A suo tempo, cioè agli inizi degli anni Ottanta, ero stata una grande appassionata della saga di Star Wars e avevo seguito con attenzione le storie della principessa Leila, di Luke Skywalker e di Han Solo.
Poi quando – qualche anno fa – è iniziata la serie dei prequel che raccontano la storia di Anakin non ho mai avuto lo stimolo ad andare al cinema. Anche solo uno sguardo ai trailer mi restituiva l'immagine di un mondo lontano da quello che avevo amato e l'assenza dei miei personaggi preferiti mi aveva sempre convinta a lasciar perdere.
Questa volta però le cose sono diverse. L'episodio VII (Il risveglio della forza) si colloca dopo i tre film storici e ci restituisce parte dei personaggi e delle atmosfere che noi degli anni Settanta avevamo conosciuto.
E così convinco due amiche – che in realtà non hanno visto nemmeno un episodio della saga! – a seguirmi, durante le vacanze natalizie, al vetusto cinema Norba di Conversano (che credo non frequentassi dai tempi del liceo) a vedere il film. Dico loro che non è necessario conoscere la storia e che anche io ne conosco solo una parte. Al limite non coglieremo tutti i riferimenti, ma gli prometto un bello spettacolo.
Per fortuna, J. J. Abrams non delude. Il risveglio della forza è di per se stesso un bel film, anche quando manca qualunque altro tipo di riferimento alle altre puntate e le mie amiche escono soddisfatte. Io lo sono ancora di più, fors'anche perché questo nuovo incontro con Star Wars è stato come un ritorno nostalgico alla mia adolescenza e in qualche modo anche una verifica del tempo che è passato.
Le facce invecchiate della ora regina Leila (Carrie Fisher), di Han Solo (Harrison Ford) e di un quasi irriconoscibile Luke Skywalker (Mark Hamill) mi fanno tenerezza e al contempo mi fanno pensare a quanto sono cambiata anch'io nel frattempo.
Ma quella del nuovo Star Wars non è soltanto un'operazione nostalgica. Anzi, secondo me, il punto di forza del film sta nell'equilibrio tra gli stilemi del passato (le atmosfere, il tipo di dialoghi, un certo tipo di umorismo della sceneggiatura) e gli elementi di novità del presente (in particolare alcune svolte narrative: penso al ruolo dello Stormtrooper Finn, ovvero alla figura di Rey, interpretata da Daisy Ridley).
Il risveglio della forza è un film che non si prende esageratamente sul serio (esattamente come gli Star Wars originari) e non è solo un giocattolone tecnologico come oggi sono molti film di fantascienza. Un film che sa essere epico e quotidiano come pochi altri. È un racconto in cui l'umanità ha un ruolo importante e il passato e il presente si uniscono in un gusto un po' vintage, estremamente affascinante.
Alcuni aspetti della narrazione sono decisamente un po' deboli (la grandezza del cattivo Dart Fener è inarrivabile, per esempio), ma gli inserti di alcuni personaggi nuovi, penso a Rey, ma anche al robottino BB-8, sono efficaci e perfettamente integrati con i loro predecessori, che a volte sono ancora protagonisti, altre volte hanno ruoli quasi cameo.
Non so esattamente che effetto faccia alle generazione di adolescenti e giovani questo Star Wars, ma a giudicare dai commenti di mio nipote di 13 anni, direi che è ancora in grado di creare quella magia che io avevo vissuto più o meno alla sua età. E questo è molto bello.
Voto: 3,5/5
martedì 29 dicembre 2015
Star Wars: Episodio VII, Il risveglio della forza
sabato 26 dicembre 2015
Le ricette della signora Toku
Entro in sala con le bacchette di bambù incartate nella maniera classica giapponese, ma con sopra la locandina del film. È la trovata promozionale – direi geniale seppure non del tutto originale – del film.
E questa premessa dice già molto: Le ricette della signora Toku è un film che più giapponese non si può, e per questo devo ammettere che ha ragione il mio amico M. quando dice che i film giapponesi non si possono davvero guardare doppiati, perché questi giapponesi che parlano in italiano con le voci dei cartoni animati producono inevitabilmente ilarità e ci riconducono alla nostra infanzia in modo non sempre appropriato.
Comunque, la prima parte del film è delicata e leggera come solo i giapponesi sanno essere. Sentaro (Masatoshi Nagase) gestisce un chiosco dove vende i dorayaki, un cibo che i bambini di oggi conoscono alla perfezione perché è il cibo preferito del gatto spaziale Doraemon. Si tratta di fatto di due pancake leggeri, che vengono chiusi a panino con al centro di solito della marmellata di fagioli rossi. Sentaro è un uomo solo e triste, che tutte le mattine si alza, apre il suo negozio e prepara dorayaki, senza mai fare un sorriso ai suoi clienti; ma è anche un uomo buono e ha una simpatia per Wakana (Kyara Uchida), una ragazza con pochi mezzi che per questo è costretta a rinunciare al sogno di studiare.
Un giorno alla sua porta si presenta la signora Toku (Kirin Kiki), un’anziana donna con un evidente problema alle mani che si propone di lavorare per Sentaro e in particolare di occuparsi della marmellata di fagioli.
Da qui inizia un’amicizia che segue il corso delle stagioni: dalla primavera dei ciliegi in fiore, fino all'estate delle foglie verdi e luminose, poi all'autunno dei tappeti di foglie gialle. E specularmente all'andamento della natura, la leggerezza della primavera e la gioia dell'estate verranno presto sostituite dalla malinconia dell'autunno e dalla durezza dell'inverno, quando le storie – difficili e tristi - di Toku e di Sentaro saranno portate allo scoperto.
Ma – come la signora Toku ci insegna – il privilegio della vita è ascoltare quello che la natura in tutte le sue forme ha da dirci per entrare in connessione con noi stessi. E la natura è fatta di cicli, cosicché alla durezza dell’inverno seguirà una nuova primavera e la gioia di una nuova leggerezza che sarà resa più piena dall’esperienza del dolore e dell’amore.
Il film di Naomi Kawase non si può certo definire del tutto originale, e se arrivate al cinema troppo stanchi farete certamente fatica ad apprezzare questo elogio della lentezza e questa filosofia di vita – molto giapponese - incentrata sull'attesa amorevole.
In compenso uscirete dal cinema con una fame notevole e vorrete trovare fuori – più che le bacchette – un cesto di dorayaki caldi ad aspettarvi!
Voto: 3/5
E questa premessa dice già molto: Le ricette della signora Toku è un film che più giapponese non si può, e per questo devo ammettere che ha ragione il mio amico M. quando dice che i film giapponesi non si possono davvero guardare doppiati, perché questi giapponesi che parlano in italiano con le voci dei cartoni animati producono inevitabilmente ilarità e ci riconducono alla nostra infanzia in modo non sempre appropriato.
Comunque, la prima parte del film è delicata e leggera come solo i giapponesi sanno essere. Sentaro (Masatoshi Nagase) gestisce un chiosco dove vende i dorayaki, un cibo che i bambini di oggi conoscono alla perfezione perché è il cibo preferito del gatto spaziale Doraemon. Si tratta di fatto di due pancake leggeri, che vengono chiusi a panino con al centro di solito della marmellata di fagioli rossi. Sentaro è un uomo solo e triste, che tutte le mattine si alza, apre il suo negozio e prepara dorayaki, senza mai fare un sorriso ai suoi clienti; ma è anche un uomo buono e ha una simpatia per Wakana (Kyara Uchida), una ragazza con pochi mezzi che per questo è costretta a rinunciare al sogno di studiare.
Un giorno alla sua porta si presenta la signora Toku (Kirin Kiki), un’anziana donna con un evidente problema alle mani che si propone di lavorare per Sentaro e in particolare di occuparsi della marmellata di fagioli.
Da qui inizia un’amicizia che segue il corso delle stagioni: dalla primavera dei ciliegi in fiore, fino all'estate delle foglie verdi e luminose, poi all'autunno dei tappeti di foglie gialle. E specularmente all'andamento della natura, la leggerezza della primavera e la gioia dell'estate verranno presto sostituite dalla malinconia dell'autunno e dalla durezza dell'inverno, quando le storie – difficili e tristi - di Toku e di Sentaro saranno portate allo scoperto.
Ma – come la signora Toku ci insegna – il privilegio della vita è ascoltare quello che la natura in tutte le sue forme ha da dirci per entrare in connessione con noi stessi. E la natura è fatta di cicli, cosicché alla durezza dell’inverno seguirà una nuova primavera e la gioia di una nuova leggerezza che sarà resa più piena dall’esperienza del dolore e dell’amore.
Il film di Naomi Kawase non si può certo definire del tutto originale, e se arrivate al cinema troppo stanchi farete certamente fatica ad apprezzare questo elogio della lentezza e questa filosofia di vita – molto giapponese - incentrata sull'attesa amorevole.
In compenso uscirete dal cinema con una fame notevole e vorrete trovare fuori – più che le bacchette – un cesto di dorayaki caldi ad aspettarvi!
Voto: 3/5
mercoledì 23 dicembre 2015
Small feet. Blackmarket, Unplugged in Monti, 15 dicembre 2015
Ultimo concerto prima della pausa natalizia e della fine dell’anno.
Al Blackmarket questa sera c’è la band svedese Small Feet, per me sconosciuta prima che gli organizzatori di Unplugged in Monti li portassero a Roma. Ascolto un po’ di loro canzoni e decido che voglio andare ad ascoltarli.
