Il secondo appuntamento musicale della mia estate romana - dopo quello con i Nouvelle Vague - è con tre straordinarie musiciste e interpreti della musica internazionale che si alternano sul palco della cavea dell'Auditorium nella stessa sera: Joan as Police Woman, Suzanne Vega e Cat Power.
Della prima - come sa chi segue il mio blog - sono praticamente innamorata. L'ho vista dal vivo numerose volte e non sono mai stanca. Joan è un personaggio incredibile, dotato di una carica straordinaria, capace di alternarsi a diversi strumenti (tastiere, chitarra e violino, il suo primo amore!). Una che è un tutt'uno con la musica.
Qui si presenta con la formazione dell'ultimo concerto in cui l'avevo vista (sempre all'Auditorium ma al chiuso): il suo fido batterista Parker Kindred e i nuovi acquisti al basso e alle tastiere.
Il concerto inizia puntualissimo, mentre c'è ancora la luce e moltissima gente deve ancora prendere posto, il che rende l'atmosfera un po' sgradevole.
Joan ci propone in buona parte le canzoni del suo ultimo lavoro, The classic, in parte ispirato alle atmosfere motown. Ma non mancano alcuni classici, come The magic. Stasera ha la voce un po' meno calda e pulita del solito, ma le sue interpretazioni si fanno comunque apprezzare.
In questo appuntamento estivo, Joan sfoggia una salopette in jeans con i pantaloni tirati su che scoprono in parte le gambe e mettono in mostra una delle sue tante paia di stivaletti bianchi.
L'atmosfera si scalda, anche se la costrizione del posto a sedere non permette al pubblico di lasciarsi andare alla musica.
Dopo 50 minuti di Joan Wasser e un rapido cambio di composizione e organizzazione del palco, ecco Suzanne Vega accompagnata da chitarrista e batterista, piuttosto attempati ma dotati di una straordinaria energia.
Con Suzanne Vega si compie un vero e proprio balzo temporale all'indietro e così dalle atmosfere musicali di Joan - che anche quando si ispirano al passato sono molto contemporanee - si passa a una musica molto più incentrata sull'armonia e sulla melodia. Non che la Vega non trasmetta potenza con la sua musica, ma lo fa certamente in un modo che definirei più classico, fors'anche perché ha fatto scuola ed è diventata espressione di un'intera era musicale. In questi secondi 50 minuti ci vengono proposte alcune pietre miliari del repertorio di Suzanne Vega e diversi brani tratti dal suo ultimo album, Tales from the realm of the queen of pentacles.
Il pubblico apprezza e si ha netta la sensazione che la musica di Suzanne sia più diffusamente conosciuta, anche perché la Vega appartiene ormai a buon diritto alla storia della musica.
Dopo una pausa e un terzo cambio di allestimento sul palco, ecco comparire Cat Power, accompagnata da una band quasi tutta al femminile (una chitarrista, una batterista, una bassista e un polistrumentista). La Power appare piuttosto disfatta (!) e abbastanza piena di tic, ma quando apre bocca rimaniamo tutti estasiati. Dopo pochissime canzoni, durante le quali si aggira come un animale in gabbia sul palco e se la prende più volte con il fonico, invita il pubblico ad alzarsi e dopo pochi minuti sotto il palco si raduna una folla che balla, fa fotografie e video (nonostante tutti gli assurdi divieti dell'Auditorium) e canta insieme a Cat.
Anche in questo caso il concerto dura circa 50 minuti e così in un lampo - accompagnati da queste tre splendide cantanti - si è fatta mezzanotte.
È ora di andare a dormire. Domani inizia una nuova settimana di lavoro.
Voto: 4/5
domenica 27 luglio 2014
giovedì 24 luglio 2014
Nouvelle Vague, Roma, Villa Ada incontra il mondo, 18 luglio 2014
Questa per me non è un'estate particolarmente fortunata. E non è un caso che io sia arrivata al 18 luglio senza aver partecipato praticamente ad alcun evento dell'estate romana.
Non potevo però lasciar passare l'estate senza essermi nemmeno affacciata alla manifestazione "Villa Ada incontra il mondo" che è uno degli appuntamenti estivi che amo di più, oltre ad essere vicinissimo a casa mia.
E così propongo a C. di andare a sentire i Nouvelle Vague. A dire la verità era stata proprio C. a farmeli conoscere, quando tempo fa avevo copiato un po' della musica presente sul suo computer e proprio per questo ho pensato che poteva essere interessante ascoltarli dal vivo.
Peraltro, quando sono arrivata a Villa Ada non sapevo neppure quale formazione prevedesse il gruppo (ho scoperto poi che la composizione è in continua evoluzione) e ricordavo pochissime canzoni. E lì per lì quando i Nouvelle Vague sono saliti sul palco sono rimasta colpita dall'età media - non certo giovanissima - dei componenti della band, che mi ha anche chiarito il motivo della composizione anagrafica del pubblico, numerosissimo, arrivato ad ascoltarli.
Le due cantanti - scopro dopo che si tratta di Liset Alea e Mélanie Pain - sono entrambe carismatiche nella loro diversità. Mélanie sembra uscita direttamente da un film muto salvo per il colore quasi fucsia del suo vestito ed esce certamente fuori di più alla distanza; Liset ha una gonnellina cortissima che fa svolazzare durante tutto il concerto e con i suoi balli sensuali e trascinanti conquista l'intero pubblico. Intorno hanno un chitarrista (Olivier Libaux), un tastierista (Marc Collin) - entrambi storici musicisti del gruppo -, un batterista e un bassista.
L'inizio del concerto mi produce la sensazione di una specie di tuffo in un mondo musicale lontano e l'effetto è un po' straniante e quasi anacronistico, fors'anche perché non conosco la maggior parte delle loro canzoni, tranne alcune delle cover tra cui Just can't get enough e Guns of Brixton.
Man mano però che il concerto va avanti e le canzoni si susseguono io - come del resto la gran parte del pubblico - mi faccio conquistare dall'universo musicale dei Nouvelle Vague e da quel loro improbabile, ma riuscito tentativo di reinterpretare la new wave in chiave Bossa Nova.
Così, giunti all'ultimo brano, il pubblico chiede a gran voce un primo e un secondo ritorno sul palco della band che chiude con una versione acustica e trascinante di In a manner.
Quella in compagnia dei Nouvelle Vague è stata veramente una piacevole serata.
Voto: 3/5
Non potevo però lasciar passare l'estate senza essermi nemmeno affacciata alla manifestazione "Villa Ada incontra il mondo" che è uno degli appuntamenti estivi che amo di più, oltre ad essere vicinissimo a casa mia.
E così propongo a C. di andare a sentire i Nouvelle Vague. A dire la verità era stata proprio C. a farmeli conoscere, quando tempo fa avevo copiato un po' della musica presente sul suo computer e proprio per questo ho pensato che poteva essere interessante ascoltarli dal vivo.
Peraltro, quando sono arrivata a Villa Ada non sapevo neppure quale formazione prevedesse il gruppo (ho scoperto poi che la composizione è in continua evoluzione) e ricordavo pochissime canzoni. E lì per lì quando i Nouvelle Vague sono saliti sul palco sono rimasta colpita dall'età media - non certo giovanissima - dei componenti della band, che mi ha anche chiarito il motivo della composizione anagrafica del pubblico, numerosissimo, arrivato ad ascoltarli.
