Nell'ambito dell'ormai tradizionale festival bolognese Gender Bender io e S. andiamo a vedere questo documentario di Nicolò Bassetti che era passato nelle settimane precedenti in un'arena romana senza che io riuscissi a vederlo. Ovviamente vederlo a Bologna, dove il film è stato girato e da dove provengono i protagonisti, è un'altra cosa, tanto più che in sala ci sono tutti: il regista e i quattro ragazzi, Andrea, Nic, Leo e Raffi.
Prima della visione del film, il regista ci spiega che l'idea del film è nata dopo che ha ricevuto una lettera molto intensa da sua figlia, nel momento in cui questa aveva deciso di iniziare un percorso di transizione F to M. È stato per capire questa scelta e per farla capire che Bassetti si è messo in contatto con il Movimento Identità Trans di Bologna, attraverso il quale ha infine preso contatti con i ragazzi che ha seguito per circa quattro anni prima di procedere alla confezione del film.
Nic vive in un casale sui colli bolognesi insieme alla sua compagna, e persegue sia l'obiettivo di completare la transizione con il cambio dei documenti sia quello di abbracciare uno stile di vita a contatto con la natura.
Andrea ama scrivere e non si separa mai dalla sua Olivetti rossa; il suo percorso di transizione passa anche attraverso l'accettazione di un corpo imperfetto.
Leo sta registrando un podcast sull'identità trans, attraverso cui si interroga e interroga i suoi amici sui loro vissuti, al fine di porre domande ma anche dare risposte.
Raffi balla lo swing e costruisce una bicicletta da corsa rosa con cui andare in giro per la città.
Tutti devono fare i conti con un iter burocratico lungo e complesso che segna le tappe della loro transizione, ma la percezione che il film trasmette è che, pur non mancando i momenti difficili e faticosi, questi quattro ragazzi stiano percorrendo in piena libertà e consapevolezza la strada che hanno scelto per sé stessi, e questo regala loro momenti di una felicità e di una pienezza mai provate.
Le loro storie sono in parte simili per quanto riguarda alcuni momenti del loro vissuto (soprattutto infantile e adolescenziale), in parte diverse in virtù delle loro differenti personalità e sensibilità. Tutti cercano un corpo maschile, ma questo interagisce in modi diversi con il proprio orientamento e la sessualità; del resto un corpo nuovo influenza la percezione di sé e anche i propri comportamenti, cosicché il loro è un percorso a ostacoli tra stereotipi che li minacciano su numerosi fronti. Come ci diranno loro stessi al termine della visione, il documentario - com'è inevitabile che sia - fotografa e in un certo senso cristallizza un momento delle loro vite, e può rappresentare solo un momento del percorso e raccontare la verità di quel momento, senza pretendere forme di assolutismo e senza poter ipotecare i percorsi futuri.
Però - come regista e protagonisti tengono a dire - si tratta di una verità e di una realtà che era necessario raccontare. E direi che Nicolò Bassetti riesce a farlo in un modo rispettoso ed equilibrato, e se l'impianto narrativo è sicuramente suo le scelte su cosa mostrare sullo schermo e quanto entrare nel privato di ognuno sono state condivise con i protagonisti.
Il tema - come sappiamo tutti - è di quelli su cui il dibattito è acceso e le posizioni molto polarizzate. Credo però che questo documentario assuma l'atteggiamento giusto, volendo primariamente parlare di persone: da questo racconto emergono tante domande e riflessioni, e forse alcune risposte.
Quello che è certo è che la società e l'essere umano da millenni cercano il migliore compromesso possibile tra la libertà individuale e il sistema costituito, ricerca resa nel tempo persino più complessa dalle possibilità che scienza e tecnica hanno via via messo a disposizione. Le risposte possibili cambiano ed è compito di tutti e di ciascuno provare a comprendere e a immaginare mondi differenti, su questo tema come su molti altri che hanno a che fare con ciò che riguarda la nostra identità e le nostre scelte.
In realtà siamo solo all'inizio di un percorso volto probabilmente a decostruire le categorie in cui finora abbiamo voluto costringere noi stessi e i nostri sentimenti, nella consapevolezza di una complessità che certamente non può avere risposte semplici.
E comunque una cosa è ormai evidente: il documentario sta diventando la forma narrativa più interessante e creativa per i nostri tempi, forse approfittando della relativa mancanza di idee che attanaglia invece la fiction.
Voto: 4/5
mercoledì 28 settembre 2022
lunedì 26 settembre 2022
Margini
Già quando avevo visto da lontano la locandina di Margini avevo riconosciuto la mano di Zerocalcare, e fin da quel momento mi era risultato chiaro il contesto di riferimento di questo film diretto da Niccolò Falsetti e scritto da quest'ultimo insieme a Francesco Turbanti, che a Venezia è stato molto apprezzato e in sala sta ottenendo ottimi riscontri.
Margini è un film ambientato nel 2008 (non ci sono ancora gli smartphone e i lettori di musica digitale si collegano con un jack all'autoradio) e racconta la storia di tre giovani grossetani, Michele (Francesco Turbanti), Edoardo (Emanuele Linfatti) e Iacopo (Matteo Creatini), che fanno musica street punk e sono stati invitati ad aprire a Bologna il concerto dei Defence, una band americana molto famosa nell'ambiente. Quando il concerto bolognese salta, i tre decidono di tentare il colpaccio, invitando i Defence a esibirsi a Grosseto.
L'idea di portare un gruppo punk rock nella profonda provincia toscana si trasformerà in un'avventura non priva di difficoltà, che metterà a rischio l'amicizia tra i tre giovani, nonché gli equilibri già precari delle loro vite personali, ma in un certo senso costringerà ognuno di loro a fare i conti con i propri sogni e con le cose davvero importanti.
La presenza di Zerocalcare (evocato dai tre protagonisti come l'amico romano che gli ha disegnato la locandina del concerto, ma non risponde mai al telefono, e poi presente con un cameo attraverso un messaggio in segreteria telefonica) è perfettamente coerente e consustanziale al tono e ai contenuti del racconto.
Ne viene fuori - in perfetto stile autenticamente toscano - un film dolceamaro, la cui visione fa ridere tanto, ma che a più riprese fa anche pensare. La provincia appare un mondo in cui i sogni fanno fatica a trovare spazio e a decollare se non al prezzo di enormi compromessi e sacrifici personali. Gli adulti sono rassegnati e disillusi, accartocciati nei loro piccoli mondi, ma non cattivi. I giovani appaiono pieni di energia vitale, ma insicuri e infantili. I maschi in particolare (e in questo caso non solo quelli più giovani) sembrano bisognosi di tenersi aggrappati a forme di giocosità per mitigare le responsabilità e le pesantezze della vita adulta.
Ciò detto, i tre protagonisti sono immediati e sinceri, e non possono che creare empatia anche in chi non viene dalla provincia toscana e non frequenta l'ambiente punk rock, ma che si ritroverà a cantare a squarciagola insieme a loro (e a Massimo Ranieri) un liberatorio Se bruciasse la città.
Voto: 3,5/5
Margini è un film ambientato nel 2008 (non ci sono ancora gli smartphone e i lettori di musica digitale si collegano con un jack all'autoradio) e racconta la storia di tre giovani grossetani, Michele (Francesco Turbanti), Edoardo (Emanuele Linfatti) e Iacopo (Matteo Creatini), che fanno musica street punk e sono stati invitati ad aprire a Bologna il concerto dei Defence, una band americana molto famosa nell'ambiente. Quando il concerto bolognese salta, i tre decidono di tentare il colpaccio, invitando i Defence a esibirsi a Grosseto.
L'idea di portare un gruppo punk rock nella profonda provincia toscana si trasformerà in un'avventura non priva di difficoltà, che metterà a rischio l'amicizia tra i tre giovani, nonché gli equilibri già precari delle loro vite personali, ma in un certo senso costringerà ognuno di loro a fare i conti con i propri sogni e con le cose davvero importanti.
La presenza di Zerocalcare (evocato dai tre protagonisti come l'amico romano che gli ha disegnato la locandina del concerto, ma non risponde mai al telefono, e poi presente con un cameo attraverso un messaggio in segreteria telefonica) è perfettamente coerente e consustanziale al tono e ai contenuti del racconto.
Ne viene fuori - in perfetto stile autenticamente toscano - un film dolceamaro, la cui visione fa ridere tanto, ma che a più riprese fa anche pensare. La provincia appare un mondo in cui i sogni fanno fatica a trovare spazio e a decollare se non al prezzo di enormi compromessi e sacrifici personali. Gli adulti sono rassegnati e disillusi, accartocciati nei loro piccoli mondi, ma non cattivi. I giovani appaiono pieni di energia vitale, ma insicuri e infantili. I maschi in particolare (e in questo caso non solo quelli più giovani) sembrano bisognosi di tenersi aggrappati a forme di giocosità per mitigare le responsabilità e le pesantezze della vita adulta.
Ciò detto, i tre protagonisti sono immediati e sinceri, e non possono che creare empatia anche in chi non viene dalla provincia toscana e non frequenta l'ambiente punk rock, ma che si ritroverà a cantare a squarciagola insieme a loro (e a Massimo Ranieri) un liberatorio Se bruciasse la città.
Voto: 3,5/5
mercoledì 21 settembre 2022
Americanah / Chimamanda Ngozi Adichie
Americanah / Chimamanda Ngozi Adichie; trad. di Andrea Sirotti. Torino: Einaudi, 2014.
Dico solo che appena ho terminato di leggere l'ultima pagina e ho chiuso il libro di Chimamanda Ngozi Adichie non ho potuto trattenere le lacrime, frutto di tutte le emozioni che avevo accumulato durante la lettura e che premevano nel petto per uscire: commozione, gioia, empatia, dolore, speranza.
È scontato dunque che vi dica che a me Americanah è piaciuto moltissimo perché non è solo un libro sulle molteplici e insospettabili forme di razzismo che ci portiamo dentro e di cui a volte nemmeno ci rendiamo conto in quanto persone dalla pelle chiara, ma è anche una riflessione sul rapporto con le proprie origini che risuonerà fortissimamente alle orecchie di tutti coloro che sono andati via dalla propria terra, hanno fatto esperienza di mondi e culture diverse e hanno dovuto ridefinire la propria relazione con le radici.