Questa volta arrivo per tempo e riesco anche ad appropriarmi di uno dei bellissimi poster del concerto (riservati ai primi 30 arrivati), che da quest’anno sono realizzati da fraiznic (aka Cinzia Franceschini).
Bevo una birretta e mi posiziono in uno dei posti davanti, ma questa volta non sui cuscini per terra, ché ormai c’ho un’età anch’io. Ho portato – come sempre - il mio equipaggiamento fotografico: peccato che mi accorgo solo in quel momento che ho lasciato a casa la batteria carica! Per fortuna quella che ho dietro sopravvive per un paio di ore e mi consente di fare un po’ di fotografie.
Sul piccolo palco del Blackmarket (“Small feet in a small room” come dice il cantante) sono in due: il cantante e leader della band, Simon Stålhamre, che suona anche la chitarra, e un batterista e polistrumentista, che non sono riuscita a capire se è uno dei membri ufficiali della band, oppure un musicista esterno che ha accompagnato Simon in questo tour. Sono svedesi della Scania (che nostalgia!) e si vede, anche se Simon parla inglese benissimo.
L’atmosfera è gradevole e rilassata. Gli Small Feet sembrano molto a loro agio e Simon è un intrattenitore nato: parla molto con il pubblico, fa battute su Berlusconi e ci fa ridere tra una canzone e l’altra.
I due musicisti ci propongono l’intero album, From Far Enough Away Everything Sounds Like The Ocean, che su un impianto principale fatto di chitarra e batteria si arricchisce di una tastiera elettronica e dell’armonica da bocca. Non saprei dire che cosa mi ricorda la musica degli Small Feet, perché – all’interno del solco ben riconoscibile della musica indie-pop e country – riecheggiano sonorità più classiche, per certi versi di ascendenza quasi cinematografica (si sentano gli echi del western in All and everyone), per altri maggiormente legate alla tradizione svedese degli anni Sessanta e Settanta (qualche eco in Gold). Altrove invece la loro musica sembra richiamare le atmosfere rarefatte del Nord Europa. Alla fine però il risultato è secondo me del tutto originale e di grande gradevolezza e intensità.
Ed effettivamente il pubblico dei giovani quarantenni romani (ma stavolta ci sono anche diversi cinquantenni e oltre, anche stranieri) sembra apprezzare moltissimo, interagisce e chiede a gran voce che lo spettacolo vada avanti fino a quando Simon confessa candidamente che “they’re running out of songs”. Cosicché il concerto si conclude con una cover di una canzone di Bonnie Prince Billy, al cui nome il pubblico applaude; il che evidentemente vuol dire che stiamo dentro un sistema musicale omogeneo.
Alla fine del concerto mi faccio firmare il poster e compro il loro CD, che non avevo comprato prima perché personalmente trovo che – quando possibile - il gesto di comprarlo direttamente dalle mani di chi quel CD se l’è sudato sia molto più bello e significativo. Mentre vado via arriva un ragazzo che in un inglese un po’ stentato dice a Simon che sono bravissimi e che sono certamente meglio dei Sigur Ros (sic!); vuole farsi autografare il CD, così regalo la mia penna a Simon visto che nessuno dei due sembra averne.
Anche stasera ringrazio i ragazzi di Unplugged in Monti che mi hanno regalato (non esattamente, ma quasi) una serata di musica bella e di atmosfera piacevole e mi hanno fatto conoscere una nuova band di cui secondo me sentiremo ancora parlare (al piede di questo post potete ascoltare un loro intero concerto in una stazione radio di Seattle).
Voto: 3,5/5
lunedì 21 dicembre 2015
Tosca / Giacomo Puccini. Teatro dell’Opera, 11 dicembre 2015
Ed è arrivata finalmente – dopo un certo numero di tentativi falliti in modo abbastanza comico – la mia prima volta all’opera grazie a E.
Sono un po’ in imbarazzo perché mi aspetto un ambiente molto chic e io non lo sono affatto. E poi sono da sola, mentre tutti intorno a me sono in coppia o in gruppo, ma i miei tentativi dell’ultim’ora di trovare compagnia non hanno avuto successo.
Quando però mi posiziono nel mio palco laterale (tutto per me), posizionato esattamente sopra l’orchestra, e guardo il bellissimo Teatro dell’Opera dall'interno ogni imbarazzo mi passa. Anzi vedere che i palchi degli ordini superiori e i posti nelle gallerie più alte sono in gran parte occupati da ragazzi in età da liceo mi mette anche di buonumore.
Consapevole della mia ignoranza, compro il cosiddetto “programma”, un libro che contiene – oltre alle informazioni complete sull’opera messa in scena – la sinossi e il libretto, nonché studi e approfondimenti su di essa.
Nei minuti che precedono l’inizio leggo febbrilmente le pagine iniziali per avere almeno un’idea di quello che sto per vedere (lo so, la Tosca è famosissima, ma devo ammettere che a parte reminiscenze dell’ultimo atto, non avevo idea della trama).
Poi entra il maestro d’orchestra, le luci si spengono e le tende si aprono svelando una scenografia bellissima che rappresenta l’interno della chiesa di Sant'Andrea della Valle, dove è ambientato il primo dei tre atti che compongono la Tosca.
E. mi aveva già anticipato che questa messa in scena ha la particolarità di usare gli allestimenti (scenografie e fondali) realizzati sulla base dei bozzetti e dei disegni della prima messa in scena della Tosca, avvenuta proprio al Teatro dell’Opera di Roma nel 1900. E lo stesso vale per i costumi.
Allestimenti e costumi sono la cosa che mi colpisce di più e che certamente mi porto a casa all’uscita dal teatro. Bellissima anche la scenografia del secondo atto, ambientata nel palazzo di Scarpia, nonché la famosissima scena dell’ultimo atto sulla terrazza di Castel Sant'Angelo con la città di Roma sullo sfondo.
Ho molto apprezzato la possibilità di leggere le battute grazie a uno schermo collocato in alto sul palco. Cosa che per una neofita come me è stata una mano santa.
In definitiva, non posso dire che l’opera mi abbia conquistato. L’unico momento che ho trovato veramente emozionante è stato l’inizio del terzo atto, in cui l’orchestra commenta la scena in cui sono presenti solo le guardie sulla terrazza con la melodia dell’aria che di lì a poco canterà Cavaradossi e che anticipa con la gravità di una marcia funebre la tragedia che attende i protagonisti.
Per il resto, la mia possibilità concreta di immedesimazione emotiva con la narrazione resta bassa durante tutto lo spettacolo (in alcuni momenti trovo il recitativo persino un po’ fastidioso). Non posso fare a meno di pensare che l’opera fosse a suo tempo quello che per una generazione molto più vicina alla mia sono state le telenovelas sudamericane: sentimenti forti, grandi amori, grandi tragedie, musiche trascinanti, personaggi ben identificati.
E però al contempo capisco il fascino che l’opera può esercitare ancora su noi contemporanei, e lo vivo in prima persona quando all’uscita dal teatro comincio a pensare di quale altro spettacolo in programma quest’anno potrei comprare il biglietto.
(Il voto sarebbe indelicato per una prima volta come questa, né mi sento di poter dire nulla sui cantanti e le loro qualità artistiche e interpretative. Lascio dunque ad altri più esperti di me questo tipo di valutazioni).
Sono un po’ in imbarazzo perché mi aspetto un ambiente molto chic e io non lo sono affatto. E poi sono da sola, mentre tutti intorno a me sono in coppia o in gruppo, ma i miei tentativi dell’ultim’ora di trovare compagnia non hanno avuto successo.
Quando però mi posiziono nel mio palco laterale (tutto per me), posizionato esattamente sopra l’orchestra, e guardo il bellissimo Teatro dell’Opera dall'interno ogni imbarazzo mi passa. Anzi vedere che i palchi degli ordini superiori e i posti nelle gallerie più alte sono in gran parte occupati da ragazzi in età da liceo mi mette anche di buonumore.
Consapevole della mia ignoranza, compro il cosiddetto “programma”, un libro che contiene – oltre alle informazioni complete sull’opera messa in scena – la sinossi e il libretto, nonché studi e approfondimenti su di essa.
Nei minuti che precedono l’inizio leggo febbrilmente le pagine iniziali per avere almeno un’idea di quello che sto per vedere (lo so, la Tosca è famosissima, ma devo ammettere che a parte reminiscenze dell’ultimo atto, non avevo idea della trama).
Poi entra il maestro d’orchestra, le luci si spengono e le tende si aprono svelando una scenografia bellissima che rappresenta l’interno della chiesa di Sant'Andrea della Valle, dove è ambientato il primo dei tre atti che compongono la Tosca.
E. mi aveva già anticipato che questa messa in scena ha la particolarità di usare gli allestimenti (scenografie e fondali) realizzati sulla base dei bozzetti e dei disegni della prima messa in scena della Tosca, avvenuta proprio al Teatro dell’Opera di Roma nel 1900. E lo stesso vale per i costumi.
Allestimenti e costumi sono la cosa che mi colpisce di più e che certamente mi porto a casa all’uscita dal teatro. Bellissima anche la scenografia del secondo atto, ambientata nel palazzo di Scarpia, nonché la famosissima scena dell’ultimo atto sulla terrazza di Castel Sant'Angelo con la città di Roma sullo sfondo.