Le due cantanti - scopro dopo che si tratta di Liset Alea e Mélanie Pain - sono entrambe carismatiche nella loro diversità. Mélanie sembra uscita direttamente da un film muto salvo per il colore quasi fucsia del suo vestito ed esce certamente fuori di più alla distanza; Liset ha una gonnellina cortissima che fa svolazzare durante tutto il concerto e con i suoi balli sensuali e trascinanti conquista l'intero pubblico. Intorno hanno un chitarrista (Olivier Libaux), un tastierista (Marc Collin) - entrambi storici musicisti del gruppo -, un batterista e un bassista.
L'inizio del concerto mi produce la sensazione di una specie di tuffo in un mondo musicale lontano e l'effetto è un po' straniante e quasi anacronistico, fors'anche perché non conosco la maggior parte delle loro canzoni, tranne alcune delle cover tra cui Just can't get enough e Guns of Brixton.
Man mano però che il concerto va avanti e le canzoni si susseguono io - come del resto la gran parte del pubblico - mi faccio conquistare dall'universo musicale dei Nouvelle Vague e da quel loro improbabile, ma riuscito tentativo di reinterpretare la new wave in chiave Bossa Nova.
Così, giunti all'ultimo brano, il pubblico chiede a gran voce un primo e un secondo ritorno sul palco della band che chiude con una versione acustica e trascinante di In a manner.
Quella in compagnia dei Nouvelle Vague è stata veramente una piacevole serata.
Voto: 3/5
venerdì 18 luglio 2014
Fiato sospeso / Silvia Vecchini; Sualzo
Fiato sospeso / Silvia Vecchini; Sualzo. Latina: Tunué, 2011.
Avevo già conosciuto il disegno di Sualzo (nome d'arte di Antonio Vincenti) con la lettura di Fermo. In Fiato sospeso la nitidezza del disegno di Sualzo e al contempo la leggerezza del suo tratto si uniscono alla delicata sceneggiatura di Silvia Vecchini.
La protagonista di questo romanzo di formazione è Olivia, una ragazzina che frequenta la scuola media e che ha un rapporto difficile con il mondo circostante perché soffre di numerose allergie che la costringono a una vita diversa da quella dei suoi coetanei. Il suo unico amico è Leo, un piccolo genio che frequenta ancora le elementari ma si prepara a un esame che potrebbe portarlo direttamente alla scuola superiore, in pratica un altro emarginato come lei.
L’unico spazio di libertà vera per Olivia è la piscina, in quell’acqua dove i pensieri e i rumori arrivano attutiti e il mondo esterno resta per un po' completamente lontano ed estraneo.
A seguito di un furto nella scuola e della scoperta del ruolo svolto da "Labarbie", una ragazzetta bionda e molto in auge che non le ha mai risparmiato una presa in giro, Olivia deve decidere se mettersi in gioco oppure no, se mollare le redini e affrontare il rischio in nome dell’amicizia, oppure restare ferma.
“Perché crescere è un tuffo”.
Questo piccolo romanzo di formazione che si rivolge a vecchi e nuovi teenagers – pur nella scelta di una storia in fondo semplice e non del tutto originale – non solo è coinvolgente e commovente, ma costruisce argutamente il proprio percorso narrativo intorno alla metafora della piscina. I capitoli sono infatti altrettanti momenti di una gara di nuoto: riscaldamento, entrare in acqua, apnea, virata, presa, spinta, risalire, tuffo. E le ultimissime pagine lasciano spazio alle brevi poesie e ai pensieri in libertà che Olivia scrive su qualunque pezzo di carta per fissare il suo flusso emotivo.
Quello di Silvia Vecchini e Sualzo è una storia che riscalda il cuore, che ci fa tornare adolescenti e a cui vogliamo continuare a credere, aggrappandoci all’innocenza e ingenuità che purtroppo l’età adulta tende irrimediabilmente a sottrarci.
Voto: 3/5
Avevo già conosciuto il disegno di Sualzo (nome d'arte di Antonio Vincenti) con la lettura di Fermo. In Fiato sospeso la nitidezza del disegno di Sualzo e al contempo la leggerezza del suo tratto si uniscono alla delicata sceneggiatura di Silvia Vecchini.
La protagonista di questo romanzo di formazione è Olivia, una ragazzina che frequenta la scuola media e che ha un rapporto difficile con il mondo circostante perché soffre di numerose allergie che la costringono a una vita diversa da quella dei suoi coetanei. Il suo unico amico è Leo, un piccolo genio che frequenta ancora le elementari ma si prepara a un esame che potrebbe portarlo direttamente alla scuola superiore, in pratica un altro emarginato come lei.
L’unico spazio di libertà vera per Olivia è la piscina, in quell’acqua dove i pensieri e i rumori arrivano attutiti e il mondo esterno resta per un po' completamente lontano ed estraneo.
A seguito di un furto nella scuola e della scoperta del ruolo svolto da "Labarbie", una ragazzetta bionda e molto in auge che non le ha mai risparmiato una presa in giro, Olivia deve decidere se mettersi in gioco oppure no, se mollare le redini e affrontare il rischio in nome dell’amicizia, oppure restare ferma.
“Perché crescere è un tuffo”.
Questo piccolo romanzo di formazione che si rivolge a vecchi e nuovi teenagers – pur nella scelta di una storia in fondo semplice e non del tutto originale – non solo è coinvolgente e commovente, ma costruisce argutamente il proprio percorso narrativo intorno alla metafora della piscina. I capitoli sono infatti altrettanti momenti di una gara di nuoto: riscaldamento, entrare in acqua, apnea, virata, presa, spinta, risalire, tuffo. E le ultimissime pagine lasciano spazio alle brevi poesie e ai pensieri in libertà che Olivia scrive su qualunque pezzo di carta per fissare il suo flusso emotivo.
Quello di Silvia Vecchini e Sualzo è una storia che riscalda il cuore, che ci fa tornare adolescenti e a cui vogliamo continuare a credere, aggrappandoci all’innocenza e ingenuità che purtroppo l’età adulta tende irrimediabilmente a sottrarci.
Voto: 3/5
mercoledì 16 luglio 2014
Luce. L’immaginario italiano. Roma, Complesso del Vittoriano, 4 luglio-21 settembre 2014
In occasione del 90° anniversario dell’Istituto Luce (1924-2014), è stata inaugurata a Roma, al Complesso del Vittoriano, una mostra fotografica e audiovisiva dedicata alla storia di questo istituto, che risulta essere una storia per immagini (ferme e in movimento) del nostro paese.
Dalla nascita dell’Istituto negli anni Venti come strumento di propaganda del regime fascista sia in tempo di pace che durante la sanguinosa seconda guerra mondiale, agli anni del dopoguerra caratterizzati dalla perdita del monopolio nel settore audiovisivo dell’Italia repubblicana, che testimonia di un paese caratterizzato da una forte crescita e dall’aumento dei consumi e diversificazione degli stili di vita, fino a tempi ancora più recenti che documentano i grandi eventi che hanno segnato la storia non solo del nostro paese ma anche del mondo intero.