Ifemelu, la protagonista di Americanah, nata e cresciuta in Nigeria in una condizione di relativa tranquillità e benessere, si trasferisce negli Stati Uniti per studiare e lavorare, lasciando in Nigeria il suo fidanzato Obinze con l'idea di ricongiungersi presto e di condividere la vita. Negli Stati Uniti, dopo un periodo complicato e molto doloroso, Ifemelu ottiene una borsa di studio e si garantisce una stabilità economica grazie al successo di un blog dal significativo titolo di "Razzabuglio". Nel frattempo alcuni eventi (su cui preferisco non fare spoiler) hanno spinto la protagonista a interrompere la comunicazione con Obinze, mentre per entrambi altre esperienze - formative e trasformative - sono all'orizzonte. La scelta di Ifemelu di ritornare alle origini significherà anche riannodare i fili mai veramente interrotti con Obinze.
Fondamentalmente quella di Americanah è una storia d'amore, raccontata in maniera non piattamente cronologica, bensì attraverso lunghi flashback che consentono di gettare luce sulle diverse fasi della vita dei due protagonisti, sia nel periodo di vita insieme in Nigeria, sia nei lunghi anni di separazione.
Tuttavia, questa storia d'amore - che pure appassiona anche di per sé stessa - è in realtà quasi un pretesto per raccontare i rapporti tra i neri africani e il mondo occidentale, in particolare gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, con tutte le sfumature che questi rapporti comportano e contengono: la relazione coi bianchi e le sue trappole, anche in ambienti fortemente progressisti, il rapporto con i neri americani e la difficoltà di partecipare dello stesso punto di vista, la condizione di immigrati non già in una condizione estrema (in fuga dalla guerra, dalle epidemie o dalla povertà) ma "semplicemente" alla ricerca di altre opportunità. Chimamanda in questo libro ci ricorda e ci fa riflettere sul fatto che tutto quello che per noi bianchi occidentali è scontato non lo è per coloro che arrivano da determinati posti, soprattutto se hanno la pelle scura.
Ma - come si diceva - non è solo questo, che pure basterebbe a fare di Americanah un grandissimo romanzo. Dentro c'è anche la riflessione su ciò che diventiamo quando facciamo esperienza di altri mondi e sulla difficoltà di trovare un equilibrio tra quello che siamo diventati e il lascito delle nostre radici. Tutti questi sentimenti complessi, spesso difficili da ammettere, Chimamanda riesce a esprimerli in maniera semplice e diretta, riconoscendo anche la vergogna e il senso di colpa quando necessario.
Nel caso di Ifemelu stiamo parlando di una protagonista a cavallo tra due universi molto lontani geograficamente e culturalmente (la Nigeria e gli Stati Uniti), ma chiunque abbia costruito parte del proprio percorso e della propria personalità più o meno lontano dal posto in cui è nato ed è stato educato, quello di cui ha assorbito cultura e mentalità, e di cui porta impressi i segni in mille forme diverse (accento, tratti somatici, modo di vestire ecc.), sa che cosa significa scoprire un mondo altro e parti di sé che non si conoscevano o che si faceva fatica a mettere a fuoco, così come sa quanto è scioccante "vedere" (ossia riconoscere) per la prima volta i limiti del proprio mondo di origine e incontrare cose, persone, situazioni nuove che ci piacciono di più o che comunque ci aiutano ad allargare gli orizzonti. Chi ha vissuto tutto questo sa anche che il rapporto con le radici non può mai essere completamente reciso, e che la vera sfida consiste nella capacità di recuperare tutto quello che in un primo momento probabilmente abbiamo rifiutato per dargli un nuovo significato e valore all'interno di quella persona più complessa - e non necessariamente più risolta - che siamo diventati. Tutto questo è Ifemelu, ed è frutto della capacità della scrittura di Chimamanda di farci provare un'empatia profonda e viscerale con dei protagonisti pur lontanissimi dal nostro vissuto contingente.
E questa è la vera magia della scrittura e della lettura.
Voto: 4/5
Dico solo che appena ho terminato di leggere l'ultima pagina e ho chiuso il libro di Chimamanda Ngozi Adichie non ho potuto trattenere le lacrime, frutto di tutte le emozioni che avevo accumulato durante la lettura e che premevano nel petto per uscire: commozione, gioia, empatia, dolore, speranza.
È scontato dunque che vi dica che a me Americanah è piaciuto moltissimo perché non è solo un libro sulle molteplici e insospettabili forme di razzismo che ci portiamo dentro e di cui a volte nemmeno ci rendiamo conto in quanto persone dalla pelle chiara, ma è anche una riflessione sul rapporto con le proprie origini che risuonerà fortissimamente alle orecchie di tutti coloro che sono andati via dalla propria terra, hanno fatto esperienza di mondi e culture diverse e hanno dovuto ridefinire la propria relazione con le radici.
Ifemelu, la protagonista di Americanah, nata e cresciuta in Nigeria in una condizione di relativa tranquillità e benessere, si trasferisce negli Stati Uniti per studiare e lavorare, lasciando in Nigeria il suo fidanzato Obinze con l'idea di ricongiungersi presto e di condividere la vita. Negli Stati Uniti, dopo un periodo complicato e molto doloroso, Ifemelu ottiene una borsa di studio e si garantisce una stabilità economica grazie al successo di un blog dal significativo titolo di "Razzabuglio". Nel frattempo alcuni eventi (su cui preferisco non fare spoiler) hanno spinto la protagonista a interrompere la comunicazione con Obinze, mentre per entrambi altre esperienze - formative e trasformative - sono all'orizzonte. La scelta di Ifemelu di ritornare alle origini significherà anche riannodare i fili mai veramente interrotti con Obinze.
Fondamentalmente quella di Americanah è una storia d'amore, raccontata in maniera non piattamente cronologica, bensì attraverso lunghi flashback che consentono di gettare luce sulle diverse fasi della vita dei due protagonisti, sia nel periodo di vita insieme in Nigeria, sia nei lunghi anni di separazione.
Tuttavia, questa storia d'amore - che pure appassiona anche di per sé stessa - è in realtà quasi un pretesto per raccontare i rapporti tra i neri africani e il mondo occidentale, in particolare gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, con tutte le sfumature che questi rapporti comportano e contengono: la relazione coi bianchi e le sue trappole, anche in ambienti fortemente progressisti, il rapporto con i neri americani e la difficoltà di partecipare dello stesso punto di vista, la condizione di immigrati non già in una condizione estrema (in fuga dalla guerra, dalle epidemie o dalla povertà) ma "semplicemente" alla ricerca di altre opportunità. Chimamanda in questo libro ci ricorda e ci fa riflettere sul fatto che tutto quello che per noi bianchi occidentali è scontato non lo è per coloro che arrivano da determinati posti, soprattutto se hanno la pelle scura.
Ma - come si diceva - non è solo questo, che pure basterebbe a fare di Americanah un grandissimo romanzo. Dentro c'è anche la riflessione su ciò che diventiamo quando facciamo esperienza di altri mondi e sulla difficoltà di trovare un equilibrio tra quello che siamo diventati e il lascito delle nostre radici. Tutti questi sentimenti complessi, spesso difficili da ammettere, Chimamanda riesce a esprimerli in maniera semplice e diretta, riconoscendo anche la vergogna e il senso di colpa quando necessario.
Nel caso di Ifemelu stiamo parlando di una protagonista a cavallo tra due universi molto lontani geograficamente e culturalmente (la Nigeria e gli Stati Uniti), ma chiunque abbia costruito parte del proprio percorso e della propria personalità più o meno lontano dal posto in cui è nato ed è stato educato, quello di cui ha assorbito cultura e mentalità, e di cui porta impressi i segni in mille forme diverse (accento, tratti somatici, modo di vestire ecc.), sa che cosa significa scoprire un mondo altro e parti di sé che non si conoscevano o che si faceva fatica a mettere a fuoco, così come sa quanto è scioccante "vedere" (ossia riconoscere) per la prima volta i limiti del proprio mondo di origine e incontrare cose, persone, situazioni nuove che ci piacciono di più o che comunque ci aiutano ad allargare gli orizzonti. Chi ha vissuto tutto questo sa anche che il rapporto con le radici non può mai essere completamente reciso, e che la vera sfida consiste nella capacità di recuperare tutto quello che in un primo momento probabilmente abbiamo rifiutato per dargli un nuovo significato e valore all'interno di quella persona più complessa - e non necessariamente più risolta - che siamo diventati. Tutto questo è Ifemelu, ed è frutto della capacità della scrittura di Chimamanda di farci provare un'empatia profonda e viscerale con dei protagonisti pur lontanissimi dal nostro vissuto contingente.
E questa è la vera magia della scrittura e della lettura.
Voto: 4/5
lunedì 19 settembre 2022
Las leonas
Avevo deciso senza esitazione di andare a vedere questo film già quando un bel po' di giorni fa ne avevo visto il trailer. Las leonas è la denominazione di un torneo amatoriale di calciotto (calcio a otto) femminile a carattere internazionale che si svolge a Roma. A partecipare sono squadre formate prevalentemente da immigrate sudamericane, cui si aggiungono donne di altre nazionalità e provenienze, tra cui anche alcune italiane, e la cronaca del torneo è seguita con passione dalla web radio in lingua spagnola Vox Mundi.
Il torneo diventa l'occasione per scoprire il dietro le quinte di queste donne, il loro passato, le vite che conducono, i loro sogni. Ne vengono fuori ritratti sinceri e delicati di persone diverse, ma accomunate da un grande desiderio di riscatto, di cui il calcio rappresenta uno dei veicoli principali.
La gran parte di queste donne lavora come badante, baby sitter o donna delle pulizie (anche se quasi tutte confessano che prima di venire in Italia non avevano alcuna esperienza in questo settore). Alcune hanno figli che spesso devono o hanno dovuto allevare da sole, perché i padri sono scappati via a gambe levate. Altre dichiarano la loro preferenza per partner dello stesso sesso. C'è chi fa 300 km a settimana in bicicletta per andare a lavorare, chi vive in una stanza insieme ad altre donne con cui ha costruito una specie di famiglia allargata. Tutte si portano dietro piccoli e grandi traumi e una fortissima volontà di superare ogni difficoltà. Tutte sono appassionate di calcio, che non riescono ad abbandonare nemmeno quando l'età e i problemi di salute consiglierebbero di lasciar perdere.