Ho molto apprezzato la possibilità di leggere le battute grazie a uno schermo collocato in alto sul palco. Cosa che per una neofita come me è stata una mano santa.
In definitiva, non posso dire che l’opera mi abbia conquistato. L’unico momento che ho trovato veramente emozionante è stato l’inizio del terzo atto, in cui l’orchestra commenta la scena in cui sono presenti solo le guardie sulla terrazza con la melodia dell’aria che di lì a poco canterà Cavaradossi e che anticipa con la gravità di una marcia funebre la tragedia che attende i protagonisti.
Per il resto, la mia possibilità concreta di immedesimazione emotiva con la narrazione resta bassa durante tutto lo spettacolo (in alcuni momenti trovo il recitativo persino un po’ fastidioso). Non posso fare a meno di pensare che l’opera fosse a suo tempo quello che per una generazione molto più vicina alla mia sono state le telenovelas sudamericane: sentimenti forti, grandi amori, grandi tragedie, musiche trascinanti, personaggi ben identificati.
E però al contempo capisco il fascino che l’opera può esercitare ancora su noi contemporanei, e lo vivo in prima persona quando all’uscita dal teatro comincio a pensare di quale altro spettacolo in programma quest’anno potrei comprare il biglietto.
(Il voto sarebbe indelicato per una prima volta come questa, né mi sento di poter dire nulla sui cantanti e le loro qualità artistiche e interpretative. Lascio dunque ad altri più esperti di me questo tipo di valutazioni).
sabato 19 dicembre 2015
Tradimenti / Harold Pinter, con Francesco Scianna e Ambra Angiolini. Teatro Eliseo, 1 dicembre 2015
È un periodo di spettacoli teatrali per me e - abbastanza casualmente - anche di prime.
Questa volta si tratta della prima dell'opera scritta da Harold Pinter, Tradimenti, e portata in scena - per la regia di Michele Placido - da Francesco Scianna, Ambra Angiolini e Francesco Biscione.
Siamo nel 1977. Jerry (Francesco Scianna) ed Emma (Ambra Angiolini) non sono più amanti da un paio di anni. Si incontrano in un bar per raccontarsi le loro vite e ricordare i tempi passati.
Da qui incomincia un viaggio a ritroso che, di scena in scena, ci porta fino al 1968, quando - al matrimonio di Roger e Emma - quest'ultima conosce Jerry e i due si innamorano diventando amanti per sette lunghissimi anni, durante i quali molte cose succedono all’interno delle due coppie ufficiali e molte anche tra loro due.
A poco a poco scopriamo così che oggetto di questa pièce non è solo il tradimento di Jerry ed Emma nei confronti dei rispettivi coniugi, bensì "i" tradimenti che a poco si disvelano: quello di Roger nei confronti di Emma, e che lei scopre solo quando la sua storia con Jerry è terminata, e quello probabile della moglie di Jerry che lui etichetta come un corteggiamento di un collega nei confronti della moglie.
Ne emerge la quasi ineluttabilità del tradimento all’interno di vite di coppie che, col tempo, mostrano segni di stanchezza e la generalizzata convinzione di poter tradire, ma di non poter essere traditi.
Il testo è decisamente interessante e, seppure un po’ datato nella sua ambientazione, fortemente attuale nei contenuti e nelle tematiche affrontate.
Devo dire però che l’allestimento non mi ha convinto: non mi è piaciuta la scenografia, ho trovato piuttosto banali le musiche, abbastanza scialba la recitazione degli attori (in qualche modo distante dai loro personaggi, ad eccezione forse di Francesco Biscione), e per ultimo, ma forse alla base di tutto questo, la regia mi è sembrata poco riuscita e un po’ sottotono.
Ma forse è un fatto di gusti, visto che alla mia compagna di teatro lo spettacolo è piaciuto molto e ha apprezzato anche le interpretazioni.
Alla fine esco dal teatro senza entusiasmi, e un po’ me ne dispiace perché forse una messa in scena diversa avrebbe potuto restituire a questo testo la potenza e la forza emotiva che pure da qualche parte mi è sembrato di scorgere.
Voto: 2,5/5
Questa volta si tratta della prima dell'opera scritta da Harold Pinter, Tradimenti, e portata in scena - per la regia di Michele Placido - da Francesco Scianna, Ambra Angiolini e Francesco Biscione.
Siamo nel 1977. Jerry (Francesco Scianna) ed Emma (Ambra Angiolini) non sono più amanti da un paio di anni. Si incontrano in un bar per raccontarsi le loro vite e ricordare i tempi passati.
Da qui incomincia un viaggio a ritroso che, di scena in scena, ci porta fino al 1968, quando - al matrimonio di Roger e Emma - quest'ultima conosce Jerry e i due si innamorano diventando amanti per sette lunghissimi anni, durante i quali molte cose succedono all’interno delle due coppie ufficiali e molte anche tra loro due.
A poco a poco scopriamo così che oggetto di questa pièce non è solo il tradimento di Jerry ed Emma nei confronti dei rispettivi coniugi, bensì "i" tradimenti che a poco si disvelano: quello di Roger nei confronti di Emma, e che lei scopre solo quando la sua storia con Jerry è terminata, e quello probabile della moglie di Jerry che lui etichetta come un corteggiamento di un collega nei confronti della moglie.
Ne emerge la quasi ineluttabilità del tradimento all’interno di vite di coppie che, col tempo, mostrano segni di stanchezza e la generalizzata convinzione di poter tradire, ma di non poter essere traditi.
Il testo è decisamente interessante e, seppure un po’ datato nella sua ambientazione, fortemente attuale nei contenuti e nelle tematiche affrontate.
Devo dire però che l’allestimento non mi ha convinto: non mi è piaciuta la scenografia, ho trovato piuttosto banali le musiche, abbastanza scialba la recitazione degli attori (in qualche modo distante dai loro personaggi, ad eccezione forse di Francesco Biscione), e per ultimo, ma forse alla base di tutto questo, la regia mi è sembrata poco riuscita e un po’ sottotono.
Ma forse è un fatto di gusti, visto che alla mia compagna di teatro lo spettacolo è piaciuto molto e ha apprezzato anche le interpretazioni.
Alla fine esco dal teatro senza entusiasmi, e un po’ me ne dispiace perché forse una messa in scena diversa avrebbe potuto restituire a questo testo la potenza e la forza emotiva che pure da qualche parte mi è sembrato di scorgere.
Voto: 2,5/5
mercoledì 16 dicembre 2015
Dio esiste e vive a Bruxelles
Ea (Pili Groyne) è una ragazzina di dieci anni che vive in un appartamento di Bruxelles. Ma non è una ragazzina qualunque: è la figlia di Dio (Benoît Poelvoorde), uno che vive in ciabatte e vestaglia da notte, che tiranneggia moglie e figlia, e di tanto in tanto si chiude nel suo studio, con il suo computer, divertendosi a creare mondi e a definirne le leggi, come in un immenso videogiochi tridimensionale.
Un giorno Ea decide di scappare dalla casa in cui è tenuta rinchiusa, non prima però di aver inviato a tutti gli uomini un messaggio che rivela a ciascuno la propria data di morte, il più straordinario atto liberatorio per l’umanità di fronte alle tirannie inflitte e autoinflitte della vita.
Ea è intenzionata a cercare sei apostoli, le cui testimonianze costituiranno il “nuovo” Nuovo Testamento, che andrà ad aggiornare quello di suo fratello JC, portando il numero degli apostoli da 12 (come i giocatori di hockey, lo sport preferito del padre) a 18 (come quelli di baseball, sport preferito dalla madre).
Con l’aiuto del senzatetto Victor (Marco Lorenzini), Ea va alla ricerca dei suoi sei apostoli, uomini e donne che disvelano la propria esistenza infelice e il loro estremo tentativo, una volta conosciuta la data della propria morte, di ritrovare il senso perduto delle proprie esistenze.
Tanto la premessa del film, oltre ad essere estremamente efficace, è esilarante nella sua costruzione, quanto la seconda parte – quella che racconta le vite dei sei apostoli – appare certamente più convenzionale, non tanto per le scelte registiche (sempre virate tra l’onirico e il surreale) quanto per il messaggio che veicolano. I sei personaggi, Martine, Aurélie, Marc, François, Jean-Claude e Willy, sono altrettante espressioni delle schiavitù e delle infelicità umane: la solitudine, il sesso, il lavoro, la bellezza, la ricchezza, la diversità, l’incapacità di amare.
Quello di Jaco Van Dormael è una commedia e non sorprende che le storie individuali e quella generale dell’umanità siano destinate al lieto fine, un lieto fine a sua volta un po’ eccentrico quanto le premesse.
E fin qui potrebbe anche trattarsi dell’ennesima commedia ben fatta, condita di molto humour (belga!), ma destinata a non lasciare alcun tipo di traccia. Invece, a mio modesto parere, la rappresentazione del mondo e dell’umanità di Van Dormael è meno superficiale di quanto appaia a prima vista. Il regista belga sembra volerci dire che questo nostro mondo non è altro che il risultato di una serie di leggi e coincidenze più o meno casuali. E che, proprio per questo, le leggi - talvolta assurde e folli - che sembrano governare l’universo e la nostra vita non sono una verità assoluta e una necessità per nessuno di noi, bensì soltanto una convenzione o una possibilità, e che – in condizioni diverse e con coincidenze altre – il mondo intorno a noi potrebbe funzionare in modi differenti e altrettanto plausibili. In fondo chi l’ha detto che il cielo debba essere azzurro, e chi ha deciso che la gravidanza spetta alla donna, e chi ha stabilito che una donna non può amare un gorilla o che un bambino non può sentirsi una bambina?