Dal punto di vista dell’allestimento, mentre la prima parte della mostra vede prevalere i filmati, alternati a fotografie, documentazione storica e pannelli illustrativi (assolutamente imperdibile la saletta dedicata alla costruzione del personaggio Mussolini attraverso le scelte di gestualità, espressioni e contenuti dei suoi discorsi alle folle), la seconda parte punta maggiormente sulle fotografie che danno un’idea della ricchezza storica del patrimonio posseduto dall’Istituto Luce, non a caso oggetto di un grande lavoro di conservazione e digitalizzazione per consentirne la più ampia fruizione possibile.
La mostra non è vasta, ma datevi tempo per guardare interamente alcuni dei filmati della prima parte che forniscono veramente la misura di un tempo che, pur non lontanissimo cronologicamente, sembra invece del tutto remoto per il tipo di società che racconta.
Non mi sono fatta mancare la foto nella sagoma di cartone vicina all’uscita, né l’acquisto di 4 dvd del Luce nel negozio allestito al termine del percorso.
Voto: 3,5/5
Dalla nascita dell’Istituto negli anni Venti come strumento di propaganda del regime fascista sia in tempo di pace che durante la sanguinosa seconda guerra mondiale, agli anni del dopoguerra caratterizzati dalla perdita del monopolio nel settore audiovisivo dell’Italia repubblicana, che testimonia di un paese caratterizzato da una forte crescita e dall’aumento dei consumi e diversificazione degli stili di vita, fino a tempi ancora più recenti che documentano i grandi eventi che hanno segnato la storia non solo del nostro paese ma anche del mondo intero.
Dal punto di vista dell’allestimento, mentre la prima parte della mostra vede prevalere i filmati, alternati a fotografie, documentazione storica e pannelli illustrativi (assolutamente imperdibile la saletta dedicata alla costruzione del personaggio Mussolini attraverso le scelte di gestualità, espressioni e contenuti dei suoi discorsi alle folle), la seconda parte punta maggiormente sulle fotografie che danno un’idea della ricchezza storica del patrimonio posseduto dall’Istituto Luce, non a caso oggetto di un grande lavoro di conservazione e digitalizzazione per consentirne la più ampia fruizione possibile.
La mostra non è vasta, ma datevi tempo per guardare interamente alcuni dei filmati della prima parte che forniscono veramente la misura di un tempo che, pur non lontanissimo cronologicamente, sembra invece del tutto remoto per il tipo di società che racconta.
Non mi sono fatta mancare la foto nella sagoma di cartone vicina all’uscita, né l’acquisto di 4 dvd del Luce nel negozio allestito al termine del percorso.
Voto: 3,5/5
lunedì 14 luglio 2014
La vita in tempo di pace / Francesco Pecoraro
La vita in tempo di pace / Francesco Pecoraro. Milano: Ponte alle Grazie, 2013.
Tutto cominciò il giorno in cui G. mise davanti a me e a V. due libri finalisti del Premio Strega (quello di Catozzella e quello appunto di Pecoraro) e ci disse: “decidete tra voi quale prendervi”. Data una rapida occhiata alla quarta di copertina entrambe volevamo quello di Pecoraro, fino a che – dopo un po’ di simpatico battibecco – la più mite V. si risolse a prendere quello di Catozzella (che poi ha vinto il Premio Strega Giovani e che alla fine pare le sia piaciuto molto).
Io ci ho messo un po’ di più a decidermi a prendere in mano questo voluminoso libro, ma alla fine – grazie alla vacanza in bicicletta – l’ho divorato in meno di una decina di giorni.
Solo quando stavo ormai per concluderne la lettura mi sono accorta che il romanzo di Pecoraro ha suscitato un acceso dibattito. Molti critici l’hanno accolto con grande favore, qualcuno ha gridato al capolavoro, ma non sono ovviamente mancate neppure le voci critiche (si veda a titolo esemplificativo qui e qui).
E tutto sommato è stato meglio evitare qualunque tipo di condizionamento. Perché a leggere certe critiche coltissime e capaci di fare appello all’intera storia della letteratura per spiegare il fenomeno Pecoraro avrei poi avuto delle difficoltà a formulare i miei pensieri certamente troppo semplici e banali in merito al volume.
Il primo impatto con questo romanzo non è stato affatto facile; l’ho trovato infatti fortemente respingente dal punto di vista stilistico, cosicché prima di poter seriamente concentrarmi sui contenuti ho dovuto superare un certo fastidio per lo stile. Un uso sovrabbondante di puntini di sospensione, il vezzo di utilizzare in certi casi la & commerciale per unire due concetti, o addirittura la et latina, la presenza di un numero esagerato di maiuscole legato anche alla scelta di non nominare persone o luoghi che in qualche modo si configurino come istituzioni con i loro nomi propri ma con il termine astratto in maiuscolo (Padre, Madre, Città di Dio, Sorella Grande, Storia del Mondo, Peccato Mortale, Città di Mare ecc.).
Una volta accettate – seppure non di buon grado – queste scelte stilistiche, finalmente mi sono fatta trascinare nell’universo profondamente nichilista di Pecoraro. La struttura narrativa del romanzo è accattivante: esso racconta infatti una giornata decisiva della vita di Ivo Brandani (il protagonista ormai quasi settantenne) all’aeroporto di Sharm El-Shaik, in attesa dell’aereo che lo riporterà a Roma. Questa giornata scandita in capitoli i cui titoli fanno riferimento all’ora da cui il racconto riprende è inframmezzata da altri capitoli che raccontano – senza alcun rispetto per l’ordine cronologico – fasi, episodi, situazioni passate della vita di Ivo che a poco a poco ci consentono di farci un’idea di questo personaggio e di ricostruire il puzzle della sua esistenza, senza riuscire veramente a completarlo del tutto.
Sul piano narrativo mi è tornata alla mente La versione di Barney, un flusso di pensieri, di ricordi, di coscienza che inonda le pagine del volume. Rispetto al personaggio di Richler, però, quello di Pecoraro manca di quell’ironia, di quell’approccio scanzonato alla vita che ne illumina anche le pagine più tristi e si prende gioco del politicamente corretto.
La “versione” di Ivo è profondamente cupa, senza via d’uscita per sé, per la società, per l’universo intero, tutti “inesorabilmente” (come Ivo ripete in continuazione quando da ragazzino scopre il significato di questa parola) destinati al declino, alla sconfitta, se non addirittura alla catastrofe.
Ivo è un perdente, sia che provi a ribellarsi al suo destino e ad affrontare le avversità finendone schiacciato e sopraffatto, sia che ne assecondi il flusso rimanendone travolto. Ma la sconfitta di Ivo non è altro che la sconfitta di un’intera generazione che non ha avuto una guerra da combattere e che è cresciuta immatura e contraddittoria. E forse è la sconfitta dell’umanità intera che ha fatto scempio della bellezza, della natura, dell’ordine naturale delle cose nel nome della ricchezza e di un presunto progresso.
In questo percorso di autodistruzione, di cui – come Ivo si rammarica – la sua generazione non vedrà neppure la conclusione, ma solo un logorarsi più o meno rapido del mondo circostante, una parte significativa l’ha svolto il pretestuoso tentativo di dare un significato politico e filosofico alle azioni personali e collettive.