Ascoltarle parlare e vederle muoversi sul campo fa capire molte cose, e ci costringe a metterci in discussione, a fare i conti con l'inevitabile senso di superiorità di cui siamo portatori e che flirta pericolosamente con una forma di razzismo.
È chiaro che il documentario di Isabel Achaval e Chiara Bondì è destinato a conquistare il cuore dello spettatore, in quanto capace di trasmettere le emozioni più profonde delle protagoniste: le registe però scelgono di non calcare la mano sul tasto della retorica e di privilegiare la spontaneità e l'immediatezza, che sono forse gli aspetti che più immediatamente colpiscono chi guarda.
E ancora una volta è chiaro che qualunque distanza e separazione tra le persone, tanto più se di provenienze e culture diverse, nasce dalla non conoscenza e dal pregiudizio, dalla precedenza del ruolo rispetto alla persona.
Las leonas è un piccolo ma direi riuscito tentativo di superare le barriere e di aiutare a comprendere, ma anche un omaggio alla tenacia e al coraggio di queste donne che - come sul campo - anche nella vita hanno saputo tener duro sempre e non si sono scoraggiate di fronte alle sconfitte.
A me è venuta voglia di andare a vedere le loro partite, e ho già trovato il contatto giusto ;-)
Voto: 3,5/5
Il torneo diventa l'occasione per scoprire il dietro le quinte di queste donne, il loro passato, le vite che conducono, i loro sogni. Ne vengono fuori ritratti sinceri e delicati di persone diverse, ma accomunate da un grande desiderio di riscatto, di cui il calcio rappresenta uno dei veicoli principali.
La gran parte di queste donne lavora come badante, baby sitter o donna delle pulizie (anche se quasi tutte confessano che prima di venire in Italia non avevano alcuna esperienza in questo settore). Alcune hanno figli che spesso devono o hanno dovuto allevare da sole, perché i padri sono scappati via a gambe levate. Altre dichiarano la loro preferenza per partner dello stesso sesso. C'è chi fa 300 km a settimana in bicicletta per andare a lavorare, chi vive in una stanza insieme ad altre donne con cui ha costruito una specie di famiglia allargata. Tutte si portano dietro piccoli e grandi traumi e una fortissima volontà di superare ogni difficoltà. Tutte sono appassionate di calcio, che non riescono ad abbandonare nemmeno quando l'età e i problemi di salute consiglierebbero di lasciar perdere.
Ascoltarle parlare e vederle muoversi sul campo fa capire molte cose, e ci costringe a metterci in discussione, a fare i conti con l'inevitabile senso di superiorità di cui siamo portatori e che flirta pericolosamente con una forma di razzismo.
È chiaro che il documentario di Isabel Achaval e Chiara Bondì è destinato a conquistare il cuore dello spettatore, in quanto capace di trasmettere le emozioni più profonde delle protagoniste: le registe però scelgono di non calcare la mano sul tasto della retorica e di privilegiare la spontaneità e l'immediatezza, che sono forse gli aspetti che più immediatamente colpiscono chi guarda.
E ancora una volta è chiaro che qualunque distanza e separazione tra le persone, tanto più se di provenienze e culture diverse, nasce dalla non conoscenza e dal pregiudizio, dalla precedenza del ruolo rispetto alla persona.
Las leonas è un piccolo ma direi riuscito tentativo di superare le barriere e di aiutare a comprendere, ma anche un omaggio alla tenacia e al coraggio di queste donne che - come sul campo - anche nella vita hanno saputo tener duro sempre e non si sono scoraggiate di fronte alle sconfitte.
A me è venuta voglia di andare a vedere le loro partite, e ho già trovato il contatto giusto ;-)
Voto: 3,5/5
venerdì 16 settembre 2022
Le favolose
Colgo al volo l'invito della crew del mio salone di parrucchieri RiccioCapriccio - che da poco ha aperto una sede a San Lorenzo - di andare a vedere in gruppo al cinema di quartiere Tibur la proiezione dell'ultimo film di Roberta Torre, Le favolose. L'atmosfera in sala è davvero particolare: oltre una cinquantina di persone, molte delle quali si conoscono e ruotano intorno alla mitica Alessandra detta "la Pucci" di RiccioCapriccio, che ridono e talvolta commentano persino ad alta voce. Una vera e propria esperienza di visione collettiva.
Il film di Roberta Torre si presta particolarmente a questa esperienza.
Le protagoniste sono un gruppo di donne trans, non più giovanissime, alcune molto conosciute perché impegnate da anni sulla scena dei movimenti per i diritti delle persone trans, in particolare Porpora Marcasciano e Nicole De Leo, che si incontrano in una villa semi-abbandonata per leggere la lettera - ritrovata a distanza di tempo - di una loro amica morta che lì ha scritto le sue ultime volontà, del tutto disattese dalla famiglia.
Intorno a questo espediente narrativo, invero piuttosto esile, la regista costruisce una storia che è un po' finzione, un po' favola e un po' documentario. Da un lato ci sono le storie individuali, fatte di dolori, gioie, battaglie, scelte libere e altre imposte, violenze e tenerezze, dall'altro ci sono le interazioni all'interno del gruppo, fatte di profondità, rancori, competizioni, solidarietà e condivisione. Poi c'è il mondo esterno, che appare ostile, o nella migliore delle ipotesi estraneo e almeno parzialmente incapace di capire.
Il tutto è immerso dentro una cornice che è fatta di immagini sgranate e desaturate ad arte che si mescolano con homevideo provenienti da un passato più o meno lontano, immagini dentro le quali Porpora, Nicole, Sofia, Veet, Mizia, e poi anche Antonia e Massimina si muovono danzando e mostrando i loro corpi invecchiati ma aggraziati.
Sul piano cinematografico quello di Roberta Torre è un film piuttosto strano, difficilmente classificabile, e personalmente mi ha lasciata un po' perplessa. Però, la scelta di dare spazio e voce a queste donne - lasciando in questo modo anche una testimonianza - in una fase avanzata della loro vita nella quale ancora la loro identità viene negata, cancellata e non riconosciuta, e la loro esistenza - insieme ai loro corpi che ancora costituiscono motivo di scandalo e imbarazzo - è portato all'attenzione dello spettatore con grande naturalezza e giocosità, costituisce di per sé stessa un motivo sufficiente per andare a vedere questo film.
Voto: 3/5
Il film di Roberta Torre si presta particolarmente a questa esperienza.
Le protagoniste sono un gruppo di donne trans, non più giovanissime, alcune molto conosciute perché impegnate da anni sulla scena dei movimenti per i diritti delle persone trans, in particolare Porpora Marcasciano e Nicole De Leo, che si incontrano in una villa semi-abbandonata per leggere la lettera - ritrovata a distanza di tempo - di una loro amica morta che lì ha scritto le sue ultime volontà, del tutto disattese dalla famiglia.
Intorno a questo espediente narrativo, invero piuttosto esile, la regista costruisce una storia che è un po' finzione, un po' favola e un po' documentario. Da un lato ci sono le storie individuali, fatte di dolori, gioie, battaglie, scelte libere e altre imposte, violenze e tenerezze, dall'altro ci sono le interazioni all'interno del gruppo, fatte di profondità, rancori, competizioni, solidarietà e condivisione. Poi c'è il mondo esterno, che appare ostile, o nella migliore delle ipotesi estraneo e almeno parzialmente incapace di capire.
Il tutto è immerso dentro una cornice che è fatta di immagini sgranate e desaturate ad arte che si mescolano con homevideo provenienti da un passato più o meno lontano, immagini dentro le quali Porpora, Nicole, Sofia, Veet, Mizia, e poi anche Antonia e Massimina si muovono danzando e mostrando i loro corpi invecchiati ma aggraziati.
Sul piano cinematografico quello di Roberta Torre è un film piuttosto strano, difficilmente classificabile, e personalmente mi ha lasciata un po' perplessa. Però, la scelta di dare spazio e voce a queste donne - lasciando in questo modo anche una testimonianza - in una fase avanzata della loro vita nella quale ancora la loro identità viene negata, cancellata e non riconosciuta, e la loro esistenza - insieme ai loro corpi che ancora costituiscono motivo di scandalo e imbarazzo - è portato all'attenzione dello spettatore con grande naturalezza e giocosità, costituisce di per sé stessa un motivo sufficiente per andare a vedere questo film.
Voto: 3/5
mercoledì 14 settembre 2022
Fire of love
Katia e Maurice Krafft erano due scienziati francesi, lei geochimica, lui geologo, grandissimi appassionati di vulcani, che avevano amato fin da bambini e il cui studio avevano approfondito durante il percorso all'Università di Strasburgo, dove si erano conosciuti e innamorati. In viaggio di nozze andarono a Santorini, e da quel momento insieme studiarono da vicino tantissimi vulcani ed eruzioni in ogni parte del mondo, documentandole con fotografie e riprese video, che spesso diventavano libri e documentari.
Pur essendo due scienziati un po' anarchici e certamente allergici all'approccio accademico, grazie alla loro passione e competenza, nonché a un certo grado di spericolatezza, i Krafft riuscirono più di chiunque altro ad avvicinarsi ai fenomeni vulcanici, fornendo una quantità di dati e documentazione senza eguali. Pur guardati inizialmente con sospetto dalla comunità scientifica, furono poi apprezzati per i loro studi e contribuirono in maniera significativa a sensibilizzare governi e amministrazioni sull'importanza delle azioni da compiere rapidamente per evitare le conseguenze disastrose delle eruzioni rispetto alle vite umane. Fu poi uno di questi vulcani, in Giappone, a ucciderli, ma i Krafft erano perfettamente consapevoli di rischiare la morte con il loro lavoro e ciononostante il desiderio di conoscere e l'interesse per i vulcani li spingeva sempre oltre.
La regista Sara Dosa costruisce il racconto parallelo e in qualche modo intersecato di un duplice amore, quello tra Katia e Maurice e quello dei due per i vulcani, racconto reso appassionante non solo dalla straordinaria energia vitale dei protagonisti, ma dalla confezione del film, che si avvale dell'originale montaggio realizzato da Erin Casper e Jocelyne Chaput, delle belle animazioni in stop motion e di una colonna sonora varia e a tratti sorprendente. Le riprese di home video che raccontano i Krafft in momenti più familiari, i video delle loro interviste in televisione e delle loro partecipazioni a convegni e seminari si mescolano alle riprese dei fenomeni vulcanici, trasmettendo il senso di una vita vissuta al limite ma certamente piena di passione.
