lavoro, Manicomi, Zingari, La protesta, Il racconto dell’Italia, Ritratti, Figure in primo piano, La casa e il mondo, Dai paesaggi alle Grandi Navi, in una costruzione circolare che inizia e finisce con la città di Venezia, luogo di elezione del fotografo. In alcuni di questi temi riecheggiano gli oggetti di indagine di famosi reportage realizzati nel tempo da Berengo Gardin, ad esempio quello sui manicomi italiani insieme a Basaglia, che diede poi vita al libro Morire di classe, fino ad arrivare al recente lavoro sulle grandi navi a Venezia.
Ogni sala è poi arricchita da alcune stampe di grande dimensione, scelte all'interno della produzione sterminata del fotografo, da amici, colleghi e intellettuali di varia provenienza e da questi commentate portando il proprio punto di vista all'opera già fortemente evocativa di Berengo Gardin.
Il risultato è davvero di grande rilievo, visto che il percorso della mostra consente sia di attraversare la storia dell'Italia dagli anni Cinquanta a oggi (che è il periodo coperto dalla produzione del fotografo) sia di entrare in contatto con la poetica di Berengo Gardin, dando un senso a quel timbro in verde "Vera fotografia", che è apposto sul retro di tutte le sue foto, e che è stato scelto come parola chiave per la lettura di questa mostra antologica.
Berengo Gardin, come afferma lui stesso, ha sempre guardato il mondo attraverso la macchina fotografica e lo ha sempre visto in bianco e nero, come la scrittura sopra la pagina. Questo per dire che per Berengo Gardin la fotografia è il principale strumento di conoscenza e comprensione del mondo e che questo strumento, nonostante i molti cambiamenti tecnologici e le possibilità sempre più ampie che si sono aperte nel tempo, è stato da lui utilizzato sempre nello stesso modo, ossia come occasione di osservazione. Berengo Gardin entra nei contesti e li documenta, poi sceglie e dunque propone una sua narrazione, come è normale che sia per il mezzo fotografico, ma non ama la post-produzione. Il lavoro del fotografo per lui avviene sul campo, applicando l'occhio fotografico individuale al mezzo fotografico. Il dopo è semmai dialogo tra le fotografie e chi le guarda: il fotografo stesso e il pubblico cui verranno date in pasto.
In quella "vera fotografia" non c'è né l'ingenuità né la presunzione di pensare che possa esistere una fotografia vera e una falsa, dacché fotografare significa leggere la realtà e la lettura fotografica è sempre una interpretazione della realtà. Però c'è il desiderio di esprimere la necessità e la scelta di un contatto forte tra fotografo e contesto, senza del quale il lavoro di Berengo Gardin non esisterebbe.
Passeggiando attraverso le fotografie di Berengo Gardin e in parte anche attraverso le sue parole, scritte in grandi caratteri su alcune pareti, è evidente che la cifra più significativa del suo lavoro si sostanzia dello sguardo affettuoso verso l'umanità tutta, sia quando essa è soggetto primario della sua fotografia, sia quando essa si fonde con l'ambiente circostante, sia quando protagonisti sono diseredati ed emarginati, sia quando si tratti di gente comune ovvero di personaggi famosi.
C'è una sorta di continuità e atemporalità nelle sue foto che talvolta ci costringe a guardare la didascalia per capire in che anno è stata scattata quella che stiamo guardando, e nello stesso tempo c'è - altrettanto forte - il racconto di un'epoca, di un momento storico, di una condizione sociale determinata e irripetibile. Forse perché Berengo Gardin ci ha raccontato l'umanità nell'immutabilità di alcuni suoi caratteri, ma anche un contesto sociale che a quella immutabilità conferisce sfumature e orizzonti che cambiano nel tempo.
Chiunque ami la fotografia non può non amare visceralmente le foto di Gianni Berengo Gardin, e desiderare con tutto se stesso di riuscire a dire con le proprie foto anche solo un centesimo di quello che Berengo Gardin ha raccontato con le sue.
Voto: 4/5
lunedì 23 maggio 2016
L’importante è finire / Flavia Biondi
L’importante è finire / Flavia Biondi. Bologna: Renbooks, 2015.
Edo e Diana sono una giovane coppia: stanno insieme da otto anni e vivono sotto lo stesso tetto.
Un giorno Diana torna a casa con i capelli tagliati cortissimi. È il segno esteriore di una fase di cambiamento e di presa di coscienza di sé che l'ha finalmente portata a fare il lavoro che desiderava, l'illustratrice, ma che l'allontana da Edo, da tempo fermo al palo: pittore promettente, si è rassegnato a fare il tatuatore.
Sotto le loro vite scorrono le canzoni di Mia Martini, di Mina e delle altre grandi cantanti italiane del passato, tanto amate da Edo.
A questo bivio, le vite dei due giovani vanno in direzioni diverse: Diana si innamora di una donna, Edo non solo non capisce, ma assume un atteggiamento di rifiuto che a tratti si fa omofobia.
È inevitabile dunque che le loro strade si dividano, ma è proprio questo allontanamento che consentirà ad ognuno di loro di uscire dalle sabbie mobili in cui volontariamente si è infilato per ritrovare se stesso e le proprie aspirazioni. E alla fine anche per ritrovarsi e non perdere il patrimonio di amicizia e confidenza che una storia così lunga ha costruito.
Quella che Flavia Biondi ci racconta in fumetto è una storia piccola, ma in cui si affrontano con una squisita delicatezza temi molto importanti, tra cui l'omofobia, l'identità di genere, le dinamiche di coppia, la crescita individuale. Il risultato è un albo duro e tenero al contempo, una vicenda nella quale non è importante il sesso della persona che si ama ma il riconoscimento delle dinamiche dell'amore e del rapporto tra questo e l'evolvere del nostro mondo interiore.
Bello.
Voto: 3,5/5
Edo e Diana sono una giovane coppia: stanno insieme da otto anni e vivono sotto lo stesso tetto.
Un giorno Diana torna a casa con i capelli tagliati cortissimi. È il segno esteriore di una fase di cambiamento e di presa di coscienza di sé che l'ha finalmente portata a fare il lavoro che desiderava, l'illustratrice, ma che l'allontana da Edo, da tempo fermo al palo: pittore promettente, si è rassegnato a fare il tatuatore.
Sotto le loro vite scorrono le canzoni di Mia Martini, di Mina e delle altre grandi cantanti italiane del passato, tanto amate da Edo.
A questo bivio, le vite dei due giovani vanno in direzioni diverse: Diana si innamora di una donna, Edo non solo non capisce, ma assume un atteggiamento di rifiuto che a tratti si fa omofobia.
