giovedì 22 aprile 2010

L'uomo nell'ombra

Sarò breve. E non è la solita frase di circostanza che i logorroici utilizzano quando in realtà stanno per affliggere i loro ascoltatori con un discorso lunghissimo. Sarò realmente breve, perché questo è esattamente quel tipo di film di cui non posso certamente parlare male, ma del quale alla fine non ho molto da dire.

Roman Polanski ha qualità registiche indubbie (e non sono certo io a doverlo dire), la sceneggiatura è solida grazie anche al romanzo da cui è tratta (The ghost di Robert Harris), Ewan McGregor (il ghostwriter senza nome del titolo) è in splendida forma sia fisicamente che attorialmente, l'isola del New England in cui è ambientata la storia e la casa sulla spiaggia del primo ministro Adam Lang (Pierce Brosnan) sono decisamente belle e inquietanti per fare degnamente da scenario al thriller politico, Olivia Williams nel ruolo di Ruth, la moglie di Lang, è sufficientemente ambigua e seducente da risultare credibile. L'ho pure visto in lingua originale, scoprendo con piacere che dopo circa un'ora di film cominciavo anche a capirci qualcosa e a collegare parlato e sottotitoli. Insomma, i pezzi del puzzle c'erano tutti.

Eppure, questo è il classico film che non mi smuove, né mi lascia tracce. Credo che non farò fatica a dimenticarlo entro qualche settimana, nonostante la mia tendenza quasi patologica a ricordare quasi tutto e spesso nel dettaglio.

Sarà perché di intrighi politici ne abbiamo di ben più appassionanti nella realtà al punto tale che quelli sul grande schermo sembrano divertissement per studenti universitari, sarà perché il genere del thriller collocato tra politica e spionaggio fondamentalmente non mi appassiona, sarà che non riesco più ad accettare l'idea di uscire da un cinema senza una riflessione che non sia un minimo più mia, che non aggiunga qualcosa al mio ordinato groviglio interiore. Ma, insomma, per farla breve, non un brutto film, anzi; però nemmeno un capolavoro, e soprattutto vi deve davvero piacere il genere.

Voto: 3/5

lunedì 19 aprile 2010

L'uomo a rovescio / Fred Vargas

L'uomo a rovescio / Fred Vargas; trad. di Yasmina Melaouah. Torino, Einaudi, 2006.

Io e gli aerei evidentemente non abbiamo un buon rapporto. Dopo essere atterrata a Londra qualche anno fa nel pieno dell'uragano Kyrill, parto per il weekend per Madrid e, a causa dell'eruzione di un impronunciabile vulcano islandese che sputa le sue ceneri nere in mezza Europa, scoppia la più grossa crisi del traffico aereo di sempre. Migliaia e migliana di voli cancellati, centinaia di migliaia di passeggeri bloccati negli aeroporti. Impossibile prevedere come e dove si sposterà la nube di cenere. E io devo ripartire.

No, non è un'opzione. Devo ripartire. C'è qualcuno che mi aspetta da qualche parte, oltre il Mediterraneo occidentale. E io non riesco a pensare che possa esistere qualcosa indipendentemente da quell'incontro.
Così, attesa dopo attesa, paura dopo paura, ansia dopo ansia, cerco di distrarmi leggendo L'uomo a rovescio, la tessera mancante nel mio personale itinerario di lettura attraverso la saga del commissario Adamsberg.

Scopro così che anche il libro che sto leggendo parla di un incontro possibile, ma per niente scontato, quello tra un albero e il vento che gli passa tra i rami, a volte senza fermarsi.

Devo aspettare metà libro perché questo incontro si compia, ma Adamsberg e Camille sono come l'albero e il vento e si scambiano continuamente i ruoli. Si cercano, si aspettano, si sfuggono, si perdono, si ritrovano, perché Camille è "la naturale inclinazione" (p. 263) di Adamsberg e Adamsberg lo è di Camille. Ed è "come se una parte di sé, infinitesimale ma decisiva, l'aspettasse costantemente sull'orlo dei suoi occhi" (p. 218).

Insomma, Camille e Adamsberg sono tenuti insieme - oppure separati - da quella cosa che si chiama "Destino. [...] Eventualità, incontri. Caso, circostanza che fa trovare, fortuitamente o no, una persona o una cosa" (p. 328). Quella parola che in Spagna usano per indicare il concetto che noi chiamiamo "destinazione" e che, in questo momento, il capitano del mio aereo (partito!) sta ricordando.

Destino, destinazione, caso, caos. Le sento vicine queste parole e tutte inestricabilmente collegate alla mia vita in questo momento.

E così, ancora una volta, del presunto lupo mannaro che sgozza pecore e uomini nel Mercantour mi interessa il giusto, ma Vargas di nuovo mi cattura con quella sottotrama emotiva e verbale che rende i suoi libri del tutto speciali per me.

