In un caldissimo pomeriggio romano di luglio io e S. decidiamo di rifugiarci in un cinema per stare un po' al fresco. Nella altalenante e non certo entusiasmante offerta estiva dei cinema scegliamo di andare a vedere questo film argentino di Marco Berger, L'amante dell'astronauta.
La storia è presto detta. Pedro (Javier Orán), un giovane gay, si appresta a trascorrere un periodo di vacanza nella casa al mare di suo cugino, dove oltre a lui e alla sua compagna sono già arrivati altri amici che condivideranno con loro i giorni di ferie. Tra questi ultimi c'è Maxi (Lautaro Bettoni), un giovane un po' svagato e sopra le righe che - pur dichiarando la propria eterosessualità a più riprese - entra quasi subito in contatto con Pedro e inizia con questi una specie di schermaglia amorosa e un vero e proprio gioco di seduzione, che rende i due giovani sempre più intimi se non dal punto di vista fisico certamente nelle conversazioni e nel linguaggio. Quando sarà il momento di superare la fase dello scherzo e di decidere da che parte stare, Maxi e Pedro faranno i conti con i loro sentimenti.
Personalmente è il primo film del regista argentino che vedo, e dunque posso dare un giudizio limitato a questa esperienza. Leggo da più parti che Berger fa sempre un po' lo stesso film, e che alcuni leitmotiv si ripetono di film in film risultando dunque un po' prevedibili e stucchevoli.
Ma questo io non sono in grado di dirlo. Posso solo dire che il film di Berger, oltre ad avvalersi di due interpreti molto bravi ed empatici, riesce a risultare accattivante nonostante i 116 minuti della proiezione siano occupati per gran parte dai dialoghi tra i due protagonisti, che potrebbero essere sfinenti e invece riescono a essere teneri e divertenti, oltre che molto frizzanti nei giochi di parole e nell'uso di un linguaggio tipico dell'ambiente gay.
In definitiva, quella di Berger è una vera e propria commedia romantica di ambientazione gay, sebbene non manchi di toccare temi per niente scontati o superficiali e di registrare dei cambiamenti sociali che vedono le nuove generazioni sempre meno rigide nel guardare a orientamenti sessuali e rapporti di coppia.
All'uscita dal cinema, io e S. ci diciamo che se la stessa commedia avesse avuto come protagonisti un uomo e una donna probabilmente ne sarebbe risultato qualcosa di scontato e deludente, ma la scelta di raccontare con questa leggerezza ma senza superficialità l'incontro tra due uomini e il loro innamoramento alla fine risulta sostanzialmente vincente.
Voto: 3/5
mercoledì 31 luglio 2024
lunedì 29 luglio 2024
Inside out 2
Vado a vedere Inside out 2 quando più o meno tutti lo hanno già visto, e ovviamente nel frattempo ho letto sia commenti entusiastici di chi ne parla come di un capolavoro sia commenti speculari di chi lo sminuisce come non all'altezza del primo.
Avevo un ricordo positivo del primo film, ma, andando a rileggermi il post che avevo scritto a suo tempo - come faccio tutte le volte in questi casi -, ho ritrovato qualche mia perplessità sebbene all'interno di una valutazione complessivamente molto positiva.
Devo dire che, anche a seguito della visione di Inside out 2, mi ritrovo abbastanza in quello che avevo scritto allora. Il nuovo film comincia più o meno dove avevamo lasciato Ripley con il primo film. La bambina che avevamo conosciuto nel momento dell'abbandono dell'infanzia, ma ancora pienamente radicata nelle sue emozioni primarie, la ritroviamo ragazzina alle soglie dell'adolescenza.
Il quartier generale della sua mente dove continuano a dominare le emozioni con cui abbiamo familiarizzato nel primo film, Gioia, Tristezza, Disgusto, Rabbia, Paura, sta per essere invaso da una nuova genìa di emozioni, prima fra tutte Ansia, ma anche Invidia, Imbarazzo, Noia (Ennui), con qualche prematura sortita della meravigliosa Nostalgia (che ho trovato adorabile e un vero colpo di genio).
L'arrivo di questi nuovi abitanti della mente di Ripley manda in tilt tutti i meccanismi consolidati. Ansia (un piccoletto arancione che devo ammettere è molto divertente e molto credibile) si mette ai comandi della ragazzina nel processo di costruzione di un senso di sé decisamente più complesso e articolato di quello infantile. Nel frattempo tutti gli altri abitanti vengono spediti in un luogo remoto della mente, cosicché Gioia - con la determinante collaborazione di Tristezza - dovrà guidare il gruppo nel viaggio per tornare a far capolino nella vita di Ripley e imparare a convivere in maniera costruttiva con i nuovi abitanti.
Nel frattempo Ripley vive i giorni di un camp durante il quale dovrà fare i conti con un ambiente nuovo dal quale farsi accettare, con gli equilibri tra vecchie e nuove amicizie, con la competizione per entrare nella squadra di hockey, e ovviamente anche con i cambiamenti nel rapporto con i suoi genitori.
Così, mentre Gioia & Co. fanno il loro viaggio avventuroso nella mente di Ripley per tornare alla console di comando, Ripley vive il suo primo attacco di panico, che - devo dire - viene ricostruito in maniera molto realistica e vivida.
Alla fine arriveremo a un nuovo punto fermo della sua vita, quello in cui si è consapevoli che il proprio sé è molto sfaccettato e contraddittorio, che il rapporto con gli altri è tutto da costruire, e che Gioia non può fare a meno di Tristezza, perché man mano che si va verso la vita adulta si perde quel senso puro di spensieratezza che ancora i bambini ogni tanto riescono a vivere, e che è sempre più difficile - se non a volte impossibile - da riconquistare più avanti.
La mia amica I. dice che dal punto di vista scientifico questo secondo capitolo è un po' più approssimativo, e tra l'altro è indubbio che certi processi avvengano un po' troppo velocemente.
Personalmente lamento il fatto che, nella struttura narrativa, il film ricalchi perfettamente il primo, e dunque l'effetto sorpresa che aveva reso memorabile la prima puntata risulti molto più attenuato.
Ciò detto, alcune cose sono decisamente geniali (il cameo di Nostalgia, come già accennato, nonché la scena di Ansia che guida la sua squadra nella formulazione di tutti gli scenari terribili conseguenti a una certa azione, o ancora la migliore comprensione dei rapporti tra Gioia e Tristezza) e il film si guarda divertendosi e un po' commuovendosi. E dunque si può dire sostanzialmente riuscito.
Mi raccomando, restate fino all'ultima riga dei titoli di coda, perché vi aspetta una sorpresa.
Voto: 3/5
Avevo un ricordo positivo del primo film, ma, andando a rileggermi il post che avevo scritto a suo tempo - come faccio tutte le volte in questi casi -, ho ritrovato qualche mia perplessità sebbene all'interno di una valutazione complessivamente molto positiva.
Devo dire che, anche a seguito della visione di Inside out 2, mi ritrovo abbastanza in quello che avevo scritto allora. Il nuovo film comincia più o meno dove avevamo lasciato Ripley con il primo film. La bambina che avevamo conosciuto nel momento dell'abbandono dell'infanzia, ma ancora pienamente radicata nelle sue emozioni primarie, la ritroviamo ragazzina alle soglie dell'adolescenza.
Il quartier generale della sua mente dove continuano a dominare le emozioni con cui abbiamo familiarizzato nel primo film, Gioia, Tristezza, Disgusto, Rabbia, Paura, sta per essere invaso da una nuova genìa di emozioni, prima fra tutte Ansia, ma anche Invidia, Imbarazzo, Noia (Ennui), con qualche prematura sortita della meravigliosa Nostalgia (che ho trovato adorabile e un vero colpo di genio).