È inevitabile dunque che le loro strade si dividano, ma è proprio questo allontanamento che consentirà ad ognuno di loro di uscire dalle sabbie mobili in cui volontariamente si è infilato per ritrovare se stesso e le proprie aspirazioni. E alla fine anche per ritrovarsi e non perdere il patrimonio di amicizia e confidenza che una storia così lunga ha costruito.
Quella che Flavia Biondi ci racconta in fumetto è una storia piccola, ma in cui si affrontano con una squisita delicatezza temi molto importanti, tra cui l'omofobia, l'identità di genere, le dinamiche di coppia, la crescita individuale. Il risultato è un albo duro e tenero al contempo, una vicenda nella quale non è importante il sesso della persona che si ama ma il riconoscimento delle dinamiche dell'amore e del rapporto tra questo e l'evolvere del nostro mondo interiore.
Bello.
Voto: 3,5/5
venerdì 20 maggio 2016
La pazza gioia
Come ha detto la mia amica A. con cui sono andata al cinema, non v'è dubbio sul fatto che Virzì non è Bergman. Insomma, voi tutti intellettuali snob e puristi del cinema d'autore, non vi aspettate un film di alto spessore intellettuale perché quello di Virzì non lo è e non pretende di esserlo.
Con questo film, il regista (con la collaborazione alla sceneggiatura di Francesca Archibugi, perché forse serviva un occhio femminile per raccontare una amicizia tra donne) torna in parte ai luoghi e alle atmosfere de La prima cosa bella, e - come allora - ci fa ridere e sorridere, e infine ci strappa il lacrimone.
Perché pochi altri registi hanno la capacità di Virzì di creare un'empatia così profonda tra il pubblico e i suoi personaggi, di raccontarceli con questo sguardo affettuoso e partecipe della fragilità e della bellezza dell'umanità.
Anche qui tornano in primo piano i rapporti tra genitori e figli, in particolare quello tra Donatella (Micaela Ramazzotti) e il figlio che le è stato tolto, e ancora quello tra Donatella e i suoi genitori assenti ed egoisti. Ma ne La pazza gioia su tutto campeggia l'amicizia strampalata tra due donne, la stessa Donatella e Beatrice (una strepitosa Valeria Bruni Tedeschi) scombinate e diversissime, che si nascondono e si arroccano dietro la tragica comicità del loro essere borderline (e oltre) e consapevoli di esserlo.
Dal mondo protetto del centro di accoglienza per donne con situazioni di disagio mentale all'avventura on the road, Donatella e Beatrice ripercorrono le loro vite disgregate, le lacerazioni affettive, gli uomini sbagliati, la solitudine, che le hanno condotte sull'orlo del baratro della follia, ma che non ha tolto loro nemmeno un grammo di umanità, alla ricerca di un senso, di un motivo per andare avanti, per non cedere all'autodistruzione. E il motivo arriva nel valore di un'amicizia che va al di là della diversità e della pazzia per comprendere il dolore e che restituisce fiducia.
Paolo Virzì parla alla pancia dello spettatore, e tutto - la splendida ambientazione toscana, le musiche, la carica autodistruttiva di Beatrice e la depressione devastante di Donatella - ci spinge a parteggiare per queste due donne, a desiderare per loro quel lieto fine (se di lieto fine si può parlare) che forse la vita non gli ha concesso, a veder vincere quei buoni sentimenti che spesso fanno difetto nella realtà, senza per questo rinunciare al sorriso e all'ironia. In questo quadro appare leggera e commovente anche la palese citazione di un grande classico dell'amicizia femminile, Thelma & Louise.
Probabilmente il mondo di Virzì è una versione un po' buonista del mondo reale, eppure dal mondo reale è in grado di ereditare la vitalità e la complessità dei sentimenti, così come anche la comprensione e la compassione verso la debolezza umana.
Trovo infine apprezzabile la scelta del regista di portare in primo piano una tematica sociale enorme, quello del disagio sociale che si fa anche disagio psicologico, senza però proporre ricette semplici, senza voler insegnare nulla, senza doverci costruire per forza intorno un trattato di sociologia.
A me personalmente sembra che in questo tipo di film Virzì riesca - meglio che in altri - a parlare al pubblico e direi che l'applauso spontaneo alla fine del film in un qualunque cinema di periferia com'era quello in cui mi trovano e la standing ovation a Cannes lo confermano.
Voto: 4/5
Con questo film, il regista (con la collaborazione alla sceneggiatura di Francesca Archibugi, perché forse serviva un occhio femminile per raccontare una amicizia tra donne) torna in parte ai luoghi e alle atmosfere de La prima cosa bella, e - come allora - ci fa ridere e sorridere, e infine ci strappa il lacrimone.
Perché pochi altri registi hanno la capacità di Virzì di creare un'empatia così profonda tra il pubblico e i suoi personaggi, di raccontarceli con questo sguardo affettuoso e partecipe della fragilità e della bellezza dell'umanità.
Anche qui tornano in primo piano i rapporti tra genitori e figli, in particolare quello tra Donatella (Micaela Ramazzotti) e il figlio che le è stato tolto, e ancora quello tra Donatella e i suoi genitori assenti ed egoisti. Ma ne La pazza gioia su tutto campeggia l'amicizia strampalata tra due donne, la stessa Donatella e Beatrice (una strepitosa Valeria Bruni Tedeschi) scombinate e diversissime, che si nascondono e si arroccano dietro la tragica comicità del loro essere borderline (e oltre) e consapevoli di esserlo.
Dal mondo protetto del centro di accoglienza per donne con situazioni di disagio mentale all'avventura on the road, Donatella e Beatrice ripercorrono le loro vite disgregate, le lacerazioni affettive, gli uomini sbagliati, la solitudine, che le hanno condotte sull'orlo del baratro della follia, ma che non ha tolto loro nemmeno un grammo di umanità, alla ricerca di un senso, di un motivo per andare avanti, per non cedere all'autodistruzione. E il motivo arriva nel valore di un'amicizia che va al di là della diversità e della pazzia per comprendere il dolore e che restituisce fiducia.
Paolo Virzì parla alla pancia dello spettatore, e tutto - la splendida ambientazione toscana, le musiche, la carica autodistruttiva di Beatrice e la depressione devastante di Donatella - ci spinge a parteggiare per queste due donne, a desiderare per loro quel lieto fine (se di lieto fine si può parlare) che forse la vita non gli ha concesso, a veder vincere quei buoni sentimenti che spesso fanno difetto nella realtà, senza per questo rinunciare al sorriso e all'ironia. In questo quadro appare leggera e commovente anche la palese citazione di un grande classico dell'amicizia femminile, Thelma & Louise.
Probabilmente il mondo di Virzì è una versione un po' buonista del mondo reale, eppure dal mondo reale è in grado di ereditare la vitalità e la complessità dei sentimenti, così come anche la comprensione e la compassione verso la debolezza umana.