Insomma, il film di Van Dormael sembra volerci ricordare in ogni istante che il nostro mondo e la nostra vita potrebbero (e forse possono) essere diversi se solo proviamo a pensare che non esistono leggi assolute, né regole universali, che nessuno può veramente decidere per noi, per la nostra felicità. Per questo non bisogna avere paura di andare in direzione contraria, non bisogna aver paura di fare scelte diverse, perché basta una piccola variazione anche inconsapevole nell’ingranaggio delle casualità dell’esistenza perché tutto prenda un’altra direzione e improvvisamente ciò che era diverso, anomalo, innaturale diventi assolutamente possibile e coerente.
Non è importante se c’è un dio egocentrico e annoiato, una dea naive o una somma di casualità all’origine del nostro mondo, il punto è che il mondo è andato così, ma avrebbe potuto e potrebbe andare diversamente, esattamente come la vita di ciascuno di noi. Un poetico, divertente e irriverente inno alla libertà individuale.
Voto: 3,5/5
Un giorno Ea decide di scappare dalla casa in cui è tenuta rinchiusa, non prima però di aver inviato a tutti gli uomini un messaggio che rivela a ciascuno la propria data di morte, il più straordinario atto liberatorio per l’umanità di fronte alle tirannie inflitte e autoinflitte della vita.
Ea è intenzionata a cercare sei apostoli, le cui testimonianze costituiranno il “nuovo” Nuovo Testamento, che andrà ad aggiornare quello di suo fratello JC, portando il numero degli apostoli da 12 (come i giocatori di hockey, lo sport preferito del padre) a 18 (come quelli di baseball, sport preferito dalla madre).
Con l’aiuto del senzatetto Victor (Marco Lorenzini), Ea va alla ricerca dei suoi sei apostoli, uomini e donne che disvelano la propria esistenza infelice e il loro estremo tentativo, una volta conosciuta la data della propria morte, di ritrovare il senso perduto delle proprie esistenze.
Tanto la premessa del film, oltre ad essere estremamente efficace, è esilarante nella sua costruzione, quanto la seconda parte – quella che racconta le vite dei sei apostoli – appare certamente più convenzionale, non tanto per le scelte registiche (sempre virate tra l’onirico e il surreale) quanto per il messaggio che veicolano. I sei personaggi, Martine, Aurélie, Marc, François, Jean-Claude e Willy, sono altrettante espressioni delle schiavitù e delle infelicità umane: la solitudine, il sesso, il lavoro, la bellezza, la ricchezza, la diversità, l’incapacità di amare.
Quello di Jaco Van Dormael è una commedia e non sorprende che le storie individuali e quella generale dell’umanità siano destinate al lieto fine, un lieto fine a sua volta un po’ eccentrico quanto le premesse.
E fin qui potrebbe anche trattarsi dell’ennesima commedia ben fatta, condita di molto humour (belga!), ma destinata a non lasciare alcun tipo di traccia. Invece, a mio modesto parere, la rappresentazione del mondo e dell’umanità di Van Dormael è meno superficiale di quanto appaia a prima vista. Il regista belga sembra volerci dire che questo nostro mondo non è altro che il risultato di una serie di leggi e coincidenze più o meno casuali. E che, proprio per questo, le leggi - talvolta assurde e folli - che sembrano governare l’universo e la nostra vita non sono una verità assoluta e una necessità per nessuno di noi, bensì soltanto una convenzione o una possibilità, e che – in condizioni diverse e con coincidenze altre – il mondo intorno a noi potrebbe funzionare in modi differenti e altrettanto plausibili. In fondo chi l’ha detto che il cielo debba essere azzurro, e chi ha deciso che la gravidanza spetta alla donna, e chi ha stabilito che una donna non può amare un gorilla o che un bambino non può sentirsi una bambina?
Insomma, il film di Van Dormael sembra volerci ricordare in ogni istante che il nostro mondo e la nostra vita potrebbero (e forse possono) essere diversi se solo proviamo a pensare che non esistono leggi assolute, né regole universali, che nessuno può veramente decidere per noi, per la nostra felicità. Per questo non bisogna avere paura di andare in direzione contraria, non bisogna aver paura di fare scelte diverse, perché basta una piccola variazione anche inconsapevole nell’ingranaggio delle casualità dell’esistenza perché tutto prenda un’altra direzione e improvvisamente ciò che era diverso, anomalo, innaturale diventi assolutamente possibile e coerente.
Non è importante se c’è un dio egocentrico e annoiato, una dea naive o una somma di casualità all’origine del nostro mondo, il punto è che il mondo è andato così, ma avrebbe potuto e potrebbe andare diversamente, esattamente come la vita di ciascuno di noi. Un poetico, divertente e irriverente inno alla libertà individuale.
Voto: 3,5/5
lunedì 14 dicembre 2015
Kings of Convenience, Teatro Ambra Jovinelli, 29 novembre 2015
È la seconda volta che vado ad ascoltare dal vivo i Kings of Convenience. Era il 2013 quando ero andata al loro concerto a Villa Ada.
In questo caso però gli elementi di novità sono numerosi. Innanzitutto, in maniera del tutto originale, il concerto è una matinée (inizia a mezzogiorno), in secondo luogo la sua stessa organizzazione è pensata più come un'opera teatrale che come un concerto vero e proprio: i KoC suoneranno l'intero loro primo album, Quiet is the new loud, in due atti (corrispondenti - come dicono loro - al lato A e B dell'album), ciascun atto è preceduto da una breve intervista (in inglese) che si svolge su un divanetto in un angolo del palco.
Insomma, un'esperienza musicale decisamente diversa dal solito.
Le due brevi interviste sono molto interessanti e divertenti: l'intervistatrice chiede a Erlend Øye e Eirik Glambæk Bøe com'è nato il new acoustic movement, qual era la scena musicale a Bergen in quegli anni, che percorsi personali hanno fatto i due, com'è il loro rapporto con la musica e tra di loro. Eirik è quello serio (nella vita fa il consulente in ambito psicologico), Erlend è lo spilungone che si muove snodato sul palco, fa ridere il pubblico, è irriverente e spiritoso. A un certo punto poiché deve aspettare che gli portino un accessorio per la chitarra, improvvisa una canzoncina in italiano che parla del fatto che ha incontrato uno che ha fame!!
Ci si chiede come questi due giovanotti così diversi abbiano retto in tutti questi anni, ma forse hanno retto proprio perché sono così diversi.
Il concerto poi è una cosa decisamente anomala, perché la scaletta è già decisa in partenza e spesso il passaggio da una canzone all'altra richiede diversi minuti per accordare le chitarre in modo da consentire la giusta tonalità. In alcune canzoni i KoC chiedono il massimo silenzio (e chiedono di evitare i click delle macchine fotografiche), in altre i ritmi si alzano e anche il volume delle chitarre.
All'inizio l'atmosfera è un po' freddina (in tutti i sensi, Erlend ha persino uno sciarpone a scacchi), poi si riscalda quando quest'ultimo chiede al pubblico di schioccare le dita a tempo e di alzarsi in piedi. A quel punto il concerto prende tutta un'altra piega e diventa un vero concerto, almeno fino a quando il servizio sicurezza del teatro non ci chiede di sederci.
Non c'è niente da fare, ma non è facilissimo creare l'atmosfera giusta in un ambiente che di per se stesso non promuove una grande interazione come è quello teatrale. Certo, dipende dal tipo di musica, dipende dal momento e dall'umore dei cantanti, ma non è facile riprodurre l'atmosfera calda ed entusiasta di luoghi più piccoli e più scomodi dove si sta tutti ammassati uno sopra l'altro sotto il palco.
Comunque Erlend e Eirik sono deliziosi e le loro canzoni riscaldano il cuore, creando una bella atmosfera. Alla fine del concerto, il pubblico chiede a gran voce il bis, che arriva con due canzoni che fanno alzare e ballare tutto il pubblico. Fino alla foto di gruppo sul piazzale davanti all'Ambra Jovinelli.
Esperienza buffa e un po' surreale. Ma certamente da ricordare.
Voto: 3/5
In questo caso però gli elementi di novità sono numerosi. Innanzitutto, in maniera del tutto originale, il concerto è una matinée (inizia a mezzogiorno), in secondo luogo la sua stessa organizzazione è pensata più come un'opera teatrale che come un concerto vero e proprio: i KoC suoneranno l'intero loro primo album, Quiet is the new loud, in due atti (corrispondenti - come dicono loro - al lato A e B dell'album), ciascun atto è preceduto da una breve intervista (in inglese) che si svolge su un divanetto in un angolo del palco.
Insomma, un'esperienza musicale decisamente diversa dal solito.
Le due brevi interviste sono molto interessanti e divertenti: l'intervistatrice chiede a Erlend Øye e Eirik Glambæk Bøe com'è nato il new acoustic movement, qual era la scena musicale a Bergen in quegli anni, che percorsi personali hanno fatto i due, com'è il loro rapporto con la musica e tra di loro. Eirik è quello serio (nella vita fa il consulente in ambito psicologico), Erlend è lo spilungone che si muove snodato sul palco, fa ridere il pubblico, è irriverente e spiritoso. A un certo punto poiché deve aspettare che gli portino un accessorio per la chitarra, improvvisa una canzoncina in italiano che parla del fatto che ha incontrato uno che ha fame!!