Le immagini sono straordinarie, si ride, si imparano delle cose, e si conosce una storia - almeno per me - poco nota, che suscita riflessioni e pensieri e non lascia indifferenti rispetto all'eterno interrogativo dell'essere umano sul significato della vita e sulla paura della morte.
Cosa volere di più da un film - in fondo piccolo - come questo?
Voto: 3,5/5
Pur essendo due scienziati un po' anarchici e certamente allergici all'approccio accademico, grazie alla loro passione e competenza, nonché a un certo grado di spericolatezza, i Krafft riuscirono più di chiunque altro ad avvicinarsi ai fenomeni vulcanici, fornendo una quantità di dati e documentazione senza eguali. Pur guardati inizialmente con sospetto dalla comunità scientifica, furono poi apprezzati per i loro studi e contribuirono in maniera significativa a sensibilizzare governi e amministrazioni sull'importanza delle azioni da compiere rapidamente per evitare le conseguenze disastrose delle eruzioni rispetto alle vite umane. Fu poi uno di questi vulcani, in Giappone, a ucciderli, ma i Krafft erano perfettamente consapevoli di rischiare la morte con il loro lavoro e ciononostante il desiderio di conoscere e l'interesse per i vulcani li spingeva sempre oltre.
La regista Sara Dosa costruisce il racconto parallelo e in qualche modo intersecato di un duplice amore, quello tra Katia e Maurice e quello dei due per i vulcani, racconto reso appassionante non solo dalla straordinaria energia vitale dei protagonisti, ma dalla confezione del film, che si avvale dell'originale montaggio realizzato da Erin Casper e Jocelyne Chaput, delle belle animazioni in stop motion e di una colonna sonora varia e a tratti sorprendente. Le riprese di home video che raccontano i Krafft in momenti più familiari, i video delle loro interviste in televisione e delle loro partecipazioni a convegni e seminari si mescolano alle riprese dei fenomeni vulcanici, trasmettendo il senso di una vita vissuta al limite ma certamente piena di passione.
Le immagini sono straordinarie, si ride, si imparano delle cose, e si conosce una storia - almeno per me - poco nota, che suscita riflessioni e pensieri e non lascia indifferenti rispetto all'eterno interrogativo dell'essere umano sul significato della vita e sulla paura della morte.
Cosa volere di più da un film - in fondo piccolo - come questo?
Voto: 3,5/5
lunedì 12 settembre 2022
Tra mare, case-torri e montagne: la Grecia del Mani (Seconda parte)
Leggi qui la prima parte del racconto di viaggio.
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I posti da visitare
È chiaro che non si va nel Mani per fare turismo culturale in senso stretto. E noi nello specifico ci siamo venute soprattutto per fare vacanza di mare. Abbiamo visto sulle guide che avremmo potuto fare qualche escursione in più o visitare qualcosa in più, ma già così abbiamo avuto appena il tempo di farci un’idea complessiva della costa di questa bellissima penisola.
Comunque, chi va nel Mani certamente non potrà saltare la visita al paesino abbandonato di Vathia, fatto tutto di case torri e case in pietra, che si incontra abbastanza facilmente andando verso Porto Kagio. Ci sono segni del tentativo di ristrutturare e ripopolare il villaggio, ma a parte un b&b tra le case diroccate e una taverna nella parte alta del paese, al di là della strada da cui si arriva, tutto il resto dà l’idea di essere completamente abbandonato. Qui a Vathia ne abbiamo fatto una delle nostre: abbiamo imboccato una stradina piccolissima in salita che pensavamo portasse nel centro del paese e che invece finiva con un cancello in un punto strettissimo. Ho dovuto fare una delle mie manovre salvavita sullo strapiombo per girare la macchina e scendere. Poi tornate giù e proseguendo la strada ci siamo accorte che la strada asfaltata che stavamo percorrendo portava a un comodo ingresso al paese con tanto di bar/ristorante.
Un altro posto molto bello che abbiamo visitato in coda alla nostra vacanza, sulla strada del ritorno verso Atene, è Mistra, una città-stato bizantina che si sviluppa su un fianco del monte Taigeto, alle spalle di Sparta. Preparatevi a una bella scarpinata per le strade di sassi che si inerpicano in salita verso le chiese bizantine affrescate, il palazzo e il castello in cima (dove noi non siamo arrivate, distrutte dalla fatica e dal caldo). Un’esperienza che comunque vale la pena di fare e che ci ha permesso anche di vedere all’interno diverse chiese bizantine, cosa praticamente impossibile in quasi tutte le chiese – pur numerose – incontrate lungo la strada ma praticamente sempre chiuse.
A livello di paesi, molti viaggiatori consigliano vere e proprie visite di Areopoli, di Gerolimenas e di Porto Kagio. Diciamo che la prima merita una passeggiata in centro, anche se si tratta di un centro ormai quasi interamente turisticizzato per quanto molto bello; gli altri due sono paesini davvero piccolissimi per i quali non penso si possa davvero parlare di una visita in senso stretto. Dunque, per quanto mi riguarda, al massimo suggerisco una sosta per un pranzo o una cena in una delle numerose taverne che le popolano, e che comunque noi non abbiamo provato.
Vathia |
I posti da visitare
È chiaro che non si va nel Mani per fare turismo culturale in senso stretto. E noi nello specifico ci siamo venute soprattutto per fare vacanza di mare. Abbiamo visto sulle guide che avremmo potuto fare qualche escursione in più o visitare qualcosa in più, ma già così abbiamo avuto appena il tempo di farci un’idea complessiva della costa di questa bellissima penisola.
Comunque, chi va nel Mani certamente non potrà saltare la visita al paesino abbandonato di Vathia, fatto tutto di case torri e case in pietra, che si incontra abbastanza facilmente andando verso Porto Kagio. Ci sono segni del tentativo di ristrutturare e ripopolare il villaggio, ma a parte un b&b tra le case diroccate e una taverna nella parte alta del paese, al di là della strada da cui si arriva, tutto il resto dà l’idea di essere completamente abbandonato. Qui a Vathia ne abbiamo fatto una delle nostre: abbiamo imboccato una stradina piccolissima in salita che pensavamo portasse nel centro del paese e che invece finiva con un cancello in un punto strettissimo. Ho dovuto fare una delle mie manovre salvavita sullo strapiombo per girare la macchina e scendere. Poi tornate giù e proseguendo la strada ci siamo accorte che la strada asfaltata che stavamo percorrendo portava a un comodo ingresso al paese con tanto di bar/ristorante.
Mistra |
A livello di paesi, molti viaggiatori consigliano vere e proprie visite di Areopoli, di Gerolimenas e di Porto Kagio. Diciamo che la prima merita una passeggiata in centro, anche se si tratta di un centro ormai quasi interamente turisticizzato per quanto molto bello; gli altri due sono paesini davvero piccolissimi per i quali non penso si possa davvero parlare di una visita in senso stretto. Dunque, per quanto mi riguarda, al massimo suggerisco una sosta per un pranzo o una cena in una delle numerose taverne che le popolano, e che comunque noi non abbiamo provato.
Limeni |
Il mare e le spiagge
Ma eccoci al pezzo forte della nostra vacanza: il mare e le spiagge.
La nostra esplorazione delle spiagge del Mani procede per zone, giorno dopo giorno. Dopo questa settimana di esplorazioni abbiamo la nostra personale classifica e le nostre preferenze.
Come già accennato, molto vicino a dove siamo abbiamo la bellissima baia su cui si affacciano Karavostasi, Neo Itilo e Limeni. La parte di Neo Itilo è quella attrezzata con ombrelloni, perché ha un tratto di spiaggia di sabbia, ma a noi interessa poco. Nella parte di Karavostasi ci andiamo una sera a cena ed è l’unica volta in cui riusciamo a vedere le tartarughe marine che popolano questa baia e che forse di giorno stanno un po’ più nascoste.
A Limeni ci andiamo a fare il bagno un tardo pomeriggio: il paesino è tutto ristrutturatissimo e la gran parte delle costruzioni sono state trasformate in strutture ricettive o ristoranti, che si affacciano direttamente sul mare, senza una vera e propria spiaggia sottostante. Il mare è molto bello, e da questa parte della baia si vedono dei tramonti di grande impatto, ma per noi questa zona risulta un po’ troppo leccata e modaiola, cosa confermata dal numero di boutique hotel che si incontrano (e che dal nostro punto di vista sono una vera aberrazione: un conto è ristrutturare e valorizzare le strutture presenti, un conto voler a tutti i costi inseguire delle mode che secondo me non sono in linea con il territorio! Per approfondire questo tema si legga questo interessante articolo).
Verso sud esploriamo prima la zona di spiagge che si sviluppa prima del punto in cui la penisola si strozza (e dove si trovano le spiagge di Marmari). In questa parte troviamo la nostra prima vera oasi di pace e bellezza, che è la baia di Mezapos, dove apprezziamo sia la spiaggia di Kato Mezapos (sebbene con un po’ di persone), sia la zona di scogli che si raggiunge dal piccolo sentiero che parte dalla spiaggia di Kato Mezapos, passa davanti alla chiesetta e poi gira intorno al promontorio fino a una zona dove si aprono delle vere e proprie piscine naturali sotto la scogliera coperta di piante di capperi e di fichi d’india. Un posto magico e bellissimo, dove non a caso torneremo per il nostro ultimo giorno di mare di questa vacanza.
Scendendo ancora più a sud arriviamo fino a Gerolimenas che si trova in una baia con alte scogliere ma è un paese troppo turistico per i nostri gusti e così proseguiamo alla ricerca della Almyros bay. Seguiamo le indicazioni di una freccia che indica una spiaggia non meglio identificata, e dopo una decina di minuti di cammino arriviamo quasi al tramonto in una grande spiaggia di ciottoli non attrezzata (con una specie di grande grotta in fondo) che è bella ma non è il tipo di location che preferiamo (e cmq scopriremo che non è la Almyros beach). Facciamo un bagno in un’acqua comunque limpidissima e torniamo a casa.
