Almanacco del giorno prima / Chiara Valerio. Torino: Einaudi, 2014.
Trovo strano leggere e recensire il romanzo scritto da una persona che conosco. Certo, una persona che ho visto una sola volta e che conosco in maniera indiretta, ma che in qualche modo appartiene al mio orizzonte reale. Perché questo significa inevitabilmente riconoscere in quello che si legge delle tracce vere o presunte (forse più le seconde) della vita reale…
Il romanzo di Chiara Valerio, Almanacco del giorno prima, è quanto di più originale io abbia letto da parecchio tempo a questa parte, e lo è da molteplici punti di vista. Innanzitutto dal punto di vista linguistico, per effetto della scelta di una scrittura molto colta, ma a tratti quasi parlata, di una punteggiatura non convenzionale e a volte spiazzante (come si vede dalle citazioni in fondo al post). Lo è poi sicuramente sul piano della struttura che si articola in 5 capitoli, Zero, Infanzia, Presente, Imperfetto e Domani accadrà, nel quale il capitolo centrale, quello dedicato al presente, non ha un andamento narrativo, ma si compone di tanti flash: momenti, sentimenti, situazioni identificati da un titolo e risolti in poche righe, a dire forse quanto il presente sia frammentario e molto meno comprensibile in fondo sia del passato che del futuro.
La storia è narrativamente piuttosto semplice; il protagonista, Alessio Medrano, è uno che per lavoro si occupa di assicurazioni sulla vita, in particolare compra le assicurazioni di chi non ha più i soldi per pagarle per farne prodotti finanziari derivati, basati sull’aspettativa di vita delle persone. Alessio, che è figlio di due matematici, è ossessionato dalla matematica e in particolare dai calcoli probabilistici fin dall’infanzia. I numeri sono il linguaggio con cui è abituato a leggere il mondo e i sentimenti. La variabile indipendente della sua esistenza è Elena, una donna molto più grande di lui, di cui è innamorato ma che non lo ricambia, pur essendo in qualche modo presente quasi come una costante per la sua esistenza (o almeno questo è quello che sembra ad Alessio).
Il romanzo è infarcito di matematica e di sentimenti, un’accoppiata improbabile e capace di produrre effetti imprevedibili. Lo stile di Chiara Valerio è espressione di una mente dalle sinapsi veloci, che talvolta si fa persino fatica a seguire. Certamente è un libro sorprendente, anche quando ci si perde nelle similitudini matematiche e non si sta dietro alla mente scoppiettante dell’autrice.
Almanacco del giorno prima è, alla fine, un libro che parla del tempo, in fondo del bisogno e dell’impossibilità di controllarlo, della costante proiezione verso il futuro e della continua nostalgia del passato. Della difficoltà di riconoscere quel presente schiacciato tra questi due ingombranti vicini.
Ogni pagina di questo libro è una sorpresa e può nascondere riflessioni fulminanti, tali da riempire un intero quaderno di appunti per la vita. Di seguito ne condivido alcune, quelle che ho sentito più mie e che più mi hanno colpito.
Volevo che mi amasse, ho sempre desiderato che le persone mi amassero per quello che ero in grado di fare, non per quello che ero, non mi sono mai fidato una sola volta di ciò che sono. (p. 10)
inversione a U. Da quando m’interrogo sull’opportunità o meno di mandarti un messaggio a una certa ora, mi sono accorto che è finita l’adolescenza del nostro rapporto. Menomale, che età terribile l’adolescenza. (p.168)
amen 1. C’è qualcosa di peggio nella vita che lasciarsi guidare dall’intelligenza, E che cos’è?, Lasciarsi guidare dalla fretta, tu ti lasci guidare in alternativa dall’intelligenza e dalla fretta. (p. 168)
quindi?, Non puoi amare nessuno se nessuno ti ha amato. (p. 172)
amen 4. Discutere è inutile. Dopo dieci minuti di discussione nessuno pensa più quello che sta sostenendo. (p. 178)
mi è già capitato di fare questo discorso tanti anni fa. Ci sono rapporti che non possono essere nominati ma nemmeno possono essere negati. (p. 196)
nel bosco 6. Stanotte riflettevo su quanto è strano che io sia così preso da una donna che pensa tutto il contrario di quello che per me è sensato, Ci pensavo anche io. (p. 204)
solo i sentimenti che non si nominano possono essere vissuti. (p. 209)
sono tuo?, Anche. (p. 210)
la separazione è più durevole esperienza che lo stare insieme, l’ho letto in Brodskij, Sta pure su Wikipedia, e poi è un’ovvietà, l’incontro è un punto, la separazione un intervallo, c’è una infinità continua di differenza, è lo stesso motivo per cui, quando arrivi alla fermata dell’autobus, è più probabile che l’autobus sia già passato, l’incontro tra te e l’autobus è un punto, la tua attesa dell’autobus è un intervallo, anche qui, una infinità continua di differenza, Vedo che oggi, tanto per cambiare sei di umore splendido. (p. 226)
saggezza. È difficile trasformare una storia d’amore in un’amicizia, così come il modo per rovinare le amicizie è il sesso, Invece noi che siamo qui a lasciare le cose coi nomi indefiniti siamo tranquilli perché non cambierà niente. (p. 230)
nel bosco 8. Mentre passeggiamo verso il tramonto, il tuo telefono non fa che emettere suoni e tu non fai che rispondere a quei messaggi. Sto zitto. Una volta lasciavi il telefono a casa, Una volta eri nuovo. (p. 231)
sono debole, perché ti desidero. (p. 258)
ti ho preso la cioccolata da Gay Odin, Grazie, per quando sto bene, Preferisci mangiare sola o con un bel ragazzo molto simpatico?, Sono stanca, preferirei stare sola. La mattina dopo lascio la cioccolata in portineria, mi scrivi Grazie ma come ti ho detto non sto bene e non posso mangiare cioccolata per un bel po’, Era per il biglietto, per farti ridere, Grazie, non ce n’era bisogno, Mi andava, l’ho fatto, So che vuoi fare delle cose carine ma mi fai sentire sotto assedio, Addirittura, scusami, che brutto sms, in ogni modo buona giornata, Non ti rendi conto che da quando ieri ti ho detto che ero stanca e volevo stare da sola non mi hai dato tregua? Io non rispondo. Il giorno dopo mi scrivi Ci vediamo quando torno. Io non rispondo. (p. 259)
Non devi mai più scrivermi una cosa del genere, solo una stronza scrive una cosa del genere, io devo smetterla di pensare che tu sia una faccenda che mi riguarda ma tu non devi scrivermi cose da stronza, E tu non dire che sono una faccenda che non ti riguarda, Possiamo dire che abbiamo esagerato?, Possiamo dirlo, adesso devi annoiarci ancora per molto?, Pensavo di dover mantenere il punto, Perché non pensi invece che stiamo facendo una bella passeggiata e che Roma con questa luce è fantastica? (p. 260)
si era convinto che le imperfezioni tengono il mondo in equilibrio e impediscono che tutto frani. (p. 283)
Forse, invece, bisognerebbe avere il coraggio di non allontanarsi mai dalle cose che rendono felici. Anche se sono scomode. Ma non era coraggioso. (p. 289)
non mi dici di restare ma non vuoi che mi allontani (p. 294)
il mio modello, il modello mio e di Janak, aveva come unica ipotesi l’evidenza che l’amore, in ciascuna delle sue minute declinazioni, allunga la vita. (p. 325)
Mi manchi tu, e mi manca la parte di me che sei tu. (p. 348)
Voto: 3,5/5
mercoledì 28 maggio 2014
lunedì 26 maggio 2014
FUORI TEMA: Internazionali di tennis, Roma, Foro Italico, 14 maggio 2014
Ed eccomi qui. La mia prima volta agli Internazionali di tennis di Roma. In realtà, per dirla tutta, ci ero stata parecchi anni fa, ma solo a vedere delle esibizioni di vecchie glorie e dunque non avevo respirato per davvero l’atmosfera degli Internazionali.