L'arrivo di questi nuovi abitanti della mente di Ripley manda in tilt tutti i meccanismi consolidati. Ansia (un piccoletto arancione che devo ammettere è molto divertente e molto credibile) si mette ai comandi della ragazzina nel processo di costruzione di un senso di sé decisamente più complesso e articolato di quello infantile. Nel frattempo tutti gli altri abitanti vengono spediti in un luogo remoto della mente, cosicché Gioia - con la determinante collaborazione di Tristezza - dovrà guidare il gruppo nel viaggio per tornare a far capolino nella vita di Ripley e imparare a convivere in maniera costruttiva con i nuovi abitanti.
Nel frattempo Ripley vive i giorni di un camp durante il quale dovrà fare i conti con un ambiente nuovo dal quale farsi accettare, con gli equilibri tra vecchie e nuove amicizie, con la competizione per entrare nella squadra di hockey, e ovviamente anche con i cambiamenti nel rapporto con i suoi genitori.
Così, mentre Gioia & Co. fanno il loro viaggio avventuroso nella mente di Ripley per tornare alla console di comando, Ripley vive il suo primo attacco di panico, che - devo dire - viene ricostruito in maniera molto realistica e vivida.
Alla fine arriveremo a un nuovo punto fermo della sua vita, quello in cui si è consapevoli che il proprio sé è molto sfaccettato e contraddittorio, che il rapporto con gli altri è tutto da costruire, e che Gioia non può fare a meno di Tristezza, perché man mano che si va verso la vita adulta si perde quel senso puro di spensieratezza che ancora i bambini ogni tanto riescono a vivere, e che è sempre più difficile - se non a volte impossibile - da riconquistare più avanti.
La mia amica I. dice che dal punto di vista scientifico questo secondo capitolo è un po' più approssimativo, e tra l'altro è indubbio che certi processi avvengano un po' troppo velocemente.
Personalmente lamento il fatto che, nella struttura narrativa, il film ricalchi perfettamente il primo, e dunque l'effetto sorpresa che aveva reso memorabile la prima puntata risulti molto più attenuato.
Ciò detto, alcune cose sono decisamente geniali (il cameo di Nostalgia, come già accennato, nonché la scena di Ansia che guida la sua squadra nella formulazione di tutti gli scenari terribili conseguenti a una certa azione, o ancora la migliore comprensione dei rapporti tra Gioia e Tristezza) e il film si guarda divertendosi e un po' commuovendosi. E dunque si può dire sostanzialmente riuscito.
Mi raccomando, restate fino all'ultima riga dei titoli di coda, perché vi aspetta una sorpresa.
Voto: 3/5
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Inside out 2
venerdì 26 luglio 2024
Tutta intera / Espérance Hakuzwimana
Tutta intera / Espérance Hakuzwimana. Torino: Einaudi, 2022.
Ho scoperto e comprato questo libro dopo aver letto un lungo post su FB di Espérance Hakuzwimana in cui l'autrice annunciava la sospensione del suo tour di presentazione del romanzo in giro per l'Italia non solo per il costo economico non banale, ma anche e soprattutto per il costo emotivo del confronto con un mondo in cui il razzismo continua a essere onnipresente, anche quando è inconsapevole.
Del resto, è proprio di questo che la scrittrice ruandese, adottata da una famiglia italiana, parla in questo suo romanzo, che arriva dopo il saggio autobiografico E poi basta. Manifesto di una donna nera.
La protagonista di Tutta intera è Sara, una giovane donna che condivide con l'autrice la condizione di essere nera, ma cresciuta in una famiglia di bianchi, in una città (immaginaria) che si sviluppa a cavallo del fiume Sele, dove da un lato vivono gli "integrati", dall'altro - a Basilici - le famiglie di immigrati provenienti da ogni parte del mondo.
Sara è cresciuta in un mondo di bianchi, in una famiglia con un padre professore di liceo e una madre cuoca della mensa di un asilo, mentre suo zio gestisce le coltivazioni di pesche che sono l'oro rosa di questa terra e dove lavorano molte delle persone che provengono da Basilici.
Per la protagonista l'incontro-scontro tra i due mondi si verifica quando - grazie alla mediazione di don Paolo - va a tenere un corso facoltativo pomeridiano nella scuola di Basilici, dove viene a contatto con il variegato e non scontato mondo in cui vivono Taja, Charlie Dì, Giulio Arbour, Paul Bonafede e molti altri ragazzini che in parte assomigliano fisicamente a Sara, ma che da lei e dalla sua vita sono invece lontani anni luce.
Inizierà dunque così per Sara un percorso di decostruzione - che le farà mettere in discussione tutta la vita che ha vissuto fin lì - e poi di ricostruzione, alla ricerca di quelle parti di sé che fino a quel momento non aveva riconosciuto o messo a fuoco.
È come se improvvisamente Sara prendesse coscienza del razzismo più o meno strisciante nel quale ha sempre vissuto, nonostante l'amore dei suoi genitori, e si rendesse conto che non può più fare finta di niente, né puntare all'assimilazione integrale con i bianchi, perché la propria fisicità e le proprie origini richiedono una presa di posizione anche nei confronti delle persone che pure l'hanno cresciuta e amata, e soprattutto nei confronti della società tutta che discrimina quanti sono stati più sfortunati di lei, ma che dimostrano spesso di avere più risorse e più capacità di adattarsi alla realtà.
Ne viene fuori un quadro per niente pacificante e pacificato, in cui la strada da fare è ancora lunghissima perché il razzismo ci abita in modi profondi e sotterranei di cui talvolta nemmeno ci accorgiamo, ma che offendono e marcano le differenze.
È un po' la sensazione che ho provato leggendo Americanah di Chimamanda Ngozi Adichie. Sicuramente il libro della Hakuzwimana è più semplice sia narrativamente che stilisticamente, ma conferma il potere straordinario dei libri nell'aiutarci a metterci nei panni di persone diverse da noi e a comprendere per quanto possibile il loro punto di vista.
Per me ultimamente leggere libri di scrittrici di origine africana è servito proprio a questo: provare a capire e soprattutto riconoscere che cose per noi scontate e inoffensive non lo sono se ci si mette da un punto di vista differente.
Voto: 3,5/5
Ho scoperto e comprato questo libro dopo aver letto un lungo post su FB di Espérance Hakuzwimana in cui l'autrice annunciava la sospensione del suo tour di presentazione del romanzo in giro per l'Italia non solo per il costo economico non banale, ma anche e soprattutto per il costo emotivo del confronto con un mondo in cui il razzismo continua a essere onnipresente, anche quando è inconsapevole.
Del resto, è proprio di questo che la scrittrice ruandese, adottata da una famiglia italiana, parla in questo suo romanzo, che arriva dopo il saggio autobiografico E poi basta. Manifesto di una donna nera.
La protagonista di Tutta intera è Sara, una giovane donna che condivide con l'autrice la condizione di essere nera, ma cresciuta in una famiglia di bianchi, in una città (immaginaria) che si sviluppa a cavallo del fiume Sele, dove da un lato vivono gli "integrati", dall'altro - a Basilici - le famiglie di immigrati provenienti da ogni parte del mondo.
Sara è cresciuta in un mondo di bianchi, in una famiglia con un padre professore di liceo e una madre cuoca della mensa di un asilo, mentre suo zio gestisce le coltivazioni di pesche che sono l'oro rosa di questa terra e dove lavorano molte delle persone che provengono da Basilici.
Per la protagonista l'incontro-scontro tra i due mondi si verifica quando - grazie alla mediazione di don Paolo - va a tenere un corso facoltativo pomeridiano nella scuola di Basilici, dove viene a contatto con il variegato e non scontato mondo in cui vivono Taja, Charlie Dì, Giulio Arbour, Paul Bonafede e molti altri ragazzini che in parte assomigliano fisicamente a Sara, ma che da lei e dalla sua vita sono invece lontani anni luce.
Inizierà dunque così per Sara un percorso di decostruzione - che le farà mettere in discussione tutta la vita che ha vissuto fin lì - e poi di ricostruzione, alla ricerca di quelle parti di sé che fino a quel momento non aveva riconosciuto o messo a fuoco.