Il racconto degli anni dell’università in pieno Sessantotto richiama alla mente certe pagine del volume vincitore dello Strega, Il desiderio di essere come tutti di Francesco Piccolo, contiene certe stesse componenti di critica e di autocritica relative a una stagione che ha segnato tale generazione. Ma mentre Piccolo tratteggia la possibilità di chiudere con un certo passato e di superare lo snobismo e l’autoreferenzialità di certe forme di pensiero, Pecoraro attraverso Ivo Brandani non lascia spazio ad alcuna illusione, mettendo in connessione i fallimenti di una stagione, di un gruppo di persone, di un certo approccio ideologico con l’immutabilità e la ripetitività della natura umana che in qualche modo produce inevitabilmente determinati esiti nefasti, che si accumulano l’uno sull’altro in una folle corsa verso il baratro.
L’Estate come utopia piuttosto che come stagione - cui Ivo si aggrappa fin da piccolo sperando nella possibilità di un’esistenza alternativa - è solo una parentesi che sta lì a ricordarci che tutto ha una fine.
Un libro potente quello di Pecoraro, illuminante in alcuni passaggi, certamente meno consolatorio di quello di Piccolo, ma assolutamente sconsigliato a chi ha bisogno di un po’ di ottimismo e di speranza per continuare a dare un senso al proprio agire quotidiano.
Voto: 3,5/5
Tutto cominciò il giorno in cui G. mise davanti a me e a V. due libri finalisti del Premio Strega (quello di Catozzella e quello appunto di Pecoraro) e ci disse: “decidete tra voi quale prendervi”. Data una rapida occhiata alla quarta di copertina entrambe volevamo quello di Pecoraro, fino a che – dopo un po’ di simpatico battibecco – la più mite V. si risolse a prendere quello di Catozzella (che poi ha vinto il Premio Strega Giovani e che alla fine pare le sia piaciuto molto).
Io ci ho messo un po’ di più a decidermi a prendere in mano questo voluminoso libro, ma alla fine – grazie alla vacanza in bicicletta – l’ho divorato in meno di una decina di giorni.
Solo quando stavo ormai per concluderne la lettura mi sono accorta che il romanzo di Pecoraro ha suscitato un acceso dibattito. Molti critici l’hanno accolto con grande favore, qualcuno ha gridato al capolavoro, ma non sono ovviamente mancate neppure le voci critiche (si veda a titolo esemplificativo qui e qui).
E tutto sommato è stato meglio evitare qualunque tipo di condizionamento. Perché a leggere certe critiche coltissime e capaci di fare appello all’intera storia della letteratura per spiegare il fenomeno Pecoraro avrei poi avuto delle difficoltà a formulare i miei pensieri certamente troppo semplici e banali in merito al volume.
Il primo impatto con questo romanzo non è stato affatto facile; l’ho trovato infatti fortemente respingente dal punto di vista stilistico, cosicché prima di poter seriamente concentrarmi sui contenuti ho dovuto superare un certo fastidio per lo stile. Un uso sovrabbondante di puntini di sospensione, il vezzo di utilizzare in certi casi la & commerciale per unire due concetti, o addirittura la et latina, la presenza di un numero esagerato di maiuscole legato anche alla scelta di non nominare persone o luoghi che in qualche modo si configurino come istituzioni con i loro nomi propri ma con il termine astratto in maiuscolo (Padre, Madre, Città di Dio, Sorella Grande, Storia del Mondo, Peccato Mortale, Città di Mare ecc.).
Una volta accettate – seppure non di buon grado – queste scelte stilistiche, finalmente mi sono fatta trascinare nell’universo profondamente nichilista di Pecoraro. La struttura narrativa del romanzo è accattivante: esso racconta infatti una giornata decisiva della vita di Ivo Brandani (il protagonista ormai quasi settantenne) all’aeroporto di Sharm El-Shaik, in attesa dell’aereo che lo riporterà a Roma. Questa giornata scandita in capitoli i cui titoli fanno riferimento all’ora da cui il racconto riprende è inframmezzata da altri capitoli che raccontano – senza alcun rispetto per l’ordine cronologico – fasi, episodi, situazioni passate della vita di Ivo che a poco a poco ci consentono di farci un’idea di questo personaggio e di ricostruire il puzzle della sua esistenza, senza riuscire veramente a completarlo del tutto.
Sul piano narrativo mi è tornata alla mente La versione di Barney, un flusso di pensieri, di ricordi, di coscienza che inonda le pagine del volume. Rispetto al personaggio di Richler, però, quello di Pecoraro manca di quell’ironia, di quell’approccio scanzonato alla vita che ne illumina anche le pagine più tristi e si prende gioco del politicamente corretto.
La “versione” di Ivo è profondamente cupa, senza via d’uscita per sé, per la società, per l’universo intero, tutti “inesorabilmente” (come Ivo ripete in continuazione quando da ragazzino scopre il significato di questa parola) destinati al declino, alla sconfitta, se non addirittura alla catastrofe.
Ivo è un perdente, sia che provi a ribellarsi al suo destino e ad affrontare le avversità finendone schiacciato e sopraffatto, sia che ne assecondi il flusso rimanendone travolto. Ma la sconfitta di Ivo non è altro che la sconfitta di un’intera generazione che non ha avuto una guerra da combattere e che è cresciuta immatura e contraddittoria. E forse è la sconfitta dell’umanità intera che ha fatto scempio della bellezza, della natura, dell’ordine naturale delle cose nel nome della ricchezza e di un presunto progresso.
In questo percorso di autodistruzione, di cui – come Ivo si rammarica – la sua generazione non vedrà neppure la conclusione, ma solo un logorarsi più o meno rapido del mondo circostante, una parte significativa l’ha svolto il pretestuoso tentativo di dare un significato politico e filosofico alle azioni personali e collettive.
Il racconto degli anni dell’università in pieno Sessantotto richiama alla mente certe pagine del volume vincitore dello Strega, Il desiderio di essere come tutti di Francesco Piccolo, contiene certe stesse componenti di critica e di autocritica relative a una stagione che ha segnato tale generazione. Ma mentre Piccolo tratteggia la possibilità di chiudere con un certo passato e di superare lo snobismo e l’autoreferenzialità di certe forme di pensiero, Pecoraro attraverso Ivo Brandani non lascia spazio ad alcuna illusione, mettendo in connessione i fallimenti di una stagione, di un gruppo di persone, di un certo approccio ideologico con l’immutabilità e la ripetitività della natura umana che in qualche modo produce inevitabilmente determinati esiti nefasti, che si accumulano l’uno sull’altro in una folle corsa verso il baratro.
L’Estate come utopia piuttosto che come stagione - cui Ivo si aggrappa fin da piccolo sperando nella possibilità di un’esistenza alternativa - è solo una parentesi che sta lì a ricordarci che tutto ha una fine.
Un libro potente quello di Pecoraro, illuminante in alcuni passaggi, certamente meno consolatorio di quello di Piccolo, ma assolutamente sconsigliato a chi ha bisogno di un po’ di ottimismo e di speranza per continuare a dare un senso al proprio agire quotidiano.