Quest’anno, grazie all’insistenza e alla determinazione di V., finalmente mi decido a dedicare un’intera giornata a questo appuntamento. Abbiamo i biglietti per il mercoledì, un giorno centrale del torneo, in cui sicuramente riusciremo a vedere diverse partite. I nostri posti sono nella parte alta della tribuna Monte Mario del Centrale, esattamente sotto il tabellone (proprio dove in questa giornata caratterizzata dal vento andrà a tramontare il sole lasciandoci al freddo).
Il programma del centrale è ghiotto. Si comincia con l’incontro tra Andy Murray (vincitore a Wimbledon nel 2013) e lo spagnolo Marcel Granollers in uno stadio semivuoto, dove però non possono mancare Lea Pericoli e Nicola Pietrangeli. La partita scorre via piuttosto tranquilla e, nonostante qualche ottima palla giocata dallo spagnolo, Murray porta a casa piuttosto rapidamente il passaggio del turno.
In attesa del secondo incontro ci affacciamo dall’alto del centrale sullo stadio Pietrangeli (quello con le statue intorno), dove prima gioca la Giorgi (purtroppo sconfitta) e poi la Errani (che invece porta a casa il risultato ed arriverà fino in finale).
Mi sento una bambina al parco giochi. Faccio decine e decine di foto e vorrei vedere tutto e comprare tutte le palline da tennis giganti che vedo in mano a un sacco di persone.
L’eccitazione di tutti cresce quando entra in campo Roger Federer che incontra il francese Jérémy Chardy (un ragazzone alto e secco). Vedere giocare Federer è uno spettacolo. La pulizia del suo rovescio a una mano, la forza del suo dritto, il modo in cui si muove sul campo, la potenza del suo servizio sono veramente un piacere per gli occhi. Nel primo set non c’è niente da fare per Chardy e sembra che la partita si concluderà rapidamente.
Nel secondo set però la situazione cambia. Federer diventa più falloso, mentre Chardy cresce e comincia a infilare una serie impressionante di buone giocate che gli offrono la vittoria nel secondo set. Il terzo e decisivo set si concluderà solo al tie break in cui ancora una volta Chardy si dimostra più lucido e forse più forte psicologicamente, costringendo Federer a una uscita forse troppo repentina dal torneo (del resto il tennista svizzero è appena diventato nuovamente papà di una coppia di gemelli e forse non ha ancora la concentrazione giusta).
La pausa la dedichiamo a mangiare i panini che ci siamo portate in attesa che entrino in campo Serena Williams e Andrea Petkovic. Il centrale si svuota nuovamente già presagendo come andrà a finire. Nonostante le buone qualità della Petkovic e i suoi sforzi, la Williams sembra appartenere a un altro pianeta e senza alcuna apparente fatica porta a casa rapidamente il risultato.
A fine partita si esibisce in un breve balletto e regala di tutto ai fans che le si avvicinano. Alla giornalista che la intervista risponde in italiano, dimostrando un grande amore per il nostro paese.
Usciamo già soddisfatte dal centrale, ma la nostra giornata di tennis non è ancora finita. Dopo un giro agli stand in cui faccio il pieno di portachiavi con la pallina da tennis, ci affacciamo ai campi secondari dove - facendoci largo tra la folla - riusciamo a seguire un po’ della partita che sta giocando la Ivanovic e buttiamo anche un occhio al doppio di Fognini e Bolelli.
Infine ci avviciniamo di nuovo al Pietrangeli dove sta per iniziare l’incontro tra Flavia Pennetta e la giovanissima svizzera Belinda Blencic. Giusto il tempo di qualche foto e poi decidiamo di andare perché le condizioni di visuale non sono le migliori per seguire l’incontro.
Ce ne andiamo grandemente soddisfatte e con l'idea di farne un appuntamento fisso annuale. E chissà magari nel frattempo potrei anche provare a riprendere in mano una racchetta, sebbene temo che i risultati possano non essere particolarmente soddisfacenti ;-)
Quest’anno, grazie all’insistenza e alla determinazione di V., finalmente mi decido a dedicare un’intera giornata a questo appuntamento. Abbiamo i biglietti per il mercoledì, un giorno centrale del torneo, in cui sicuramente riusciremo a vedere diverse partite. I nostri posti sono nella parte alta della tribuna Monte Mario del Centrale, esattamente sotto il tabellone (proprio dove in questa giornata caratterizzata dal vento andrà a tramontare il sole lasciandoci al freddo).
Il programma del centrale è ghiotto. Si comincia con l’incontro tra Andy Murray (vincitore a Wimbledon nel 2013) e lo spagnolo Marcel Granollers in uno stadio semivuoto, dove però non possono mancare Lea Pericoli e Nicola Pietrangeli. La partita scorre via piuttosto tranquilla e, nonostante qualche ottima palla giocata dallo spagnolo, Murray porta a casa piuttosto rapidamente il passaggio del turno.
In attesa del secondo incontro ci affacciamo dall’alto del centrale sullo stadio Pietrangeli (quello con le statue intorno), dove prima gioca la Giorgi (purtroppo sconfitta) e poi la Errani (che invece porta a casa il risultato ed arriverà fino in finale).
Mi sento una bambina al parco giochi. Faccio decine e decine di foto e vorrei vedere tutto e comprare tutte le palline da tennis giganti che vedo in mano a un sacco di persone.
L’eccitazione di tutti cresce quando entra in campo Roger Federer che incontra il francese Jérémy Chardy (un ragazzone alto e secco). Vedere giocare Federer è uno spettacolo. La pulizia del suo rovescio a una mano, la forza del suo dritto, il modo in cui si muove sul campo, la potenza del suo servizio sono veramente un piacere per gli occhi. Nel primo set non c’è niente da fare per Chardy e sembra che la partita si concluderà rapidamente.
Nel secondo set però la situazione cambia. Federer diventa più falloso, mentre Chardy cresce e comincia a infilare una serie impressionante di buone giocate che gli offrono la vittoria nel secondo set. Il terzo e decisivo set si concluderà solo al tie break in cui ancora una volta Chardy si dimostra più lucido e forse più forte psicologicamente, costringendo Federer a una uscita forse troppo repentina dal torneo (del resto il tennista svizzero è appena diventato nuovamente papà di una coppia di gemelli e forse non ha ancora la concentrazione giusta).
La pausa la dedichiamo a mangiare i panini che ci siamo portate in attesa che entrino in campo Serena Williams e Andrea Petkovic. Il centrale si svuota nuovamente già presagendo come andrà a finire. Nonostante le buone qualità della Petkovic e i suoi sforzi, la Williams sembra appartenere a un altro pianeta e senza alcuna apparente fatica porta a casa rapidamente il risultato.
A fine partita si esibisce in un breve balletto e regala di tutto ai fans che le si avvicinano. Alla giornalista che la intervista risponde in italiano, dimostrando un grande amore per il nostro paese.