È come se improvvisamente Sara prendesse coscienza del razzismo più o meno strisciante nel quale ha sempre vissuto, nonostante l'amore dei suoi genitori, e si rendesse conto che non può più fare finta di niente, né puntare all'assimilazione integrale con i bianchi, perché la propria fisicità e le proprie origini richiedono una presa di posizione anche nei confronti delle persone che pure l'hanno cresciuta e amata, e soprattutto nei confronti della società tutta che discrimina quanti sono stati più sfortunati di lei, ma che dimostrano spesso di avere più risorse e più capacità di adattarsi alla realtà.
Ne viene fuori un quadro per niente pacificante e pacificato, in cui la strada da fare è ancora lunghissima perché il razzismo ci abita in modi profondi e sotterranei di cui talvolta nemmeno ci accorgiamo, ma che offendono e marcano le differenze.
È un po' la sensazione che ho provato leggendo Americanah di Chimamanda Ngozi Adichie. Sicuramente il libro della Hakuzwimana è più semplice sia narrativamente che stilisticamente, ma conferma il potere straordinario dei libri nell'aiutarci a metterci nei panni di persone diverse da noi e a comprendere per quanto possibile il loro punto di vista.
Per me ultimamente leggere libri di scrittrici di origine africana è servito proprio a questo: provare a capire e soprattutto riconoscere che cose per noi scontate e inoffensive non lo sono se ci si mette da un punto di vista differente.
Voto: 3,5/5
mercoledì 24 luglio 2024
All we imagine as light
Il film della regista indiana Payal Kapadia ha vinto a Cannes il Grand Prix Speciale della Giuria, il premio più importante dopo la Palma d'oro, e ne ho letto benissimo qua e là. Non me lo sono dunque lasciata sfuggire in questa anteprima proposta nell'ambito della rassegna Da Cannes a Roma.
Semplificando molto si può dire che il film è una storia di emancipazione femminile all'interno di una società caratterizzata da grandi disparità e rigidità sociali.
Al centro della storia tre donne: Prabha (Kani Kusruti), infermiera in un ospedale di Mumbai, Anu (Divya Prabha), apprendista infermeria nello stesso ospedale nonché coinquilina di Prabha, e infine Parvaty (Chaya Khadd), la cuoca dell'ospedale.
In realtà nel film esiste una quarta protagonista, che non è una persona bensì la città di Mumbai, una città enorme e ad altissima densità (oltre 12.000.000 di abitanti per una densità di oltre 31.000 abitanti al Km2, numeri che fanno impallidire persino noi che viviamo il caos quotidiano romano), caratterizzata da tantissime contraddizioni e grandi differenze interne, in cui convivono modernità e arretratezza, e dove converge un numero impressionante di persone da tutte le parti dell'India per lavorare, producendo una dinamica quotidiana che appare quasi insostenibile.
Che la città sia una protagonista centrale della narrazione ce lo dicono le prime immagini del film che ci mostra le strade di Mumbai, immerse in una luce prevalentemente notturna e virata al blu, e ci fa ascoltare, senza mostrarci i volti dei parlanti, varie storie di persone che in questa città ci sono andati a vivere e hanno dovuto farci i conti.
È in questo caleidoscopio in cui si concentrano le speranze e le paure di moltissime persone, dove le provenienze, le religioni, i dialetti si mescolano al punto tale che la gente fa fatica a capirsi, che si muovono le tre protagoniste.
Semplificando molto si può dire che il film è una storia di emancipazione femminile all'interno di una società caratterizzata da grandi disparità e rigidità sociali.
Al centro della storia tre donne: Prabha (Kani Kusruti), infermiera in un ospedale di Mumbai, Anu (Divya Prabha), apprendista infermeria nello stesso ospedale nonché coinquilina di Prabha, e infine Parvaty (Chaya Khadd), la cuoca dell'ospedale.
In realtà nel film esiste una quarta protagonista, che non è una persona bensì la città di Mumbai, una città enorme e ad altissima densità (oltre 12.000.000 di abitanti per una densità di oltre 31.000 abitanti al Km2, numeri che fanno impallidire persino noi che viviamo il caos quotidiano romano), caratterizzata da tantissime contraddizioni e grandi differenze interne, in cui convivono modernità e arretratezza, e dove converge un numero impressionante di persone da tutte le parti dell'India per lavorare, producendo una dinamica quotidiana che appare quasi insostenibile.
Che la città sia una protagonista centrale della narrazione ce lo dicono le prime immagini del film che ci mostra le strade di Mumbai, immerse in una luce prevalentemente notturna e virata al blu, e ci fa ascoltare, senza mostrarci i volti dei parlanti, varie storie di persone che in questa città ci sono andati a vivere e hanno dovuto farci i conti.
È in questo caleidoscopio in cui si concentrano le speranze e le paure di moltissime persone, dove le provenienze, le religioni, i dialetti si mescolano al punto tale che la gente fa fatica a capirsi, che si muovono le tre protagoniste.
Prabha è una donna con una grande etica del lavoro, un marito che ha sposato per un matrimonio combinato e che, subito dopo il matrimonio, è emigrato in Germania e ha un collega dottore nello stesso ospedale che mostra un debole per lei: in questa situazione la donna non si concede nessun cedimento né mostra alcuna emozione, sebbene evidentemente soffra perché il marito non si fa sentire da più di un anno, cosicché di fronte all'arrivo inaspettato di una cuociriso ultramoderna fabbricata in Germania va in crisi.
Anu è più giovane, quasi una sorella minore per Prabha, studia per diventare infermiera e nel frattempo ha una storia con un giovane ragazzo musulmano, storia impossibile per una ragazza indu, tanto più che nel frattempo la madre le manda sul cellulare le foto di possibili ragazzi con cui combinare il matrimonio.
Parvaty vive in un appartamento che a suo tempo era stato assegnato al marito che lavorava in una fabbrica là vicino e che ora la multinazionale edilizia vuole sfrattare, costringendola a tornare nel suo paese di origine, nella regione del Konkan, sul mare.
Sarà proprio con il viaggio nel paese di origine di Parvaty - che quest'ultima farà insieme a Prabha e ad Anu e durante la permanenza in questo piccolo villaggio così distante da ogni punto di vista, non solo geografico, dalla metropoli tentacolare - che ciascuna delle tre donne - anche grazie alla solidarietà reciproca - sceglierà di dare una svolta alla propria esistenza per costruire forse un futuro nuovo.
Non mi sento di dire che questo film possa piacere a tutti: è un film indiano, e si sente forte una specificità narrativa che in parte sentiamo distante, anche solo per il fatto che il progresso della storia avviene lentamente e nel mezzo si aprono altri squarci e filoni che funzionano talvolta per sommatoria e sovrapposizione, producendo un effetto di sovraccarico quasi metaforico della città di Mumbai. E non a caso lo scioglimento e in un certo senso la semplificazione narrativa arriverà nel mondo semplice del paesino sul mare di Parvaty.
C'è tanto della società e della cultura indiana nel film della Kapadia, e questa distanza a volte si sente fortissima (e costituisce anche un fattore di interesse straordinario, almeno per me), però incredibilmente e allo stesso tempo, fin dall'attacco del film - con le storie di coloro che da varie province dell'India sono andati a vivere e a lavorare a Mumbai - e fatta la tara delle differenze culturali e sociali, a me sembra quasi di riconoscere qualcosa di familiare, temi che vanno al di là dell'India e in cui ci si può rispecchiare, arrivando a comprendere queste donne nonostante siano - nel loro abbigliamento, nel loro modo di muoversi, di parlare e anche di pensare - lontanissime da noi.
Bellissimo il personaggio di Prabha, una donna che rappresenta quella generazione di donne indiane che viene da un'India passata e fa fatica ad affrancarsene, e dirompente il personaggio di Anu, che rappresenta invece una generazione che mette in discussione lo status quo e vuole affermare sé stessa ed essere libera di scegliere.