Voto: 3,5/5
giovedì 10 luglio 2014
Da Sillian a Maribor in bicicletta
Quest'anno la scelta del nostro ormai tradizionale viaggio in bicicletta è stata piuttosto travagliata, fors'anche perché il poco tempo a disposizione non ci ha consentito di valutare approfonditamente tutte le opzioni a nostra disposizione. Alla fine, per comodità di viaggio, abbiamo scelto di non allontanarci troppo dall'Italia, optando per la ciclabile della Drava da Sillian (Austria) a Maribor (Slovenia).
Il viaggio si è rivelato molto bello, sebbene un po' schizofrenico. Mentre infatti le prime tappe - prevalentemente in pianura - si aggiravano intorno ai 30-40 km con il risultato che arrivavamo all'albergo successivo prima dell'ora di pranzo e poi dovevamo inventarci delle escursioni per occupare la giornata, le ultime - in particolare le ultime due (da Klagenfurt a Lavamünd e da Lavamünd a Maribor) prevedevano percorsi di oltre 75 km con parecchi saliscendi, soprattutto in Slovenia. Ci siamo chieste a che tipo di target si rivolgeva il viaggio in questione, visto che le prime tappe erano certamente adatte a principianti e famiglie, mentre le ultime a cicloturisti esperti, con il risultato di spaventare i primi nella seconda parte e di annoiare i secondi nella prima parte.
In ogni caso, alla fine dei conti abbiamo pedalato per circa 420 km e siamo molto orgogliose di noi stesse e anche di essere riuscite ad affrontare per intero alcune impegnative salite dell'ultima tappa. Ma andiamo per ordine.
Arriviamo a Sillian prendendo una serie di treni, trenini e autobus, devo dire tutti puntualissimi e confortevoli, e qui alloggiamo alla pensione Sprenger (tipica Gasthof di montagna!). La mattina dopo (visto che il pomeriggio precedente il noleggiatore delle bici non c'è) ritiriamo le nostre biciclette e partiamo per la nostra semplicissima prima tappa (Sillian-Lienz, circa 30 km in buona parte in discesa; non a caso la pista è affollatissima!). Per strada ci fermiamo a fare rifornimento allo stabilimento Loacker e i nostri wafer ci accompagneranno per tutta la vacanza.
Arrivate a Lienz, per pedalare ancora un po' torniamo indietro di qualche chilometro per l'escursione alla Galitzenklamm. La Gasthof Falkenstein dove siamo a dormire a Lienz (un po' fuori città) è un birrificio con annesso pub, trattoria e pensione.
La seconda tappa, da Lienz a Dellach, è ancora di 30 km, e per questo decidiamo di fare una deviazione prima al sito archeologico di Aguntum (che però alla fine non visitiamo) e poi al paesino di Irschen, noto per la coltivazione delle erbe officinali. Affrontiamo faticosamente la prima salita del viaggio. Il paese di arrivo, Dellach, è minuscolo e la Gasthof Taurer dove dormiamo è una pensioncina a gestione familiare, ma con stanze rimodernate di recente in stile Ikea.
La terza tappa ci porta da Dellach a Spittal e, rispetto al percorso previsto, decidiamo di aggiungere la variante che ci permette di visitare il Millstatter See, il primo dei numerosi laghi carinziani che vedremo. Facciamo in tutto 50 km. Spittal è un paese che si sviluppa tutta intorno a una strada molto trafficata e - devo dire - ci lascia un po' perplesse. Comunque, facciamo uno spuntino con wurstel e birra prima di raggiungere la nostra Gasthof Edlingerwirt, la sera in cui l'Italia viene indecorosamente buttata fuori dal mondiale. Per fortuna la cena è davvero molto buona.
Da Spittal si spostiamo il giorno dopo verso Villach (circa 40 km) e pedaliamo tutta la mattinata sotto la pioggerellina. Arriviamo belle infangate, visto che la tappa si svolge in buona parte su sterrato. A Villach ci consoliamo con dei dolci austriaci e una bella passeggiata. Approfittando dello spuntare del sole, facciamo una escursione - sempre in bici - all'Ossiacher See (circa 15 a/r) che si rivela una mossa davvero azzeccata. L'hotel di Villach e l'annesso ristorante sono i più eleganti del viaggio e lo si vede dalla sontuosa colazione del mattino!
Ripartiamo da Villach per una quinta tappa che ci dovrebbe portare a Klagenfurt in 40 km. In realtà la pista ciclabile che affianca il Worthersee a nord è interrotta per lavori e dunque dobbiamo tornare indietro e fare il giro lungo la strada a sud per poi tornare a nord a visitare il paesino di
Pörtschach, con le sue ville sul lago. I chilometri totali diventano circa 65.
A Klagenfurt siamo in un buffo albergo, dove siamo circondati dagli Ironmen, ossia i partecipanti a una specie di competizione di triathlon che è in programma in quei giorni.
La città è molto carina con la sua Alter Platz e la sua Neue Platz. Poiché per qualche strano motivo non abbiamo la cena nella pensione, ceniamo alla Gasthaus im Landhaushof, dove mangiamo benissimo e non spendiamo tanto. Qui scopriamo l'abitudine di certa cucina austriaca ad accompagnare alcuni piatti con uno gnocco di pane (una specie di pane ammollato e pressato).
La sesta tappa ci porta da Klagenfurt a Lavamünd dopo 75 km che nella seconda metà - man mano che ci si avvicina alla Slovenia - si fanno piuttosto impegnativi. Questa tappa si presenta molto divertente e avventurosa. Attraversiamo un ponte sotto una ferrovia da cui si pratica il bungee jumping (e devo dire che fa piuttosto paura guardare di sotto), poi passiamo (con bici a mano) per il ponte sospeso di tipo nepalese... Il paesaggio si fa molto vario e più collinare, dopo tante montagne, foreste e fiumi (bellissimi ovviamente). Alla Gasthaus Torwirt di Lavamünd comunchiamo a gesti perché la signora non spiccica una parola di inglese, ma è molto simpatica e il giardino interno dove ceniamo è molto carino.
L'ultima tappa, 80 km da Lavamünd a Maribor, è davvero faticosa con il suo su e giù per le colline della Slovenia. Un paio di volte siamo dovute scendere dalla bici e vi assicuro che abbiamo fatto un sacco di salite resistendo sulla bicicletta! Arriviamo a Maribor piuttosto distrutte e le nostre valigie non sono ancora arrivate. Quindi ci tocca fare una passeggiata prima della doccia! Per fortuna Maribor è carina e la passeggiata risulta piacevole. Siamo all'hotel Orel in pieno centro, anche se per cena ci spediscono all'hotel Piramida.
L'indomani mattina sveglia alle 5,30 per caricare le bici e noi stesse sulla navetta che ci riporterà a Sillian.
Purtroppo la nostra vacanza in bicicletta è finita anche quest'anno, ma già progettiamo di risalire sulle due ruote per qualche viaggio breve nel prossimo autunno!