Usciamo già soddisfatte dal centrale, ma la nostra giornata di tennis non è ancora finita. Dopo un giro agli stand in cui faccio il pieno di portachiavi con la pallina da tennis, ci affacciamo ai campi secondari dove - facendoci largo tra la folla - riusciamo a seguire un po’ della partita che sta giocando la Ivanovic e buttiamo anche un occhio al doppio di Fognini e Bolelli.
Infine ci avviciniamo di nuovo al Pietrangeli dove sta per iniziare l’incontro tra Flavia Pennetta e la giovanissima svizzera Belinda Blencic. Giusto il tempo di qualche foto e poi decidiamo di andare perché le condizioni di visuale non sono le migliori per seguire l’incontro.
Ce ne andiamo grandemente soddisfatte e con l'idea di farne un appuntamento fisso annuale. E chissà magari nel frattempo potrei anche provare a riprendere in mano una racchetta, sebbene temo che i risultati possano non essere particolarmente soddisfacenti ;-)
sabato 24 maggio 2014
Song 'e Napule
Il film dei Manetti Bros. è volutamente una favola un po' buonista, che trasuda un amore viscerale per Napoli e la napoletanità.
Per questo motivo può apparire eccessivamente assolutorio nei confronti non solo della città, ma anche del modo di essere di un popolo che in qualche modo è la causa principale dei suoi problemi, ma anche una straordinaria risorsa per affrontarli.
I Manetti Bros. non ambiscono a un'analisi antropologica e sociologica approfondita, né si propongono di rappresentare nella sua piena drammaticità le problematiche complesse di una realtà estremamente difficile e articolata come è quella napoletana.
La loro è una commedia e come tale non può mancare il lieto fine nel quale le persone brave e oneste non solo vengono premiate dagli eventi, ma si trovano a essere quasi dei buffi eroi dei nostri giorni. D'altro canto, non si tacciono aspetti quali le raccomandazioni, la mancanza di rispetto delle regole, l'ignoranza, la trivialità, l'ignavia che pure sono parte integrante dell'ecosistema napoletano, ma piuttosto che utilizzarle per fare un predicozzo moralistico, la sceneggiatura ne fa oggetto di ironia e benevolmente le ridicolizza.
L'unica realtà napoletana a cui i Manetti Bros. non fanno sconti è la camorra, per la quale non esistono mezzi termini e la cui brutalità viene mostrata in tutta la sua ferocia.
Il film nel suo complesso è altamente godibile, a tratti esilarante. I due personaggi principali, il pianista che diventa poliziotto su raccomandazione Paco Spillo (Francesco Roja) e il cantante neomelodico Lollo Love (Giampaolo Morelli), sono bravissimi e la loro interazione è scoppiettante, soprattutto perché sostenuta da tanti comprimari di eccellenza (da Carlo Buccirosso a Paolo Sassanelli a Peppe Servillo). Il film tradisce qualcosa di televisivo nel suo impianto (forse anche per la scelta del cast), o forse sarebbe meglio dire che omaggia un cinema italiano del passato cui non siamo più abituati.
A livello musicale, il film inizia con un rap napoletano per finire con Lollo Love accompagnato al piano da Paco Spillo che canta Song ' e Napule in perfetto stile neomelodico. Questo genere musicale accompagna l'intero film con le sue riflessioni semplici, a volte semplicistiche, ma in molti casi genuine e vere, sulla vita e il mondo.
La canzone neomelodica in Song ' e Napule è in fondo il simbolo di una città il cui cuore in molti casi compensa le brutture e le difficoltà del quotidiano.
Non sono napoletana e praticamente non conosco Napoli. Però conosco alcuni napoletani e devo dire che, da estranea quale sono, in questo film - che pure non ha pretese - ci ho trovato uno spirito per così dire "verace". Mi piacerebbe sapere cosa ne pensano i miei amici napoletani, a cui vorrei anche chiedere di tradurre alcuni passaggi e di farmi comprendere alcuni elementi di ironia che forse sfuggono almeno in parte a chi napoletano non è.
Voto: 3,5/5
Per questo motivo può apparire eccessivamente assolutorio nei confronti non solo della città, ma anche del modo di essere di un popolo che in qualche modo è la causa principale dei suoi problemi, ma anche una straordinaria risorsa per affrontarli.
I Manetti Bros. non ambiscono a un'analisi antropologica e sociologica approfondita, né si propongono di rappresentare nella sua piena drammaticità le problematiche complesse di una realtà estremamente difficile e articolata come è quella napoletana.
La loro è una commedia e come tale non può mancare il lieto fine nel quale le persone brave e oneste non solo vengono premiate dagli eventi, ma si trovano a essere quasi dei buffi eroi dei nostri giorni. D'altro canto, non si tacciono aspetti quali le raccomandazioni, la mancanza di rispetto delle regole, l'ignoranza, la trivialità, l'ignavia che pure sono parte integrante dell'ecosistema napoletano, ma piuttosto che utilizzarle per fare un predicozzo moralistico, la sceneggiatura ne fa oggetto di ironia e benevolmente le ridicolizza.
L'unica realtà napoletana a cui i Manetti Bros. non fanno sconti è la camorra, per la quale non esistono mezzi termini e la cui brutalità viene mostrata in tutta la sua ferocia.
Il film nel suo complesso è altamente godibile, a tratti esilarante. I due personaggi principali, il pianista che diventa poliziotto su raccomandazione Paco Spillo (Francesco Roja) e il cantante neomelodico Lollo Love (Giampaolo Morelli), sono bravissimi e la loro interazione è scoppiettante, soprattutto perché sostenuta da tanti comprimari di eccellenza (da Carlo Buccirosso a Paolo Sassanelli a Peppe Servillo). Il film tradisce qualcosa di televisivo nel suo impianto (forse anche per la scelta del cast), o forse sarebbe meglio dire che omaggia un cinema italiano del passato cui non siamo più abituati.
A livello musicale, il film inizia con un rap napoletano per finire con Lollo Love accompagnato al piano da Paco Spillo che canta Song ' e Napule in perfetto stile neomelodico. Questo genere musicale accompagna l'intero film con le sue riflessioni semplici, a volte semplicistiche, ma in molti casi genuine e vere, sulla vita e il mondo.
La canzone neomelodica in Song ' e Napule è in fondo il simbolo di una città il cui cuore in molti casi compensa le brutture e le difficoltà del quotidiano.
Non sono napoletana e praticamente non conosco Napoli. Però conosco alcuni napoletani e devo dire che, da estranea quale sono, in questo film - che pure non ha pretese - ci ho trovato uno spirito per così dire "verace". Mi piacerebbe sapere cosa ne pensano i miei amici napoletani, a cui vorrei anche chiedere di tradurre alcuni passaggi e di farmi comprendere alcuni elementi di ironia che forse sfuggono almeno in parte a chi napoletano non è.
Voto: 3,5/5
giovedì 22 maggio 2014
Locke
Credo che sarebbe stato estremamente faticoso apprezzare questo film se lo avessi visto doppiato in italiano. Mi è bastato ascoltare il trailer italiano per provare fastidio di fronte alle scelte di doppiaggio.
Per fortuna però sono andata a vedere questo film al Nuovo Olimpia e così oggi sono qui a dirvi che si tratta di un ottimo film che vale certamente la pena di essere visto. aLa sua originalità sta certamente nell’unità di tempo e di luogo che il regista sceglie per narrare la storia.