Certo, non c'è il mio amato Danglard, ma sono indimenticabili i personaggi di Salomon e il Guarda. E Salomon sembra parlare proprio a me quando dice a Camille: "L'esitazione è il lusso dei saggi". E lei risponde: "La saggezza mi annoia". Cosicché riprende: " Allora non pensarci su. Agisci. L'audacia è il lusso delle menti libere" (p. 192).

Ed eccola la mia destinazione. Nemmeno la più grande crisi aerea di sempre riuscirà a tenermi lontana dal mio destino.

P.S. Questo post è dedicato al mio destino e al momento in cui l'incontrerò faccia a faccia. Perché provo "diffidenza nei confronti di quell'aggeggio [il telefono], inadatto a comunicare qualunque situazione un po' delicata. Il telefono era pensato per la conversazione all'ingrosso e al mezzo grosso, di sicuro non per il dettaglio" (p. 202).

Voto: 4/5

mercoledì 14 aprile 2010

Happy family

Qualcuno mi ha fatto notare che le mie recensioni ai film sono sempre caratterizzate da un angolo visuale in un certo senso amorevole, poiché accade che quasi naturalmente io sia portata ad individuare un aspetto positivo, una nota emotivamente affine, una qualità apparentemente nascosta, una virtù in ciò che palesemente è un difetto. E questa è l'interpretazione di chi probabilmente mi legge con occhio altrettanto amorevole, lo stesso che io adotto verso il cinema e i film.

Qualcun altro potrebbe farmi notare che le mie recensioni sono inconcludenti perché di fatto non rispondono alla domanda che tutti cerchiamo quando ne leggiamo una: vale la pena andare a vedere questo film? com'è, bello o brutto?
Ebbene, effettivamente mi sono accorta di non essere quasi mai in grado di dare questa risposta. Che ne so se vale la pena? Per me vale sempre la pena andare al cinema, anche quando ne esco delusa o frustrata. Che ne so se il film che ho visto può essere bello o brutto per un'altra persona? È tutto così soggettivo, siamo tutti così diversi l'uno dall'altro, e ciascuno di noi è così emotivamente cangiante, che trovo praticamente impossibile garantire a chicchessia un consiglio che sicuramente funzioni.

E poi, come dice Salvatores, o meglio Groucho Marx (perché sua è la frase): "Preferisco leggere o vedere un film piuttosto che vivere... nella vita non c'è una trama". E forse è per questo che nel guardare e commentare un film mi viene naturale trovare qualcosa di bello, riscopro quell'ottimismo che ogni tanto perdo per strada nell'almeno apparente insensatezza che a volte il quotidiano ci propina. Per quanto... la vita, a differenza dei film, ha quello straordinario valore che è proprio di tutto ciò che non è per sempre.

Insomma, questa lunghissima premessa per dire che il nuovo film di Salvatores non mi ha convinto completamente, ma mi è piaciuto. E non c'è contraddizione in questa affermazione.

Visivamente di grandissimo effetto. Assolutamente straordinaria la fotografia di Italo Petriccione. Bellissimo lo sguardo sulla città di Milano, tanto grigia e algida nel film di Luca Guadagnino, quanto solare, poetica e sonora in Happy family.
Non nuova, ma di grande effetto, la scelta di connotare scene e personaggi con dei colori molto caratterizzati e vivaci (i rossi, i gialli, i bianchi che invadono e assorbono personaggi e oggetti e mi hanno richiamato alla mente la sensazione visiva de Il favoloso mondo di Amelie), ovvero di renderli uniformemente sommersi in tessuti fantasia che arredano pareti, letti, lampade e persone (da questo punto di vista mi ha ricordato un buffissimo film che ho visto qualche anno fa, La mia vita a Garden State).

E del resto la teatralità del film è assolutamente esplicita e scoperta. Una delle amiche con cui ero al cinema ha detto una cosa molto azzeccata: "A tratti sembra quasi un cartoon!".

Gli attori sono tutti molto bravi e gradevoli, da Fabio De Luigi (Ezio, l'autore che racconta e poi finisce nella storia), a Fabrizio Bentivoglio e Diego Abatantuono, a Margherita Buy e Carla Signoris. Anche i meno conosciuti, in particolare Valeria Bilello, se la cavano splendidamente.

E, su tutto, non c'è dubbio sul fatto che in questo film si rida, con intelligenza, ma di gusto. E questo è un merito non secondario.