Se si ha la pazienza di lasciarsi trasportare dalle atmosfere di As we imagine as light, il film della Kapadia si trasformerà in un vero e proprio viaggio emotivo e conoscitivo.
Voto: 4/5
Anu è più giovane, quasi una sorella minore per Prabha, studia per diventare infermiera e nel frattempo ha una storia con un giovane ragazzo musulmano, storia impossibile per una ragazza indu, tanto più che nel frattempo la madre le manda sul cellulare le foto di possibili ragazzi con cui combinare il matrimonio.
Parvaty vive in un appartamento che a suo tempo era stato assegnato al marito che lavorava in una fabbrica là vicino e che ora la multinazionale edilizia vuole sfrattare, costringendola a tornare nel suo paese di origine, nella regione del Konkan, sul mare.
Sarà proprio con il viaggio nel paese di origine di Parvaty - che quest'ultima farà insieme a Prabha e ad Anu e durante la permanenza in questo piccolo villaggio così distante da ogni punto di vista, non solo geografico, dalla metropoli tentacolare - che ciascuna delle tre donne - anche grazie alla solidarietà reciproca - sceglierà di dare una svolta alla propria esistenza per costruire forse un futuro nuovo.
Non mi sento di dire che questo film possa piacere a tutti: è un film indiano, e si sente forte una specificità narrativa che in parte sentiamo distante, anche solo per il fatto che il progresso della storia avviene lentamente e nel mezzo si aprono altri squarci e filoni che funzionano talvolta per sommatoria e sovrapposizione, producendo un effetto di sovraccarico quasi metaforico della città di Mumbai. E non a caso lo scioglimento e in un certo senso la semplificazione narrativa arriverà nel mondo semplice del paesino sul mare di Parvaty.
C'è tanto della società e della cultura indiana nel film della Kapadia, e questa distanza a volte si sente fortissima (e costituisce anche un fattore di interesse straordinario, almeno per me), però incredibilmente e allo stesso tempo, fin dall'attacco del film - con le storie di coloro che da varie province dell'India sono andati a vivere e a lavorare a Mumbai - e fatta la tara delle differenze culturali e sociali, a me sembra quasi di riconoscere qualcosa di familiare, temi che vanno al di là dell'India e in cui ci si può rispecchiare, arrivando a comprendere queste donne nonostante siano - nel loro abbigliamento, nel loro modo di muoversi, di parlare e anche di pensare - lontanissime da noi.
Bellissimo il personaggio di Prabha, una donna che rappresenta quella generazione di donne indiane che viene da un'India passata e fa fatica ad affrancarsene, e dirompente il personaggio di Anu, che rappresenta invece una generazione che mette in discussione lo status quo e vuole affermare sé stessa ed essere libera di scegliere.
Se si ha la pazienza di lasciarsi trasportare dalle atmosfere di As we imagine as light, il film della Kapadia si trasformerà in un vero e proprio viaggio emotivo e conoscitivo.
Voto: 4/5
lunedì 22 luglio 2024
L'histoire de Souleymane
Quest'anno la rassegna Da Cannes a Roma, tradizionalmente organizzata dall'Anec Lazio tutte le estati, pare un po' sottotono. Il programma esce all'ultimissimo minuto, al punto che a malapena c'è il tempo di farsi un'idea di cosa andare a vedere, e in generale il numero dei film proposti e anche la selezione risultano un po' inferiori alle aspettative.
Per di più ho poche serate libere nella settimana di programmazione, e dunque alla fine decido di fare una minimaratona, vedendo di seguito i due film che maggiormente mi incuriosiscono.
Uno di questi film è L'histoire de Souleymane che definirò un po' semplicisticamente la risposta francese a Io capitano di Matteo Garrone. In questo caso il protagonista, Souleymane (il bravissimo Abou Sangaré, che ha vinto il premio per la migliore interpretazione maschile nella sezione Un certain regard, sezione nella quale il film ha vinto il premio della giuria), ha già fatto il suo viaggio dall'Africa (in questo caso dalla Guinea) fino all'Italia ed è arrivato in Francia, dove sbarca il lunario consegnando cibo, con un account subaffittato, in attesa che la sua domanda d'asilo venga accolta e dunque di avere i documenti per poter lavorare.
Il film inizia dalla fine (ma lo scopriremo di fatto solo dopo), ossia dal momento in cui il giovane è seduto in una sala d'attesa e viene chiamato in un ufficio. Da qui il regista Boris Lojkine ci riporta indietro di due giorni e attacca la sua telecamera addosso al protagonista, portando lo spettatore dentro la sua vita.
Scopriamo così che Souleymane deve sostenere l'intervista a seguito della quale verrà deciso se potrà ottenere l'asilo in Francia oppure no: come molti altri immigrati, il giovane si è rivolto a persone che a pagamento gli procurano dei documenti a sostegno di una storia che lui dovrà imparare a memoria e sostenere in maniera credibile durante l'intervista.
Per pagare l'uomo che gli procura storia e documentazione, il giovane si è comprato una bicicletta e, dietro pagamento di una percentuale, ha ottenuto l'account di un altro uomo per consegnare cibo a domicilio, in una corsa contro il tempo che deve fare i conti con la pericolosità delle strade, gli inconvenienti e la maleducazione dei gestori dei locali e dei clienti. Al termine del lavoro ogni giorno Souleymane deve correre a prendere l'ultimo autobus che lo porterà al centro di accoglienza dove dorme quasi tutte le notti, e - per assicurarsi un posto - ogni mattina deve alzarsi prestissimo per prenotare autobus e posto letto.
Nel frattempo, cogliamo alcune informazioni della sua vita personale: una madre in Guinea che ha problemi di malattia mentale, una fidanzata - sempre in Guinea - che ha ricevuto una proposta di matrimonio da un ingegnere. E tutto questo in una vita in cui la lotta per la sopravvivenza tra persone in condizioni simili alle sue e la sopraffazione sono la normalità. Souleymane arriverà alfine all'intervista con la sua camicia bianca e i suoi documenti, pronto a raccontare la sua storia.
L'histoire de Souleymane è un film che ti si appiccica addosso nei primi istanti e non ti molla più per tutta la sua durata, in un crescendo di ansia, di rabbia, di frustrazione, ma anche di empatia e affetto per il suo protagonista, che non penso possano lasciare indifferenti.
Torno dunque al parallelismo che avevo proposto inizialmente con il film di Garrone, che - come sa chi l'ha visto - terminava con l'arrivo quasi trionfale di Seydou in Italia, dopo inenarrabili sofferenze. In un certo senso, L'histoire de Souleymane è la risposta al commento con cui chiudevo la recensione: "della vita che lo aspetta e delle ulteriori e inevitabili sofferenze future non sappiamo nulla". Guardando Souleymane sappiamo cosa attende queste persone quando arrivano in quell'Europa che in alcuni casi - come in questo - nemmeno hanno scelto e che non era la loro destinazione.
Anche in questo caso - come in molti altri - si potrebbe parlare di un film necessario, ma devo dire che ormai io esco da queste visioni arrabbiata e frustrata, perché non solo mi sento impotente, ma mi trovo dalla parte del privilegio e dello sfruttamento. E, per quanto ognuno di noi prenda le sue personali contromisure per fare i conti con la sua coscienza, è inevitabile provare un senso di ingiustizia fortissimo nei confronti delle nostre società incapaci di far fronte a un problema globale e creato in qualche modo da noi stessi.
Voto: 3,5/5
Per di più ho poche serate libere nella settimana di programmazione, e dunque alla fine decido di fare una minimaratona, vedendo di seguito i due film che maggiormente mi incuriosiscono.
Uno di questi film è L'histoire de Souleymane che definirò un po' semplicisticamente la risposta francese a Io capitano di Matteo Garrone. In questo caso il protagonista, Souleymane (il bravissimo Abou Sangaré, che ha vinto il premio per la migliore interpretazione maschile nella sezione Un certain regard, sezione nella quale il film ha vinto il premio della giuria), ha già fatto il suo viaggio dall'Africa (in questo caso dalla Guinea) fino all'Italia ed è arrivato in Francia, dove sbarca il lunario consegnando cibo, con un account subaffittato, in attesa che la sua domanda d'asilo venga accolta e dunque di avere i documenti per poter lavorare.