Il giorno dopo andiamo verso Kardamili (che si trova a nord-est di dove siamo noi) ed esploriamo la parte di costa che si sviluppa tra Areopoli e Kardamili: la strada che si percorre è molto bella e panoramica e attraversa molti paesini. A un certo punto cominciamo a incontrare diverse baie e ci fermiamo a Foneas beach, una spiaggia di ciottoli bellissima con un grande scoglio al centro. C’è parecchia gente anche perché alle spalle della spiaggia c’è un chiosco dove si può mangiare e bere, nonché una doccia di acqua dolce sulla spiaggia. Qui ci fermiamo quasi tutto il giorno. Tornando verso casa nel tardo pomeriggio passiamo a vedere la spiaggia di Delfinia ma decidiamo di non scendere (anche se non si può certo dire sia brutta).
Il giorno seguente la nostra destinazione è la costa est del Mani che non abbiamo ancora esplorato. Saliamo in macchina fino alla spiaggia di Vathì (poco a nord di Skoutari) ma non ci piace granché. Un po’ troppo grande e anonima. Ridiscendendo lungo la costa ci fermiamo alla baia di Skoutari, dove passiamo qualche ora nella spiaggia di sabbia sotto la scogliera. Bella e abbastanza tranquilla anche se ci sono un po' troppi bambini per i miei gusti. Nell’altro pezzo di costa a seguire quello dove siamo noi c’è la spiaggia attrezzata e anche una bella taverna dove però ci limitiamo a prendere un freddo cappuccino. Proseguiamo verso Kotronas e poi Kokkala, attraversando paesi più o meno piccoli e parzialmente sgarrupati, dove solo una parte piccola delle case torri sono state ristrutturate mentre altre sono cadenti o distrutte. Ci fermiamo a dare un occhio alla spiaggia di Kokkala, a quella di Agios Kiprianos (che hanno strutture molto simili: spiagge di sassi su cui si affacciano casette in pietra). Noi però proseguiamo fino ad Ampelos beach (cui si arriva dopo un breve sterrato), una spiaggia di sassi semi attrezzata in un contesto davvero fantastico. Ci mettiamo sotto gli alberi, facciamo il bagno e lì rimaniamo fino a sera.
Un altro giorno andiamo verso Porto Kagio, ma prima di arrivarci vediamo dall’alto una spiaggia che attira subito la nostra attenzione. Scopriamo che si tratta della Sarolimenas beach, bellissima e con davvero poca gente. Sassi, mare smeraldo, grotte, posti per tuffarsi, aria. Si sta da dio.
Andando più a sud nel tardo pomeriggio arriviamo fino a Marmari e a Porto Kagio, che sono ai due lati opposti della strozzatura della penisola. Qui il paesaggio e i panorami sulla costa sono davvero notevoli. Sembra di stare su un’isola, perché da qualunque parte si guardi si aprono baie e si vede il mare. Le due spiagge nerastre di Marmari le vediamo solo da lontano e non ci attirano molto; scendiamo invece a Porto Kagio (qui le strade cominciano a diventare un pochino più ansiogene perché sono strette e senza guardrail, anche se sono quasi sempre del tutto asfaltate), ma non ci fermiamo. Facciamo solo una breve passeggiata sulla spiaggia dove c’è una sequenza di taverne affacciate direttamente sulla baia.
Il giorno in cui si prevede una temperatura più accettabile decidiamo di fare l'escursione al faro di Capo Tenaro, che tutte le guide consigliano. La strada per arrivarci si fa via via sempre più piccola e a strapiombo ma quando arriviamo nella baia da cui parte il sentiero per il faro il panorama ripaga di tutto. Scendiamo alla piccola spiaggia poi costeggiamo la baia, vediamo i resti archeologici con gli annessi mosaici e poi saliamo sulla collina, attraversando questa stretta lingua di terra dove abbiamo a destra e a sinistra le due coste del Mani. A dx c'è vento e mare aperto, a sx mare di tutte le gamme del blu, calmo e spettacolare.
Ma eccoci al pezzo forte della nostra vacanza: il mare e le spiagge.
La nostra esplorazione delle spiagge del Mani procede per zone, giorno dopo giorno. Dopo questa settimana di esplorazioni abbiamo la nostra personale classifica e le nostre preferenze.
Come già accennato, molto vicino a dove siamo abbiamo la bellissima baia su cui si affacciano Karavostasi, Neo Itilo e Limeni. La parte di Neo Itilo è quella attrezzata con ombrelloni, perché ha un tratto di spiaggia di sabbia, ma a noi interessa poco. Nella parte di Karavostasi ci andiamo una sera a cena ed è l’unica volta in cui riusciamo a vedere le tartarughe marine che popolano questa baia e che forse di giorno stanno un po’ più nascoste.
Kato Mezapos |
La costa nord est del Mani |
Scendendo ancora più a sud arriviamo fino a Gerolimenas che si trova in una baia con alte scogliere ma è un paese troppo turistico per i nostri gusti e così proseguiamo alla ricerca della Almyros bay. Seguiamo le indicazioni di una freccia che indica una spiaggia non meglio identificata, e dopo una decina di minuti di cammino arriviamo quasi al tramonto in una grande spiaggia di ciottoli non attrezzata (con una specie di grande grotta in fondo) che è bella ma non è il tipo di location che preferiamo (e cmq scopriremo che non è la Almyros beach). Facciamo un bagno in un’acqua comunque limpidissima e torniamo a casa.
Agios Kiprianos |
Sarolimenas |
Verso Porto Kagio |
Andando più a sud nel tardo pomeriggio arriviamo fino a Marmari e a Porto Kagio, che sono ai due lati opposti della strozzatura della penisola. Qui il paesaggio e i panorami sulla costa sono davvero notevoli. Sembra di stare su un’isola, perché da qualunque parte si guardi si aprono baie e si vede il mare. Le due spiagge nerastre di Marmari le vediamo solo da lontano e non ci attirano molto; scendiamo invece a Porto Kagio (qui le strade cominciano a diventare un pochino più ansiogene perché sono strette e senza guardrail, anche se sono quasi sempre del tutto asfaltate), ma non ci fermiamo. Facciamo solo una breve passeggiata sulla spiaggia dove c’è una sequenza di taverne affacciate direttamente sulla baia.
Escursione a Capo Tenaro |
A Capo Tenaro |
La parte più meridionale del Mani |
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Le montagne del Mani |
Il Mani ci è piaciuto molto e per quanto ci riguarda era proprio quello che cercavamo quest’anno. Abbiamo amato molto l’interno (e la nostra casetta nel borgo sperduto tra le montagne) e abbiamo goduto di un mare meraviglioso su spiagge in contesti bellissimi e semideserte. Peccato per un processo di turisticizzazione che probabilmente sta trasformando questa penisola da luogo sperduto e incontaminato (e meta di nicchia) in una destinazione popolare e sempre più gettonata. I segnali ci sono già tutti. Del resto – mi dico – non credo ci siano ormai molti posti nel mondo davvero fuori dai giri turistici di massa, a meno che non si tratti di posti raggiungibili in maniera davvero complessa e faticosa. Per come l’abbiamo visto e vissuto noi, il Mani offre comunque ancora tanti spazi di solitudine e tranquillità e tanto mare da poter godere nel silenzio e nella pace di spiagge non attrezzate e acque cristalline. Non mi pare poco.
La Grecia mi era mancata. A presto.
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Per una selezione più ampia di foto si veda qui e qui sul mio profilo Behance.
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venerdì 9 settembre 2022
Tra mare, case-torri e montagne: la Grecia del Mani (con breve tappa ateniese) (Prima parte)
Mani: il paesino semidisabitato di Krioneri |
Avevamo considerato varie isole, ma alla fine S. era venuta fuori con una proposta continentale, ma non troppo, la penisola del Mani, il “dito medio” del Peloponneso. Ce ne avevano parlato in maniera non troppo entusiastica anni fa degli amici, ma leggendo qua e là nei blog dei viaggiatori e sulle guide di viaggio ci siamo convinte che il Mani era proprio quello che stavamo cercando.
Il paesino di Itilo |
Aspetti organizzativi
La nostra vacanza è durata 9 giorni (viaggio A/R compreso) e il tutto si è svolto la settimana prima di ferragosto. Abbiamo volato con ITA airways da Roma Fiumicino ad Atene (morendo di freddo all’andata per l’aria condizionata troppo alta su un aereo enorme che portava centinaia di turisti in vacanza).
Ad Atene ci siamo fermate una notte (alloggiando a Marble House, un hotel molto spartano senza colazione, che però è in una posizione comodissima sia rispetto alla metropolitana che rispetto all’Acropoli che era l’obiettivo della nostra permanenza in città).
Il paesino di Limeni |
Nel Mani abbiamo alla fine scelto di alloggiare sempre nello stesso posto, perché ci è sembrato che le distanze fossero gestibili in macchina e perché ritenevamo più rilassante dopo alcuni viaggi itineranti poter disfare le valigie in una casa e non doverle rifare fino all’ultimo giorno.
Abbiamo alloggiato in una casa di pietra nel villaggio di Krioneri, un posto piccolissimo (dove avremo visto in tutto una ventina di persona aggirarsi e dove non c’è praticamente alcun tipo di servizio).
La casa di Katerina ed Eleni (madre e figlia) si è rivelata molto bella e funzionale (camera, cucina e bagno, nonché un grande giardino e una terrazza con vista sulle montagne da cui abbiamo guardato la luna sorgere diversi giorni di seguito). Per noi si è trattato di una sistemazione perfetta, il posto di pace che cercavamo, lontane dalla “pazza folla” con cui abbiamo a che fare durante tutto l’anno, ma è chiaro che dipende da quello che si cerca.
In macchina da Krioneri in 5-10 minuti si arriva al paese di Itilo (dove c’è una taverna che abbiamo apprezzato molto) nonché alla baia sottostante, quella dove si affacciano Karavostasi, Neo Itilio e la più turistica Limeni. In 20 minuti si arriva ad Areopoli, il centro più grande del Mani, dove ci sono praticamente tutti i servizi, ma che per noi risultava fin troppo caotico e affollato (pur essendo di fatto un paesino).
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Atene e l’Acropoli
Ad Atene – come detto – la nostra meta è l’Acropoli ma visto che abbiamo una serata e una mezza giornata approfittiamo anche per provare alcuni dei posti dove mangiare che ci ha consigliato la nostra amica A.