Ci si chiede come questi due giovanotti così diversi abbiano retto in tutti questi anni, ma forse hanno retto proprio perché sono così diversi.
Il concerto poi è una cosa decisamente anomala, perché la scaletta è già decisa in partenza e spesso il passaggio da una canzone all'altra richiede diversi minuti per accordare le chitarre in modo da consentire la giusta tonalità. In alcune canzoni i KoC chiedono il massimo silenzio (e chiedono di evitare i click delle macchine fotografiche), in altre i ritmi si alzano e anche il volume delle chitarre.
All'inizio l'atmosfera è un po' freddina (in tutti i sensi, Erlend ha persino uno sciarpone a scacchi), poi si riscalda quando quest'ultimo chiede al pubblico di schioccare le dita a tempo e di alzarsi in piedi. A quel punto il concerto prende tutta un'altra piega e diventa un vero concerto, almeno fino a quando il servizio sicurezza del teatro non ci chiede di sederci.
Non c'è niente da fare, ma non è facilissimo creare l'atmosfera giusta in un ambiente che di per se stesso non promuove una grande interazione come è quello teatrale. Certo, dipende dal tipo di musica, dipende dal momento e dall'umore dei cantanti, ma non è facile riprodurre l'atmosfera calda ed entusiasta di luoghi più piccoli e più scomodi dove si sta tutti ammassati uno sopra l'altro sotto il palco.
Comunque Erlend e Eirik sono deliziosi e le loro canzoni riscaldano il cuore, creando una bella atmosfera. Alla fine del concerto, il pubblico chiede a gran voce il bis, che arriva con due canzoni che fanno alzare e ballare tutto il pubblico. Fino alla foto di gruppo sul piazzale davanti all'Ambra Jovinelli.
Esperienza buffa e un po' surreale. Ma certamente da ricordare.
Voto: 3/5
sabato 12 dicembre 2015
The lobster
Siamo in un futuro distopico (che però almeno all'apparenza si presenta esattamente identico al nostro), in cui l'esistenza umana è concepita solo all'interno di una coppia. Chi, dunque, per qualunque motivo rimanga da solo è perseguito e - una volta individuato - spedito in uno strano albergo dove ha 45 giorni per trovare un/una compagno/a, dopo di che - in caso di fallimento - sarà trasformato in un animale a sua scelta.
Alcuni di coloro che sono stati inviati in questo albergo sono fuggiti e si sono rifugiati nei boschi per avere la possibilità di vivere una vita solitaria, in cui però vigono leggi ancora più ferree, in particolare nei rapporti interpersonali, e sono vietati l'amore e il sesso.
David (Colin Farrell) è stato lasciato dalla moglie e dunque finisce nell'albergo, dove dichiara di voler essere trasformato in un'aragosta se non avrà trovato una compagna dopo il periodo a disposizione. Dopo un tentativo - finito tragicamente - di formare una coppia con una donna senza cuore, si unisce ai solitari. Ma anche qui farà fatica a rispettare le regole del gioco, soprattutto dopo essersi innamorato della donna miope (Rachel Weisz).
Il film di Yorgos Lanthimos si muove su un crinale sottile tra il realistico, il grottesco e il surreale, in un'atmosfera emotivamente glaciale, in cui l'umorismo - che pure pervade soprattutto la prima parte del film - è in buona parte nero.
La metafora di Lanthimos non è solo esplorativa dell'universo di coppia e delle relazioni amorose, bensì più in generale - a mio modo di vedere - dei meccanismi che sovraintendono alle relazioni, attraverso un processo di estremizzazione grazie al quale si porta allo scoperto la brutalità delle dinamiche di appartenenza ai gruppi, sia esso il gruppo minimo della coppia ovvero un gruppo allargato di persone che si trovano in una condizione simile.
Nel mondo distorto di Lanthimos, che però non è tanto dissimile da certe realtà tra l'artificiale e il distillato, come potrebbero essere ad esempio i social network, non esistono mezze misure, né soluzioni intermedie, non ci sono sfumature, né prospettive aperte e cangianti nel tempo. In questo mondo non si può sfuggire alla necessità di "schierarsi", di stare con una persona o con un gruppo di persone, e il legame è basato sulla necessaria condivisione di qualcosa, un difetto fisico, un modo di essere, una caratteristica personale. Un legame affettivo, una relazione non è pensabile senza una qualche forma di somiglianza, e lì dove non c'è va creata forzatamente, qualche volta violentemente, pena la persecuzione, la marginalità, la solitudine estrema e senza speranza.
Il mondo di Lanthimos fa paura perché, nel suo essere completamente surreale, è più vicino alla realtà di quanto vogliamo ammettere.
La prima parte del film - quella per gran parte ambientata nell'albergo - utilizza ampiamente il registro ironico e ci fa riflettere, in parte divertiti, sull'assurdità di un mondo nel quale bisogna essere per forza in coppia. Nella seconda parte, poi, il quadro si fa più fosco, l'ironia lascia il posto a uno sguardo agghiacciato, in cui è evidente che David e la donna miope non solo non sono diversi emotivamente dagli altri, ma come tutti gli altri non hanno alcuno scampo da se stessi.
Molto, nel film del regista greco, resta senza spiegazione, non del tutto comprensibile alla prova della razionalità (perché due personaggi parlino tra loro in francese, come sono le coppie che vivono in città ecc.), e si esce dalla sala in parte perplessi.
A me il film è maturato dentro nei giorni successivi la visione, facendomi interrogare a lungo sui suoi significati. Le domande sono rimaste però - come forse è giusto che sia - molto più numerose delle risposte.
Voto: 3/5
Alcuni di coloro che sono stati inviati in questo albergo sono fuggiti e si sono rifugiati nei boschi per avere la possibilità di vivere una vita solitaria, in cui però vigono leggi ancora più ferree, in particolare nei rapporti interpersonali, e sono vietati l'amore e il sesso.
David (Colin Farrell) è stato lasciato dalla moglie e dunque finisce nell'albergo, dove dichiara di voler essere trasformato in un'aragosta se non avrà trovato una compagna dopo il periodo a disposizione. Dopo un tentativo - finito tragicamente - di formare una coppia con una donna senza cuore, si unisce ai solitari. Ma anche qui farà fatica a rispettare le regole del gioco, soprattutto dopo essersi innamorato della donna miope (Rachel Weisz).
Il film di Yorgos Lanthimos si muove su un crinale sottile tra il realistico, il grottesco e il surreale, in un'atmosfera emotivamente glaciale, in cui l'umorismo - che pure pervade soprattutto la prima parte del film - è in buona parte nero.
La metafora di Lanthimos non è solo esplorativa dell'universo di coppia e delle relazioni amorose, bensì più in generale - a mio modo di vedere - dei meccanismi che sovraintendono alle relazioni, attraverso un processo di estremizzazione grazie al quale si porta allo scoperto la brutalità delle dinamiche di appartenenza ai gruppi, sia esso il gruppo minimo della coppia ovvero un gruppo allargato di persone che si trovano in una condizione simile.
Nel mondo distorto di Lanthimos, che però non è tanto dissimile da certe realtà tra l'artificiale e il distillato, come potrebbero essere ad esempio i social network, non esistono mezze misure, né soluzioni intermedie, non ci sono sfumature, né prospettive aperte e cangianti nel tempo. In questo mondo non si può sfuggire alla necessità di "schierarsi", di stare con una persona o con un gruppo di persone, e il legame è basato sulla necessaria condivisione di qualcosa, un difetto fisico, un modo di essere, una caratteristica personale. Un legame affettivo, una relazione non è pensabile senza una qualche forma di somiglianza, e lì dove non c'è va creata forzatamente, qualche volta violentemente, pena la persecuzione, la marginalità, la solitudine estrema e senza speranza.
Il mondo di Lanthimos fa paura perché, nel suo essere completamente surreale, è più vicino alla realtà di quanto vogliamo ammettere.
La prima parte del film - quella per gran parte ambientata nell'albergo - utilizza ampiamente il registro ironico e ci fa riflettere, in parte divertiti, sull'assurdità di un mondo nel quale bisogna essere per forza in coppia. Nella seconda parte, poi, il quadro si fa più fosco, l'ironia lascia il posto a uno sguardo agghiacciato, in cui è evidente che David e la donna miope non solo non sono diversi emotivamente dagli altri, ma come tutti gli altri non hanno alcuno scampo da se stessi.
Molto, nel film del regista greco, resta senza spiegazione, non del tutto comprensibile alla prova della razionalità (perché due personaggi parlino tra loro in francese, come sono le coppie che vivono in città ecc.), e si esce dalla sala in parte perplessi.
A me il film è maturato dentro nei giorni successivi la visione, facendomi interrogare a lungo sui suoi significati. Le domande sono rimaste però - come forse è giusto che sia - molto più numerose delle risposte.
Voto: 3/5
giovedì 10 dicembre 2015
Lonesome Leash. Blackmarket, Unplugged in Monti, 25 novembre 2015
Quante cose può fare un uomo contemporaneamente usando cinque parti diverse del suo corpo? La risposta arriva quando vedo Walt McClements alle prese con il suo progetto musicale Lonesome Leash.