Il film inizia dalla fine (ma lo scopriremo di fatto solo dopo), ossia dal momento in cui il giovane è seduto in una sala d'attesa e viene chiamato in un ufficio. Da qui il regista Boris Lojkine ci riporta indietro di due giorni e attacca la sua telecamera addosso al protagonista, portando lo spettatore dentro la sua vita.
Scopriamo così che Souleymane deve sostenere l'intervista a seguito della quale verrà deciso se potrà ottenere l'asilo in Francia oppure no: come molti altri immigrati, il giovane si è rivolto a persone che a pagamento gli procurano dei documenti a sostegno di una storia che lui dovrà imparare a memoria e sostenere in maniera credibile durante l'intervista.
Per pagare l'uomo che gli procura storia e documentazione, il giovane si è comprato una bicicletta e, dietro pagamento di una percentuale, ha ottenuto l'account di un altro uomo per consegnare cibo a domicilio, in una corsa contro il tempo che deve fare i conti con la pericolosità delle strade, gli inconvenienti e la maleducazione dei gestori dei locali e dei clienti. Al termine del lavoro ogni giorno Souleymane deve correre a prendere l'ultimo autobus che lo porterà al centro di accoglienza dove dorme quasi tutte le notti, e - per assicurarsi un posto - ogni mattina deve alzarsi prestissimo per prenotare autobus e posto letto.
Nel frattempo, cogliamo alcune informazioni della sua vita personale: una madre in Guinea che ha problemi di malattia mentale, una fidanzata - sempre in Guinea - che ha ricevuto una proposta di matrimonio da un ingegnere. E tutto questo in una vita in cui la lotta per la sopravvivenza tra persone in condizioni simili alle sue e la sopraffazione sono la normalità. Souleymane arriverà alfine all'intervista con la sua camicia bianca e i suoi documenti, pronto a raccontare la sua storia.
L'histoire de Souleymane è un film che ti si appiccica addosso nei primi istanti e non ti molla più per tutta la sua durata, in un crescendo di ansia, di rabbia, di frustrazione, ma anche di empatia e affetto per il suo protagonista, che non penso possano lasciare indifferenti.
Torno dunque al parallelismo che avevo proposto inizialmente con il film di Garrone, che - come sa chi l'ha visto - terminava con l'arrivo quasi trionfale di Seydou in Italia, dopo inenarrabili sofferenze. In un certo senso, L'histoire de Souleymane è la risposta al commento con cui chiudevo la recensione: "della vita che lo aspetta e delle ulteriori e inevitabili sofferenze future non sappiamo nulla". Guardando Souleymane sappiamo cosa attende queste persone quando arrivano in quell'Europa che in alcuni casi - come in questo - nemmeno hanno scelto e che non era la loro destinazione.
Anche in questo caso - come in molti altri - si potrebbe parlare di un film necessario, ma devo dire che ormai io esco da queste visioni arrabbiata e frustrata, perché non solo mi sento impotente, ma mi trovo dalla parte del privilegio e dello sfruttamento. E, per quanto ognuno di noi prenda le sue personali contromisure per fare i conti con la sua coscienza, è inevitabile provare un senso di ingiustizia fortissimo nei confronti delle nostre società incapaci di far fronte a un problema globale e creato in qualche modo da noi stessi.
Voto: 3,5/5
mercoledì 17 luglio 2024
The Notwist. Monk, 16 giugno 2024
Un paio di anni fa, quando la pandemia stava allentando la sua presa, i Notwist erano venuti a Roma per un concerto, ma una febbre pochi giorni prima mi aveva impedito di andare ad ascoltarli dal vivo (cosa che tra l'altro avevo fatto con soddisfazione diverse volte in passato).
A questo giro, dunque, e tanto più che la sede prescelta era il mio amato Monk, non mi sono lasciata sfuggire l'occasione di tornare ad ascoltarli.
Quando entriamo in sala il palco (non certo enorme) è strapieno di strumenti musicali e altra strumentazione, che oscilla tra l'elettronica e il vintage, e del resto dai Notwist non ci si poteva aspettare di meno.
Quando si presentano sul palco sono in formazione completissima, i due fratelli Archer, Markus (voce e chitarra) e Michael (basso), insieme a Cico Beck (sintetizzatori), Andi Haberl (una batteria esplosiva), Karl Ivar Refseth (vibrafono), Max Punktezahl (chitarra e tastiera), e quella che per me è una new entry, ossia Theresa Loibl (clarino, tastiera, e harmonium).
La sala del Monk si riempie completamente di gente, e la presenza di persone di età anche superiore alla mia è piuttosto significativa, anche perché i Notwist sono su piazza da parecchio e loro stessi (almeno il loro nucleo centrale) non sono più giovanissimi.
I Notwist sono musicisti che non si perdono in chiacchiere e hanno un aspetto quasi dimesso, ma dal vivo sono un'esperienza ogni volta nuova e inattesa. Il flusso musicale - com'è loro abitudine - è quasi continuo, praticamente senza interruzione e talvolta con raccordi tra una canzone e l'altra, e a questo giro il gruppo sembra aver deciso di volerci riportare alle atmosfere di una discoteca berlinese techno degli anni Novanta.
Pur con una setlist che attinge a molti loro lavori e dentro la quale ci sono alcuni dei loro grandi successi come One With the Freaks, Kong, Pick Up the Phone, Who We Used to Be, Into Another Tune, e poi nel bis anche il loro cavallo di battaglia, Consequence, gli arrangiamenti sono decisamente techno e sviluppano una potenza sonora pazzesca, nella quale la voce di Markus Archer quasi scompare, e invitano davvero a ballare e saltare come fa Max Punktezahl mentre suona sul palco.
Personalmente resto incantata dalla perizia (e anche nerdaggine) musicale di questo gruppo, che usa una straordinaria molteplicità di strumenti e di combinazioni strumentali, modernissime e vintage (come i remix che Markus fa con i vinili su un giradischi); devo però ammettere che la scelta musicale fatta dal gruppo non era perfettamente adatta a una sala chiusa e piccola come quella del Monk, dove funzionano meglio i concerti acustici o con un livello sonoro meno potente, e sarebbe stata perfetta in uno spazio aperto dove tra l'altro il folto pubblico presente avrebbe potuto stare meno appiccicato e avrebbe davvero potuto ballare insieme ai musicisti.
Voto: 3,5/5
A questo giro, dunque, e tanto più che la sede prescelta era il mio amato Monk, non mi sono lasciata sfuggire l'occasione di tornare ad ascoltarli.
Quando entriamo in sala il palco (non certo enorme) è strapieno di strumenti musicali e altra strumentazione, che oscilla tra l'elettronica e il vintage, e del resto dai Notwist non ci si poteva aspettare di meno.
Quando si presentano sul palco sono in formazione completissima, i due fratelli Archer, Markus (voce e chitarra) e Michael (basso), insieme a Cico Beck (sintetizzatori), Andi Haberl (una batteria esplosiva), Karl Ivar Refseth (vibrafono), Max Punktezahl (chitarra e tastiera), e quella che per me è una new entry, ossia Theresa Loibl (clarino, tastiera, e harmonium).
La sala del Monk si riempie completamente di gente, e la presenza di persone di età anche superiore alla mia è piuttosto significativa, anche perché i Notwist sono su piazza da parecchio e loro stessi (almeno il loro nucleo centrale) non sono più giovanissimi.
I Notwist sono musicisti che non si perdono in chiacchiere e hanno un aspetto quasi dimesso, ma dal vivo sono un'esperienza ogni volta nuova e inattesa. Il flusso musicale - com'è loro abitudine - è quasi continuo, praticamente senza interruzione e talvolta con raccordi tra una canzone e l'altra, e a questo giro il gruppo sembra aver deciso di volerci riportare alle atmosfere di una discoteca berlinese techno degli anni Novanta.