La prima sera mangiamo da Annie Fine Cooking, un posto piccolo e molto bello (raggiungibile a piedi dal nostro albergo) dove c’è una chef molto giovane che fa cucina greca rivisitata, strizzando un po’ l’occhio a un gusto globalizzato. I prezzi sono quelli di un posto figo di una capitale europea (quindi non greci per come noi li immaginiamo), ma alla fine l’esperienza per noi è molto interessante e usciamo molto soddisfatte. Per il pranzo del giorno dopo alcuni dei posti suggeriti da A. sono chiusi e quindi ci fermiamo in un caffè che lei ci ha consigliato, il Dope roasting posto, che potremmo definire piuttosto hipster, dove prendiamo due bagel molto buoni e il nostro primo “freddo caffè” della vacanza.
Per chi non lo sapesse il “freddo caffè” e il “freddo cappuccino” sono un’istituzione per i greci che infatti hanno spesso in mano bicchieri di plastica con cui se li portano in giro. Di fatto si tratta di un espresso zuccherato (o no, lo si può richiedere) che viene frullato con un po’ di ghiaccio e versato in un bicchiere con ghiaccio. Si forma così una specie di schiuma che man mano va spostandosi verso l’alto per scoprire il nero del caffè sottostante. Se si chiede un “freddo cappuccino” allora sul caffè preparato come descritto viene versato del latte montato. Da non confondere con frappè o frappuccino, che sono tutta un’altra cosa e spesso vengono preparati con il nescafè. Noi di freddi caffè e cappuccini ne abbiamo bevuti tanti, e anche S. è diventata una grande appassionata. A questo punto tocca trovare la giusta “ricetta” per farlo a casa.
Chiusa la parentesi mangereccia, veniamo alle cose serie, ossia la nostra visita dell’Acropoli e del relativo museo. I biglietti per l’Acropoli li avevo fatti online sul sito del Ministero della cultura greco e avevo fatto bene, perché pur arrivando all’ingresso non più tardi delle 9 di mattina (come tutti i siti consigliano) troviamo una folla spaventosa che sta facendo i biglietti o entrando (la sera prima in realtà abbiamo già fatto un giro molto suggestivo in notturna sul viale che gira intorno all’Acropoli e nella zona sottostante, che ci consente di apprezzarla illuminati da diversi scorci).
Il giro dell’area archeologica non comprende solo la sommità della collina ma anche tutti i resti che sono stati portati alla luce lungo i suoi fianchi. Noi facciamo il giro completo, in una situazione che è vivibile fino a quando non giungiamo ai propilei e dunque all’ingresso dell’acropoli vera e propria, che sembra la metro A di Roma alla fermata di Termini in un orario di punta. C’è gente in una quantità spaventosa e devo dire che lì per lì ne sono sopraffatta. Poi però superati i propilei quando arriviamo sulla spianata in alto dove ci sono il Partenone e l’Eretteo con la copia delle cariatidi, nonostante la gente sia tanta, ci godiamo comunque la visita e la vista, anche con l’intermezzo del gatto che si aggira tra le rovine, totalmente a suo agio.
Uscendo dall’area archeologica andiamo al Museo dell’Acropoli di cui non abbiamo il biglietto, ma c’è poca fila. Il museo è una costruzione recente e molto bella (è stata inaugurata nel …) e all’interno è molto ben allestito e ricchissimo di pezzi di grande interesse, tra cui le vere cariatidi e parte del fregio del Partenone (che è esposto all’ultimo piano in una organizzazione che simula la situazione originale), almeno per le parti che non sono finite al British Museum di Londra.
Lasciando Atene non posso non accennare alla mia rovinosa caduta da un tappeto mobile in aeroporto mentre andiamo a ritirare la macchina. Non mi accorgo che il tappeto sta finendo e cado su un fianco per fortuna facendomi solo dei lividi (che mi porterò dietro durante la vacanza), con gran spavento di S.
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Il Mani
Qualunque guida o racconto di viaggio leggiate sul Mani vi parlerà del libro omonimo di Patrick Leigh Fermor, lo scrittore e viaggiatore inglese che si innamorò di questa terra al punto di decidere di stabilirsi qui a vivere, in una casa che ancora oggi è visitabile (anche se noi non lo abbiamo visitata). Anche noi ovviamente abbiamo comprato il libro (pubblicato da Adelphi), ma dopo la lettura di poche pagine lo abbiamo trovato un pochetto noioso e abbiamo deciso di abbandonarlo. Non ce ne vogliate!
Quello che intanto posso dirvi è che il Mani – come del resto altre parti della Grecia – è un territorio parecchio aspro, in cui le montagne, prevalentemente brulle o coperte di una bassa macchia mediterranea da cui arrivano profumi indescrivibili, convivono con baie più o meno nascoste in cui si aprono spiagge molto belle (prevalentemente di sassi) e con piccoli e piccolissimi paesi (che nella parte più centrale e a sud della penisola) sono fatti prevalentemente di case-torri, la costruzione tipica della regione, testimonianza di un passato molto bellicoso che ha visto i manioti (che si considerano discendenti degli antichi spartani, anche se oggi Sparta è una cittadina davvero orribile) farsi la guerra tra di loro per lunghissimi periodi.
Un suggerimento che per noi è stato molto utile: vi capiterà spesso in questa regione di essere importunati dalle vespe che non vi lasceranno mangiare in pace. Abbiamo scoperto qui che il rimedio che tiene lontano le vespe è un piccolo contenitore di alluminio (per esempio il fondo di una lattina) riempito di polvere di caffè che brucia molto lentamente dopo aver dato fuoco con l’accendino.
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Mangiare nel Mani
Restando sul fronte diciamo così “pratico-organizzativo”, voglio spendere qualche parola sul cibo nel Mani e sui posti dove abbiamo mangiato. Come sa chi ha viaggiato parecchio in Grecia per turismo, l’offerta della cucina greca tende ad essere piuttosto standardizzata rispetto alla varietà dei piatti (al massimo ci sono delle varianti regionali), però la qualità degli stessi piatti può cambiare molto da luogo a luogo.Per quanto ci riguarda abbiamo sperimentato due taverne di pesce, Faros a Karavostasi e Black pirate a Neo Itilo. La prima può contare su una location davvero molto suggestiva, su un fianco della baia, però devo dire che il cibo ci ha lasciate parecchio indifferenti (a tratti scontente). Da Black Pirate abbiamo mangiato in modo comunque piuttosto tradizionale, ma decisamente meglio per qualità (non a caso qui c’erano molti più greci che nell’altro posto). Solo il polpo con aceto ci ha deluse parecchio.
La taverna dove abbiamo mangiato meglio e che abbiamo amato di più (e dove infatti siamo tornate una seconda volta) è Petrino, nel paesino di Itilo, su per la collina. Qui non esiste menu scritto e il proprietario non dice una parola di inglese. Io capisco un po’ i nomi dei piatti, ma praticamente la prima volta decide lui cosa farci mangiare. Arrivano tzatziki, patate fritte, insalata greca, saganaki (formaggio in padella), e sei souvlaki. Mangiamo tanto e bene con conto leggero (35 euro). La seconda volta che torniamo a malapena troviamo posto a sedere e questa volta riusciamo anche a scegliere cosa mangiare, sebbene i gemistà (verdure ripiene di riso) che avremmo voluto e che avevamo visto la volta precedente non siano purtroppo disponibili.
Altre cose in ordine sparso: ottimi entrambi i panifici di Areopoli, quello all’ingresso del paese fa una spanakopita davvero molto buona, mentre quello più avanti, di fronte al supermercato, fa dei taralloni salati con i semi buonissimi e anche dei dolci al miele di grande soddisfazione.
Mangiamo anche un’ottima insalata maniota e un freddo cappuccino al chiosco sulla spiaggia di Foneas.
Sembrano molto interessanti la taverna sulla spiaggia di Skoutari e quella a Capo Tenaros, ma in entrambi i casi noi ci arriviamo che abbiamo già mangiato e ci limitiamo a prendere solo dei “freddi cappuccini”.
Compriamo poi del trachanas, una specie di fregola (che però leggiamo contiene anche yoghurt), e per un paio di sere prepariamo a casa una specie di zuppa con pomodori, feta e menta che in entrambi i casi viene molto buona e apprezziamo molto.
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Leggi qui la seconda parte del racconto.
La casa di Katerina ed Eleni (madre e figlia) si è rivelata molto bella e funzionale (camera, cucina e bagno, nonché un grande giardino e una terrazza con vista sulle montagne da cui abbiamo guardato la luna sorgere diversi giorni di seguito). Per noi si è trattato di una sistemazione perfetta, il posto di pace che cercavamo, lontane dalla “pazza folla” con cui abbiamo a che fare durante tutto l’anno, ma è chiaro che dipende da quello che si cerca.
In macchina da Krioneri in 5-10 minuti si arriva al paese di Itilo (dove c’è una taverna che abbiamo apprezzato molto) nonché alla baia sottostante, quella dove si affacciano Karavostasi, Neo Itilio e la più turistica Limeni. In 20 minuti si arriva ad Areopoli, il centro più grande del Mani, dove ci sono praticamente tutti i servizi, ma che per noi risultava fin troppo caotico e affollato (pur essendo di fatto un paesino).
Sull'Acropoli di Atene |
Atene e l’Acropoli
Ad Atene – come detto – la nostra meta è l’Acropoli ma visto che abbiamo una serata e una mezza giornata approfittiamo anche per provare alcuni dei posti dove mangiare che ci ha consigliato la nostra amica A.
La prima sera mangiamo da Annie Fine Cooking, un posto piccolo e molto bello (raggiungibile a piedi dal nostro albergo) dove c’è una chef molto giovane che fa cucina greca rivisitata, strizzando un po’ l’occhio a un gusto globalizzato. I prezzi sono quelli di un posto figo di una capitale europea (quindi non greci per come noi li immaginiamo), ma alla fine l’esperienza per noi è molto interessante e usciamo molto soddisfatte. Per il pranzo del giorno dopo alcuni dei posti suggeriti da A. sono chiusi e quindi ci fermiamo in un caffè che lei ci ha consigliato, il Dope roasting posto, che potremmo definire piuttosto hipster, dove prendiamo due bagel molto buoni e il nostro primo “freddo caffè” della vacanza.