Ivan Locke (il bravo Tom Hardy) esce dal lavoro, sale sulla sua auto e al semaforo improvvisamente decide di girare a destra anziché a sinistra. Da questo momento in poi siamo con lui nell’abitacolo della sua vettura per circa un’ora e mezza, ossia il tempo che – come dice lui, traffico permettendo - lo farà arrivare alla sua destinazione, ossia una clinica di Londra.
Durante questo tempo, Ivan Locke è impegnato in una serie di telefonate quasi senza soluzione di continuità. Quelle con Bethan, che sta per partorire nella clinica londinese, con sua moglie e i suoi figli che lo aspettavano a casa per cenare e vedere insieme una partita, con il suo capo che non può capacitarsi del fatto che l’indomani Locke non sarà al lavoro a presiedere alla più grande colata di cemento che si sia mai vista in Europa, e infine con Donal, l’operaio a cui Ivan fornirà tutte le indicazioni per gestire e coordinare il lavoro del giorno dopo.
Ivan Locke ha anche un ultimo interlocutore muto nell’abitacolo della sua automobile: il padre che – a quanto pare – alla sua nascita non lo ha riconosciuto ed è fuggito, un padre già morto da tempo ma con cui Ivan ha un conto in sospeso.
Ivan Locke è un uomo come molti altri: ha una bella famiglia, un lavoro che gli piace e non è certamente un eroe. In questa ora e mezza in cui lo guardiamo in una situazione in cui la vita potrebbe mettere chiunque impariamo a conoscerlo e ne condividiamo i momenti di disperazione, la forza d’animo, il coraggio della sincerità, il tentativo di essere coerente con se stesso e con il proprio passato.
Durante questo tempo in cui non succede praticamente nulla – e nulla vedremo di quello che accadrà dopo – il cerchio della sceneggiatura si stringe intorno al proprio personaggio che mai tradisce la propria normalità, eppure alla fine ci appare quasi come un eroe dei nostri tempi, nel suo tentativo di non scendere a compromessi con la vita, di affrontarla a testa alta e di assumersi fino in fondo le proprie responsabilità.
La colonna sonora certamente contribuisce a innescare un crescendo che pure non può appoggiarsi su alcun avvenimento eclatante.
A parte qualche piccolo difetto di montaggio, mi pare che il regista Steven Knight abbia fatto davvero un ottimo lavoro.
A dimostrazione del fatto che nel cinema i soldi sono importanti, ma le idee lo sono molto di più.
Voto: 3,5/5
Per fortuna però sono andata a vedere questo film al Nuovo Olimpia e così oggi sono qui a dirvi che si tratta di un ottimo film che vale certamente la pena di essere visto. aLa sua originalità sta certamente nell’unità di tempo e di luogo che il regista sceglie per narrare la storia.
Ivan Locke (il bravo Tom Hardy) esce dal lavoro, sale sulla sua auto e al semaforo improvvisamente decide di girare a destra anziché a sinistra. Da questo momento in poi siamo con lui nell’abitacolo della sua vettura per circa un’ora e mezza, ossia il tempo che – come dice lui, traffico permettendo - lo farà arrivare alla sua destinazione, ossia una clinica di Londra.
Durante questo tempo, Ivan Locke è impegnato in una serie di telefonate quasi senza soluzione di continuità. Quelle con Bethan, che sta per partorire nella clinica londinese, con sua moglie e i suoi figli che lo aspettavano a casa per cenare e vedere insieme una partita, con il suo capo che non può capacitarsi del fatto che l’indomani Locke non sarà al lavoro a presiedere alla più grande colata di cemento che si sia mai vista in Europa, e infine con Donal, l’operaio a cui Ivan fornirà tutte le indicazioni per gestire e coordinare il lavoro del giorno dopo.
Ivan Locke ha anche un ultimo interlocutore muto nell’abitacolo della sua automobile: il padre che – a quanto pare – alla sua nascita non lo ha riconosciuto ed è fuggito, un padre già morto da tempo ma con cui Ivan ha un conto in sospeso.
Ivan Locke è un uomo come molti altri: ha una bella famiglia, un lavoro che gli piace e non è certamente un eroe. In questa ora e mezza in cui lo guardiamo in una situazione in cui la vita potrebbe mettere chiunque impariamo a conoscerlo e ne condividiamo i momenti di disperazione, la forza d’animo, il coraggio della sincerità, il tentativo di essere coerente con se stesso e con il proprio passato.
Durante questo tempo in cui non succede praticamente nulla – e nulla vedremo di quello che accadrà dopo – il cerchio della sceneggiatura si stringe intorno al proprio personaggio che mai tradisce la propria normalità, eppure alla fine ci appare quasi come un eroe dei nostri tempi, nel suo tentativo di non scendere a compromessi con la vita, di affrontarla a testa alta e di assumersi fino in fondo le proprie responsabilità.
La colonna sonora certamente contribuisce a innescare un crescendo che pure non può appoggiarsi su alcun avvenimento eclatante.
A parte qualche piccolo difetto di montaggio, mi pare che il regista Steven Knight abbia fatto davvero un ottimo lavoro.
A dimostrazione del fatto che nel cinema i soldi sono importanti, ma le idee lo sono molto di più.
Voto: 3,5/5
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domenica 18 maggio 2014
Agnes Obel, Auditorium Parco della musica, 5 maggio 2014
Immaginate una strada buia di un paese del Nord Europa. All'improvviso alcune note di violoncello, cui si aggiunge un violino e un pianoforte. E poi la voce suadente di una donna.
Delle piccole lanterne si accendono illuminando i gesti sapienti di tre donne che fanno risuonare nell'aria le note dei loro strumenti.
L'atmosfera è rarefatta e calda al contempo. La sensazione di trovarsi su un set cinematografico è fortissima. In realtà siamo all'Auditorium Parco della musica e questo è il concerto di Agnes Obel, musicista danese (vedi la coincidenza! Sono appena tornata dalla Danimarca!) che propone uno stile a cavallo tra chamber music e pop music.
A Roma si presenta accompagnata da due splendide musiciste, Charlotte Danhier al violoncello e Mika Posen (dei Timber Timbre) che suona primariamente il violino ma anche le tastiere. Lei è seduta a sinistra del palco, davanti a un grande pianoforte a coda. Tutt'e tre le musiciste possono far conto su grosse pedaliere che usano sapientemente per ottenere effetti su voce e strumenti, ma senza mai forzarne l'uso, per ottenere un risultato al contempo naturale e potente.
Le tre donne sono elegantissime, in abiti da sera, e Agnes Obel - pur nel suo in qualche modo algido aspetto nordico - trasmette grande calore e crea un'atmosfera di grande partecipazione sia quando canta che quando presenta al pubblico le canzoni e le musiciste.
Ci propone gran parte del suo repertorio, in particolare le canzoni del suo ultimo album Aventine, tra cui le splendide Dorian, Aventine (che si dice particolarmente emozionata di suonare a Roma), Chord left, The curse, Words are dead e molte altre.
Quando le tre abbandonano il palco, il pubblico non è ancora sazio e dunque le richiama a gran voce per un primo bis in cui le tre musiciste insieme ci propongono una cover dai Velvet Underground e per un secondo bis in cui la sola Agnes ci offre un pezzo accompagnata solo dalle note del suo pianoforte.
Usciamo dall'Auditorium quasi in punta di piedi, parlando sottovoce, portandoci dentro le atmosfere evocate da questa sorprendente musicista.