Pur con una setlist che attinge a molti loro lavori e dentro la quale ci sono alcuni dei loro grandi successi come One With the Freaks, Kong, Pick Up the Phone, Who We Used to Be, Into Another Tune, e poi nel bis anche il loro cavallo di battaglia, Consequence, gli arrangiamenti sono decisamente techno e sviluppano una potenza sonora pazzesca, nella quale la voce di Markus Archer quasi scompare, e invitano davvero a ballare e saltare come fa Max Punktezahl mentre suona sul palco.
Personalmente resto incantata dalla perizia (e anche nerdaggine) musicale di questo gruppo, che usa una straordinaria molteplicità di strumenti e di combinazioni strumentali, modernissime e vintage (come i remix che Markus fa con i vinili su un giradischi); devo però ammettere che la scelta musicale fatta dal gruppo non era perfettamente adatta a una sala chiusa e piccola come quella del Monk, dove funzionano meglio i concerti acustici o con un livello sonoro meno potente, e sarebbe stata perfetta in uno spazio aperto dove tra l'altro il folto pubblico presente avrebbe potuto stare meno appiccicato e avrebbe davvero potuto ballare insieme ai musicisti.
Voto: 3,5/5
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lunedì 15 luglio 2024
Le buone maniere / Daniel Cuello
Le buone maniere / Daniel Cuello. Milano: Bao Publishing, 2022.
Seguo ormai Daniel Cuello da qualche anno: dopo aver letto Mercedes, mi sono appassionata al suo lavoro e ho letto anche il suo precedente romanzo grafico, Residenza Arcadia, e quello nato dalle sue strisce, Guardati dal beluga magico. Tra l’altro, seguendolo anche su Facebook, ho scoperto di avere in comune con lui una cosa importante: entrambi adoriamo i croissant e vivremmo solo di quelli, il che me lo ha reso ancora più vicino e simpatico! ;-)
Con Le buone maniere Cuello prosegue nella sua narrazione – già avviata con Residenza Arcadia e Mercedes – di un futuro distopico, nel quale – in un luogo e in un tempo imprecisati – governa una dittatura che tiene le persone sotto il proprio giogo.
Se in Residenza Arcadia Cuello raccontava degli abitanti, per lo più anziani, di un condominio e in Mercedes spostava l’attenzione su una donna di potere caduta in disgrazia, in Le buone maniere l’ambiente rappresentato è quello di un ufficio, il numero 84 (che certamente è un richiamo al 1984 di George Orwell), dove – andata in pensione la precedente direttrice – la responsabilità è passata nelle mani di Teo Salsola, un uomo mite, ma incolore, tormentato dai traumi dell’infanzia.
L’ufficio in questione si occupa di bonificare tutti i testi che circolano o che devono essere pubblicati, in modo che siano coerenti con l’ideologia della dittatura al potere e da eliminare la possibilità che si diffondano idee nuove e potenzialmente pericolose.
Nonostante la gravità del compito dell’ufficio, al suo interno il funzionamento non è molto dissimile da quello di qualunque altro ufficio pubblico, con le sue regole, la sua catena di comando, le stranezze dei singoli, le competizioni e i dispetti reciproci, le ambizioni individuali, i rapporti di potere, le raccomandazioni.
Il racconto – come è tipico dello stile di Cuello – ha un tono che oscilla costantemente tra il grottesco e il drammatico non solo sul piano narrativo, ma anche sul piano stilistico, dei colori e del disegno.
Come sempre nei romanzi grafici dell’autore italo-argentino, i personaggi, pur nel loro essere tratteggiati in maniera ironica e grottesca, sono sfaccettati e complessi, non propriamente cattivi ma con le loro meschinità, non propriamente buoni ma capaci di slanci e forme di coraggio. Anche i più abietti, senza essere giustificati, vengono in qualche modo analizzati nella loro complessità.
Alla fine, Le buone maniere è una riflessione ironica, ma non per questo meno seria, sui condizionamenti sociali e su come il non scegliere e non prendere posizione ci renda inevitabilmente complici delle azioni più abiette; in sostanza Cuello ci offre un’altra declinazione di quello che Hanna Arendt ha definito la “banalità del male”.
Ci vuole dunque coraggio per non essere parte di un ingranaggio perverso, e - prima ancora che affrontare i pericoli e i rischi esterni - bisogna essere capaci di affrontare le proprie paure.
Voto: 3,5/5
Seguo ormai Daniel Cuello da qualche anno: dopo aver letto Mercedes, mi sono appassionata al suo lavoro e ho letto anche il suo precedente romanzo grafico, Residenza Arcadia, e quello nato dalle sue strisce, Guardati dal beluga magico. Tra l’altro, seguendolo anche su Facebook, ho scoperto di avere in comune con lui una cosa importante: entrambi adoriamo i croissant e vivremmo solo di quelli, il che me lo ha reso ancora più vicino e simpatico! ;-)
Con Le buone maniere Cuello prosegue nella sua narrazione – già avviata con Residenza Arcadia e Mercedes – di un futuro distopico, nel quale – in un luogo e in un tempo imprecisati – governa una dittatura che tiene le persone sotto il proprio giogo.
Se in Residenza Arcadia Cuello raccontava degli abitanti, per lo più anziani, di un condominio e in Mercedes spostava l’attenzione su una donna di potere caduta in disgrazia, in Le buone maniere l’ambiente rappresentato è quello di un ufficio, il numero 84 (che certamente è un richiamo al 1984 di George Orwell), dove – andata in pensione la precedente direttrice – la responsabilità è passata nelle mani di Teo Salsola, un uomo mite, ma incolore, tormentato dai traumi dell’infanzia.
L’ufficio in questione si occupa di bonificare tutti i testi che circolano o che devono essere pubblicati, in modo che siano coerenti con l’ideologia della dittatura al potere e da eliminare la possibilità che si diffondano idee nuove e potenzialmente pericolose.
Nonostante la gravità del compito dell’ufficio, al suo interno il funzionamento non è molto dissimile da quello di qualunque altro ufficio pubblico, con le sue regole, la sua catena di comando, le stranezze dei singoli, le competizioni e i dispetti reciproci, le ambizioni individuali, i rapporti di potere, le raccomandazioni.
Il racconto – come è tipico dello stile di Cuello – ha un tono che oscilla costantemente tra il grottesco e il drammatico non solo sul piano narrativo, ma anche sul piano stilistico, dei colori e del disegno.
Come sempre nei romanzi grafici dell’autore italo-argentino, i personaggi, pur nel loro essere tratteggiati in maniera ironica e grottesca, sono sfaccettati e complessi, non propriamente cattivi ma con le loro meschinità, non propriamente buoni ma capaci di slanci e forme di coraggio. Anche i più abietti, senza essere giustificati, vengono in qualche modo analizzati nella loro complessità.
Alla fine, Le buone maniere è una riflessione ironica, ma non per questo meno seria, sui condizionamenti sociali e su come il non scegliere e non prendere posizione ci renda inevitabilmente complici delle azioni più abiette; in sostanza Cuello ci offre un’altra declinazione di quello che Hanna Arendt ha definito la “banalità del male”.
Ci vuole dunque coraggio per non essere parte di un ingranaggio perverso, e - prima ancora che affrontare i pericoli e i rischi esterni - bisogna essere capaci di affrontare le proprie paure.
Voto: 3,5/5
venerdì 12 luglio 2024
Gossip. Villa Ada, 22 giugno 2024
Un tempo il programma estivo dei concerti di Villa Ada era uno dei più interessanti dell'estate romana. Negli ultimi anni però la scaletta si è fatta sempre più ripetitiva e povera, e questo è un peccato se si considera che la location è tra le più belle che si possano desiderare per un concerto estivo all'aperto.