Il viaggio si è rivelato molto bello, sebbene un po' schizofrenico. Mentre infatti le prime tappe - prevalentemente in pianura - si aggiravano intorno ai 30-40 km con il risultato che arrivavamo all'albergo successivo prima dell'ora di pranzo e poi dovevamo inventarci delle escursioni per occupare la giornata, le ultime - in particolare le ultime due (da Klagenfurt a Lavamünd e da Lavamünd a Maribor) prevedevano percorsi di oltre 75 km con parecchi saliscendi, soprattutto in Slovenia. Ci siamo chieste a che tipo di target si rivolgeva il viaggio in questione, visto che le prime tappe erano certamente adatte a principianti e famiglie, mentre le ultime a cicloturisti esperti, con il risultato di spaventare i primi nella seconda parte e di annoiare i secondi nella prima parte.
In ogni caso, alla fine dei conti abbiamo pedalato per circa 420 km e siamo molto orgogliose di noi stesse e anche di essere riuscite ad affrontare per intero alcune impegnative salite dell'ultima tappa. Ma andiamo per ordine.
Arriviamo a Sillian prendendo una serie di treni, trenini e autobus, devo dire tutti puntualissimi e confortevoli, e qui alloggiamo alla pensione Sprenger (tipica Gasthof di montagna!). La mattina dopo (visto che il pomeriggio precedente il noleggiatore delle bici non c'è) ritiriamo le nostre biciclette e partiamo per la nostra semplicissima prima tappa (Sillian-Lienz, circa 30 km in buona parte in discesa; non a caso la pista è affollatissima!). Per strada ci fermiamo a fare rifornimento allo stabilimento Loacker e i nostri wafer ci accompagneranno per tutta la vacanza.
Arrivate a Lienz, per pedalare ancora un po' torniamo indietro di qualche chilometro per l'escursione alla Galitzenklamm. La Gasthof Falkenstein dove siamo a dormire a Lienz (un po' fuori città) è un birrificio con annesso pub, trattoria e pensione.
La seconda tappa, da Lienz a Dellach, è ancora di 30 km, e per questo decidiamo di fare una deviazione prima al sito archeologico di Aguntum (che però alla fine non visitiamo) e poi al paesino di Irschen, noto per la coltivazione delle erbe officinali. Affrontiamo faticosamente la prima salita del viaggio. Il paese di arrivo, Dellach, è minuscolo e la Gasthof Taurer dove dormiamo è una pensioncina a gestione familiare, ma con stanze rimodernate di recente in stile Ikea.
La terza tappa ci porta da Dellach a Spittal e, rispetto al percorso previsto, decidiamo di aggiungere la variante che ci permette di visitare il Millstatter See, il primo dei numerosi laghi carinziani che vedremo. Facciamo in tutto 50 km. Spittal è un paese che si sviluppa tutta intorno a una strada molto trafficata e - devo dire - ci lascia un po' perplesse. Comunque, facciamo uno spuntino con wurstel e birra prima di raggiungere la nostra Gasthof Edlingerwirt, la sera in cui l'Italia viene indecorosamente buttata fuori dal mondiale. Per fortuna la cena è davvero molto buona.
Da Spittal si spostiamo il giorno dopo verso Villach (circa 40 km) e pedaliamo tutta la mattinata sotto la pioggerellina. Arriviamo belle infangate, visto che la tappa si svolge in buona parte su sterrato. A Villach ci consoliamo con dei dolci austriaci e una bella passeggiata. Approfittando dello spuntare del sole, facciamo una escursione - sempre in bici - all'Ossiacher See (circa 15 a/r) che si rivela una mossa davvero azzeccata. L'hotel di Villach e l'annesso ristorante sono i più eleganti del viaggio e lo si vede dalla sontuosa colazione del mattino!
Ripartiamo da Villach per una quinta tappa che ci dovrebbe portare a Klagenfurt in 40 km. In realtà la pista ciclabile che affianca il Worthersee a nord è interrotta per lavori e dunque dobbiamo tornare indietro e fare il giro lungo la strada a sud per poi tornare a nord a visitare il paesino di
Pörtschach, con le sue ville sul lago. I chilometri totali diventano circa 65.
A Klagenfurt siamo in un buffo albergo, dove siamo circondati dagli Ironmen, ossia i partecipanti a una specie di competizione di triathlon che è in programma in quei giorni.
La città è molto carina con la sua Alter Platz e la sua Neue Platz. Poiché per qualche strano motivo non abbiamo la cena nella pensione, ceniamo alla Gasthaus im Landhaushof, dove mangiamo benissimo e non spendiamo tanto. Qui scopriamo l'abitudine di certa cucina austriaca ad accompagnare alcuni piatti con uno gnocco di pane (una specie di pane ammollato e pressato).
La sesta tappa ci porta da Klagenfurt a Lavamünd dopo 75 km che nella seconda metà - man mano che ci si avvicina alla Slovenia - si fanno piuttosto impegnativi. Questa tappa si presenta molto divertente e avventurosa. Attraversiamo un ponte sotto una ferrovia da cui si pratica il bungee jumping (e devo dire che fa piuttosto paura guardare di sotto), poi passiamo (con bici a mano) per il ponte sospeso di tipo nepalese... Il paesaggio si fa molto vario e più collinare, dopo tante montagne, foreste e fiumi (bellissimi ovviamente). Alla Gasthaus Torwirt di Lavamünd comunchiamo a gesti perché la signora non spiccica una parola di inglese, ma è molto simpatica e il giardino interno dove ceniamo è molto carino.
L'ultima tappa, 80 km da Lavamünd a Maribor, è davvero faticosa con il suo su e giù per le colline della Slovenia. Un paio di volte siamo dovute scendere dalla bici e vi assicuro che abbiamo fatto un sacco di salite resistendo sulla bicicletta! Arriviamo a Maribor piuttosto distrutte e le nostre valigie non sono ancora arrivate. Quindi ci tocca fare una passeggiata prima della doccia! Per fortuna Maribor è carina e la passeggiata risulta piacevole. Siamo all'hotel Orel in pieno centro, anche se per cena ci spediscono all'hotel Piramida.
L'indomani mattina sveglia alle 5,30 per caricare le bici e noi stesse sulla navetta che ci riporterà a Sillian.
Purtroppo la nostra vacanza in bicicletta è finita anche quest'anno, ma già progettiamo di risalire sulle due ruote per qualche viaggio breve nel prossimo autunno!
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martedì 8 luglio 2014
Assassino senza volto / Henning Mankell
Assassino senza volto / Henning Mankell; trad. di Giorgio Puleo. Venezia: Marsilio, 2012
Avevo comprato il libro appositamente per il mio viaggio in Danimarca e Svezia, perché contavo - nei pochi giorni previsti in terra svedese - di riuscire anche a fare una puntatina a Ystad, la città del commissario Wallander.
Purtroppo non sono riuscita a spingermi così a Sud, però un assaggio della Scania l'ho avuto e per questo è stato interessante attraversare le sue strade anche letterariamente nelle pagine del libro di Mankell.
Assassino senza volto è il primo libro della serie di Wallander e si percepisce la distanza temporale che c'è dal momento della sua pubblicazione ad oggi, sebbene alcune tematiche che emergono da questo romanzo siano ancora di stretta attualità.
Interessante il quadro della società svedese che viene fuori da questo poliziesco, in particolare la schiettezza con cui si mette in evidenza la distanza tra l'immagine un po' edulcorata che ne abbiamo, ossia di una società aperta, tollerante e pacifica, con una qualità di vita molto elevata, e una realtà caratterizzata da forti contraddizioni e molti nodi irrisolti.