Trovo infine apprezzabile la scelta del regista di portare in primo piano una tematica sociale enorme, quello del disagio sociale che si fa anche disagio psicologico, senza però proporre ricette semplici, senza voler insegnare nulla, senza doverci costruire per forza intorno un trattato di sociologia.
A me personalmente sembra che in questo tipo di film Virzì riesca - meglio che in altri - a parlare al pubblico e direi che l'applauso spontaneo alla fine del film in un qualunque cinema di periferia com'era quello in cui mi trovano e la standing ovation a Cannes lo confermano.
Voto: 4/5
mercoledì 18 maggio 2016
Buriers. Black Market, Unplugged in Monti, 11 maggio 2016
"we all die twice
the first time when we cease to breathe and the last time is the last time someone speaks our name
the last time
the last time"
the first time when we cease to breathe and the last time is the last time someone speaks our name
the last time
the last time"
Che S.P.E.T.T.A.C.O.L.O!
Questi musicisti per me sconosciuti fino a qualche mese fa mi hanno veramente conquistata! E, per questo, devo dire grazie ai ragazzi di Unplugged in Monti che - come già molte altre volte - mi permettono di scoprire tanta bella musica. L'annuncio del loro concerto mi ha spinto ad ascoltare qualche canzone su YouTube e poi ha comprare su bandcamp il loro ultimo album.
Fin dal primo ascolto mi hanno sorpreso e hanno creato in me un grande interesse per la loro musica. Cosicché ho subito deciso che non potevo mancare al loro concerto.
Al Black Market si presentano in una formazione a tre: il frontman James P. Honey che canta, suona le chitarre e uno strano strumento che sembra un ibrido tra una fisarmonica e un piano (e sta poggiato su un tavolino), Jamie Romain che canta e suona il violoncello, e Jamie Gillett, un ragazzo con i capelli e la barba lunghissima che suona la batteria. Manca una componente storica della band, Laura Mallows, che canta e suona il violino.
Ora, tenendo conto dell'ensemble strumentale con cui si presentano sono sicura che tutti voi vi aspettereste della chamber music. Ma la musica dei Buriers è un mix originale e forse difficile da etichettare; loro si definiscono un gruppo di anti-rap alternative folk, che è tutto dire.
Dentro la loro musica c'è infatti il parlato tipico del rap, ma c'è anche la musica indie e arrangiamenti da musica da camera. Un originale connubio che io personalmente ho trovato magico. Non sono un'appassionata di rap, ma il modo in cui i Buriers fanno sposare il rap con tutto il resto è davvero unico.
Il frontman James P. Honey è davvero un personaggio incredibile, e oltre a offrirci una performance musicale di tutto rispetto, ci intrattiene e ci fa divertire. Per tutto il concerto porta avanti una gag con una ragazza seduta in prima fila che ha in mano i fogli con i testi delle loro canzoni, e continua a lamentarsi del proprio aspetto a causa di una maglietta brutta e sformata che gli hanno prestato e che porta addosso.
Inoltre, ad ogni pausa, James ci racconta anche il contesto in cui sono nate alcune delle loro canzoni, che spesso contengono critiche profonde di alcuni aspetti della contemporaneità. Resto colpita in particolare dal racconto di come è nata la canzone We are small, una delle mie preferite. Dice James che si trovavano in mezzo alle montagne austriache e mentre davanti a loro avevano il cielo azzurro dietro di loro arrivava una tempesta spaventosa; e lì hanno pensato a quanto siamo piccoli e insignificanti. Ma la cosa più bella è che James ha aggiunto che in fondo è bellissimo e liberatorio essere così insignificanti!
Ci propongono gran parte del loro repertorio, ma quando annunciano la loro ultima canzone il pubblico rumoreggia perché non li vuole lasciare andar via. Così i tre ragazzi ci offrono ancora tre saggi della loro bravura, e dopo l'ennesima richiesta di rimanere ancora un po' con noi, James ci propone una cover e si congeda.
Una serata speciale. Un'esperienza musicale notevole. Un contatto umano bello. Cosicché non posso non comprare almeno una shopping bag dei Buriers da portarmi a casa.
Voto: 4,5/5
lunedì 16 maggio 2016
Microbo & Gasolina
Daniel (Ange Dargent) è un ragazzino di 14 anni; tutti lo chiamano Microbo perché è piccolo e dimostra meno della sua età, e lo prendono in giro perché porta i capelli lunghi e molti lo scambiano per una ragazzina. Daniel è diverso dai suoi coetanei e per questo a scuola è un po’ isolato; è innamorato di Laura ma lei lo vede solo come un amico. Daniel ha una mamma depressa, un fratello maniaco dell’ordine, un altro fratello punk. Adora disegnare e ha un vero e proprio dono per il disegno.
Anche Théo (Théophile Baquet) è diverso; spesso puzza di benzina perché gli piace mettere le mani nei motori ed è in grado, utilizzando rottami e pezzi di scarto, di realizzare cose bellissime. Per questo tutti lo chiamano Gasolina. Théo ha una mamma in sovrappeso che in casa non fa niente, un padre antiquario parecchio burbero e un fratello ex tossico adesso sotto le armi. Théo è anche lui un solitario, ma sicuro di sé, buontempone, divertente, pronto a smascherare senza paura la pochezza degli altri, dotato di un’immaginazione senza confini.
Quando Théo arriva nella classe di Daniel, le loro diversità sono inevitabilmente destinate a incontrarsi. I due ragazzini imparano a conoscersi e diventano amici inseparabili, fino a quando, alla conclusione dell’anno scolastico, i due decidono di costruirsi una specie di casa viaggiante su quattro ruote con cui progettano di esplorare la Francia.
Sarà un’estate di scoperta del mondo e di sé, in perfetta sintonia con il topos letterario e cinematografico del romanzo di formazione e del coming of age.
Attraverso mille avventure e peripezie Microbo e Gasolina prenderanno coscienza della forza della loro diversità e dell’importanza di accettare pienamente se stessi sia per essere accettati dagli altri sia per accettare di non dover piacere a tutti.
Questi due ragazzini ci fanno ridere, sorridere e commuovere, e chiunque nella propria adolescenza si sia sentito diverso dagli altri non potrà non riconoscersi nei sentimenti di Daniel e Théo, nelle loro paure, nella loro spensieratezza, nei loro dubbi, in quella paralizzante sensazione di non farcela, di non essere in grado, di perdere la sfida con la vita.
Con questo film Michel Gondry mi pare faccia un’operazione parzialmente autobiografica raccontandoci quel se stesso incredibilmente dotato ma emarginato, che forse proprio l’incontro con un altro, diverso da sé, ma capace di farlo sentire meno solo e soprattutto capito, ha trasformato in quel regista immaginifico che non ha perso nemmeno da adulto la voglia e il desiderio di coltivare i propri sogni.