Museo dell'Acropoli |
Acropoli di Atene |
Il Partenone |
L'Acropoli vista dal museo |
Lasciando Atene non posso non accennare alla mia rovinosa caduta da un tappeto mobile in aeroporto mentre andiamo a ritirare la macchina. Non mi accorgo che il tappeto sta finendo e cado su un fianco per fortuna facendomi solo dei lividi (che mi porterò dietro durante la vacanza), con gran spavento di S.
La costa est del Mani |
Il Mani
Qualunque guida o racconto di viaggio leggiate sul Mani vi parlerà del libro omonimo di Patrick Leigh Fermor, lo scrittore e viaggiatore inglese che si innamorò di questa terra al punto di decidere di stabilirsi qui a vivere, in una casa che ancora oggi è visitabile (anche se noi non lo abbiamo visitata). Anche noi ovviamente abbiamo comprato il libro (pubblicato da Adelphi), ma dopo la lettura di poche pagine lo abbiamo trovato un pochetto noioso e abbiamo deciso di abbandonarlo. Non ce ne vogliate!
Vathià |
Capo Tenaros |
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Mangiare nel Mani
Restando sul fronte diciamo così “pratico-organizzativo”, voglio spendere qualche parola sul cibo nel Mani e sui posti dove abbiamo mangiato. Come sa chi ha viaggiato parecchio in Grecia per turismo, l’offerta della cucina greca tende ad essere piuttosto standardizzata rispetto alla varietà dei piatti (al massimo ci sono delle varianti regionali), però la qualità degli stessi piatti può cambiare molto da luogo a luogo.
La taverna dove abbiamo mangiato meglio e che abbiamo amato di più (e dove infatti siamo tornate una seconda volta) è Petrino, nel paesino di Itilo, su per la collina. Qui non esiste menu scritto e il proprietario non dice una parola di inglese. Io capisco un po’ i nomi dei piatti, ma praticamente la prima volta decide lui cosa farci mangiare. Arrivano tzatziki, patate fritte, insalata greca, saganaki (formaggio in padella), e sei souvlaki. Mangiamo tanto e bene con conto leggero (35 euro). La seconda volta che torniamo a malapena troviamo posto a sedere e questa volta riusciamo anche a scegliere cosa mangiare, sebbene i gemistà (verdure ripiene di riso) che avremmo voluto e che avevamo visto la volta precedente non siano purtroppo disponibili.
La luna sorge sulle montagne del Mani |
Mangiamo anche un’ottima insalata maniota e un freddo cappuccino al chiosco sulla spiaggia di Foneas.
Sembrano molto interessanti la taverna sulla spiaggia di Skoutari e quella a Capo Tenaros, ma in entrambi i casi noi ci arriviamo che abbiamo già mangiato e ci limitiamo a prendere solo dei “freddi cappuccini”.
Compriamo poi del trachanas, una specie di fregola (che però leggiamo contiene anche yoghurt), e per un paio di sere prepariamo a casa una specie di zuppa con pomodori, feta e menta che in entrambi i casi viene molto buona e apprezziamo molto.
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Leggi qui la seconda parte del racconto.
mercoledì 7 settembre 2022
Second hand. Una storia d'amore / Michael Zadoorian
Second hand. Una storia d'amore / Michael Zadoorian; trad. di Michele Foschini. Milano: Marcos y Marcos, 2008.
A suo tempo avevo letto, commuovendomi ed entusiasmandomi, In viaggio contromano: The leisure seeker, il romanzo di Michael Zadoorian da cui era stato tratto il film di Virzì Ella e John.
Dopo quella lettura mi ero ripromessa di leggere qualcos'altro, ma la mia era rimasta solo un'idea teorica fino a quando la mia amica M. - che lavora nel mondo della moda e in particolare dell'usato - non mi ha parlato di Second hand.
Questo, che è il primo romanzo pubblicato da Zadoorian, parla di Richard, un ragazzo che ha un negozio di oggetti usati e che dedica gran parte della sua vita alla ricerca di questi oggetti, e di Theresa, che invece lavora in un ricovero per animali dove vengono portati cani, gatti - e non solo - che vengono trovati abbandonati per strada o che la gente non vuole più. Siamo sempre a Detroit, nella città dove l'autore è nato, vive e lavora, e dove ambienta quasi tutte le sue storie.
L'incontro tra Richard e Theresa avviene nel momento in cui la vita del primo va sottosopra, a causa della morte della madre e delle successive operazioni di svuotamento della casa familiare che lo mettono in contrasto con la sorella e soprattutto gli fanno scoprire parti della storia dei suoi genitori che non conosceva, mentre la seconda deve fare i conti con un lavoro che ama ma che le procura grande dolore, a causa della necessità di abbattere molti degli animali abbandonati.
Richard e Theresa si riconoscono nelle reciproche fragilità e idiosincrasie, ma ciascuno di loro deve affrontare i propri demoni interiori prima di essere realmente pronto ad affrontare una vita a due.
Durante la lettura del romanzo riconosco alcune di quelle caratteristiche della scrittura e della narrazione che tanto avevo apprezzato in Zadoorian. Mi piace molto il personaggio di Richard con questa sua passione per il recupero degli oggetti che sono stati già vissuti o che sono testimonianza di vite ed epoche passate, e con le sue bislacche teorie in proposito. Qua e là nella narrazione si aprono squarci di tenerezza e anche di grande verità, che - come nel romanzo In viaggio contromano - aprono il cuore.
Nel complesso però il romanzo mi pare meno riuscito e più immaturo di quello successivo, cosicché alla fine della lettura già sappiamo che la storia di Richard e Theresa non riuscirà a imprimersi nella nostra mente in maniera così significativa, sebbene probabilmente ci avrà lasciato la voglia di guardare sui banchetti dei mercatini delle pulci e nei negozi dell'usato con uno spirito completamente diverso e nuovo rispetto al passato.
Voto: 3/5
A suo tempo avevo letto, commuovendomi ed entusiasmandomi, In viaggio contromano: The leisure seeker, il romanzo di Michael Zadoorian da cui era stato tratto il film di Virzì Ella e John.
Dopo quella lettura mi ero ripromessa di leggere qualcos'altro, ma la mia era rimasta solo un'idea teorica fino a quando la mia amica M. - che lavora nel mondo della moda e in particolare dell'usato - non mi ha parlato di Second hand.
Questo, che è il primo romanzo pubblicato da Zadoorian, parla di Richard, un ragazzo che ha un negozio di oggetti usati e che dedica gran parte della sua vita alla ricerca di questi oggetti, e di Theresa, che invece lavora in un ricovero per animali dove vengono portati cani, gatti - e non solo - che vengono trovati abbandonati per strada o che la gente non vuole più. Siamo sempre a Detroit, nella città dove l'autore è nato, vive e lavora, e dove ambienta quasi tutte le sue storie.
L'incontro tra Richard e Theresa avviene nel momento in cui la vita del primo va sottosopra, a causa della morte della madre e delle successive operazioni di svuotamento della casa familiare che lo mettono in contrasto con la sorella e soprattutto gli fanno scoprire parti della storia dei suoi genitori che non conosceva, mentre la seconda deve fare i conti con un lavoro che ama ma che le procura grande dolore, a causa della necessità di abbattere molti degli animali abbandonati.
Richard e Theresa si riconoscono nelle reciproche fragilità e idiosincrasie, ma ciascuno di loro deve affrontare i propri demoni interiori prima di essere realmente pronto ad affrontare una vita a due.
Durante la lettura del romanzo riconosco alcune di quelle caratteristiche della scrittura e della narrazione che tanto avevo apprezzato in Zadoorian. Mi piace molto il personaggio di Richard con questa sua passione per il recupero degli oggetti che sono stati già vissuti o che sono testimonianza di vite ed epoche passate, e con le sue bislacche teorie in proposito. Qua e là nella narrazione si aprono squarci di tenerezza e anche di grande verità, che - come nel romanzo In viaggio contromano - aprono il cuore.
Nel complesso però il romanzo mi pare meno riuscito e più immaturo di quello successivo, cosicché alla fine della lettura già sappiamo che la storia di Richard e Theresa non riuscirà a imprimersi nella nostra mente in maniera così significativa, sebbene probabilmente ci avrà lasciato la voglia di guardare sui banchetti dei mercatini delle pulci e nei negozi dell'usato con uno spirito completamente diverso e nuovo rispetto al passato.
Voto: 3/5
lunedì 5 settembre 2022
La taverna di mezzanotte. Tokyo stories / Yaro Abe
La taverna di mezzanotte. Tokyo stories / Yaro Abe. 5 voll. Milano: Bao Publishing, 2020-2022.
Ricevo i 5 volumi de La taverna di mezzanotte come graditissimo regalo di compleanno. Avevo in realtà già sentito parlare della serie Netflix Midnight diner, ma S. dopo averne viste alcune puntate me l'aveva sconsigliato. Lei stessa ha poi scoperto che la serie è tratta appunto da questo manga di Yaro Abe e così ha convinto gli altri amichetti a optare per questo regalo.
Diciamo che era difficile sbagliare: La taverna di mezzanotte mette insieme due mie grandi passioni, ossia il Giappone (con tutte le sue particolarità) e il cibo (ovviamente giapponese). Protagonista di queste brevi storie a fumetti è una taverna che sta aperta da mezzanotte alle sette di mattina e che nel menu esposto ha un solo piatto, anche se in realtà il gestore è in grado e disponibile a preparare qualunque piatto a patto di avere gli ingredienti giusti.
Ogni racconto è una storia a sé e quasi sempre parla della storia di una persona che emerge attraverso uno specifico piatto: ricordi di infanzia, amori perduti, rapporti d'amicizia, a testimonianza di quanto con il cibo abbiamo un rapporto affettivo prima ancora che legato alle necessità corporee.
Gli avventori della taverna sono le persone più varie: da poliziotti a gangster, da donne che lavorano nei locali notturni della zona ai loro clienti, da gente che abita in zona e soffre di insonnia, a persone di passaggio. Ci sono poi anche i clienti abituali, quelli con cui facciamo a poco a poco la conoscenza e che ritornano più volte nel corso dei cinque volumi, e altri clienti che da occasionali diventano a loro volta frequentatori piuttosto assidui della taverna.
Nel mentre conosciamo tante varianti dei piatti della cucina giapponese, le tradizioni di numerose parti del Giappone (visto che molti clienti provengono da fuori Tokyo), i riferimenti a canzoni, film, fumetti, serie tv della cultura giapponese (per noi quasi totalmente sconosciuti), e soprattutto le vite di tanti individui, con i loro pregi, i loro difetti, le fortune e le sfortune, gli amori e i disamori, gli incontri inaspettati, le svolte improvvise.