Merita una menzione anche l'artista che ha preceduto sul palco la Obel, Melanie De Biasio, che accompagnata da un chitarrista e in un'atmosfera fortemente soffusa ha certamente contribuito a predisporci al meglio a questa serata.
Voto: 4/5
PS. Peccato che questa volta non sono nemmeno riuscita a entrare con la macchina fotografica e quindi nessuna documentazione autoprodotta... :-((
Ma quand'è che l'Auditorium cambierà questa politica relativa alle fotografie?
Delle piccole lanterne si accendono illuminando i gesti sapienti di tre donne che fanno risuonare nell'aria le note dei loro strumenti.
L'atmosfera è rarefatta e calda al contempo. La sensazione di trovarsi su un set cinematografico è fortissima. In realtà siamo all'Auditorium Parco della musica e questo è il concerto di Agnes Obel, musicista danese (vedi la coincidenza! Sono appena tornata dalla Danimarca!) che propone uno stile a cavallo tra chamber music e pop music.
A Roma si presenta accompagnata da due splendide musiciste, Charlotte Danhier al violoncello e Mika Posen (dei Timber Timbre) che suona primariamente il violino ma anche le tastiere. Lei è seduta a sinistra del palco, davanti a un grande pianoforte a coda. Tutt'e tre le musiciste possono far conto su grosse pedaliere che usano sapientemente per ottenere effetti su voce e strumenti, ma senza mai forzarne l'uso, per ottenere un risultato al contempo naturale e potente.
Le tre donne sono elegantissime, in abiti da sera, e Agnes Obel - pur nel suo in qualche modo algido aspetto nordico - trasmette grande calore e crea un'atmosfera di grande partecipazione sia quando canta che quando presenta al pubblico le canzoni e le musiciste.
Ci propone gran parte del suo repertorio, in particolare le canzoni del suo ultimo album Aventine, tra cui le splendide Dorian, Aventine (che si dice particolarmente emozionata di suonare a Roma), Chord left, The curse, Words are dead e molte altre.
Quando le tre abbandonano il palco, il pubblico non è ancora sazio e dunque le richiama a gran voce per un primo bis in cui le tre musiciste insieme ci propongono una cover dai Velvet Underground e per un secondo bis in cui la sola Agnes ci offre un pezzo accompagnata solo dalle note del suo pianoforte.
Usciamo dall'Auditorium quasi in punta di piedi, parlando sottovoce, portandoci dentro le atmosfere evocate da questa sorprendente musicista.
Merita una menzione anche l'artista che ha preceduto sul palco la Obel, Melanie De Biasio, che accompagnata da un chitarrista e in un'atmosfera fortemente soffusa ha certamente contribuito a predisporci al meglio a questa serata.
Voto: 4/5
PS. Peccato che questa volta non sono nemmeno riuscita a entrare con la macchina fotografica e quindi nessuna documentazione autoprodotta... :-((
Ma quand'è che l'Auditorium cambierà questa politica relativa alle fotografie?
venerdì 16 maggio 2014
Diario del cattivo papà. Volume 2 / Guy Delisle
Diario del cattivo papà. Volume 2 / Guy Delisle; trad. di Giovanni Zucca. Milano: Rizzoli Lizard, 2014.
Appena uscita la seconda parte del Diario del cattivo papà mi sono fiondata immediatamente a ordinarlo su IBS. La lettura è arrivata in un weekend in cui un virus intestinale mi ha abbattuto a letto e devo dire che le avventure di Delisle papà hanno contribuito a rendere meno triste e doloroso il pomeriggio a letto.
Per chi ha già letto il volume 1, questa seconda parte costituirà una conferma dello straordinaria capacità del fumettista di prendersi in giro nella sua veste di padre. Un padre che è disposto a contravvenire a qualunque regola pedagogica per conquistare i suoi figli in una sera in cui sua moglie non c’è, che spesso non è in grado di dedicare la dovuta attenzione mentale alle curiosità dei suoi figli, ovvero non si fa scrupoli nel condizionare pesantemente le loro preferenze ad immagine e somiglianza delle proprie, che si rivela in molte circostanze più bambino dei suoi bambini, egoista e completamente concentrato su se stesso.
Ma la grandezza di Delisle sta – come già osservato nel primo volume – nel portare allo scoperto le difficoltà e le debolezze dell’essere genitori in modo del tutto trasparente, senza dunque alcun tentativo di rappresentare la realtà in modo politicamente corretto, come spesso i genitori – per un atavico senso di colpa – si sentono costretti a fare.
Ne viene fuori così il ritratto irriverente di un papà che certamente ama i suoi figli, ma sa anche riconoscere e ridere (nonché farci ridere) dei suoi limiti, nell’idea che diventare genitori non rende improvvisamente perfetti, ma in qualche modo richiede consapevolezza di sé.
Gli episodi qui raccontati sono tutti molto divertenti e ho trovato particolarmente commoventi i ringraziamenti alla moglie Nadège, “che accetta il ruolo della cattiva nelle mie storie”.
Voto: 3,5/5
Appena uscita la seconda parte del Diario del cattivo papà mi sono fiondata immediatamente a ordinarlo su IBS. La lettura è arrivata in un weekend in cui un virus intestinale mi ha abbattuto a letto e devo dire che le avventure di Delisle papà hanno contribuito a rendere meno triste e doloroso il pomeriggio a letto.
Per chi ha già letto il volume 1, questa seconda parte costituirà una conferma dello straordinaria capacità del fumettista di prendersi in giro nella sua veste di padre. Un padre che è disposto a contravvenire a qualunque regola pedagogica per conquistare i suoi figli in una sera in cui sua moglie non c’è, che spesso non è in grado di dedicare la dovuta attenzione mentale alle curiosità dei suoi figli, ovvero non si fa scrupoli nel condizionare pesantemente le loro preferenze ad immagine e somiglianza delle proprie, che si rivela in molte circostanze più bambino dei suoi bambini, egoista e completamente concentrato su se stesso.
Ma la grandezza di Delisle sta – come già osservato nel primo volume – nel portare allo scoperto le difficoltà e le debolezze dell’essere genitori in modo del tutto trasparente, senza dunque alcun tentativo di rappresentare la realtà in modo politicamente corretto, come spesso i genitori – per un atavico senso di colpa – si sentono costretti a fare.
Ne viene fuori così il ritratto irriverente di un papà che certamente ama i suoi figli, ma sa anche riconoscere e ridere (nonché farci ridere) dei suoi limiti, nell’idea che diventare genitori non rende improvvisamente perfetti, ma in qualche modo richiede consapevolezza di sé.
Gli episodi qui raccontati sono tutti molto divertenti e ho trovato particolarmente commoventi i ringraziamenti alla moglie Nadège, “che accetta il ruolo della cattiva nelle mie storie”.
Voto: 3,5/5
domenica 11 maggio 2014
La storia / Elsa Morante
La storia / Elsa Morante; introduzione di Cesare Garboli. Torino: Einaudi, 1995.
Devo ammettere di essere parecchio intimorita rispetto alla possibilità di scrivere una recensione ad un romanzo che alla sua uscita ha suscitato un amplissimo dibattito cui hanno partecipato tutti i più importanti letterati del secondo Novecento italiano, nonché al cospetto di una scrittrice come Elsa Morante che a buon diritto appartiene ai grandi della nostra letteratura.