E forse proprio questo è il messaggio e l’augurio che arriva dal film di Gondry: per quanto vi possiate sentire strani e diversi, vi auguro di incontrare qualcuno per il quale quella stranezza è bellezza e quella diversità è ricchezza.
Voto: 3,5/5
Anche Théo (Théophile Baquet) è diverso; spesso puzza di benzina perché gli piace mettere le mani nei motori ed è in grado, utilizzando rottami e pezzi di scarto, di realizzare cose bellissime. Per questo tutti lo chiamano Gasolina. Théo ha una mamma in sovrappeso che in casa non fa niente, un padre antiquario parecchio burbero e un fratello ex tossico adesso sotto le armi. Théo è anche lui un solitario, ma sicuro di sé, buontempone, divertente, pronto a smascherare senza paura la pochezza degli altri, dotato di un’immaginazione senza confini.
Quando Théo arriva nella classe di Daniel, le loro diversità sono inevitabilmente destinate a incontrarsi. I due ragazzini imparano a conoscersi e diventano amici inseparabili, fino a quando, alla conclusione dell’anno scolastico, i due decidono di costruirsi una specie di casa viaggiante su quattro ruote con cui progettano di esplorare la Francia.
Sarà un’estate di scoperta del mondo e di sé, in perfetta sintonia con il topos letterario e cinematografico del romanzo di formazione e del coming of age.
Attraverso mille avventure e peripezie Microbo e Gasolina prenderanno coscienza della forza della loro diversità e dell’importanza di accettare pienamente se stessi sia per essere accettati dagli altri sia per accettare di non dover piacere a tutti.
Questi due ragazzini ci fanno ridere, sorridere e commuovere, e chiunque nella propria adolescenza si sia sentito diverso dagli altri non potrà non riconoscersi nei sentimenti di Daniel e Théo, nelle loro paure, nella loro spensieratezza, nei loro dubbi, in quella paralizzante sensazione di non farcela, di non essere in grado, di perdere la sfida con la vita.
Con questo film Michel Gondry mi pare faccia un’operazione parzialmente autobiografica raccontandoci quel se stesso incredibilmente dotato ma emarginato, che forse proprio l’incontro con un altro, diverso da sé, ma capace di farlo sentire meno solo e soprattutto capito, ha trasformato in quel regista immaginifico che non ha perso nemmeno da adulto la voglia e il desiderio di coltivare i propri sogni.
E forse proprio questo è il messaggio e l’augurio che arriva dal film di Gondry: per quanto vi possiate sentire strani e diversi, vi auguro di incontrare qualcuno per il quale quella stranezza è bellezza e quella diversità è ricchezza.
Voto: 3,5/5
sabato 14 maggio 2016
Armaud + Any Other. Teatro Quirinetta, 8 maggio 2016
Dall'uscita del loro disco Silently. Quietly. Going away gli Any Other avevano suonato a Roma già due volte, ma tutte le volte per motivi vari me li ero persi. Così, quando ho visto che era previsto un loro nuovo concerto al Quirinetta, mi sono fiondata a comprare i biglietti.
Ed eccomi qua, insieme a F., in un Quirinetta ancora praticamente deserto. Ci sediamo alle poltroncine laterali a fare due chiacchiere in attesa che sul palco salga il primo gruppo previsto per oggi, Armaud.
La giovane età dei gruppi che si esibiranno oggi si rispecchia nell'età media del pubblico, mai così bassa ai concerti cui ho partecipato ultimamente. Poco a poco il parterre si riempie e in prima fila ci sono questi ragazzi ventenni con le facce pulite, che mi fanno tantissima tenerezza e mi danno anche tanta speranza.
Sale sul palco Armaud, la multistrumentista romana Paola Fecarotta, accompagnata dagli altri due componenti del trio, Marco Bonini (dei mamavegas) e Marco Mirk. Il primo pezzo è interamente strumentale e ci dà la misura delle sonorità di questo gruppo, che sono un mix particolare di melodie in parte già sentite e soluzioni e proposte nuove. La voce di Armaud è un soffio, che viene totalmente soffocato da chitarre e batteria. Solo nel pezzo in cui Armaud canta da sola con la sua chitarra si può davvero apprezzare il suo essere anche cantante. Ma la giovane musicista, che ci fa ascoltare tromba, chitarra e tastiere, e che mostra una timidezza incredibile nei confronti del pubblico, sa il fatto suo e la sua performance si fa apprezzare.
Alla fine del loro concerto e dopo una breve pausa ecco salire sul palco gli Any Other. Qui è evidente da subito che l'anima del gruppo è Adele Nigro, una ragazza di 22 anni che quando suona la sua chitarra e canta dimostra di avere personalità da vendere. La ragazza, che ha iniziato giovanissima a suonare in un duo chiamato Lovecats, è accompagnata da Erica alla batteria e Marco al basso in questa nuova avventura musicale che si chiama Any Other.
L'estetica e la fighettaggine non sono certamente le cose su cui questo giovane gruppo punta, ma la sostanza è tanta. Le sonorità indie-rock anni '90, i testi giovanilisti, ma ispirati, delle canzoni, la voce possente di Adele, le melodie che si sviluppano in un crescendo che trascina il pubblico sono i loro punti di forza.
Adele canta in inglese non solo con un accento invidiabile ma con una padronanza notevole, e mentre la guardo, la ascolto e la fotografo penso che questa ragazza è destinata a fare strada, e forse non solo nella musica. Spero che non molli, e penso che non riesco a non avere fiducia in questi ventenni con gli occhi pieni di bellezza, (un po' come Gianni Zanasi nel suo La felicità è un sistema complesso).
Il pubblico - pur non numerosissimo - si muove a ritmo, applaude e partecipa, evidentemente gratificato dalla musica che questi ragazzi stanno esprimendo sul palco.
E, come sono arrivati, così gli Any Other se ne vanno, mescolandosi al pubblico, esattamente come quando sono entrati al Quirinetta e la prima cosa che hanno fatto è stata mettersi in platea ad ascoltare Armaud.
Bravi! Coltivate quello che siete e spero che diventerete quello che volete diventare (OMG, come sto diventando vecchia! ;-) )
Voto: 3/5
Ed eccomi qua, insieme a F., in un Quirinetta ancora praticamente deserto. Ci sediamo alle poltroncine laterali a fare due chiacchiere in attesa che sul palco salga il primo gruppo previsto per oggi, Armaud.