In cinque volumi i piatti raccontati e mangiati sono tantissimi, e anche i personaggi (in alcuni casi i volti si confondono persino); le storie a volte risultano in parte un pochino ripetitive, eppure non si vorrebbe mai smettere di leggerle, perché c'è un'ironia, una grazia, una leggerezza in ognuna di esse che non può non conquistare l'animo del lettore.
Buffo anche che di tanto in tanto il gestore della taverna si rivolga direttamente al lettore e chiami persino in causa l'autore, protagonista di alcuni divertenti camei.
Forse a posteriori penso che avrei dovuto centellinare di più la lettura e tenere La taverna di mezzanotte come lettura di sottofondo, gustandomi ogni storia fino in fondo, ma la mia abituale voracità (con il cibo e anche con la lettura) ha avuto la meglio anche in questa occasione.
Voto: 4/5
Ricevo i 5 volumi de La taverna di mezzanotte come graditissimo regalo di compleanno. Avevo in realtà già sentito parlare della serie Netflix Midnight diner, ma S. dopo averne viste alcune puntate me l'aveva sconsigliato. Lei stessa ha poi scoperto che la serie è tratta appunto da questo manga di Yaro Abe e così ha convinto gli altri amichetti a optare per questo regalo.
Diciamo che era difficile sbagliare: La taverna di mezzanotte mette insieme due mie grandi passioni, ossia il Giappone (con tutte le sue particolarità) e il cibo (ovviamente giapponese). Protagonista di queste brevi storie a fumetti è una taverna che sta aperta da mezzanotte alle sette di mattina e che nel menu esposto ha un solo piatto, anche se in realtà il gestore è in grado e disponibile a preparare qualunque piatto a patto di avere gli ingredienti giusti.
Ogni racconto è una storia a sé e quasi sempre parla della storia di una persona che emerge attraverso uno specifico piatto: ricordi di infanzia, amori perduti, rapporti d'amicizia, a testimonianza di quanto con il cibo abbiamo un rapporto affettivo prima ancora che legato alle necessità corporee.
Gli avventori della taverna sono le persone più varie: da poliziotti a gangster, da donne che lavorano nei locali notturni della zona ai loro clienti, da gente che abita in zona e soffre di insonnia, a persone di passaggio. Ci sono poi anche i clienti abituali, quelli con cui facciamo a poco a poco la conoscenza e che ritornano più volte nel corso dei cinque volumi, e altri clienti che da occasionali diventano a loro volta frequentatori piuttosto assidui della taverna.
Nel mentre conosciamo tante varianti dei piatti della cucina giapponese, le tradizioni di numerose parti del Giappone (visto che molti clienti provengono da fuori Tokyo), i riferimenti a canzoni, film, fumetti, serie tv della cultura giapponese (per noi quasi totalmente sconosciuti), e soprattutto le vite di tanti individui, con i loro pregi, i loro difetti, le fortune e le sfortune, gli amori e i disamori, gli incontri inaspettati, le svolte improvvise.
In cinque volumi i piatti raccontati e mangiati sono tantissimi, e anche i personaggi (in alcuni casi i volti si confondono persino); le storie a volte risultano in parte un pochino ripetitive, eppure non si vorrebbe mai smettere di leggerle, perché c'è un'ironia, una grazia, una leggerezza in ognuna di esse che non può non conquistare l'animo del lettore.
Buffo anche che di tanto in tanto il gestore della taverna si rivolga direttamente al lettore e chiami persino in causa l'autore, protagonista di alcuni divertenti camei.
Forse a posteriori penso che avrei dovuto centellinare di più la lettura e tenere La taverna di mezzanotte come lettura di sottofondo, gustandomi ogni storia fino in fondo, ma la mia abituale voracità (con il cibo e anche con la lettura) ha avuto la meglio anche in questa occasione.
Voto: 4/5
venerdì 2 settembre 2022
Ennio
Avevo inseguito il documentario su Ennio Morricone realizzato Giuseppe Tornatore fin da quando era uscito nelle sale cinematografiche, ma per una ragione o per l'altra l'avevo sempre mancato. Poi finalmente si è presentata l'occasione, e che occasione! All'Isola del cinema il film è stato proiettato dopo un piccolo concerto dedicato alle musiche del maestro con la partecipazione del compositore Paolo Vivaldi, della violinista Stefania Cimino e della danzatrice Dea Pace.
Il concerto ha certamente contribuito a mettere il pubblico dell'arena nella disposizione d'animo migliore per poi godere del film di Tornatore. Il documentario racconta la storia di Morricone, da quando ragazzino - figlio di un trombista - fu spinto dal padre a imparare la tromba e a entrare in conservatorio, dove poi si diplomò in Composizione con il maestro Goffredo Petrassi, per poi passare alle prime esperienze lavorative che lo portarono a essere uno degli arrangiatori di musica più richiesti sul mercato, all'attività di compositore di musiche per il cinema che, da attività quasi secondaria, diventò poi la strada che lo ha consacrato a livello mondiale. Il racconto della vita e della carriera di Morricone passa attraverso le sue stesse parole, ma anche e soprattutto attraverso quelle di numerosi musicisti, registi, produttori di cinema, e personalità varie che per qualche motivo hanno incontrato la strada del Maestro.
Ne viene fuori un ritratto che - pur non potendo sottrarsi a una componente celebrativa quasi inevitabile nei biopic e del resto non del tutto fuori luogo per un musicista come Morricone acclamato in tutto il mondo - riesce a mettere in evidenza molte sfaccettature della persona e del musicista. In particolare, a più riprese viene sottolineato il dissidio interiore e anche il dispiacere di Ennio Morricone per il fatto di aver dovuto a lungo far fronte al giudizio negativo o comunque all'atteggiamento di sufficienza di maestri e colleghi dell'accademia rispetto alla sua musica e alla sua carriera, ritenuta una via minore rispetto alla Composizione pura. Entrando talvolta anche nel tecnico, il documentario sottolinea più volte quanto complesse fossero le composizioni di Morricone per il cinema e quanta sapienza, competenza e conoscenza musicale esse contenessero. Probabilmente l'accademia - come spesso accade - non era pronta alla via innovativa di Morricone che mescolava riferimenti musicali alti e popolari e che sapeva far dialogare la musica con le immagini. Un'altra delusione e a lungo un motivo di rammarico per Morricone furono le ripetute mancate vittorie dell'Oscar dove pure era stato candidato più volte con musiche memorabili e destinate a diventare dei classici assoluti.
Al termine della visione del film l'immagine di Morricone va ben oltre l'icona a cui la sua morte lo ha definitivamente consegnato, offrendoci spunti ed elementi conoscitivi sicuramente non a tutti noti. Morricone appare come un genio prolifico (capace di produrre idee e nuove composizioni quasi a getto continuo e talvolta con una facilità imbarazzante), ma anche come uno sperimentatore e un innovatore, costantemente animato dal desiderio di evitare le strade già battute e di inventare soluzioni sempre diverse. Sul piano personale, un uomo mite, ma straordinariamente determinato, in cui il confine tra vita e musica è difficile da segnare in maniera netta.
Un film di grande godimento che - nonostante l'orario tardo e le sedie scomode - ha entusiasmato anche il mio papà in visita in quei giorni a Roma.
Voto: 4/5
Il concerto ha certamente contribuito a mettere il pubblico dell'arena nella disposizione d'animo migliore per poi godere del film di Tornatore. Il documentario racconta la storia di Morricone, da quando ragazzino - figlio di un trombista - fu spinto dal padre a imparare la tromba e a entrare in conservatorio, dove poi si diplomò in Composizione con il maestro Goffredo Petrassi, per poi passare alle prime esperienze lavorative che lo portarono a essere uno degli arrangiatori di musica più richiesti sul mercato, all'attività di compositore di musiche per il cinema che, da attività quasi secondaria, diventò poi la strada che lo ha consacrato a livello mondiale. Il racconto della vita e della carriera di Morricone passa attraverso le sue stesse parole, ma anche e soprattutto attraverso quelle di numerosi musicisti, registi, produttori di cinema, e personalità varie che per qualche motivo hanno incontrato la strada del Maestro.
Ne viene fuori un ritratto che - pur non potendo sottrarsi a una componente celebrativa quasi inevitabile nei biopic e del resto non del tutto fuori luogo per un musicista come Morricone acclamato in tutto il mondo - riesce a mettere in evidenza molte sfaccettature della persona e del musicista. In particolare, a più riprese viene sottolineato il dissidio interiore e anche il dispiacere di Ennio Morricone per il fatto di aver dovuto a lungo far fronte al giudizio negativo o comunque all'atteggiamento di sufficienza di maestri e colleghi dell'accademia rispetto alla sua musica e alla sua carriera, ritenuta una via minore rispetto alla Composizione pura. Entrando talvolta anche nel tecnico, il documentario sottolinea più volte quanto complesse fossero le composizioni di Morricone per il cinema e quanta sapienza, competenza e conoscenza musicale esse contenessero. Probabilmente l'accademia - come spesso accade - non era pronta alla via innovativa di Morricone che mescolava riferimenti musicali alti e popolari e che sapeva far dialogare la musica con le immagini. Un'altra delusione e a lungo un motivo di rammarico per Morricone furono le ripetute mancate vittorie dell'Oscar dove pure era stato candidato più volte con musiche memorabili e destinate a diventare dei classici assoluti.
Al termine della visione del film l'immagine di Morricone va ben oltre l'icona a cui la sua morte lo ha definitivamente consegnato, offrendoci spunti ed elementi conoscitivi sicuramente non a tutti noti. Morricone appare come un genio prolifico (capace di produrre idee e nuove composizioni quasi a getto continuo e talvolta con una facilità imbarazzante), ma anche come uno sperimentatore e un innovatore, costantemente animato dal desiderio di evitare le strade già battute e di inventare soluzioni sempre diverse. Sul piano personale, un uomo mite, ma straordinariamente determinato, in cui il confine tra vita e musica è difficile da segnare in maniera netta.
Un film di grande godimento che - nonostante l'orario tardo e le sedie scomode - ha entusiasmato anche il mio papà in visita in quei giorni a Roma.
Voto: 4/5
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