Dopo tante letture di autori contemporanei, grazie al regalo di V., mi ritrovo immersa in una scrittura antica che mi sorprende da numerosi punti di vista: innanzitutto sotto il profilo linguistico, visto che la lingua italiana utilizzata dalla Morante appare oggi per certi versi desueta e alcune costruzioni in lei ricorrenti oggi sarebbero considerati errori sintattici e/o grammaticali. Eppure tale scrittura – fors’anche per questo suo carattere antico – è parte integrante dell’atmosfera che la Morante riesce a creare nel suo libro.
In secondo luogo, mi ha colpito l’approccio narrativo, anche questo poco conforme ai canoni della scrittura contemporanea, in particolar modo per un gusto del racconto e della digressione non necessariamente funzionali all’evoluzione della vicenda raccontata. Per i lettori contemporanei abituati a narrazioni costruite come una sceneggiatura e totalmente focalizzate sullo sviluppo della storia, l’approccio della Morante può apparire faticoso, ma anche profondamente affascinante.
Interessante anche il ruolo del narratore, che si presenta come testimone diretto dei fatti, contemporaneo e coinvolto nelle vicende dei suoi protagonisti, capace di ricostruire e gettare luce su quei passaggi che sfuggono alla conoscenza dei singoli.
E infine arriviamo alla storia.
Qual è la storia evocata nel titolo da Elsa Morante? La grande storia delle nazioni coinvolte nella seconda guerra mondiale, quella delle vicende che cambiano i destini del mondo, indifferenti alle vicende dei singoli, ovvero la piccola storia di questo sfortunato nucleo familiare, formato da Ida Ramundo, maestra elementare di origini calabresi, Nino, figlio del marito di cui è rimasta vedova, giovane esuberante che è prima camicia nera, poi partigiano, poi contrabbandiere, Useppe, il piccolo “bastardo” che Ida ha concepito dopo essere stata violentata da un soldato tedesco, e due cani presenti in sequenza nella vita di questa famiglia?
Dove si svolge la storia che interessa alla Morante? Sullo scacchiere internazionale, nei grandi spazi del mondo dove si svolgono gli avvenimenti che cambieranno le sorti dell’umanità, ovvero nei quartieri di Roma dove vivono e si muovono i suoi personaggi, San Lorenzo, il Ghetto, Pietralata, Testaccio, Ostiense e San Paolo?
La risposta sta forse nelle proporzioni: la “grande storia” fa da introduzione ad ogni capitolo riassumendo in maniera sintetica gli avvenimenti che caratterizzano ciascuno degli anni raccontati nel libro, una specie di premessa immutabile e soverchiante, ma anche relativamente contenuta; la “piccola storia” della famiglia Ramundo, pur segnata da un destino infausto – come risulta evidente fin dalle prime pagine –, trabocca di vita e di pienezza non solo e non tanto per gli accadimenti quanto nell’immaginario, nei sogni di cui tutti questi personaggi sono ricchi.
Centrale la figura di Davide Segre, un anarchico mantovano che dopo essersi rifugiato nello stanzone di Pietralata con il nome di Piotr, si unisce ai partigiani con il nome di Carlo, per tornare ad essere semplicemente Davide a guerra finita e a fare i conti con i suoi fantasmi interiori e le conseguenze psicologiche terribili lasciate dalla guerra.
Il destino di tutti è segnato fin dalle prime pagine e la Morante non fa nulla per nascondercelo. Però La storia non è un romanzo triste né deprimente, anzi – e direi nonostante tutto – esso sprigiona gioia di vivere in ogni sua pagina, in particolare quelle che vedono protagonisti Ninnuzzu e Useppe, oppure Useppe e Bella. Useppe è la lente che ci permette di vedere un mondo desolato e devastato come un mondo pieno di amore e di sorprese, tutto da scoprire e da reinventare. Useppe è capace di trasformare la casetta di San Lorenzo, dove viene rinchiuso quando la madre va a scuola, in una scatola magica, dove ombre, luci e riflessi acquistano significati nuovi e suscitano stupore; sempre Useppe è in grado di concepire la condizione quasi animale in cui lui e sua madre vivono - con molte altre famiglie e persone - nello stanzone di Pietralata durante i bombardamenti in un’occasione per sviluppare affetti e sentimenti; ancora Useppe è capace di vivere le sue scorribande al Tevere insieme al cane Bella come avventure ricche di sorprese, di scoperte, di amici e di pirati.
Sembra quasi che per la Morante bambini e animali sono gli unici esseri viventi capaci di sollevare la realtà dal suo squallore e di conferire senso più alto a una quotidianità fortemente funestata dagli eventi cui la grande Storia la condanna.
Al netto del dibattito e delle critiche di carattere ideologico che lo hanno caratterizzato subito dopo la sua uscita, si tratta di un libro bellissimo per l’umanità che lo abita e la tenerezza che caratterizza ogni suo personaggio.
Siamo tutti piccoli e insignificanti di fronte ai meandri di una storia che sempre più va avanti nonostante l’umanità, e forse anche contro l’umanità.
Voto: 4/5
Devo ammettere di essere parecchio intimorita rispetto alla possibilità di scrivere una recensione ad un romanzo che alla sua uscita ha suscitato un amplissimo dibattito cui hanno partecipato tutti i più importanti letterati del secondo Novecento italiano, nonché al cospetto di una scrittrice come Elsa Morante che a buon diritto appartiene ai grandi della nostra letteratura.
Dopo tante letture di autori contemporanei, grazie al regalo di V., mi ritrovo immersa in una scrittura antica che mi sorprende da numerosi punti di vista: innanzitutto sotto il profilo linguistico, visto che la lingua italiana utilizzata dalla Morante appare oggi per certi versi desueta e alcune costruzioni in lei ricorrenti oggi sarebbero considerati errori sintattici e/o grammaticali. Eppure tale scrittura – fors’anche per questo suo carattere antico – è parte integrante dell’atmosfera che la Morante riesce a creare nel suo libro.
In secondo luogo, mi ha colpito l’approccio narrativo, anche questo poco conforme ai canoni della scrittura contemporanea, in particolar modo per un gusto del racconto e della digressione non necessariamente funzionali all’evoluzione della vicenda raccontata. Per i lettori contemporanei abituati a narrazioni costruite come una sceneggiatura e totalmente focalizzate sullo sviluppo della storia, l’approccio della Morante può apparire faticoso, ma anche profondamente affascinante.
Interessante anche il ruolo del narratore, che si presenta come testimone diretto dei fatti, contemporaneo e coinvolto nelle vicende dei suoi protagonisti, capace di ricostruire e gettare luce su quei passaggi che sfuggono alla conoscenza dei singoli.
E infine arriviamo alla storia.
Qual è la storia evocata nel titolo da Elsa Morante? La grande storia delle nazioni coinvolte nella seconda guerra mondiale, quella delle vicende che cambiano i destini del mondo, indifferenti alle vicende dei singoli, ovvero la piccola storia di questo sfortunato nucleo familiare, formato da Ida Ramundo, maestra elementare di origini calabresi, Nino, figlio del marito di cui è rimasta vedova, giovane esuberante che è prima camicia nera, poi partigiano, poi contrabbandiere, Useppe, il piccolo “bastardo” che Ida ha concepito dopo essere stata violentata da un soldato tedesco, e due cani presenti in sequenza nella vita di questa famiglia?