La giovane età dei gruppi che si esibiranno oggi si rispecchia nell'età media del pubblico, mai così bassa ai concerti cui ho partecipato ultimamente. Poco a poco il parterre si riempie e in prima fila ci sono questi ragazzi ventenni con le facce pulite, che mi fanno tantissima tenerezza e mi danno anche tanta speranza.
Sale sul palco Armaud, la multistrumentista romana Paola Fecarotta, accompagnata dagli altri due componenti del trio, Marco Bonini (dei mamavegas) e Marco Mirk. Il primo pezzo è interamente strumentale e ci dà la misura delle sonorità di questo gruppo, che sono un mix particolare di melodie in parte già sentite e soluzioni e proposte nuove. La voce di Armaud è un soffio, che viene totalmente soffocato da chitarre e batteria. Solo nel pezzo in cui Armaud canta da sola con la sua chitarra si può davvero apprezzare il suo essere anche cantante. Ma la giovane musicista, che ci fa ascoltare tromba, chitarra e tastiere, e che mostra una timidezza incredibile nei confronti del pubblico, sa il fatto suo e la sua performance si fa apprezzare.
Alla fine del loro concerto e dopo una breve pausa ecco salire sul palco gli Any Other. Qui è evidente da subito che l'anima del gruppo è Adele Nigro, una ragazza di 22 anni che quando suona la sua chitarra e canta dimostra di avere personalità da vendere. La ragazza, che ha iniziato giovanissima a suonare in un duo chiamato Lovecats, è accompagnata da Erica alla batteria e Marco al basso in questa nuova avventura musicale che si chiama Any Other.
L'estetica e la fighettaggine non sono certamente le cose su cui questo giovane gruppo punta, ma la sostanza è tanta. Le sonorità indie-rock anni '90, i testi giovanilisti, ma ispirati, delle canzoni, la voce possente di Adele, le melodie che si sviluppano in un crescendo che trascina il pubblico sono i loro punti di forza.
Adele canta in inglese non solo con un accento invidiabile ma con una padronanza notevole, e mentre la guardo, la ascolto e la fotografo penso che questa ragazza è destinata a fare strada, e forse non solo nella musica. Spero che non molli, e penso che non riesco a non avere fiducia in questi ventenni con gli occhi pieni di bellezza, (un po' come Gianni Zanasi nel suo La felicità è un sistema complesso).
Il pubblico - pur non numerosissimo - si muove a ritmo, applaude e partecipa, evidentemente gratificato dalla musica che questi ragazzi stanno esprimendo sul palco.
E, come sono arrivati, così gli Any Other se ne vanno, mescolandosi al pubblico, esattamente come quando sono entrati al Quirinetta e la prima cosa che hanno fatto è stata mettersi in platea ad ascoltare Armaud.
Bravi! Coltivate quello che siete e spero che diventerete quello che volete diventare (OMG, come sto diventando vecchia! ;-) )
Voto: 3/5
giovedì 12 maggio 2016
Friuli o non Friuli? This is the question
Quest'anno decidiamo di trascorrere il ponte del 25 aprile in Friuli, regione che io personalmente conosco poco, avendola frequentata solo per le lezioni del mio dottorato a Udine e per qualche occasione di lavoro a Trieste.
In realtà tutto nasce dal fatto che il video di una delle ultime canzoni di Elisa è girato alla riserva del Cornino e ci è venuta una gran voglia di esplorare questa zona. E così il nostro gruppo vacanze si dirige verso Forgaria nel Friuli, alle pendici del Monte Prat, dove abbiamo prenotato una intera casetta a nostra disposizione attraverso l'Albergo diffuso.
Quando arriviamo lì, anzi ancora prima perché con noi c'è un originario di Azzano Decimo in provincia di Pordenone che ce lo annuncia, capiamo che la litania sarà che al di qua (ossia a ovest) del Tagliamento non è veramente Friuli, tanto che non si parla neppure friulano. In realtà è una specie di boutade che i friulani dicono un po' per scherzo, ma alla fine è diventato il tema portante della nostra vacanza, visto che siamo andati continuamente da una parte all'altra del Tagliamento.
La prima sera, appena arrivati, il nostro primo incontro è con Anna Maria, la signora che ci consegna le chiavi di casa. E lì capiamo che i friulani non sono affatto chiusi e schivi come uno potrebbe pensare, bensì non aspettano che l'occasione buona per attaccare bottone. E così Anna Maria ci dà una prima prova della socialità inaspettata di questo popolo. Appena riusciamo a chiudere la conversazione, ci fiondiamo all'Agriturismo Verde Friuli dove facciamo la nostra prima cena a base di grassi saturi: salumi, formaggi, frico e primi piatti molto ben conditi. Tutto buonissimo e una gran vista notturna (con tanto di luna rossa) sul fiume Tagliamento e sul monte Ragogna.
Il giorno dopo il tempo è brutto e così - piuttosto che fare gite naturalistiche - decidiamo di andare a visitare un po' di paesi nei dintorni. Prima Venzone, distrutto dal terremoto e poi ricostruito pietra su pietra, con tanto di mura e di fortino esterno su cui ci inerpichiamo per godere la vista sulla città, sulle colline e sul fiume. Non prima di aver fatto una pausa all'Osteria Marcurele, dove oltre alla consueta fornitura di salumi e formaggi ci viene servito un Pinot grigio eccellente. E anche qui il proprietario ci dice mille cose di questa regione e sembra non ci voglia più lasciare andare. Visita alla cattedrale, al piccolo battistero esterno, puntatina al punto vendita della latteria di Venzone e a uno dei tanti negozi di lavanda, e ci si muove verso Gemona, altro paese pesantemente colpito dal terremoto del 1976. Qui saliamo al castello dove però sono ancora in corso i lavori di ricostruzione e poi ci dirigiamo verso il duomo, sulla cui facciata spicca la grande statua in bassorilievo di San Cristoforo e un fregio - sempre in bassorilievo - con i bellissimi magi dormienti. Il parroco sta andando via e ha appena chiuso tutto, ma quando ci vede riapre per noi e ci permette di visitare il duomo (collocato praticamente sotto una montagna) all'interno. Uscendo, anche lui inizia a raccontare la storia del terremoto e tutte le sue opinioni su quello che è successo dopo.
Tappa successiva ad Artegna in visita al piccolo castello Savorgnan (che non riusciamo a visitare all'interno), ma che sta in cima a una collinetta con tutta la sua grazia. Infine, eccoci a San Daniele, dove visitiamo prima la chiesetta sconsacrata di Sant'Antonio Abate dove c'è un abside interamente ricoperto di affreschi del tre-quattrocento (quella che gli abitanti chiamano "la loro cappella sistina") e poi saliamo alla piazza principale e facciamo un giro nelle stradine, soffermandoci in particolare alla casetta medievale che oggi è la sede degli alpini e da cui arriva un buon odorino di salsiccia arrosto.