Walt suona la fisarmonica con le mani, la batteria (formata di tre pezzi) con i piedi, talvolta una mano abbandona la parte destra della fisarmonica per suonare la tromba, e nel mentre fa tutto il resto e non suona la tromba canta. Qualche volta la tastiera della fisarmonica suona "da sola", perché Walt mette dello scotch nero su alcuni tasti per fare delle basi, mentre lui muove velocissimo la mano sui tastini a sinistra e suona la tromba.
Lonesome Leash è una vera situazione da one-man band che non può non lasciare stupefatti e conquistare chi ascolta. Walt dimostra di essere un polistrumentista di grandi qualità, per quanto non un showman nato.
Eh sì, perché Walt è un ragazzo timidissimo, e con un certo numero di tic mentre canta (e del resto come potrebbe essere diversamente?). L'avevo già visto nella saletta del Blackmarket prima che iniziasse il concerto, seduto in un angolo che si guardava intorno un po' spaurito. Poi durante il concerto si è capito che aveva una certa difficoltà a parlare con il pubblico e continuava a dire "Come state?", "Sapete, è molto bello essere qua", "vorrei dire tante cose, ma anche no...".
La storia più lunga che racconta durante la serata è quella che introduce una canzone che - a suo dire - racconta un po' di come si sente lui rispetto al suo nuovo lavoro da Google, lavoro per il quale si è trasferito da poco in California.
Per il resto, questo strambo ragazzo americano ci delizia con tante belle canzoni e tanta bellissima musica, e ci concede anche un bis quando capisce che il pubblico ha molto apprezzato. Io personalmente ho trovato fantastiche le basi musicali, belli gli arrangiamenti, sospesi tra sonorità antiche e moderne, tradizionali e contemporanee. Meno mi ha convinto la sua voce, ma il risultato è stato comunque di grande soddisfazione.
E così il suo ultimo CD me lo sono portato a casa.
Voto: 3,5/5
Walt suona la fisarmonica con le mani, la batteria (formata di tre pezzi) con i piedi, talvolta una mano abbandona la parte destra della fisarmonica per suonare la tromba, e nel mentre fa tutto il resto e non suona la tromba canta. Qualche volta la tastiera della fisarmonica suona "da sola", perché Walt mette dello scotch nero su alcuni tasti per fare delle basi, mentre lui muove velocissimo la mano sui tastini a sinistra e suona la tromba.
Lonesome Leash è una vera situazione da one-man band che non può non lasciare stupefatti e conquistare chi ascolta. Walt dimostra di essere un polistrumentista di grandi qualità, per quanto non un showman nato.
Eh sì, perché Walt è un ragazzo timidissimo, e con un certo numero di tic mentre canta (e del resto come potrebbe essere diversamente?). L'avevo già visto nella saletta del Blackmarket prima che iniziasse il concerto, seduto in un angolo che si guardava intorno un po' spaurito. Poi durante il concerto si è capito che aveva una certa difficoltà a parlare con il pubblico e continuava a dire "Come state?", "Sapete, è molto bello essere qua", "vorrei dire tante cose, ma anche no...".
La storia più lunga che racconta durante la serata è quella che introduce una canzone che - a suo dire - racconta un po' di come si sente lui rispetto al suo nuovo lavoro da Google, lavoro per il quale si è trasferito da poco in California.
Per il resto, questo strambo ragazzo americano ci delizia con tante belle canzoni e tanta bellissima musica, e ci concede anche un bis quando capisce che il pubblico ha molto apprezzato. Io personalmente ho trovato fantastiche le basi musicali, belli gli arrangiamenti, sospesi tra sonorità antiche e moderne, tradizionali e contemporanee. Meno mi ha convinto la sua voce, ma il risultato è stato comunque di grande soddisfazione.
E così il suo ultimo CD me lo sono portato a casa.
Voto: 3,5/5
venerdì 4 dicembre 2015
La felicità è un sistema complesso
Zanasi è il regista e sceneggiatore di Non pensarci, film che a suo tempo avevo molto amato. Così quando è uscito al cinema il suo nuovo lavoro non ho esitato un attimo ad andare a vederlo.
Come dice una mia amica, La felicità è un sistema complesso sta a metà strada tra Il capitale umano e Tra le nuvole. Enrico Giusti (Valerio Mastandrea) fa l'intermediario per un'azienda che acquista società sull'orlo del fallimento, quasi sempre perché le generazioni degli eredi quarantenni dei fondatori non sono stati in grado o non hanno voluto occuparsi dell'eredità genitoriale.
Enrico è molto bravo nel suo lavoro, diventa amico dei suoi clienti, li comprende e li aiuta a trovare il "coraggio" di fare la scelta di firmare la cessione, all'inseguimento di una vita che a loro sembra sfuggire di mano (chi per aprire un resort in Costa Rica, chi per andare in Nuova Zelanda).
La sua vita viene letteralmente messa sottosopra da due eventi: l'arrivo in casa sua di Achrinoam (Hadas Yaron), la fidanzata israeliana che il fratello ha mollato facendole credere di essere partito per il Chiapas, e il nuovo incarico che prevede la cessione di un'azienda i cui proprietari sono morti in un incidente stradale lasciando la maggioranza delle azioni ai giovanissimi figli, il diciottenne Filippo (Filippo De Carli) e la tredicenne Camilla (Camilla Martini).
Enrico dovrà fare i conti con la sua vita e le sue scelte.
Quello di Mastandrea è un personaggio ironico e dolente, di un'umanità spessa, che non si può non amare anche nella finzione che in qualche modo si è costruito.
Il film di Zanasi per me parla di tre antinomie: parole/silenzi; giovani/non più giovani; semplicità/complessità.
Sul primo aspetto, non è un caso che una delle canzoni portanti della bellissima colonna sonora (affidata a Niccolò Contessa de I Cani, ma dove compaiono tra gli altri i Low Roars e i Rolling Stones) sia In a manner of speaking (nella versione - cover dell'originale dei Tuxedomoon - dei Nouvelle Vague) con il suo ritornello "Oh give me the words / Give me the words / but tell me nothing / Ohohohoh give me the words / Give me the words / That tell me everything". Nel film di Zanasi i silenzi sono altrettanto importanti delle parole e le parole spesso non dicono quello che vorrebbero dire. Enrico è cresciuto imparando - a seconda dei casi - a stare in silenzio o a dire le parole che l'interlocutore si aspetta di sentire. Le parole vere, senza mediazione, arrivano con la comparsa in scena di Achrinoam, di Filippo e di Camilla.
La questione generazionale è evidentemente il cuore del film. Ci sono almeno quattro generazioni a confronto: gli ultrasessantenni, quelli che hanno raggiunto posizioni di potere in tempi ben diversi dagli attuali e continuano a sfruttare le loro rendite di posizione senza preoccuparsi delle conseguenze; i cinquantenni come Enrico e come Carlo (il figlio dell'imprenditore squalo, interpretato da Giuseppe Battiston) che mantengono un legame col passato, rispetto al quale possono avere atteggiamenti diversi, di colpa, di invidia, di arrivismo, di accettazione acritica; poi ci sono i quarantenni, tendenzialmente frustrati, scontenti, depressi, incapaci di assumersi le responsabilità, desiderosi di vivere un'adolescenza che duri tutta la vita; infine ci sono i diciottenni. Come sono i giovanissimi? Per qualcuno sono dei debosciati, peggio di chi li ha preceduti. Zanasi invece ci vuole credere, ha bisogno (come ne abbiamo tutti noi) di sperare che i giovanissimi di oggi portino valori antichi e insieme nuovi con loro, e possano mantenere uno sguardo pulito sul futuro.
Ai rapporti tra le generazioni (ma non solo tra loro) si collega il tema che, secondo me, sintetizza tutto il film e che non a caso è richiamato anche nel titolo, ossia la relazione tra semplicità e complessità. Nel film gli adulti fanno continuamente riferimento alla complessità delle cose, e Carlo a un certo punto rivolgendosi a Enrico gli dice: "Com'è che nella vita a un certo punto le cose - da semplici che erano - diventano così complesse?". Per contro Filippo e Camilla, cui fa da spalla Achrinoam, un personaggio adulto che però non ha perso lo sguardo pulito - fors'anche ingenuo - sulla realtà, sono l'espressione della semplicità e sembrano urlare con tutte le loro azioni che le cose - nella loro essenza - sono semplici e spesso la complessità è solo una scusa per non assumersi le responsabilità. Sulla bocca di questi personaggi si affaccia spesso la frase: "Non si fa così", che sembra un modo di dire da bambini, ma forse sta a comunicarci che alla fin fine l'etica è una cosa semplice, perché in realtà ce l'abbiamo dentro, e solo le sovrastrutture col tempo ci impediscono di riconoscerne il messaggio semplice che si porta dietro.
Alla fine la vera speranza del film - non quella futura e incerta dei giovani, ma quella presente - è Enrico, un adulto, un uomo fatto, che però quando impara ad ascoltarsi, a parlare con il mondo circostante in modo vero, a guardare le cose per quelle che sono accetta la sfida della responsabilità.
E ora so che vi verrebbe da dire "Le cose sono più complicate di così", ma io per oggi - e non solo - voglio condividere l'aspirazione e la speranza di Zanasi per un futuro più semplice, che poi vuol dire più etico.