Quest'anno, all'interno di un programma che rimane piuttosto deludente, adocchiamo la presenza dei Gossip, la storica band di Beth Ditto, che aveva avuto uno straordinario successo nella seconda metà degli anni 2000, prima con l'album Standing in the way of control e poi con Music for men, nel quale era contenuto il singolo Heavy cross, vero e proprio tormentone di quegli anni.
Il gruppo si era fatto conoscere e apprezzare per il suo stile musicale, ma anche per il protagonismo di Beth Ditto, cantante dalla voce cristallina e inconfondibile, ma anche attivista sul tema dell'orientamento sessuale e di quella che oggi si chiamerebbe body positivity e di cui in qualche modo lei è stata una delle prime bandiere.
A un certo punto i Gossip sono scomparsi dalla scena musicale, e in molti pensavano che non vi avrebbero fatto più ritorno. E invece quest'anno con la pubblicazione dell'album Real power la band statunitense sorprende tutti e cerca di riprendersi il suo pubblico con un lungo tour in giro per il mondo.
La serata a villa Ada non è però di quelle più fortunate. Io e le mie amiche siamo convinte che il concerto non inizierà prima delle 21,30, com'è sempre stato per i concerti a villa Ada, e quindi andiamo a mangiare una pizza prima. Quando però arriviamo sembra che il concerto sia cominciato da un pezzo, anche perché era previsto l'opening di Wrongonyou di cui non vediamo traccia.
Comunque, pazienza, siamo lì e siamo intenzionate a goderci quello che resta del concerto. Peccato che quasi immediatamente capiamo che la Ditto non è in buone condizioni di salute, e che la voce le sta andando progressivamente via.
La sua band - in cui oltre agli storici componenti, Nathan "Brace Paine" Howdeshell e Hannah Blilie, c'è anche una tastierista e bassista altissima di cui non sono riuscita a capire il nome - la supporta in ogni modo, e anche il pubblico le viene in soccorso cantando e battendo le mani quando la vede in difficoltà.
Nel complesso il concerto riesce comunque a essere soddisfacente e divertente, e la Ditto non ci fa mancare i suoi siparietti: fa salire sul palco due ragazze che sono nel pubblico e che ci dicono che una delle due si sta per sposare e questo concerto è il suo addio al nubilato, cosicché la Ditto le chiede quale sia la canzone della sua storia d'amore e intona con il pubblico I will always love you di Whitney Houston. A più riprese si rivolge al pubblico parlando delle cose più varie, e approfittando per fumare e bere, cosa che certamente non aiuta la sua voce.
Il pubblico però non sembra soffrirne e, anzi, quando la band lascia il palco la richiama a gran voce per un bis atteso, che non può che concludersi con il tormentone Heavy cross sul quale balliamo tutti, prima di tornare alle nostre casette nel buio della notte romana.
Voto: 3/5
Quest'anno, all'interno di un programma che rimane piuttosto deludente, adocchiamo la presenza dei Gossip, la storica band di Beth Ditto, che aveva avuto uno straordinario successo nella seconda metà degli anni 2000, prima con l'album Standing in the way of control e poi con Music for men, nel quale era contenuto il singolo Heavy cross, vero e proprio tormentone di quegli anni.
Il gruppo si era fatto conoscere e apprezzare per il suo stile musicale, ma anche per il protagonismo di Beth Ditto, cantante dalla voce cristallina e inconfondibile, ma anche attivista sul tema dell'orientamento sessuale e di quella che oggi si chiamerebbe body positivity e di cui in qualche modo lei è stata una delle prime bandiere.
A un certo punto i Gossip sono scomparsi dalla scena musicale, e in molti pensavano che non vi avrebbero fatto più ritorno. E invece quest'anno con la pubblicazione dell'album Real power la band statunitense sorprende tutti e cerca di riprendersi il suo pubblico con un lungo tour in giro per il mondo.
La serata a villa Ada non è però di quelle più fortunate. Io e le mie amiche siamo convinte che il concerto non inizierà prima delle 21,30, com'è sempre stato per i concerti a villa Ada, e quindi andiamo a mangiare una pizza prima. Quando però arriviamo sembra che il concerto sia cominciato da un pezzo, anche perché era previsto l'opening di Wrongonyou di cui non vediamo traccia.
Comunque, pazienza, siamo lì e siamo intenzionate a goderci quello che resta del concerto. Peccato che quasi immediatamente capiamo che la Ditto non è in buone condizioni di salute, e che la voce le sta andando progressivamente via.
La sua band - in cui oltre agli storici componenti, Nathan "Brace Paine" Howdeshell e Hannah Blilie, c'è anche una tastierista e bassista altissima di cui non sono riuscita a capire il nome - la supporta in ogni modo, e anche il pubblico le viene in soccorso cantando e battendo le mani quando la vede in difficoltà.
Nel complesso il concerto riesce comunque a essere soddisfacente e divertente, e la Ditto non ci fa mancare i suoi siparietti: fa salire sul palco due ragazze che sono nel pubblico e che ci dicono che una delle due si sta per sposare e questo concerto è il suo addio al nubilato, cosicché la Ditto le chiede quale sia la canzone della sua storia d'amore e intona con il pubblico I will always love you di Whitney Houston. A più riprese si rivolge al pubblico parlando delle cose più varie, e approfittando per fumare e bere, cosa che certamente non aiuta la sua voce.
Il pubblico però non sembra soffrirne e, anzi, quando la band lascia il palco la richiama a gran voce per un bis atteso, che non può che concludersi con il tormentone Heavy cross sul quale balliamo tutti, prima di tornare alle nostre casette nel buio della notte romana.
Voto: 3/5
mercoledì 10 luglio 2024
AIR. Auditorium Parco della musica, 21 giugno 2024
Chi segue questo blog sa quanto poco volentieri io vada a sentire i concerti estivi alla cavea dell'Auditorium, perché le mie esperienze in questo senso non sono mai state particolarmente soddisfacenti.
In questo caso la mia decisione scaturisce fondamentalmente dalla proposta di un'amica pugliese: weekend romano per lei con concerto degli AIR che a lei piacciono molto, mentre io - pur conoscendoli - non li ho mai ascoltati granché. Da brava secchiona compro l'album Moon Safari, di cui proprio quest'anno cade il venticinquesimo anniversario e che infatti è il cuore del tour estivo del duo francese, formato da Nicolas Godin e Jean-Benoît Dunckel.
Ascolto un po' l'album, ma l'ascolto casalingo mi soddisfa poco, cosicché arrivo al concerto senza grandi aspettative, ma contenta in ogni caso della compagnia e della serata tra amiche.
Siamo in tribuna, con buoni posti, e la prima cosa che osservo è che la scelta degli AIR è molto diversa da quella di altri concerti visti alla cavea. Sul palco è infatti stata collocata una specie di scatola bianca rettangolare con il lato aperto verso il pubblico, dentro la quale sono posizionati tutti gli strumenti: la batteria e percussioni varie, le tastiere, i sintetizzatori, le chitarre.
Alle 21.15 sale sul palco il batterista - che in questo tour è Louis Delorme, molto bravo - poi a seguire arrivano i due componenti della band, e il concerto inizia.
I due ripropongono integralmente la scaletta dell'album, e alle prime esecuzioni penso che la serata sarà lunghissima, resistente come sono a tutta questa musica elettronica, in buona parte solo strumentale.
Man mano però che il concerto va avanti mi lascio trasportare in questo viaggio nello spazio: la scatola bianca in cui i musicisti si muovono, suonano e cantano, diventa una specie di enterprise che, grazie alle luci e alle proiezioni sulle pareti, sembra fluttuare nell'universo, attraversare pianeti reali e immaginari, esplorare le profondità dello spazio e forse anche della mente e dell'immaginazione umana.
Questa scatola non è però solo una trovata scenograficamente perfetta; essa funziona perfettamente anche come cassa di risonanza, consentendo alle musiche degli AIR di essere convogliate nella maniera giusta nella direzione del pubblico, e - secondo il mio non esperto parere - migliorando sensibilmente l'acustica della cavea.