E infatti è ormai ora di cena e siamo diretti in una frazione di San Daniele, Cimano dove si trova la Trattoria Dal Piciul e dove fortunosamente abbiamo trovato un tavolo. La cena è favolosa: piatti di prosciutto San Daniele divino, agnello, asparagi, dolci e vino, tutto buonissimo. Personale gentile e al momento di pagare la cameriera, che è in realtà la figlia del proprietario, non solo ci offre un liquore all'alloro ma ci intrattiene con una lunghissima conversazione pure lei, al punto che altri ospiti si spazientiscono perché non riescono a pagare.
Il secondo giorno siamo diretti verso il cosiddetto Museo della Grande Guerra, che è in realtà un museo all'aperto che segue alcuni sentieri nelle colline e nelle montagne intorno al Tagliamento. Il percorso inizia da Tabine dove lasciamo la macchina e ci incamminiamo nel bosco. Prima tappa è il castello di Ragogna, da cui si gode una vista spettacolare sulle colline e sull'onnipresente Tagliamento, poi decidiamo di proseguire verso le fortificazioni sul monte e quella che doveva essere una passeggiata di una mezz'oretta ci porta via quasi quattro ore, facendosi passare per la fattoria con le caprette e arrivare a un punto panoramico sul - che ve lo dico a fare - il Tagliamento. L'ora del pranzo è ormai passata da un pezzo, ma la fame no, dunque ripieghiamo su uno dei tanti posti vicino San Daniele che vendono prosciutto e facciamo uno spuntino con prosciutto e grissini! Slurp!
A questo punto abbiamo la forza di andare verso Cividale, nostra ultima tappa della giornata. Qui fa un freddo pazzesco, per cui immediatamente ci sediamo in un bar a prendere una tisana o una cioccolata calda ;-) Poi cominciamo i nostri giri per il centro. Le cose culturali da vedere sono tutte chiuse perché è tardi, cosicché attraversiamo più e più volte il bellissimo Ponte del Diavolo e ci perdiamo nelle stradine del borgo medievale fino al Monastero, e poi andiamo in piazza Paolo Diacono e inseguiamo le tracce delle origini romane della città. Per cena scegliamo l'Antico Leon d’oro, che – come tutti i posti dove abbiamo mangiato – non ci delude.
L’ultimo giorno della nostra permanenza friulana c’è finalmente un po’ di sole, così ne approfittiamo per andare finalmente alla riserva del Cornino. Prima andiamo al lago con le acque verdi e azzurre trasparentissime che si presta a essere fotografato in tutte le fogge. Peccato perché c’è parecchia gente e molti motociclisti in gita per il 25 aprile, altrimenti il posto sarebbe ancora più suggestivo. Dopo aver girato intorno al lago continuiamo attraverso i sentieri nella riserva e sbuchiamo sul Tagliamento (guarda un po’!), in un posto dove sembra di essere fuori dal mondo: fiume, sassi, sabbia, verde, fiori e montagne tutto intorno. Un posto che scenografico è dir poco. Certo, c’è anche una compagnia di genitori con bambini arrivati per un pic nic sul fiume, ma tutto sommato lo spazio è talmente grande che quasi non li si nota. Infine andiamo al punto di osservazione da cui si domina la riserva e si vede dall’alto sia il lago sia il fiume.
Ed eccoci sulla via verso casa a ora di pranzo. Da qualche parte bisognerà pure fermarsi a mangiare. Le nostre telefonate nei posti che ci piacerebbero hanno esito negativo: tutti oggi sono a mangiare fuori. Un barista ci dice che sulla strada la prima trattoria utile è a Valeriano. E qui infatti troviamo posto al Don Chisciotte. Non ci aspettiamo granché ma anche questa volta i friulani ci sorprendono e ci aspetta ancora una volta un pranzo strepitoso, per quanto certamente non leggero.
Satolli, siamo pronti a tornare verso casa, felici di aver scoperto una regione che non ci aspettavamo, così accogliente da tanti punti di vista, e pronti a tornarci per esplorarla ancora.
In realtà tutto nasce dal fatto che il video di una delle ultime canzoni di Elisa è girato alla riserva del Cornino e ci è venuta una gran voglia di esplorare questa zona. E così il nostro gruppo vacanze si dirige verso Forgaria nel Friuli, alle pendici del Monte Prat, dove abbiamo prenotato una intera casetta a nostra disposizione attraverso l'Albergo diffuso.
Quando arriviamo lì, anzi ancora prima perché con noi c'è un originario di Azzano Decimo in provincia di Pordenone che ce lo annuncia, capiamo che la litania sarà che al di qua (ossia a ovest) del Tagliamento non è veramente Friuli, tanto che non si parla neppure friulano. In realtà è una specie di boutade che i friulani dicono un po' per scherzo, ma alla fine è diventato il tema portante della nostra vacanza, visto che siamo andati continuamente da una parte all'altra del Tagliamento.
La prima sera, appena arrivati, il nostro primo incontro è con Anna Maria, la signora che ci consegna le chiavi di casa. E lì capiamo che i friulani non sono affatto chiusi e schivi come uno potrebbe pensare, bensì non aspettano che l'occasione buona per attaccare bottone. E così Anna Maria ci dà una prima prova della socialità inaspettata di questo popolo. Appena riusciamo a chiudere la conversazione, ci fiondiamo all'Agriturismo Verde Friuli dove facciamo la nostra prima cena a base di grassi saturi: salumi, formaggi, frico e primi piatti molto ben conditi. Tutto buonissimo e una gran vista notturna (con tanto di luna rossa) sul fiume Tagliamento e sul monte Ragogna.
Il giorno dopo il tempo è brutto e così - piuttosto che fare gite naturalistiche - decidiamo di andare a visitare un po' di paesi nei dintorni. Prima Venzone, distrutto dal terremoto e poi ricostruito pietra su pietra, con tanto di mura e di fortino esterno su cui ci inerpichiamo per godere la vista sulla città, sulle colline e sul fiume. Non prima di aver fatto una pausa all'Osteria Marcurele, dove oltre alla consueta fornitura di salumi e formaggi ci viene servito un Pinot grigio eccellente. E anche qui il proprietario ci dice mille cose di questa regione e sembra non ci voglia più lasciare andare. Visita alla cattedrale, al piccolo battistero esterno, puntatina al punto vendita della latteria di Venzone e a uno dei tanti negozi di lavanda, e ci si muove verso Gemona, altro paese pesantemente colpito dal terremoto del 1976. Qui saliamo al castello dove però sono ancora in corso i lavori di ricostruzione e poi ci dirigiamo verso il duomo, sulla cui facciata spicca la grande statua in bassorilievo di San Cristoforo e un fregio - sempre in bassorilievo - con i bellissimi magi dormienti. Il parroco sta andando via e ha appena chiuso tutto, ma quando ci vede riapre per noi e ci permette di visitare il duomo (collocato praticamente sotto una montagna) all'interno. Uscendo, anche lui inizia a raccontare la storia del terremoto e tutte le sue opinioni su quello che è successo dopo.