Dal punto di vista letterario si tratta di un poliziesco classico e abbastanza ben costruito, in cui l'aspetto più importante non è tanto il giallo, quanto l'andamento dell'indagine e il personaggio di Kurt Wallander.
Certo, Wallander non è Adamsberg, e Mankell non è Vargas, ma la lettura è godibile, e come libretto da portarsi in vacanza ci sta tutto.
Voto: 2,5/5
Avevo comprato il libro appositamente per il mio viaggio in Danimarca e Svezia, perché contavo - nei pochi giorni previsti in terra svedese - di riuscire anche a fare una puntatina a Ystad, la città del commissario Wallander.
Purtroppo non sono riuscita a spingermi così a Sud, però un assaggio della Scania l'ho avuto e per questo è stato interessante attraversare le sue strade anche letterariamente nelle pagine del libro di Mankell.
Assassino senza volto è il primo libro della serie di Wallander e si percepisce la distanza temporale che c'è dal momento della sua pubblicazione ad oggi, sebbene alcune tematiche che emergono da questo romanzo siano ancora di stretta attualità.
Interessante il quadro della società svedese che viene fuori da questo poliziesco, in particolare la schiettezza con cui si mette in evidenza la distanza tra l'immagine un po' edulcorata che ne abbiamo, ossia di una società aperta, tollerante e pacifica, con una qualità di vita molto elevata, e una realtà caratterizzata da forti contraddizioni e molti nodi irrisolti.
Dal punto di vista letterario si tratta di un poliziesco classico e abbastanza ben costruito, in cui l'aspetto più importante non è tanto il giallo, quanto l'andamento dell'indagine e il personaggio di Kurt Wallander.
Certo, Wallander non è Adamsberg, e Mankell non è Vargas, ma la lettura è godibile, e come libretto da portarsi in vacanza ci sta tutto.
Voto: 2,5/5
venerdì 4 luglio 2014
L'arte della felicità
Grazie alla rassegna estiva gratuita organizzata dal MAXXI in occasione del 90° anniversario dell'Istituto Luce, riesco finalmente a vedere un film che avevo perso durante l'appena trascorsa stagione cinematografica.
L'arte della felicità mi aveva incuriosito fin dai trailer, per l'originalità del disegno e per l'ambizione del tema raccontato, suggellato dalla frase (utilizzata anche nel trailer): "La tristezza te la danno per poco ma pure la felicità non costa nulla. Allora, tu che scegli?".
Ebbene, devo dire che ho apprezzato il coraggio e l'entusiasmo del fumettista Alessandro Rak - presente in sala - che insieme al produttore e sceneggiatore Luciano Stella si è cimentato in questa impresa cinematografica con un piccolo budget, ottenendo un prodotto di qualità e che ha ottenuto diversi riconoscimenti.
La storia è apparentemente semplice. Sergio fa il tassista, ma ha un passato da musicista insieme al fratello Alfredo, fino a quando quest'ultimo non è partito per l'India ritirandosi in un monastero buddista. Quando Alfredo muore, Sergio deve fare i conti con il lutto e con i ricordi e cercare la propria via per reinserirsi nel flusso della vita.
In questo percorso interiore durante il quale l'anima cupa di Sergio si proietta sul mondo circostante, trasformando Napoli in una città piovosa, scura, piena di immondizia, prossima all'apocalisse, diversi personaggi lo aiuteranno a mettere a posto il puzzle della sua vita: la cantante d'opera Antonia che arriva in lacrime sul suo taxi, il gallerista di un'arte basata sul riciclo, il conduttore radiofonico del programma "L'arte della felicità", una signora anziana con badante, l'amatissimo zio.
La musica che è la ragione di vita di Sergio, accantonata e sommersa dal rancore e dal dolore, invade l'intero film, lo riempie financo in maniera eccessiva, ma certamente suggestiva, soprattutto in combinazione con un tratto grafico essenziale e un po' sporco com'è quello portato sullo schermo da Rak.
Probabilmente il limite del film sta nella sua eccessiva ambizione. Il tema è complesso e soprattutto è pochissimo narrativo, in quanto si sviluppa primariamente nell'anima tormentata di Sergio. Così le immagini cercano di essere evocative, ma non sempre ci riescono; le parole a volte sono eccessive; la musica si fa strabordante.
Comunque, L'arte della felicità è un prodotto certamente originale e genuino, che rompe gli schemi ormai standardizzati dei film di animazione sul grande schermo.
Voto: 3/5
L'arte della felicità mi aveva incuriosito fin dai trailer, per l'originalità del disegno e per l'ambizione del tema raccontato, suggellato dalla frase (utilizzata anche nel trailer): "La tristezza te la danno per poco ma pure la felicità non costa nulla. Allora, tu che scegli?".
Ebbene, devo dire che ho apprezzato il coraggio e l'entusiasmo del fumettista Alessandro Rak - presente in sala - che insieme al produttore e sceneggiatore Luciano Stella si è cimentato in questa impresa cinematografica con un piccolo budget, ottenendo un prodotto di qualità e che ha ottenuto diversi riconoscimenti.
La storia è apparentemente semplice. Sergio fa il tassista, ma ha un passato da musicista insieme al fratello Alfredo, fino a quando quest'ultimo non è partito per l'India ritirandosi in un monastero buddista. Quando Alfredo muore, Sergio deve fare i conti con il lutto e con i ricordi e cercare la propria via per reinserirsi nel flusso della vita.
In questo percorso interiore durante il quale l'anima cupa di Sergio si proietta sul mondo circostante, trasformando Napoli in una città piovosa, scura, piena di immondizia, prossima all'apocalisse, diversi personaggi lo aiuteranno a mettere a posto il puzzle della sua vita: la cantante d'opera Antonia che arriva in lacrime sul suo taxi, il gallerista di un'arte basata sul riciclo, il conduttore radiofonico del programma "L'arte della felicità", una signora anziana con badante, l'amatissimo zio.
La musica che è la ragione di vita di Sergio, accantonata e sommersa dal rancore e dal dolore, invade l'intero film, lo riempie financo in maniera eccessiva, ma certamente suggestiva, soprattutto in combinazione con un tratto grafico essenziale e un po' sporco com'è quello portato sullo schermo da Rak.
Probabilmente il limite del film sta nella sua eccessiva ambizione. Il tema è complesso e soprattutto è pochissimo narrativo, in quanto si sviluppa primariamente nell'anima tormentata di Sergio. Così le immagini cercano di essere evocative, ma non sempre ci riescono; le parole a volte sono eccessive; la musica si fa strabordante.
Comunque, L'arte della felicità è un prodotto certamente originale e genuino, che rompe gli schemi ormai standardizzati dei film di animazione sul grande schermo.
Voto: 3/5
martedì 1 luglio 2014
Alle radici del male / Roberto Costantini
Alle radici del male / Roberto Costantini. Venezia: Marsilio, 2012.
Quando avevo letto qualche anno fa il primo volume della trilogia dedicata al commissario Michele Balistreri, Tu sei il male, ero rimasta folgorata non solo dalla scioltezza della scrittura di Roberto Costantini, ma anche dalla costruzione narrativa del romanzo, capace di unire passato e presente e di intrecciare la vicenda umana e personale del protagonista con quella della storia politica e sociale dell’Italia.