Dove si svolge la storia che interessa alla Morante? Sullo scacchiere internazionale, nei grandi spazi del mondo dove si svolgono gli avvenimenti che cambieranno le sorti dell’umanità, ovvero nei quartieri di Roma dove vivono e si muovono i suoi personaggi, San Lorenzo, il Ghetto, Pietralata, Testaccio, Ostiense e San Paolo?
La risposta sta forse nelle proporzioni: la “grande storia” fa da introduzione ad ogni capitolo riassumendo in maniera sintetica gli avvenimenti che caratterizzano ciascuno degli anni raccontati nel libro, una specie di premessa immutabile e soverchiante, ma anche relativamente contenuta; la “piccola storia” della famiglia Ramundo, pur segnata da un destino infausto – come risulta evidente fin dalle prime pagine –, trabocca di vita e di pienezza non solo e non tanto per gli accadimenti quanto nell’immaginario, nei sogni di cui tutti questi personaggi sono ricchi.
Centrale la figura di Davide Segre, un anarchico mantovano che dopo essersi rifugiato nello stanzone di Pietralata con il nome di Piotr, si unisce ai partigiani con il nome di Carlo, per tornare ad essere semplicemente Davide a guerra finita e a fare i conti con i suoi fantasmi interiori e le conseguenze psicologiche terribili lasciate dalla guerra.
Il destino di tutti è segnato fin dalle prime pagine e la Morante non fa nulla per nascondercelo. Però La storia non è un romanzo triste né deprimente, anzi – e direi nonostante tutto – esso sprigiona gioia di vivere in ogni sua pagina, in particolare quelle che vedono protagonisti Ninnuzzu e Useppe, oppure Useppe e Bella. Useppe è la lente che ci permette di vedere un mondo desolato e devastato come un mondo pieno di amore e di sorprese, tutto da scoprire e da reinventare. Useppe è capace di trasformare la casetta di San Lorenzo, dove viene rinchiuso quando la madre va a scuola, in una scatola magica, dove ombre, luci e riflessi acquistano significati nuovi e suscitano stupore; sempre Useppe è in grado di concepire la condizione quasi animale in cui lui e sua madre vivono - con molte altre famiglie e persone - nello stanzone di Pietralata durante i bombardamenti in un’occasione per sviluppare affetti e sentimenti; ancora Useppe è capace di vivere le sue scorribande al Tevere insieme al cane Bella come avventure ricche di sorprese, di scoperte, di amici e di pirati.
Sembra quasi che per la Morante bambini e animali sono gli unici esseri viventi capaci di sollevare la realtà dal suo squallore e di conferire senso più alto a una quotidianità fortemente funestata dagli eventi cui la grande Storia la condanna.
Al netto del dibattito e delle critiche di carattere ideologico che lo hanno caratterizzato subito dopo la sua uscita, si tratta di un libro bellissimo per l’umanità che lo abita e la tenerezza che caratterizza ogni suo personaggio.
Siamo tutti piccoli e insignificanti di fronte ai meandri di una storia che sempre più va avanti nonostante l’umanità, e forse anche contro l’umanità.
Voto: 4/5
venerdì 9 maggio 2014
Gigolò per caso
Il pomeriggio di Pasqua è uno dei momenti migliori per andare al cinema. E così vedo cosa offre la provincia sud di Bari. Avrei voluto vedere Nimphomaniac Vol. 1 di Lars Von Trier ma lo danno solo in un cinema scomodo e così – considerando anche che in una giornata come questa forse non è il caso di deprimersi e di far deprimere R. che ha deciso di venire con me al cinema – optiamo per qualcosa di più leggero.
Eccoci così a vedere Gigolò per caso al multisala di Mola di Bari, dove - dopo aver pensato di fare le furbe spostandoci in una fila libera - ci si piazza dietro un folto gruppo di ragazzini tra i 10 e i 12 anni che fa casino per tutta la durata del film (io dico, ma i genitori non si preoccupano di cosa vanno a vedere i loro figli?).
Mi aspetto un film divertente e mi accorgo che tutto quanto c’era di divertente nel film ci è stato già mostrato nel trailer, togliendo gran parte della sorpresa.
In realtà, quello di John Turturro è la somma di due film che non si amalgamano quasi mai. Da un lato c’è la commedia newyorkese alla Woody Allen (tra l’altro co-protagonista del film), quella nella quale si parla molto e si ride anche abbastanza, dall’altro c’è una riflessione anche piuttosto pesante sulla condizione e sulla solitudine femminile all’interno della comunità ebraica ultra-ortodossa che vive a Brooklyn.
Nel primo film c’è un Turturro non più giovane che però si trasforma in un affascinantissimo gigolò capace di soddisfare i desideri e risvegliare i sensi di donne di mezza età un po’ spente o annoiate (leggasi Sharon Stone e Sofia Vergara), sotto la regia di un Woody Allen temporaneamente nel ruolo di “pappa”.
Nel secondo film c’è una donna ebrea vedova con sei figli (Vanessa Paradis) che vive costretta nelle rigide regole della sua religione e ha perso completamente il contatto con il proprio corpo, la propria femminilità e i propri desideri. L’intervento di Woody Allen e di Turturro le consentirà di ritrovare se stessa e di cercare la propria felicità.
Questi due film si incontrano malamente solo nel personaggio di Turturro, ma si muovono su due piani totalmente paralleli in maniera piuttosto straniante. Più in generale, il film, pur regalando alcuni dialoghi brillanti e alcune battute al fulmicotone, resta complessivamente piuttosto superficiale e tutto sommato privo di quella vena autoironica – in particolare in riferimento al personaggio di Turturro – che rende la situazione nel suo complesso piuttosto triste.
Una mia amica ha commentato così: “Allen non vuole morire, e Turturro non vuole invecchiare”. Effettivamente c’è poco da obiettare.
Voto: 2,5/5
Eccoci così a vedere Gigolò per caso al multisala di Mola di Bari, dove - dopo aver pensato di fare le furbe spostandoci in una fila libera - ci si piazza dietro un folto gruppo di ragazzini tra i 10 e i 12 anni che fa casino per tutta la durata del film (io dico, ma i genitori non si preoccupano di cosa vanno a vedere i loro figli?).
Mi aspetto un film divertente e mi accorgo che tutto quanto c’era di divertente nel film ci è stato già mostrato nel trailer, togliendo gran parte della sorpresa.
In realtà, quello di John Turturro è la somma di due film che non si amalgamano quasi mai. Da un lato c’è la commedia newyorkese alla Woody Allen (tra l’altro co-protagonista del film), quella nella quale si parla molto e si ride anche abbastanza, dall’altro c’è una riflessione anche piuttosto pesante sulla condizione e sulla solitudine femminile all’interno della comunità ebraica ultra-ortodossa che vive a Brooklyn.
Nel primo film c’è un Turturro non più giovane che però si trasforma in un affascinantissimo gigolò capace di soddisfare i desideri e risvegliare i sensi di donne di mezza età un po’ spente o annoiate (leggasi Sharon Stone e Sofia Vergara), sotto la regia di un Woody Allen temporaneamente nel ruolo di “pappa”.
Nel secondo film c’è una donna ebrea vedova con sei figli (Vanessa Paradis) che vive costretta nelle rigide regole della sua religione e ha perso completamente il contatto con il proprio corpo, la propria femminilità e i propri desideri. L’intervento di Woody Allen e di Turturro le consentirà di ritrovare se stessa e di cercare la propria felicità.