Tappa successiva ad Artegna in visita al piccolo castello Savorgnan (che non riusciamo a visitare all'interno), ma che sta in cima a una collinetta con tutta la sua grazia. Infine, eccoci a San Daniele, dove visitiamo prima la chiesetta sconsacrata di Sant'Antonio Abate dove c'è un abside interamente ricoperto di affreschi del tre-quattrocento (quella che gli abitanti chiamano "la loro cappella sistina") e poi saliamo alla piazza principale e facciamo un giro nelle stradine, soffermandoci in particolare alla casetta medievale che oggi è la sede degli alpini e da cui arriva un buon odorino di salsiccia arrosto.
E infatti è ormai ora di cena e siamo diretti in una frazione di San Daniele, Cimano dove si trova la Trattoria Dal Piciul e dove fortunosamente abbiamo trovato un tavolo. La cena è favolosa: piatti di prosciutto San Daniele divino, agnello, asparagi, dolci e vino, tutto buonissimo. Personale gentile e al momento di pagare la cameriera, che è in realtà la figlia del proprietario, non solo ci offre un liquore all'alloro ma ci intrattiene con una lunghissima conversazione pure lei, al punto che altri ospiti si spazientiscono perché non riescono a pagare.
Il secondo giorno siamo diretti verso il cosiddetto Museo della Grande Guerra, che è in realtà un museo all'aperto che segue alcuni sentieri nelle colline e nelle montagne intorno al Tagliamento. Il percorso inizia da Tabine dove lasciamo la macchina e ci incamminiamo nel bosco. Prima tappa è il castello di Ragogna, da cui si gode una vista spettacolare sulle colline e sull'onnipresente Tagliamento, poi decidiamo di proseguire verso le fortificazioni sul monte e quella che doveva essere una passeggiata di una mezz'oretta ci porta via quasi quattro ore, facendosi passare per la fattoria con le caprette e arrivare a un punto panoramico sul - che ve lo dico a fare - il Tagliamento. L'ora del pranzo è ormai passata da un pezzo, ma la fame no, dunque ripieghiamo su uno dei tanti posti vicino San Daniele che vendono prosciutto e facciamo uno spuntino con prosciutto e grissini! Slurp!
A questo punto abbiamo la forza di andare verso Cividale, nostra ultima tappa della giornata. Qui fa un freddo pazzesco, per cui immediatamente ci sediamo in un bar a prendere una tisana o una cioccolata calda ;-) Poi cominciamo i nostri giri per il centro. Le cose culturali da vedere sono tutte chiuse perché è tardi, cosicché attraversiamo più e più volte il bellissimo Ponte del Diavolo e ci perdiamo nelle stradine del borgo medievale fino al Monastero, e poi andiamo in piazza Paolo Diacono e inseguiamo le tracce delle origini romane della città. Per cena scegliamo l'Antico Leon d’oro, che – come tutti i posti dove abbiamo mangiato – non ci delude.
L’ultimo giorno della nostra permanenza friulana c’è finalmente un po’ di sole, così ne approfittiamo per andare finalmente alla riserva del Cornino. Prima andiamo al lago con le acque verdi e azzurre trasparentissime che si presta a essere fotografato in tutte le fogge. Peccato perché c’è parecchia gente e molti motociclisti in gita per il 25 aprile, altrimenti il posto sarebbe ancora più suggestivo. Dopo aver girato intorno al lago continuiamo attraverso i sentieri nella riserva e sbuchiamo sul Tagliamento (guarda un po’!), in un posto dove sembra di essere fuori dal mondo: fiume, sassi, sabbia, verde, fiori e montagne tutto intorno. Un posto che scenografico è dir poco. Certo, c’è anche una compagnia di genitori con bambini arrivati per un pic nic sul fiume, ma tutto sommato lo spazio è talmente grande che quasi non li si nota. Infine andiamo al punto di osservazione da cui si domina la riserva e si vede dall’alto sia il lago sia il fiume.
Ed eccoci sulla via verso casa a ora di pranzo. Da qualche parte bisognerà pure fermarsi a mangiare. Le nostre telefonate nei posti che ci piacerebbero hanno esito negativo: tutti oggi sono a mangiare fuori. Un barista ci dice che sulla strada la prima trattoria utile è a Valeriano. E qui infatti troviamo posto al Don Chisciotte. Non ci aspettiamo granché ma anche questa volta i friulani ci sorprendono e ci aspetta ancora una volta un pranzo strepitoso, per quanto certamente non leggero.
Satolli, siamo pronti a tornare verso casa, felici di aver scoperto una regione che non ci aspettavamo, così accogliente da tanti punti di vista, e pronti a tornarci per esplorarla ancora.
martedì 10 maggio 2016
[Laika]; Discorsi alla nazione; Radio clandestina / Ascanio Celestini
[Laika]; Discorsi alla nazione; Radio clandestina / Ascanio Celestini. TeatroVittoria, 19 aprile - 8 maggio 2016
In tre settimane a cavallo tra aprile e maggio il Teatro Vittoria propone una specie di "maratona Celestini". In pratica, il noto autore, attore, regista porta sul palcoscenico romano tre suoi lavori, il suo nuovo testo, Laika: storia di un povero cristo (che però io non sono riuscita a vedere), e due suoi lavori precedenti, Discorsi alla nazione: studio per spettacolo presidenziale e Radio clandestina: Memoria delle FosseArdeatine.
Per me è stata l'occasione di conoscere un po' meglio Ascanio Celestini, che conoscevo praticamente solo di nome e per qualche apparizione frammentaria in trasmissioni televisive.
Dei due spettacoli che ho visto, Discorsi alla nazione e Radio clandestina - e che pure ho apprezzato entrambi - devo dire che sono rimasta incantata dall'ultimo. Radio clandestina è uno spettacolo che risale a più di 15 anni fa: era il 2000 quando Ascanio lo metteva in scena la prima volta.
Si tratta però di uno di quei testi che a ragione si possono considerare immortali, degli evergreen, perché riguardano la storia contemporanea, quella che è già entrata nei libri di scuola, ma che ancora non è stata riflettuta abbastanza. In questo caso l'oggetto del testo è l'eccidio delle Fosse Ardeatine, la rappresaglia con cui i tedeschi uccisero 335 civili italiani a seguito dell'attentato partigiano che in via Rasella provocò la morte di 33 soldati.