Ebbene, tutte queste caratteristiche della scrittura di Costantini si ritrovano anche nel secondo romanzo della trilogia, Alle radici del male, che – come ci suggerisce il titolo – risale indietro nel tempo e racconta eventi cronologicamente anteriori a quelli trattati nel primo volume.
In Alle radici del male la vicenda si snoda tra la Libia degli anni Sessanta, prima del colpo di stato di Gheddafi, e la Roma dei primi anni Ottanta, non molto dopo i fatti relativi all’assassinio di Elisa Sordi con cui inizia il primo volume.
Scopriamo così che Michele Balistreri ha trascorso tutta la sua infanzia, adolescenza e prima giovinezza a Tripoli, dove la famiglia di suo nonno materno si è trasferita nel dopoguerra. Potremo così scavare non solo nel passato di questo commissario così politicamente scorretto che abbiamo già avuto modo di conoscere con tutti i suoi pregi e difetti nel precedente volume, ma anche nelle trame oscure che la politica italiana ha intessuto negli anni Sessanta per assicurare al nostro paese quelle basi del boom economico che erano indispensabili per costruire il potere politico ed economico di un’intera classe politica e dirigente.
La prima parte del romanzo, quella appunto ambientata a Tripoli e che si conclude con il rientro forzato in Italia degli italiani che lì vivevano dopo il colpo di stato di Gheddafi, è davvero di grande intensità narrativa e ci trasporta potentemente in un paesaggio e in un’epoca lontani dai nostri, ma tratteggiati con grande vividezza. In questa prima parte il giallo è di fatto una scusa per parlare della storia dell’Italia e per far emergere quell’intreccio di potere politico ed economico che continua ad esserne la caratteristica prevalente.
Nella seconda parte, troviamo un Balistreri adulto e disilluso, che quasi suo malgrado deve occuparsi del caso di omicidio di una giovane donna e contemporaneamente proteggere la figlia un po’ scapestrata del suo capo gravemente malato. Mondi e situazioni così lontani si dimostreranno legate da un filo rosso che riporterà Balistreri indietro nel tempo a dipanare misteri rimasti insoluti.
Come il primo volume, anche questo secondo – che pure è ancora più lungo dell’altro – si legge tutto d’un fiato. La lettura è appassionante e ricca di colpi di scena, di intrecci costruiti con sapienza e acume da Costantini, fino al momento in cui tutti gli indizi e i pezzi mancanti si ricompongono dentro un quadro di insieme sorprendente, anche se forse un tantino forzato.
Non voglio dire che il risultato finale non tenga o non sia soddisfacente; registro solo il fatto che probabilmente Costantini di tanto in tanto si lasci prendere un po’ la mano e finisca un po’ per strafare. Al contempo, nonostante l’arguta composizione narrativa che nella seconda parte del volume dà compimento a tutte le premesse della prima metà e riacciuffa anche filoni sviluppati nel primo romanzo, le aspettative suscitate da una prima metà del volume di grande respiro e suggestione risultano in qualche modo tradite o quantomeno parzialmente deluse da una forma di ripiegamento sul personaggio di Balistreri.
La foga distruttiva del Balistreri adolescente che riempie la prima metà del libro allargando lo sguardo dall’intorno familiare alle vicende nazionali coinvolge il lettore in un gioco di identificazione e prese di distanza che resta la componente più appassionante di questo volume.
Voto: 4/5
Quando avevo letto qualche anno fa il primo volume della trilogia dedicata al commissario Michele Balistreri, Tu sei il male, ero rimasta folgorata non solo dalla scioltezza della scrittura di Roberto Costantini, ma anche dalla costruzione narrativa del romanzo, capace di unire passato e presente e di intrecciare la vicenda umana e personale del protagonista con quella della storia politica e sociale dell’Italia.
Ebbene, tutte queste caratteristiche della scrittura di Costantini si ritrovano anche nel secondo romanzo della trilogia, Alle radici del male, che – come ci suggerisce il titolo – risale indietro nel tempo e racconta eventi cronologicamente anteriori a quelli trattati nel primo volume.
In Alle radici del male la vicenda si snoda tra la Libia degli anni Sessanta, prima del colpo di stato di Gheddafi, e la Roma dei primi anni Ottanta, non molto dopo i fatti relativi all’assassinio di Elisa Sordi con cui inizia il primo volume.
Scopriamo così che Michele Balistreri ha trascorso tutta la sua infanzia, adolescenza e prima giovinezza a Tripoli, dove la famiglia di suo nonno materno si è trasferita nel dopoguerra. Potremo così scavare non solo nel passato di questo commissario così politicamente scorretto che abbiamo già avuto modo di conoscere con tutti i suoi pregi e difetti nel precedente volume, ma anche nelle trame oscure che la politica italiana ha intessuto negli anni Sessanta per assicurare al nostro paese quelle basi del boom economico che erano indispensabili per costruire il potere politico ed economico di un’intera classe politica e dirigente.
La prima parte del romanzo, quella appunto ambientata a Tripoli e che si conclude con il rientro forzato in Italia degli italiani che lì vivevano dopo il colpo di stato di Gheddafi, è davvero di grande intensità narrativa e ci trasporta potentemente in un paesaggio e in un’epoca lontani dai nostri, ma tratteggiati con grande vividezza. In questa prima parte il giallo è di fatto una scusa per parlare della storia dell’Italia e per far emergere quell’intreccio di potere politico ed economico che continua ad esserne la caratteristica prevalente.
Nella seconda parte, troviamo un Balistreri adulto e disilluso, che quasi suo malgrado deve occuparsi del caso di omicidio di una giovane donna e contemporaneamente proteggere la figlia un po’ scapestrata del suo capo gravemente malato. Mondi e situazioni così lontani si dimostreranno legate da un filo rosso che riporterà Balistreri indietro nel tempo a dipanare misteri rimasti insoluti.
Come il primo volume, anche questo secondo – che pure è ancora più lungo dell’altro – si legge tutto d’un fiato. La lettura è appassionante e ricca di colpi di scena, di intrecci costruiti con sapienza e acume da Costantini, fino al momento in cui tutti gli indizi e i pezzi mancanti si ricompongono dentro un quadro di insieme sorprendente, anche se forse un tantino forzato.
Non voglio dire che il risultato finale non tenga o non sia soddisfacente; registro solo il fatto che probabilmente Costantini di tanto in tanto si lasci prendere un po’ la mano e finisca un po’ per strafare. Al contempo, nonostante l’arguta composizione narrativa che nella seconda parte del volume dà compimento a tutte le premesse della prima metà e riacciuffa anche filoni sviluppati nel primo romanzo, le aspettative suscitate da una prima metà del volume di grande respiro e suggestione risultano in qualche modo tradite o quantomeno parzialmente deluse da una forma di ripiegamento sul personaggio di Balistreri.
La foga distruttiva del Balistreri adolescente che riempie la prima metà del libro allargando lo sguardo dall’intorno familiare alle vicende nazionali coinvolge il lettore in un gioco di identificazione e prese di distanza che resta la componente più appassionante di questo volume.
Voto: 4/5
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