Dopo l'esecuzione integrale dell'album Moon Safari gli AIR concedono anche il bis, con brani provenienti da altri album in un crescendo di empatia (se di empatia si può parlare in un concerto di questo tipo), che porterà all'ovazione finale del pubblico che in buona parte si alza in piedi per omaggiare questi schivi, ma eccezionali musicisti.
Voto: 3,5/5
In questo caso la mia decisione scaturisce fondamentalmente dalla proposta di un'amica pugliese: weekend romano per lei con concerto degli AIR che a lei piacciono molto, mentre io - pur conoscendoli - non li ho mai ascoltati granché. Da brava secchiona compro l'album Moon Safari, di cui proprio quest'anno cade il venticinquesimo anniversario e che infatti è il cuore del tour estivo del duo francese, formato da Nicolas Godin e Jean-Benoît Dunckel.
Ascolto un po' l'album, ma l'ascolto casalingo mi soddisfa poco, cosicché arrivo al concerto senza grandi aspettative, ma contenta in ogni caso della compagnia e della serata tra amiche.
Siamo in tribuna, con buoni posti, e la prima cosa che osservo è che la scelta degli AIR è molto diversa da quella di altri concerti visti alla cavea. Sul palco è infatti stata collocata una specie di scatola bianca rettangolare con il lato aperto verso il pubblico, dentro la quale sono posizionati tutti gli strumenti: la batteria e percussioni varie, le tastiere, i sintetizzatori, le chitarre.
Alle 21.15 sale sul palco il batterista - che in questo tour è Louis Delorme, molto bravo - poi a seguire arrivano i due componenti della band, e il concerto inizia.
I due ripropongono integralmente la scaletta dell'album, e alle prime esecuzioni penso che la serata sarà lunghissima, resistente come sono a tutta questa musica elettronica, in buona parte solo strumentale.
Man mano però che il concerto va avanti mi lascio trasportare in questo viaggio nello spazio: la scatola bianca in cui i musicisti si muovono, suonano e cantano, diventa una specie di enterprise che, grazie alle luci e alle proiezioni sulle pareti, sembra fluttuare nell'universo, attraversare pianeti reali e immaginari, esplorare le profondità dello spazio e forse anche della mente e dell'immaginazione umana.
Questa scatola non è però solo una trovata scenograficamente perfetta; essa funziona perfettamente anche come cassa di risonanza, consentendo alle musiche degli AIR di essere convogliate nella maniera giusta nella direzione del pubblico, e - secondo il mio non esperto parere - migliorando sensibilmente l'acustica della cavea.
Dopo l'esecuzione integrale dell'album Moon Safari gli AIR concedono anche il bis, con brani provenienti da altri album in un crescendo di empatia (se di empatia si può parlare in un concerto di questo tipo), che porterà all'ovazione finale del pubblico che in buona parte si alza in piedi per omaggiare questi schivi, ma eccezionali musicisti.
Voto: 3,5/5
lunedì 8 luglio 2024
Lahav Shani - Martha Argerich. Auditorium Parco della Musica, 15 giugno 2024
A distanza di quasi dieci anni dal concerto della Argerich che ero andata a vedere all'Auditorium nel 2015, dopo quello che mi aveva entusiasmata nel 2012, non mi lascio sfuggire l'occasione di tornare a sentire dal vivo questa straordinaria pianista che alla veneranda età di 83 anni continua a deliziarci con le sue esecuzioni musicali.
Il programma del concerto è interamente dedicato a Beethoven: la Argerich è protagonista della prima parte, dedicata al Concerto n. 2, uno dei cavalli di battaglia della pianista argentina, accompagnata in questo caso dall'orchestra dell'Accademia nazionale di Santa Cecilia diretta per l'occasione dal giovane direttore d'orchestra e pianista israeliano Lahav Shani.
La Argerich - che già era nel programma del Santa Cecilia l'anno scorso, ma alla fine non era venuta per problemi di salute - viene accolta, prima ancora di iniziare a suonare, con grandissimo calore dal pubblico romano che certamente la aspettava da parecchio tempo; poi, quando comincia a muovere le mani sulla tastiera in quella sua maniera straordinaria (tanto più se si pensa all'età attuale della pianista), conquista definitivamente tutti, cosicché alla fine del concerto l'applauso è lunghissimo e inevitabilmente richiama la Argerich sul palco per l'esecuzione a quattro mani insieme a Lahav Shani di Ma mère l’Oye, Le jardin Féerique di Maurice Ravel (io ovviamente lì per lì non so assolutamente di cosa si tratti, e lo scopro solo dopo grazie al santo Google).
Alla fine di questa esecuzione, tre quarti del pubblico dell'Auditorium è in piedi per un omaggio dovuto a una musicista che ha fatto la storia del pianoforte.
La seconda parte del concerto vede entrare l'orchestra al gran completo, nonché l'impressionante schieramento del coro dell'Accademia, cui si aggiungono i solisti, il soprano Chen Reiss, il mezzosoprano Okka von der Damerau, il tenore Siyabonga Maqungo e il basso Giorgi Manoshvili, per l'esecuzione della Sinfonia n. 9 di Beethoven.
Non sono ovviamente in grado di esprimere alcun tipo di valutazione o di giudizio sulla qualità dell'esecuzione (nemmeno di quella precedente ovviamente), ma nonostante la lunghezza e la stratificazione della sinfonia non avverto noia, anzi mi diverto a seguire gli interventi dei singoli strumenti nella complessa partitura e anche a osservare i musicisti concentrati nella loro esecuzione.
Come sa chi segue questo blog, non sono un'appassionata di musica classica, ma un concerto dal vivo ogni tanto è un'esperienza che trovo molto soddisfacente e a volte emozionante.
Voto: 4/5
Il programma del concerto è interamente dedicato a Beethoven: la Argerich è protagonista della prima parte, dedicata al Concerto n. 2, uno dei cavalli di battaglia della pianista argentina, accompagnata in questo caso dall'orchestra dell'Accademia nazionale di Santa Cecilia diretta per l'occasione dal giovane direttore d'orchestra e pianista israeliano Lahav Shani.
La Argerich - che già era nel programma del Santa Cecilia l'anno scorso, ma alla fine non era venuta per problemi di salute - viene accolta, prima ancora di iniziare a suonare, con grandissimo calore dal pubblico romano che certamente la aspettava da parecchio tempo; poi, quando comincia a muovere le mani sulla tastiera in quella sua maniera straordinaria (tanto più se si pensa all'età attuale della pianista), conquista definitivamente tutti, cosicché alla fine del concerto l'applauso è lunghissimo e inevitabilmente richiama la Argerich sul palco per l'esecuzione a quattro mani insieme a Lahav Shani di Ma mère l’Oye, Le jardin Féerique di Maurice Ravel (io ovviamente lì per lì non so assolutamente di cosa si tratti, e lo scopro solo dopo grazie al santo Google).
Alla fine di questa esecuzione, tre quarti del pubblico dell'Auditorium è in piedi per un omaggio dovuto a una musicista che ha fatto la storia del pianoforte.
La seconda parte del concerto vede entrare l'orchestra al gran completo, nonché l'impressionante schieramento del coro dell'Accademia, cui si aggiungono i solisti, il soprano Chen Reiss, il mezzosoprano Okka von der Damerau, il tenore Siyabonga Maqungo e il basso Giorgi Manoshvili, per l'esecuzione della Sinfonia n. 9 di Beethoven.
Non sono ovviamente in grado di esprimere alcun tipo di valutazione o di giudizio sulla qualità dell'esecuzione (nemmeno di quella precedente ovviamente), ma nonostante la lunghezza e la stratificazione della sinfonia non avverto noia, anzi mi diverto a seguire gli interventi dei singoli strumenti nella complessa partitura e anche a osservare i musicisti concentrati nella loro esecuzione.
Come sa chi segue questo blog, non sono un'appassionata di musica classica, ma un concerto dal vivo ogni tanto è un'esperienza che trovo molto soddisfacente e a volte emozionante.
Voto: 4/5
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