Voto: 3,5/5
Come dice una mia amica, La felicità è un sistema complesso sta a metà strada tra Il capitale umano e Tra le nuvole. Enrico Giusti (Valerio Mastandrea) fa l'intermediario per un'azienda che acquista società sull'orlo del fallimento, quasi sempre perché le generazioni degli eredi quarantenni dei fondatori non sono stati in grado o non hanno voluto occuparsi dell'eredità genitoriale.
Enrico è molto bravo nel suo lavoro, diventa amico dei suoi clienti, li comprende e li aiuta a trovare il "coraggio" di fare la scelta di firmare la cessione, all'inseguimento di una vita che a loro sembra sfuggire di mano (chi per aprire un resort in Costa Rica, chi per andare in Nuova Zelanda).
La sua vita viene letteralmente messa sottosopra da due eventi: l'arrivo in casa sua di Achrinoam (Hadas Yaron), la fidanzata israeliana che il fratello ha mollato facendole credere di essere partito per il Chiapas, e il nuovo incarico che prevede la cessione di un'azienda i cui proprietari sono morti in un incidente stradale lasciando la maggioranza delle azioni ai giovanissimi figli, il diciottenne Filippo (Filippo De Carli) e la tredicenne Camilla (Camilla Martini).
Enrico dovrà fare i conti con la sua vita e le sue scelte.
Quello di Mastandrea è un personaggio ironico e dolente, di un'umanità spessa, che non si può non amare anche nella finzione che in qualche modo si è costruito.
Il film di Zanasi per me parla di tre antinomie: parole/silenzi; giovani/non più giovani; semplicità/complessità.
Sul primo aspetto, non è un caso che una delle canzoni portanti della bellissima colonna sonora (affidata a Niccolò Contessa de I Cani, ma dove compaiono tra gli altri i Low Roars e i Rolling Stones) sia In a manner of speaking (nella versione - cover dell'originale dei Tuxedomoon - dei Nouvelle Vague) con il suo ritornello "Oh give me the words / Give me the words / but tell me nothing / Ohohohoh give me the words / Give me the words / That tell me everything". Nel film di Zanasi i silenzi sono altrettanto importanti delle parole e le parole spesso non dicono quello che vorrebbero dire. Enrico è cresciuto imparando - a seconda dei casi - a stare in silenzio o a dire le parole che l'interlocutore si aspetta di sentire. Le parole vere, senza mediazione, arrivano con la comparsa in scena di Achrinoam, di Filippo e di Camilla.
La questione generazionale è evidentemente il cuore del film. Ci sono almeno quattro generazioni a confronto: gli ultrasessantenni, quelli che hanno raggiunto posizioni di potere in tempi ben diversi dagli attuali e continuano a sfruttare le loro rendite di posizione senza preoccuparsi delle conseguenze; i cinquantenni come Enrico e come Carlo (il figlio dell'imprenditore squalo, interpretato da Giuseppe Battiston) che mantengono un legame col passato, rispetto al quale possono avere atteggiamenti diversi, di colpa, di invidia, di arrivismo, di accettazione acritica; poi ci sono i quarantenni, tendenzialmente frustrati, scontenti, depressi, incapaci di assumersi le responsabilità, desiderosi di vivere un'adolescenza che duri tutta la vita; infine ci sono i diciottenni. Come sono i giovanissimi? Per qualcuno sono dei debosciati, peggio di chi li ha preceduti. Zanasi invece ci vuole credere, ha bisogno (come ne abbiamo tutti noi) di sperare che i giovanissimi di oggi portino valori antichi e insieme nuovi con loro, e possano mantenere uno sguardo pulito sul futuro.
Ai rapporti tra le generazioni (ma non solo tra loro) si collega il tema che, secondo me, sintetizza tutto il film e che non a caso è richiamato anche nel titolo, ossia la relazione tra semplicità e complessità. Nel film gli adulti fanno continuamente riferimento alla complessità delle cose, e Carlo a un certo punto rivolgendosi a Enrico gli dice: "Com'è che nella vita a un certo punto le cose - da semplici che erano - diventano così complesse?". Per contro Filippo e Camilla, cui fa da spalla Achrinoam, un personaggio adulto che però non ha perso lo sguardo pulito - fors'anche ingenuo - sulla realtà, sono l'espressione della semplicità e sembrano urlare con tutte le loro azioni che le cose - nella loro essenza - sono semplici e spesso la complessità è solo una scusa per non assumersi le responsabilità. Sulla bocca di questi personaggi si affaccia spesso la frase: "Non si fa così", che sembra un modo di dire da bambini, ma forse sta a comunicarci che alla fin fine l'etica è una cosa semplice, perché in realtà ce l'abbiamo dentro, e solo le sovrastrutture col tempo ci impediscono di riconoscerne il messaggio semplice che si porta dietro.
Alla fine la vera speranza del film - non quella futura e incerta dei giovani, ma quella presente - è Enrico, un adulto, un uomo fatto, che però quando impara ad ascoltarsi, a parlare con il mondo circostante in modo vero, a guardare le cose per quelle che sono accetta la sfida della responsabilità.
E ora so che vi verrebbe da dire "Le cose sono più complicate di così", ma io per oggi - e non solo - voglio condividere l'aspirazione e la speranza di Zanasi per un futuro più semplice, che poi vuol dire più etico.
Voto: 3,5/5
mercoledì 2 dicembre 2015
Una splendida notte stellata / Jimmy Liao
Una splendida notte stellata / Jimmy Liao. Torino: Edizioni Gruppo Abele, 2013.
"Dedicato ai ragazzi che non si sentono in sintonia con il mondo".
Così Jimmy Liao nell'epigrafe.
Una splendida notte stellata è la storia dell'incontro tra una bambina sola e fragile che, dopo aver perso l'amatissimo nonno, si sente schiacciata dal peso del mondo intorno, e di un bambino un po' strano e diverso che deve fare i conti con i continui trasferimenti della sua famiglia e dunque l'assenza di legami stabili. Questi due bambini scoprono la ricchezza e la bellezza dello stare insieme e della condivisione, che trasforma a poco a poco le stranezze di entrambi in universi altri pieni di significato e in occasioni di scoperta della bellezza di ciò che non capiamo semplicemente perché non lo conosciamo.
Di fronte alla rottura dell'equilibrio causata dall'irrompere doloroso del mondo esterno, i due ragazzini partono per un viaggio di ricerca che li porterà alla casa di montagna del nonno, al bosco e al lago lì vicini. Quando la vita li separa nuovamente, nessuno dei due sarà più lo stesso. Ciascuno sarà una persona nuova, e la nostra piccola eroina sarà pronta a camminare nel mondo più consapevole, più sicura di sé e soprattutto più capace di guardare la bellezza della vita con occhi nuovi e sempre pieni di stupore.
Le parole in questa storia sono poche ed essenziali. La comunicazione viene quasi integralmente affidata ai disegni, bellissimi, spesso a doppia pagina che contengono numerosi echi di opere artistiche, una delle quali - La notte stellata di Van Gogh - non solo è citata esplicitamente nel titolo e riprodotta in miniatura nell'ultima pagina, bensì è anche richiamata in diverse tavole del racconto. Le citazioni artistiche però non si fermano a Van Gogh, ma attraversano anche il mondo di Magritte e Klee.
Leggere e soprattutto guardare questo albo è un'esperienza sensoriale ed emotiva ricca e profonda.
E come "Quando sollevi lo sguardo verso il cielo stellato, il mondo prodigiosamente si trasforma", quando arrivi all'ultima pagina di questo albo, il mondo intorno sembra domandare un'attenzione e una propensione alla scoperta della sua grandezza anche nelle cose semplici (gioiose e tristi) che spesso tendiamo a dimenticare.
Guardare significa incontrare. Incontrare significa scoprire. Scoprire significa amare e dunque vivere.
Voto: 4/5
"Dedicato ai ragazzi che non si sentono in sintonia con il mondo".
Così Jimmy Liao nell'epigrafe.
Una splendida notte stellata è la storia dell'incontro tra una bambina sola e fragile che, dopo aver perso l'amatissimo nonno, si sente schiacciata dal peso del mondo intorno, e di un bambino un po' strano e diverso che deve fare i conti con i continui trasferimenti della sua famiglia e dunque l'assenza di legami stabili. Questi due bambini scoprono la ricchezza e la bellezza dello stare insieme e della condivisione, che trasforma a poco a poco le stranezze di entrambi in universi altri pieni di significato e in occasioni di scoperta della bellezza di ciò che non capiamo semplicemente perché non lo conosciamo.
Di fronte alla rottura dell'equilibrio causata dall'irrompere doloroso del mondo esterno, i due ragazzini partono per un viaggio di ricerca che li porterà alla casa di montagna del nonno, al bosco e al lago lì vicini. Quando la vita li separa nuovamente, nessuno dei due sarà più lo stesso. Ciascuno sarà una persona nuova, e la nostra piccola eroina sarà pronta a camminare nel mondo più consapevole, più sicura di sé e soprattutto più capace di guardare la bellezza della vita con occhi nuovi e sempre pieni di stupore.
Le parole in questa storia sono poche ed essenziali. La comunicazione viene quasi integralmente affidata ai disegni, bellissimi, spesso a doppia pagina che contengono numerosi echi di opere artistiche, una delle quali - La notte stellata di Van Gogh - non solo è citata esplicitamente nel titolo e riprodotta in miniatura nell'ultima pagina, bensì è anche richiamata in diverse tavole del racconto. Le citazioni artistiche però non si fermano a Van Gogh, ma attraversano anche il mondo di Magritte e Klee.