Il racconto di questa storia comincia molto indietro nel tempo, ossia dal trasferimento della Capitale d'Italia a Roma, per poi raccontare il clima di questa città negli anni precedenti alla guerra e poi durante la guerra. E lo fa attraverso le testimonianze, i punti di vista, gli aneddoti di coloro che quegli anni li hanno vissuti sulla loro pelle. Traspare dalle parole di Celestini, "romano de Roma", una conoscenza e un affetto per questa città e per i suoi abitanti che si traduce in una vera e propria simbiosi con lo spirito dei luoghi, soprattutto le tante periferie e borgate romane, esito di quella espansione incontrollata che iniziò proprio con il trasferimento della capitale.
Il testo di Celestini, come è tipico dei suoi lavori, non è però solo una memoria del passato, bensì anche una riflessione sul presente e soprattutto sull'eredità che il passato ha lasciato all'oggi e su quello che avremmo potuto imparare e spesso non abbiamo imparato.
Per me uno spettacolo che andrebbe fatto vedere in tutte le scuole (e comunque lo trovate integrale in fondo a questa pagina).
L'altro lavoro, Discorsi alla nazione, risale ad anni più recenti, i primi anni 10 del Duemila. Racconta di una nazione immaginaria nella quale piove sempre e dove è in corso una guerra civile. Tutto si svolge all'interno di un condominio dove vari inquilini esprimono la loro insofferenza rispetto alla situazione, auspicando l'arrivo di un dittatore che metta fine alla guerra civile e anche alla pioggia. Questo spettacolo ha una struttura piuttosto originale: inizia con Ascanio Celestini che esce informalmente sul palco e sembra parlare del più e del meno, quasi per far passare il tempo. Si capisce però a poco a poco che il suo prologo non è affatto casuale, bensì è parte integrante dello spettacolo e in qualche modo aiuta a leggere il distopico futuro orwelliano tratteggiato come qualcosa che non appartiene a un mondo lontano o parallelo ma che riguarda la nostra realtà quotidiana e la nostra vita politica.
Personalmente l'ho trovato un testo un po' troppo autoflagellante, tipico della sinistra italiana, che per fortuna con i suoi intellettuali come Celestini è ancora in grado di fare autocritica, ma che - anche all'esito di questo spettacolo - non suggerisce l'idea di un percorso, di una strada comune possibile, che non sia quella di un "pessimismo cosmico". Lo capisco Celestini, eh, mica non lo capisco... e mi ci riconosco in questo suo pessimismo della maturità, e però vorrei che da un palcoscenico gente come lui mi facesse sì riflettere sulle mie ipocrisie ma anche mi accendesse un piccolo barlume di speranza.
Voto: 3,5/5
In tre settimane a cavallo tra aprile e maggio il Teatro Vittoria propone una specie di "maratona Celestini". In pratica, il noto autore, attore, regista porta sul palcoscenico romano tre suoi lavori, il suo nuovo testo, Laika: storia di un povero cristo (che però io non sono riuscita a vedere), e due suoi lavori precedenti, Discorsi alla nazione: studio per spettacolo presidenziale e Radio clandestina: Memoria delle FosseArdeatine.
Per me è stata l'occasione di conoscere un po' meglio Ascanio Celestini, che conoscevo praticamente solo di nome e per qualche apparizione frammentaria in trasmissioni televisive.
Dei due spettacoli che ho visto, Discorsi alla nazione e Radio clandestina - e che pure ho apprezzato entrambi - devo dire che sono rimasta incantata dall'ultimo. Radio clandestina è uno spettacolo che risale a più di 15 anni fa: era il 2000 quando Ascanio lo metteva in scena la prima volta.
Si tratta però di uno di quei testi che a ragione si possono considerare immortali, degli evergreen, perché riguardano la storia contemporanea, quella che è già entrata nei libri di scuola, ma che ancora non è stata riflettuta abbastanza. In questo caso l'oggetto del testo è l'eccidio delle Fosse Ardeatine, la rappresaglia con cui i tedeschi uccisero 335 civili italiani a seguito dell'attentato partigiano che in via Rasella provocò la morte di 33 soldati.
Il racconto di questa storia comincia molto indietro nel tempo, ossia dal trasferimento della Capitale d'Italia a Roma, per poi raccontare il clima di questa città negli anni precedenti alla guerra e poi durante la guerra. E lo fa attraverso le testimonianze, i punti di vista, gli aneddoti di coloro che quegli anni li hanno vissuti sulla loro pelle. Traspare dalle parole di Celestini, "romano de Roma", una conoscenza e un affetto per questa città e per i suoi abitanti che si traduce in una vera e propria simbiosi con lo spirito dei luoghi, soprattutto le tante periferie e borgate romane, esito di quella espansione incontrollata che iniziò proprio con il trasferimento della capitale.
Il testo di Celestini, come è tipico dei suoi lavori, non è però solo una memoria del passato, bensì anche una riflessione sul presente e soprattutto sull'eredità che il passato ha lasciato all'oggi e su quello che avremmo potuto imparare e spesso non abbiamo imparato.
Per me uno spettacolo che andrebbe fatto vedere in tutte le scuole (e comunque lo trovate integrale in fondo a questa pagina).
L'altro lavoro, Discorsi alla nazione, risale ad anni più recenti, i primi anni 10 del Duemila. Racconta di una nazione immaginaria nella quale piove sempre e dove è in corso una guerra civile. Tutto si svolge all'interno di un condominio dove vari inquilini esprimono la loro insofferenza rispetto alla situazione, auspicando l'arrivo di un dittatore che metta fine alla guerra civile e anche alla pioggia. Questo spettacolo ha una struttura piuttosto originale: inizia con Ascanio Celestini che esce informalmente sul palco e sembra parlare del più e del meno, quasi per far passare il tempo. Si capisce però a poco a poco che il suo prologo non è affatto casuale, bensì è parte integrante dello spettacolo e in qualche modo aiuta a leggere il distopico futuro orwelliano tratteggiato come qualcosa che non appartiene a un mondo lontano o parallelo ma che riguarda la nostra realtà quotidiana e la nostra vita politica.
Personalmente l'ho trovato un testo un po' troppo autoflagellante, tipico della sinistra italiana, che per fortuna con i suoi intellettuali come Celestini è ancora in grado di fare autocritica, ma che - anche all'esito di questo spettacolo - non suggerisce l'idea di un percorso, di una strada comune possibile, che non sia quella di un "pessimismo cosmico". Lo capisco Celestini, eh, mica non lo capisco... e mi ci riconosco in questo suo pessimismo della maturità, e però vorrei che da un palcoscenico gente come lui mi facesse sì riflettere sulle mie ipocrisie ma anche mi accendesse un piccolo barlume di speranza.
Voto: 3,5/5
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