Questi due film si incontrano malamente solo nel personaggio di Turturro, ma si muovono su due piani totalmente paralleli in maniera piuttosto straniante. Più in generale, il film, pur regalando alcuni dialoghi brillanti e alcune battute al fulmicotone, resta complessivamente piuttosto superficiale e tutto sommato privo di quella vena autoironica – in particolare in riferimento al personaggio di Turturro – che rende la situazione nel suo complesso piuttosto triste.
Una mia amica ha commentato così: “Allen non vuole morire, e Turturro non vuole invecchiare”. Effettivamente c’è poco da obiettare.
Voto: 2,5/5
martedì 6 maggio 2014
Joan as Police Woman, Roma, Auditorium Parco della Musica, 13 aprile 2014
Sono una fan di Joan. Lo sapete.
Ed è ormai da qualche anno che non perdo praticamente nessuno dei suoi concerti a Roma. L'ho vista nel 2010 al Circolo degli Artisti, nel 2012 a Villa Ada e quest'anno l'appuntamento si è ripetuto all'Auditorium Parco della musica.
Da circa un mese è uscito il suo ultimo album, The classic, che ho prontamente acquistato su CD e ascoltato più e più volte per arrivare preparata al concerto. Devo dire che, pur apprezzando alcuni brani e riconoscendone alcune forme di continuità con le sonorità dell'album precedente, The deep field, ho trovato The classic meno riuscito nel suo complesso, forse perché nel suo insieme un po' troppo uniforme rispetto al precedente.
Ciò premesso, vedere Joan dal vivo è sempre un'esperienza che vale la pena, grazie all'energia che questa straordinaria musicista porta sul palco. E la sua performance all'Auditorium non è stata da meno.
A questo concerto Joan si presenta con una formazione rinnovata. Non c'è il suo fidato Tyler Woods (compagno di tanti concerti!), c'è invece alla batteria l'altro suo musicista di fiducia, Parker Kindred. Sul palco ci sono poi anche un nuovo chitarrista e un tastierista. Parte del concerto vede la partecipazione anche di un buffo bassista (Benjamin Lazar Davis, da Joan presentato come guest star), che veste una tuta da meccanico e dei grandi occhiali da sole, ma che effettivamente si rivela molto bravo.
Joan sfoggia - come sempre - una mise che non lascia indifferenti: stivali imbottiti blu con tacco alto, pantaloni neri attillati a vita alta, scintillante camicia morbida senza maniche. Stasera appare in forma e soprattutto intenzionata a dimostrarci le sue doti di musicista, visto che oltre alle tastiere e alla chitarra, ci ricorda le sue origini di violinista proponendoci alcuni arrangiamenti al violino.
Lei e il suo gruppo ci suonano quasi tutto l'ultimo album, inframmezzandolo con qualcuno dei suoi pezzi più famosi (tra cui The ride e Magic)dagli album precedenti, in particolare Real life e The deep field. Avvalendosi del contributo del bassista ospite suona anche due canzoni inedite che - ci dice - fanno parte di un progetto che non ha ancora trovato la via della sala di registrazione.
Il pubblico si anima e nonostante la forzatura delle poltrone in cui tutti siamo seduti l'atmosfera si riscalda. Qualcuno addirittura si alza e si fa più vicino al palco nonostante gli interventi del personale di sala.
Dopo un'ora e mezza di concerto intenso, durante il quale Joan parla molto meno del solito con il pubblico, lei e la sua band escono, ma il pubblico li richiama a gran voce, cosicché i quattro rientrano per cantare ancora tre canzoni, la prima, The witness, con l'accompagnamento di tutti gli strumenti, la seconda è The classic (quella che dà il nome all'album) cantata a cappella, infine la terza, Your song, la canta Joan da sola alle tastiere per chiudere in bellezza.
I concerti precedenti si erano probabilmente avvantaggiati di un maggiore contatto fisico con il pubblico che creava naturalmente una forma di empatia; questo ha sofferto un pochino di una distanza maggiore e forse anche di un repertorio un pochino meno entusiasmante, compensato però da una Joan in grande forma, capace di sprigionare attraverso la sua voce e il suo rapporto con gli strumenti un'energia trascinante e inesauribile.
Voto: 3,5/5
Ed è ormai da qualche anno che non perdo praticamente nessuno dei suoi concerti a Roma. L'ho vista nel 2010 al Circolo degli Artisti, nel 2012 a Villa Ada e quest'anno l'appuntamento si è ripetuto all'Auditorium Parco della musica.
Da circa un mese è uscito il suo ultimo album, The classic, che ho prontamente acquistato su CD e ascoltato più e più volte per arrivare preparata al concerto. Devo dire che, pur apprezzando alcuni brani e riconoscendone alcune forme di continuità con le sonorità dell'album precedente, The deep field, ho trovato The classic meno riuscito nel suo complesso, forse perché nel suo insieme un po' troppo uniforme rispetto al precedente.
Ciò premesso, vedere Joan dal vivo è sempre un'esperienza che vale la pena, grazie all'energia che questa straordinaria musicista porta sul palco. E la sua performance all'Auditorium non è stata da meno.
A questo concerto Joan si presenta con una formazione rinnovata. Non c'è il suo fidato Tyler Woods (compagno di tanti concerti!), c'è invece alla batteria l'altro suo musicista di fiducia, Parker Kindred. Sul palco ci sono poi anche un nuovo chitarrista e un tastierista. Parte del concerto vede la partecipazione anche di un buffo bassista (Benjamin Lazar Davis, da Joan presentato come guest star), che veste una tuta da meccanico e dei grandi occhiali da sole, ma che effettivamente si rivela molto bravo.
Joan sfoggia - come sempre - una mise che non lascia indifferenti: stivali imbottiti blu con tacco alto, pantaloni neri attillati a vita alta, scintillante camicia morbida senza maniche. Stasera appare in forma e soprattutto intenzionata a dimostrarci le sue doti di musicista, visto che oltre alle tastiere e alla chitarra, ci ricorda le sue origini di violinista proponendoci alcuni arrangiamenti al violino.
Lei e il suo gruppo ci suonano quasi tutto l'ultimo album, inframmezzandolo con qualcuno dei suoi pezzi più famosi (tra cui The ride e Magic)dagli album precedenti, in particolare Real life e The deep field. Avvalendosi del contributo del bassista ospite suona anche due canzoni inedite che - ci dice - fanno parte di un progetto che non ha ancora trovato la via della sala di registrazione.
Il pubblico si anima e nonostante la forzatura delle poltrone in cui tutti siamo seduti l'atmosfera si riscalda. Qualcuno addirittura si alza e si fa più vicino al palco nonostante gli interventi del personale di sala.
Dopo un'ora e mezza di concerto intenso, durante il quale Joan parla molto meno del solito con il pubblico, lei e la sua band escono, ma il pubblico li richiama a gran voce, cosicché i quattro rientrano per cantare ancora tre canzoni, la prima, The witness, con l'accompagnamento di tutti gli strumenti, la seconda è The classic (quella che dà il nome all'album) cantata a cappella, infine la terza, Your song, la canta Joan da sola alle tastiere per chiudere in bellezza.
I concerti precedenti si erano probabilmente avvantaggiati di un maggiore contatto fisico con il pubblico che creava naturalmente una forma di empatia; questo ha sofferto un pochino di una distanza maggiore e forse anche di un repertorio un pochino meno entusiasmante, compensato però da una Joan in grande forma, capace di sprigionare attraverso la sua voce e il suo rapporto con gli strumenti un'energia trascinante e inesauribile.
Voto: 3,5/5
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