Leggere e soprattutto guardare questo albo è un'esperienza sensoriale ed emotiva ricca e profonda.
E come "Quando sollevi lo sguardo verso il cielo stellato, il mondo prodigiosamente si trasforma", quando arrivi all'ultima pagina di questo albo, il mondo intorno sembra domandare un'attenzione e una propensione alla scoperta della sua grandezza anche nelle cose semplici (gioiose e tristi) che spesso tendiamo a dimenticare.
Guardare significa incontrare. Incontrare significa scoprire. Scoprire significa amare e dunque vivere.
Voto: 4/5
martedì 1 dicembre 2015
The pride / Luca Zingaretti. Teatro Argentina, 24 novembre 2015
È la sera della prima di The pride, testo teatrale a tematica gay scritto da Alexi Kaye Campbell e portato in scena con la regia di Luca Zingaretti, al Teatro Argentina di Roma.
Il foyer è pieno di volti noti, da Nicola Zingaretti a Stefano Rodotà, da Marino Sinibaldi a Giuseppe Laterza. Il teatro è quasi al completo, noi siamo nella cosiddetta "piccionaia" dove fa un caldo infernale ma si sente e si vede benissimo.
Innanzitutto, bisogna riconoscere e premiare il coraggio di Luca Zingaretti nel portare sul palco dei teatri italiani un testo così esplicito e diretto sulla tematica omosessuale, mettendoci personalmente la faccia come attore insieme al bravissimo Maurizio Lombardi e alla brava Valeria Milillo.
Il testo è molto ben costruito dal punto di vista narrativo e si sviluppa in un crescendo che tiene incollati alla sedia, alternando ironia e dramma con maestria.
Si tratta di due storie parallele che si svolgono a molti anni di distanza, sempre a Londra.
I protagonisti si chiamano nello stesso modo, anche se le geometrie sono variabili.
Nella Londra del 1958 Philip è sposato con Sylvia, che fa l'illustratrice di libri per ragazzi. Oliver è lo scrittore il cui libro Sylvia sta illustrando. Una sera Sylvia invita a cena Oliver per farlo conoscere a suo marito. Da qui, l'inizio di un percorso che cambierà tutti e tre questi personaggi mettendoli di fronte alla verità ineluttabile dell'omosessualità di Philip e ai sentimenti contrastanti degli altri due di fronte alla sua difficoltà di accettare questa condizione infamante per l'epoca.
Nella Londra del 2015 Philip e Oliver sono stati insieme per un anno e mezzo, ma ora si sono lasciati perché Philip non accetta le scorribande di Oliver alla ricerca di sesso anonimo. Sylvia è la loro migliore amica, paladina dei diritti gay, e impegnata a far riappacificare i due uomini.
Le due storie hanno un andamento parallelo e sulla scena si alternano gli Oliver, Philip e Sylvia del passato e quelli del presente, in un rincorrersi di sentimenti, situazioni, problematiche che si colorano diversamente in virtù del tempo trascorso.
La storia nel suo complesso non si può dire realmente originale, ma è certamente congegnata in maniera eccellente; la vicenda del passato è quella dotata di maggiore drammaticità e pathos, cui si contrappone una - almeno apparente - leggerezza della storia del presente. Philip e Oliver ai nostri giorni non si vergognano di quello che sono e dei sentimenti che hanno l'uno per altro, e la società intorno a loro - in modi diversi a seconda delle persone - li ha riconosciuti e gli sta a fianco nelle lotte per i diritti.
La storia più contemporanea è però secondo me quella più dirompente e coraggiosa, quella in cui lo sceneggiatore ha osato di più. Nella vicenda di Philip e Oliver risulta infatti chiaro al pubblico che il problema centrale non è la lotta per diritti ancora non acquisiti del tutto, bensì la ricerca quotidiana di un equilibrio che scavalca tutti i modelli e che oggi - come nel 1958 - rende questa coppia omosessuale fuori dagli schemi e in parte inaccettabile. Oliver non può fare a meno degli incontri nel parco con gli sconosciuti, ricerca appuntamenti su Internet per giochi sessuali; nondimeno ama Philip e vuole avere una storia stabile con lui.
Seppure sottotraccia, Campbell ci mette davanti un percorso destabilizzante e poco pacificante: nel 1958 i gay erano fortemente discriminati e sottoposti a cure per tornare alla normalità, vittime di condizionamenti psicologici pesanti, costretti a cercare di nascosto incontri nei parchi; nel 2015 i gay vogliono vivere la propria vita a tutto tondo e secondo i propri modelli, che in alcuni casi non trovano risposta negli schemi sociali classici (che pure gli sono in buona parte spesso negati), bensì in equilibri di coppia nuovi e tutti da verificare giorno per giorno all'interno della coppia stessa. Un balzo in avanti che appare sorprendente, soprattutto quando rivolto al pubblico italiano.
Belle le scenografie, belle le musiche, bravi gli attori. Una menzione speciale per Maurizio Lombardi che forse a qualcuno sarà sembrato a tratti un po' macchiettistico, ma che invece io ho trovato profondo e vero sia nella versione degli anni Cinquanta sia in quella contemporanea.
Voto: 3,5/5
Il foyer è pieno di volti noti, da Nicola Zingaretti a Stefano Rodotà, da Marino Sinibaldi a Giuseppe Laterza. Il teatro è quasi al completo, noi siamo nella cosiddetta "piccionaia" dove fa un caldo infernale ma si sente e si vede benissimo.
Innanzitutto, bisogna riconoscere e premiare il coraggio di Luca Zingaretti nel portare sul palco dei teatri italiani un testo così esplicito e diretto sulla tematica omosessuale, mettendoci personalmente la faccia come attore insieme al bravissimo Maurizio Lombardi e alla brava Valeria Milillo.
Il testo è molto ben costruito dal punto di vista narrativo e si sviluppa in un crescendo che tiene incollati alla sedia, alternando ironia e dramma con maestria.
Si tratta di due storie parallele che si svolgono a molti anni di distanza, sempre a Londra.
I protagonisti si chiamano nello stesso modo, anche se le geometrie sono variabili.
Nella Londra del 1958 Philip è sposato con Sylvia, che fa l'illustratrice di libri per ragazzi. Oliver è lo scrittore il cui libro Sylvia sta illustrando. Una sera Sylvia invita a cena Oliver per farlo conoscere a suo marito. Da qui, l'inizio di un percorso che cambierà tutti e tre questi personaggi mettendoli di fronte alla verità ineluttabile dell'omosessualità di Philip e ai sentimenti contrastanti degli altri due di fronte alla sua difficoltà di accettare questa condizione infamante per l'epoca.
Nella Londra del 2015 Philip e Oliver sono stati insieme per un anno e mezzo, ma ora si sono lasciati perché Philip non accetta le scorribande di Oliver alla ricerca di sesso anonimo. Sylvia è la loro migliore amica, paladina dei diritti gay, e impegnata a far riappacificare i due uomini.
Le due storie hanno un andamento parallelo e sulla scena si alternano gli Oliver, Philip e Sylvia del passato e quelli del presente, in un rincorrersi di sentimenti, situazioni, problematiche che si colorano diversamente in virtù del tempo trascorso.
La storia nel suo complesso non si può dire realmente originale, ma è certamente congegnata in maniera eccellente; la vicenda del passato è quella dotata di maggiore drammaticità e pathos, cui si contrappone una - almeno apparente - leggerezza della storia del presente. Philip e Oliver ai nostri giorni non si vergognano di quello che sono e dei sentimenti che hanno l'uno per altro, e la società intorno a loro - in modi diversi a seconda delle persone - li ha riconosciuti e gli sta a fianco nelle lotte per i diritti.
La storia più contemporanea è però secondo me quella più dirompente e coraggiosa, quella in cui lo sceneggiatore ha osato di più. Nella vicenda di Philip e Oliver risulta infatti chiaro al pubblico che il problema centrale non è la lotta per diritti ancora non acquisiti del tutto, bensì la ricerca quotidiana di un equilibrio che scavalca tutti i modelli e che oggi - come nel 1958 - rende questa coppia omosessuale fuori dagli schemi e in parte inaccettabile. Oliver non può fare a meno degli incontri nel parco con gli sconosciuti, ricerca appuntamenti su Internet per giochi sessuali; nondimeno ama Philip e vuole avere una storia stabile con lui.
Seppure sottotraccia, Campbell ci mette davanti un percorso destabilizzante e poco pacificante: nel 1958 i gay erano fortemente discriminati e sottoposti a cure per tornare alla normalità, vittime di condizionamenti psicologici pesanti, costretti a cercare di nascosto incontri nei parchi; nel 2015 i gay vogliono vivere la propria vita a tutto tondo e secondo i propri modelli, che in alcuni casi non trovano risposta negli schemi sociali classici (che pure gli sono in buona parte spesso negati), bensì in equilibri di coppia nuovi e tutti da verificare giorno per giorno all'interno della coppia stessa. Un balzo in avanti che appare sorprendente, soprattutto quando rivolto al pubblico italiano.
Belle le scenografie, belle le musiche, bravi gli attori. Una menzione speciale per Maurizio Lombardi che forse a qualcuno sarà sembrato a tratti un po' macchiettistico, ma che invece io ho trovato profondo e vero sia nella versione degli anni Cinquanta sia in quella contemporanea.
Voto: 3,5/5
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