Però - e veniamo alle note secondo me dolenti - il film resta esile nei contenuti emotivi e psicologici. Apre spiragli di riflessione che poi non sviluppa, sceglie giustamente di librarsi leggero, ma ogni tanto non riesce a sottrarsi a una certa superficialità, accenna riflessioni sulla vita che tendono un po' a cadere nel vuoto. Capisco che gli sceneggiatori abbiano voluto evitare il rischio "predicozzo insopportabile" di certi film italiani, ma certo è dura camminare su quel filo sottile che separa leggerezza e vacuità.

Insomma, la sensazione è che Happy family sia un film che porterò a lungo negli occhi, ma rapidamente mi uscirà dalla testa. E per me non è una bellissima premessa. Il che poi non vuol dire che magari possa essere uno di quei film che - proprio per questo motivo - manterrà inalterata la sua freschezza anche a distanza di tempo, perché non si lega a doppio filo con la percezione emotiva e intellettiva di un momento troppo determinato del mio cangiante e multiforme universo interiore.

Insomma, per rispondere alla famosa domanda iniziale. Da vedere? Ma sì, certo, sempre e comunque. Qualunque cosa ne penserete dopo. Sì, sì, proprio come la vita.

Voto: 3/5

sabato 10 aprile 2010

Departures

Crisi di astinenza. Sì, la chiamerei proprio così. Crisi di astinenza da cinema. Non da film, perché di film ne ho visti diversi nell'ultimo paio di settimane. Ma da cinema, quell'esperienza straordinaria di entrare in una grande sala buia, di essere avvolti da immagini e suoni, di sentirsi collettivamente partecipi di un'emozione, di sentire la presenza attiva dell'altro senza necessariamente vederlo. I motivi per cui a mio avviso il cinema non potrà mai essere sostituito da alcuna altra forma di proiezione filmica.

E, dunque - dicevo - ero in profonda crisi di astinenza da cinema, perché la pausa pasquale (con la full immersion in famiglia) e le ultime inaspettate e piacevoli incursioni nella mia vita privata mi avevano tenuta per un po' lontana dal mio habitat naturale. Ma com'è giusto che sia - e a grande richiesta dei miei fans ;-) - eccomi di nuovo a me e a voi.

Departures di Yojiro Takita è decisamente un film interessante (termine per me ormai divenuto praticamente onnicomprensivo, ma che aiuta quando faccio fatica ad usarne altri o volontariamente preferisco l'indefinizione), espressione di un mondo e di una cultura certamente altri rispetto alla nostra contemporanea cultura occidentale, ma - aggiungerei - non del tutto estranei.

Dentro questo film ci sono molte cose. Ho letto da qualche parte che è una riflessione sulla morte, ma io direi piuttosto che è una riflessione sulla vita, quel groviglio inestricabile di stati d'animo, di fasi contraddittorie, di sentimenti, in cui nascita, vita, morte e rinascita generano un ciclo ineluttabile, ma forse proprio per questo rasserenante, e il cui senso va cercato al suo stesso interno in questa eterna ripetizione, che però è anche rigenerazione.

Il film è denso di metafore della vita e della morte fin troppo semplici ed esplicite (le stagioni, i salmoni, il cibo, le piante, il sasso che passa di mano in mano), ma forse è inevitabile che sia così in una cultura altamente visuale come è quella giapponese. Ma ancora di più è giocato sul significato della ritualità, quella che forse la nostra cultura occidentale ha almeno in parte perso.
La ripetizione dei gesti di Daigo (Motoki Masahiro) - e del suo maestro Sasaki (Yamazaki Tsutomu) - nel preparare i corpi per l'ultimo viaggio non è stanca monotonia, ma amorevole conferma di sintonia, di compassione, di risonanza.

La vita prende luce dall'esistenza stessa della morte, come la felicità si illumina dell'esperienza della sofferenza. E tutto è naturale e fluido.
Il violoncello è strumento di una musica dell'anima, che risuona solo quando entra in sintonia con la natura profonda della vita.

Riconoscere gli altri, cioè scoprirne l'essenza e focalizzarne il volto interiore, significa trovare noi stessi, la nostra origine, il posto dal quale veniamo, quello che siamo sempre stati e quello che diventiamo giorno per giorno. Ovvero, trovare noi stessi significa riconoscere alfine anche gli altri.

E non vi immaginate necessariamente un film etereo, perché si ride anche, e poi ci si commuove, e poi si rimane un po' spiazzati, e poi non si capisce, e poi, e poi...
Forse dura più di quanto ci si aspetterebbe, ma - come ho letto l'altro giorno da qualche parte - niente dura troppo se dentro di te prepari il tempo necessario, e forse niente dura troppo poco se lo vivi intensamente.

Meritato Oscar come miglior film straniero nel 2009. Mi ha fatto tornare voglia di vedere un film orientale che mi era piaciuto molto Primavera, estate, autunno, inverno... e ancora primavera, del grande Kim Ki-Duk.

Voto: 4/5